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LA "GRANDE SOCIETA'" E LE "TANTE" SOCIETA': PRIMA MODIFICANO LA COSTITUZIONE E POI COLPEVOLIZZANO...LA CORTE COSTITUZIONALE

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Commentiamo oggi un articolo di Massimo Bordignon, apparso sul Sole24 ore:

Le organizzazioni che funzionano sono quelle in cui c'è qualcuno che decide e poi è punito o premiato. Se questo meccanismo non funziona, l'organizzazione non funziona. È vero sia per le imprese private che per le amministrazioni pubbliche. Ma in quest'ultimo caso le cose sono più complesse: non c'è un sistema di mercato che almeno in qualche misura disciplina gli amministratori inefficienti. E i decisori nell'ambito pubblico sono i politici, i cui obiettivi sono spesso di breve termine, mentre l'impatto delle decisioni è di lungo periodo. Per esempio, i politici italiani degli anni 80 sono stati bravi nel prendere decisioni che hanno massimizzato il consenso nell'immediato, scaricando, con l'enorme debito pubblico, gli oneri sulle generazioni future. Per gli enti locali il problema è ancora più complesso.

La premessa è condivisibile, trattandosi dei principi generali del diritto: che si tratti di regole organizzative o di regole "sostanziali", di norme pubbliche (diritto c.d. "positivo") o di regole dettate da organismi privati, la norma che pone un precetto (comando positivo o divieto) è "perfecta" solo in quanto dotata di sanzione. Altrimenti, è detta "minus quam perfecta" e può, in teoria generale, dubitarsi della sua stessa giuridicità (si tratterebbe di diritto informale, alla stregua di enunciazioni enfatiche o mere raccomandazioni).
Solo che si parte con una manifesta alterazione del dato reale: chi frequenta questo blog, ma non solo questo, sa perfettamente che il debito pubblico ha aumentato il suo peso a seguito dell'onere degli interessi conseguente al divorzio tesoro-bankitalia e al concorrente fenomeno di tassi di sconto reali positivi, connessi alla necessità di mantenere il livello di cambio "rigido" imposto dallo SME.

Certo i deficit degli anni '80 non erano quelli post-Maastricht: ma l'alternativa, per gli ambigui politici della parte finale della c.d. 1a Repubblica, sarebbe stata quella di mandarci in stagnazione e magari anche in recessione, prolungate come ora stanno facendo, in nome dell'Europa, i governanti attuali.
Le ragioni di ciò stanno nella necessità di mantenere un alto saldo primario, facendo venire meno repentinamente il sostegno della domanda pubblica al sistema, minando il livello occupazionale, e provocando la caduta generale di redditi, consumi e investimenti.
Dunque, la vera "colpa" del famoso "onere sulle generazioni future", in una corretta ricostruzione storico-economica, ricade sui politici che deliberarono in accordo con Ciampi il "divorzio" e, prima ancora, l'adesione allo SME. Cioè sui teorici del "vincolo esterno".

Prosegue Bordignon:
Se gli elettori degli anni 80 avessero capito le conseguenze delle scelte dei politici, forse sarebbero stati meno propensi a votarli. Nel caso delle amministrazioni locali, però, anche scelte irresponsabili possono essere sostenute dagli elettori, se il sindaco o il presidente di regione riesce a scaricarne l'onere sulla collettività nazionale.
Ci sono due modi per affrontare questo problema. Il primo è quello di lasciare che gli enti locali subiscano interamente le conseguenze delle proprie azioni. È in buona misura la scelta americana. Detroit fallisce, i creditori della città ci rimettono i soldi, i dipendenti pubblici vengono licenziati e le loro pensioni decurtate, i servizi non vengono più offerti, i cittadini che possono farlo scappano e si trasferiscono altrove
.

Anche qui, l'esaltazione del sistema USA (e getta), appare inficiata, nella sua validità comparativa da una premessa erronea: prima di tutto, le autonomie locali negli USA, ricevono trasferimenti dallo Stato, esattamente come in Italia, per cui le "scelte irresponsabili" comunque sono un "waste" di pubbliche risorse statali. In secondo luogo, la insolvency delle città in USA è determinata da condizioni inesorabili di della struttura economica locale, legate alle trasformazioni geo-economiche tipiche di quella realtà fortemente caratterizzata dalla dinamicità del mercato interno (il caso di Detroit è eloquente, con una popolazione passata da oltre due milioni di abitanti a circa 800.000.
Quindi la valutazione di colpa" (irresponsabilità) con facilità addossata agli amministratori locali è già di per sè frutto di una ennesima "precomprensione", di un pregiudizio negativo presunto, senza attenzione alla realtà, verso tutto il mondo della pubblica amministrazione. Cioè una visione ideologica e non aderente a quanto evidenziano gli studiosi specialisti della materia.

