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PRODUTTIVITA', FALSO MITO DELLA CONCORRENZA PERFETTA E TRASMISSIONE DELLE "CONOSCENZE"

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Riceviamo e stra-volentieri pubblichiamo questo intervento (primo di una serie, auspichiamo) del prof.Cesare Pozzi. Che ci introduce a una serie di temi che partono dall'analisi della produttività, e quindi tipici dell'economia industriale, ma che si allargano alla considerazione di aspetti sistemici della realtà sociale e istituzionale.
Non è una lettura per tutti-tutti, trattandosi di uno scritto alquanto sofisticato: ma credo che per molti dei più attenti lettori non sia un grande problema, data la motivazione e l'approfondimento di cui si sono dimostrati capaci. Contribuendo a innalzare il livello di questo blog in un processo che non sembra certo giunto al termine.
Cesare ci introduce a una diversa considerazione del problema della produttività, confutando l'errata impostazione dei neo-classici. Nel fare ciò ci introduce alla realtà biodinamica dell'uomo quale si manifesta nella "trasmissione delle conoscenze", che divengono "competenze" nell'applicazione produttiva.
Ci introduce a un tema "umanistico" e meta-economico (rispetto al paradigma neo-classico, se non altro) che proprio l'opera di Georgescu Roegen ha dischiuso davanti al potenziale cognitivo dell'umanità.
E Cesare mi ha convinto (come spesso gli capita quando ci confrontiamo) che se una vitalità debba essere attribuita al modello costituzionale del 1948, questa può ritrarsi proprio dalla realtà biologica ed evolutiva dell'homo sapiens-sapiens, (non solo oeconomicus), superando, e cioè identificando, l'entropia che sollecita ogni costruzione sistemica (naturale, quindi anche umana), identificabile, nel caso, mediante il corretto intendimento della Storia.
A questa  direzione di indagine, assolutamente utile ed attuale, cercheremo di prestare fede, magari insieme, nei prossimi sviluppi che ci attendono.
Stay tuned...the best is yet to come


"Intorno al significato che si attribuisce al termine produttività si gioca da sempre una partita importante per definire le politiche che hanno impatto sul funzionamento dei mercati. Purtroppo la teoria economica ha contribuito a cristallizzare una serie di luoghi comuni che si sono tradotti in azioni che hanno avuto un ruolo decisivo nel determinare l’attuale stato di crisi.

Il punto fondamentale da affrontare riguarda l’intreccio tra le strategie d’impresa, che in ultima istanza hanno nella produttività il proprio riscontro, e l’assetto istituzionale di cui ogni Comunità si dota, assetto istituzionale che fornisce i binari entro cui muoversi, stabilendo cosa è giusto e possibile fare in una prospettiva guidata
dalla propria definizione di interesse generale. Letta in questo senso, la rappresentazione del concetto di produttività che viene normalmente data va in direzione contraria agli interessi di paesi come il nostro che si trovano nella situazione di subire gli andamenti dei mercati internazionali.

Parlare di produttività richiede il riferimento a una funzione di produzione che descriva la relazione tra input e output: la scelta dell’economia dominante è stata di fornire una rappresentazione del prodotto in termini di capitale e lavoro secondo la classica formula Y = f(K,L).
Tale funzione non dà indicazioni sul funzionamento di alcun processo produttivo, ma fornisce a diversi livelli (dal singolo settore a tutta un’economia) una rappresentazione sintetica della relazione tra due macrocategorie di fattori produttivi. Poiché descrive tutte le forme di integrazione tra i due vettori di fattori produttivi K e L serve per determinare, dati i prezzi relativi, la relazione migliore, quindi il miglior rapporto tra beni capitali e lavoro, dato lo stato delle conoscenze e, di conseguenza, risponde coerentemente all’obiettivo neoclassico di realizzare il miglior esito allocativo per le conoscenze stesse.

Infatti, se non ci sono distorsioni nei prezzi ed è quindi verificata l’ipotesi di mercati dei fattori produttivi perfettamente concorrenziali, descrive la capacità di sfruttare il trasferimento delle conoscenze, che si generano esogenamente nel mondo, in modo da produrre un miglioramento.È solo se si diffonde una percezione collettiva di una modificazione vantaggiosache il sapere che si accumula esogenamente rispetto al sistema economico si traduce in un cambiamento effettivo che modifica la precedente configurazione di equilibrio.

