Secondo voi, il buon John Maynard Keynes sarebbe stato d'accordo col fatto che le oligarchie non sono disposte a "concederci" i nostri diritti, sanciti dalla Costituzione (!), ovvero, piuttosto, con quanto segue?
Rammentiamo che la Costituzione vincola tutti i cittadini in base al "potere costituente" del popolo sovrano, che ne è il primo e necessario momento di realizzazione democratica, già giuridicamente vincolante: quindi la democrazia, intesa come realizzazione istituzionale dei diritti fondamentali, non è un riflesso della "concessione" delle oligarchie. Almeno finchè sarà vigente QUESTA Costituzione.
- Anteprima del 4°paragrafo del capitolo 2 ("L'internazionalismo") del libro "Euro e(o?) democrazia"-
4- IL “MASSACRO” DEI DIRITTI SOCIALI E LA SOGLIA COSTITUZIONALE DI DIFESA DALL’INTERNAZIONALISMO.
Il discorso, ancora, si completa con questo interrogativo che mi viene spesso posto sul blog: "Ripeto: se c'è qualcuno che può spiegarmi perché massacrare lo stato sociale di un Paese dovrebbe poi farlo stare meglio, lo faccia, perché oggettivamente tutto questo mi sembra un delirio schizofrenico…."
La risposta si connette al problema della "misurabilità" di qualsiasi "giudizio di valore" circa il fallimento, o la "non attendibilità" delle politiche propugnate, nel solco genetico della liberalizzazione dei capitali, dai vari organismi sovranazionali (FMI, OCSE e le stesse BCE e commissione UE).
E anche qui ci si trova ad affrontare dei "grossi" problemi di democrazia costituzionale e di "correlazioni" con le visioni economiche insite nell’attuale "politica" europea.
In particolare: quale è la soglia obiettiva oltre la quale un diritto "sociale" deve considerarsi "massacrato"?
Si possono misurare grandezze che hanno un senso ("dato", cioè accettato come presupposto metodologico e descrittivo di un "certo" metodo di analisi economica, sebbene, appunto, "variabile" a seconda delle "teorie" o "scuole"), dentro al linguaggio che descrive la fenomenologia economica.
Ma non altrettanto si può fare per quanto riguarda il contenuto "minimo" o "inderogabile" di un diritto sociale in senso giuridico (che è poi quello che veramente conta politicamente).
Il "diritto sociale" è una creazione delle Costituzioni, o meglio dell’evoluzione politico-sociale della comunità che dà luogo al fenomeno costituente, e quindi ha un'univocità che è solo "contestuale": cioè mutevole col contesto storico e ideologico. Ciò che ci rinvia, appunto, al problema della precomprensione.
Ed, infatti, è in base ad asserzioni storicamente e ideologicamente sopravvenute a quelle che sottostanno all’impianto costituzionale del 1948, che Andreatta, a suo tempo (come citato nel capitolo dedicato alla dottrina delle banche centrali indipendenti) e oggi, Draghi o Fornero, possono affermare che lo "stato sociale" è un qualcosa di eccessivo, a cui dobbiamo rinunciare.
Occorre quindi interrogarsi sulla questione di come, con evidenza, senza alcuna connessione con la funzione e la sistematica costituzionale democratica, illustri e stimati personaggi, "liquidino" a cuor leggero il "welfare" e i diritti "sociali".
Questo atteggiamento, risulta però meno attendibile se si manifestasse una rilevante reazione basata sulla comprensione del diritto costituzionale così come proposto da Mortati, Basso, Calamandrei, o Fanfani.
Infatti, la Costituzione ha un'assiologia graduata, logica, nella sua struttura. Cioè esprime una gerarchia di valori non derogabile e risultante non solo dalla lettura "estrapolata" delle singole disposizioni", cioè "asistematica": lettura che per una Costituzione è un gravissimo vizio metodologico, come sempre evidenzia Mortati.
Esattamente ciò che molti costituzionalisti, al pari degli economisti, tendono oggi a porre in ombra.
La Costituzione, dunque, afferma, in base all'art.3, comma 2, (grund-norm, architrave della comprensione dell’intera Costituzione, secondo Mortati), che qualcosa, in termini di posizioni dei cittadini e di attività dovute dallo Stato, "debba" esserci e in un certo modo. E questo “modo” implica che un certo obiettivo sociale si sviluppi in una direzione che l’enunciazione stessa della Costituzione indica, normalmente, con molta chiarezza: così la tutela del lavoro implica che il livello retributivo debba essere “equo” (art.36 Cost.) e che, dunque, non sia posto in pericolo da una prevalente e diffusa instabilità del posto di lavoro e da un’endemica disoccupazione; o ancora che, sul piano della condizione del lavoratore successiva alla sua fase di vita “attiva”, il livello pensionistico non possa essere inidoneo a fornirgli “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita” (art.38 Cost.).
Ed è chiaro che la “equità” del salario nonché la “adeguatezza” della pensione vanno considerate in base a normali condizioni di sviluppo della società, quali prefigurate dal complesso dei principi fondamentali della Costituzione: non invece in base a condizioni socio-economiche provocate da scelte politiche che, maturate al di fuori delle finalità costituzionali di intervento e tutela poste a carico della Repubblica, portino a comprimere sistematicamente e deliberatamente i livelli retributivi e pensionistici, giustificando ciò in base ad uno specifico modello monetario e fiscale imposto dal vincolo di un trattato “internazionale”.