Ma lo stesso vale anche per gli amministratori italiani: il grado di corruzzzzzione e di sprechi, nei meccanismi causativi delle insolvenze degli enti locali è del tutto sopravvalutato. La cause vanno individuate nella finanza post maastricht e nei tagli complessivi che, in clima euro, si sono sempre più imposti ai trasferimenti e al livello dei servizi (e il territorio italiano, disastrato come non mai, ne sa qualcosa...). Diverso se invece di cercare colpe gestionali, certamente compresenti, ma non caratterizzanti il fenomeno, si guardasse alle CAUSE STRUTTURALI DELLA COSTOSITA' DEGLI ENTI LOCALI, cioè a come il sistema risulterebbe politicamente ed insopportabilmente costoso anche se si seguissero i più rigidi criteri di diligenza gestionale. Cioè è la politicizzazione dell'organizzazione a livello istituzionale la principale causa del problema; ma a livello ordinamentale non di responsabilità individuali, come abbiamo analizzato e quantificato in questo post. Se responsabilità individuali vanno ritrovate, riguardano i politici che al governo e in Parlamento hanno congegnato il sistema, spesso con la giustificazione "lo vuole l'Europa", alla fine degli anni '90 e fino alla riforma del Titolo V della Costituzione.

Tralascio i passaggi intermedi dell'articolo, che potete leggervi agevolmente, per andare a verificarne alcune conclusioni, che chiamano in causa, stigmatizzandola, la Corte costituzionale:
...Con i decreti attuativi sul federalismo fiscale era stato introdotto l'istituto del «fallimento politico» per i politici locali rei di aver violato l'equilibrio di bilancio; la Consulta l'ha dichiarato incostituzionale, come ha dichiarato incostituzionali una serie di controlli sugli enti intermedi e le società delle regioni che il governo Monti aveva cercato di introdurre. Come conseguenza, si tornerà probabilmente alla situazione paradossale in cui in presenza del commissariamento di una Regione, sarà lo stesso presidente a essere nominato commissario di se stesso.
Ma c'è di più. Nel gennaio 2013 è stata approvata la disciplina del «pre-dissesto» (riequilibrio finanziario pluriannuale), voluta da tutti i partiti, il cui scopo principale sembra essere quello di consentire a un certo numero di Comuni, in specie meridionali, di poter accedere a fondi addizionali, senza doversi sottoporre alla perdita di sovranità e alle sanzioni previste dalla disciplina del dissesto. Infine, l'accelerazione dei pagamenti dei debiti della PA decisa dal governo, cosa buona e giusta, avrà anche l'effetto di garantire il pagamento di numerosi impegni presi da amministratori locali, in spregio a vincoli contabili e obblighi legislativi. È vero che in entrambi i casi si dovrebbe trattare di prestiti dello stato all'ente locale, che dunque il Comune o la regione dovrebbero restituire, ma il rischio che questo non succeda è elevato. Si tratta di segnali preoccupanti, anche perché non s'inseriscono in un progetto organico di riforma della finanza regionale e municipale
Paradossalmente, mentre a livello nazionale sembra che si parli solo di risanamento finanziario, a livello locale si rischia di aprire la strada al più clamoroso esempio di bailing out della nostra storia recente
.

Innanzitutto, e va ribadito, il "rei" va riferito non a presunte politiche dissennate nell'erogazione dei servizi essenziali, in special modo di quelli "sociali", ridotti ormai da anni ai minimi termini, quanto piuttosto alla forma societaria sempre più assunta per ogni possibile segmento dell'attività pubblica: su questo punto vi invito a rileggere l'attenta ricostruzione di questo post di Sofia.
Inutilmente la Corte dei conti si sgola a enfatizzare le assurdità di tale sistema, che consente non solo vari, più agevoli, aggiramenti del sistema legale di evidenza pubblica nell'assegnazione degli appalti (facendo salire i costi dell'acquisto di beni e servizi), ma che ha dato luogo a una vasta "casta" di a.d., consiglieri di amministrazione, e super-manager (...!), che ha "efficientemente" e con grande "snellezza" provveduto a oltre 700.000 assunzioni senza alcuna selezione concorsuale. Con la grande felicità di tutta intera la classe politica, €uropeista e privatizzatrice.

In ogni modo: la Corte costituzionale non poteva che pronunciarsi così. Le autonomie locali costituzionalizzate (artt.104-133 Cost), non consentono quel grado di interferenza, e il "coordinamento della finanza pubblica", materia espressamente riconosciuta come "concorrente" dall'art.117 Cost., si deve arrestare alla previsione del "meccanismo", non potendosi reintrodurre forme di controllo-tutela, cioè di intervento sostitutivo della sostanza autonoma dell'amministrazione di tali entità.
La Corte, dunque, ha solo applicato le regole che doveva applicare; non le ha scritte certo lei, quanto piuttosto gli stessi teorici attuali della "moralizzazione" e del federalismo salvifico.
Ma quelli stanno sempre lì, pontificano su sprechi e corruzione, sulle colpe degli italiani indolenti e mai abbastanza €uropei, e, semmai, pensano a come "tagliare ancora il perimetro del pubblico". E anche il "fronte fisico" dei rapporti di questo con le imprese: solo così, senza più alcuna altra attività che non sia "costruire strade e provvedere alla relativa segnaletica" si risolve il problema degli sprechi e dei pagamenti arretrati...
Mica pensando alla revisione delle norme costituzionali e del testo unico degli enti locali che ci hanno messo in questo ginepraio, realizzando la ideona della "privatizzazione efficientatrice" delle forme.
Insomma, la "grande società" è stata presa in una, ancor oggi incontestata", accezione di "tante società": ma proprio tante....

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