Poiché rappresentare la funzione di produzione in questi termini significa proporre relazioni di sostituzione tra i vettori capitale e lavoro, ha un senso matematico se si mantiene la commensurabilità dei vettori stessi tra di loro.
In altri termini, se si prende la popolazione attiva che lavora come un dato, se cambiano le conoscenze
e si realizza effettivamente progresso tecnico, o si produce di più (delle stesse categorie di prodotti, perché implicito nel fatto che devono essere commensurabili tra loro i vettori capitale e lavoro) o diminuiscono le ore lavorate. [Il percorso inverso (riduzione dell’intensità di capitale) rappresenta un’eccezione anche rispetto alla direzione presa dalle motivazioni culturali all’acquisto (aumento dei beni durevoli e standardizzazione dei beni di consumo, inclusi quelli alimentari)].

Sullo sfondo, per poterne valutare l’utilità, si deve avere presente che si tratta di una proposta che vede il miglioramento della qualità della vita declinabile, come detto, o in termini di aumento della quantità di cose disponibili o del tempo libero.
Essendo costruita come relazione di sostituzione per rappresentare e confrontare diverse configurazioni di equilibrio, non riesce ad afferrare l’innovazione di prodotto, che richiede per generarsi che non venga rispettato il principio di commensurabilità nei vettori capitale e lavoro. [In tali casi l’accumulazione di sapere è guidata, nel trasferimento in percorsi effettivi, dalla capacità di tenuta e diffusione di un determinato modello culturale. Ovviamente, i sistemi che hanno più forte la capacità non solo di sviluppare conoscenze, ma anche di renderle effettive, hanno una diversa potenzialità strategica di gestione delle relazioni tra fattori produttivi.]

La valenza euristica di questa funzione di produzione e di conseguenza delle misure di produttività che se ne ricavano è quindi sostanzialmente descrittiva per ciò che concerne l’allocazione delle conoscenze. L’eventuale pressione sul costo del lavoro o sul prezzo del capitale è il segnale che potrebbe non essere verificata l’ipotesi di concorrenza perfetta sui mercati dei fattori produttivi.
I percorsi normativi che possono partire da questo riscontro riguardano quindi l’auspicabilità o meno della concorrenza perfetta e non hanno relazione diretta con la “capacità di produrre”. In tal senso il rischioè che emerga un’analisi del tema della competitività con esiti assolutamente distorcenti.

In effetti, i mercati dei fattori che rientrano nel vettore capitale vengono confusi con quelli finanziari considerati quindi come sostanzialmente in concorrenza perfetta: e così, si può dire naturalmente, la pressione va sul prezzo del fattore lavoro.

Nella realtà, se non ho perfetta sovrapposizione tra il sistema produttivo e il sistema di mercato, cioè esiste un unico mercato mondo, ma si ha una forma di concorrenza tra imprese, che appartengono a diversi sistemi di produzione (stati nazionali), resa possibile dal fatto che la trasmissione delle competenze avviene molto più
rapidamente di quanto possa avvenire l’adeguamento dei rispettivi costi della vita (con la globalizzazione le competenze viaggiano rapidissime, mentre l’inerzia dei sistemi paese rende possibile ottenere dei vantaggi dalle asimmetrie esistenti nel potere d’acquisto e nelle formule distributive prima che si arrivi a un’area di “offerta comune”), la rappresentazione della produttività che deriva dalla funzione di produzione, à la Wicksteed in quanto fonte di orientamenti normativi, è fortemente distorcente rispetto agli obiettivi che si pensa, o si comunica, di voler realizzare.

Ipotizzando un indicatore che misuri il rapporto tra competenze e costo della vita, se esistono aree produttive con rapporti più alti si genera una forte pressione sul costo del lavoro per unità prodotta che viene spacciata erroneamente per innovazione di processo, mentre nulla si è in concreto in grado di dire in questo senso in quanto due modelli culturali diversi, che esprimono due diverse “aree di “offerta” non consentono confronti perché tra loro sono incommensurabili.
L’innovazione di processo reale non può infatti che dipendere dalla realizzazione di economie di apprendimento. Il fatto che esista lo spazio per una riduzione del costo del lavoro viene erroneamente scambiato come il segnale dell’esistenza di rendite di posizione, ma l’eventuale prezzo di concorrenza perfetta del lavoro non può essere ricavato da un mercato esterno a quello della Comunità in questione. Un’eventuale revisione delle scelte distributive di un paese (ad esempio, cambio delle normative sul lavoro che ne abbatte i costi) può rappresentare una scelta politica/strategica per fare concorrenza a produzioni estere, ma va valutata in termini di contropartite per l’impatto diretto e indiretto che ha sulla tenuta del sistema sociale.

Subire al contrario la pressione sul costo del lavoro, senza un’adeguata costruzione politico/strategica, genera una tenuta di breve dei profitti, ma comporta una caduta di medio termine di un’economia, che vede ridursi la sua capacità complessiva di spesa non solo in termini di consumi, ma anche di investimento nel cambiamento.
La rappresentazione neoclassica della produttività alimenta facilmente l’equivoco consentendo di proporre confronti tra valori diversi di produttività del lavoro sulle “aree comuni di mercato” anziché sulle “aree comuni di offerta” che prescindono da un’analisi delle conseguenze effettive dei percorsi normativi che se ne ricavano.

Per comprendere le distorsioni e gli effetti perversi che si generano  effettivamente nella realtà si deve invece analizzare la produttività a partire da una funzione di produzione rappresentativa dei processi produttivi. In questo senso la strada più utile è quella che considera la suddivisione in fondi e flussi proposta da N. Georgescu Roegen.

L’indivisibilità e l’ozio dei fattori di fondo, lavoro e capitale, sono i due elementi su cui intervenire per aumentare l’efficienza di un processo produttivo e quindi per formulare un primo giudizio sulla sua produttività. In secondo luogo, poiché sono queste le caratteristiche dei fattori produttivi che consentono di analizzare il funzionamento dei processi produttivi, è a partire da tale analisi che si possono avere gli elementi per effettuare un confronto tra diversi processi produttivi in modo da elaborare una teoria della produttività.

In termini reali, la possibilità di effettuare questa prima valutazione in maniera precisa sul singolo lavoratore si scontra con la varianza nelle loro caratteristiche (in altri termini, nessuno è in grado di sapere quanto e con quanta resa è in grado di lavorare una persona); concretamente, con il passare del tempo l’orario di lavoro tende a ridursi generando inefficienza strutturale, in parte compensata dall’aumento della popolazione che, consentendo in linea teorica di lavorare su più turni, può far aumentare meno il non utilizzo dei fattori fondo capitale. Il risultato che ne esce in un inquadramento neoclassico è il mantenimento tendenziale della stessa paga oraria per unità di lavoro, con la conseguente riduzione del salario pro-capite, mentre nella realtà la riduzione del tempo individuale di lavoro ha generato un esito sorprendentemente utile, cioè un meccanismo di autorinforzo che, nelle economie di mercato, si è tradotto nella proliferazione di mercati assolutamente voluttuari del tempo libero.

Tali mercati sono però, indirettamente (perché richiedono un processo di accumulazione precedente e contestuale sui mercati “indispensabili”), estremamente deboli in due sensi: nel primo perché dipendono prioritariamente dalla scelta politica di accettare un certo livello di inefficienza del fattore fondo lavoro nei mercati dei beni primari e successivi; nel secondo perché la comunità che li genera è esposta alla falsa innovazione di processo di cui sopra (e nella difficoltà di comprendere il circolo vizioso in cui si entra accettando questa strada gioca un ruolo decisivo una non corretta rappresentazione del problema della produttività in quanto fornisce una falsa giustificazione scientifica alla pressione sul costo del lavoro).

In termini reali sul fattore capitale esistono due problemi legati alla produttività della produzione in linea.
Il primo riguarda i cosiddetti beni durevoli e i beni di consumo standardizzati, la produzione in linea di queste due categorie di beni genera strutturalmente un eccesso di capacità produttiva. Se vengono sfruttate a pieno le conoscenze scientifiche, queste categorie di beni possono essere prodotte con livelli di automazione sempre più spinti che generano la trappola del costo fisso, in altri termini, se aumento la capacità produttiva riduco il costo medio unitario e quindi potenzialmente il prezzo, così se uno parte gli altri lo devono seguire e la capacità produttiva richiede mercati in espansione esponenziale. La commoditizzazione e la globalizzazione amplificano gli esiti economicamente distruttivi di questa deriva.
Il secondo problema è legato all’insostenibilità ambientale di questo percorso in termini di flussi…"

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