Si tratta, in sostanza, di interrogarsi sul nesso di causalità della congiuntura cui è sottoposta l’Italia (o un altro paese a Costituzione democratica, coinvolto nella unione monetaria): se una corretta identificazione delle cause porta ad attribuire le stesse essenzialmente, o in modo comunque rilevante, a tale cornice pattizia internazionale, sarebbe dovere della Repubblica, con le sue istituzioni di governo, rimuoverle per riportare l’equilibrio consentito dai poteri e dai doveri previsti dalla Costituzione. Esemplificativo di ciò, è proprio il caso della recessione 2007-2008, provocata certamente da una crisi finanziaria mondiale, in contrapposizione con la successiva recessione emersa dal 2011, indotta direttamente dalle politiche riduttive del deficit, ad effetti pro-ciclici, imposte dall’UE, in base ad una visione economica non solo non seguita dagli altri paesi coinvolti nella prima crisi, ma difficilmente compatibile con le clausole fondamentali della Costituzione.
Questi rilievi valgono dunque, a maggior ragione, se tale trattato non trovi alcuna giustificazione in termini di sua oggettiva e prioritaria “necessità” al fine di assicurare “la pace e la giustizia fra le Nazioni” e non rispetti neppure, in concreto, le “condizioni di parità con gli altri Stati”. Cioè se il trattato non rispetti, o riveli manifestamente di non rispettare, le condizioni di operatività delle “limitazioni” di sovranità che pone l’art.11 della Costituzione.
In altri termini, una compressione “relativa” dei diritti dei lavoratori, rispetto ad un certo livello presente nel passato, per fattori contingenti dovuti al radicale mutamento di scenari economici mondiali, che coinvolgano anche lo Stato italiano, è dunque concepibile. Non risulta invece legittima allorquando, senza alcuna diretta connessione a tali scenari, sia piuttosto il frutto di una particolare “dottrina” economica estranea a quella recepita nella Costituzione e rispondente, appunto, a decisioni assunte in una sede internazionale. Quindi, il frutto di un’opzione politico-ideologica specifica che caratterizza una determinata organizzazione internazionale.
Questo dunque è il punto di emersione del “massacro” dei diritti. In presenza di un fenomeno di vistosa riduzione dei diritti costituzionali, programmaticamente prolungata nel tempo, la sua ingiustificabilità si segnala in ragione della fonte del vincolo imposto, appunto un “trattato”, e della non rispondenza di quest’ultimo, nei suoi scopi palesi, e nei suoi continuativi effetti sulla società nazionale, alle rigorose condizioni previste dall’art.11 Cost.
In conclusione, i termini della tutela apprestata dalla Costituzione al “livello” dei diritti, andrebbe sempre visto preliminarmente alla luce del solo dettato dei principi fondamentali e, solo in secondo momento, si può procedere alla consequenziale verifica di compatibilità con qualunque vincolo esterno di origine internazionale.
In quest’ultima prospettiva, se si considera il diritto al "lavoro", Draghi, Andreatta e Fornero, hanno sostanzialmente affermato che non c'è alcun obbligo preciso in Costituzione nonostante gli artt.1 (fondamento "lavorista” della Costituzione) e 4 Cost. (diritto al lavoro). E in effetti, non c'è una formulazione che metta in rapporto preciso il singolo con un'istituzione-competenza dello Stato e determini ciò che questo "debba" fare. Abbiamo visto come questo punto, già nei lavori della Costituente, contrappose Basso allo stesso Calamandrei: ma abbiamo lo stesso visto come il primo ne abbia, con chiare parole, indicato la soluzione sul piano costituzionale.
Ed infatti, l'art.3, comma 2, Cost., ci dice che tutta la Repubblica è obbligata a "promuovere" la eguaglianza sostanziale, "rimuovendo gli ostacoli...che impediscono…l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese": se ne desume che, poiché i principi fondamentali sono inderogabili e non revisionabili (art.139 Cost. correttamente inteso), la Repubblica deve programmare la propria azione (anzitutto con la sua attività politico-legislativa) affinché il lavoro - fondamento del patto sociale - non diminuisca (ovviamente nel livello di occupazione) e sia anche sempre meglio retribuito (art.36 in relazione all'art.3 Cost.).
Conseguentemente, per gli artt.11 e 139 Cost., nessuna imposizione europea potrebbe giungere ad imporre obblighi che contraggano il livello di occupazione e delle retribuzioni.
Rammentiamo che la Costituzione vincola tutti i cittadini in base al "potere costituente" del popolo sovrano, che ne è il primo e necessario momento di realizzazione democratica, già giuridicamente vincolante: quindi la democrazia, intesa come realizzazione istituzionale dei diritti fondamentali, non è un riflesso della "concessione" delle oligarchie. Almeno finchè sarà vigente QUESTA Costituzione.
- Anteprima del 4°paragrafo del capitolo 2 ("L'internazionalismo") del libro "Euro e(o?) democrazia"-
4- IL “MASSACRO” DEI DIRITTI SOCIALI E LA SOGLIA COSTITUZIONALE DI DIFESA DALL’INTERNAZIONALISMO.
Il discorso, ancora, si completa con questo interrogativo che mi viene spesso posto sul blog: "Ripeto: se c'è qualcuno che può spiegarmi perché massacrare lo stato sociale di un Paese dovrebbe poi farlo stare meglio, lo faccia, perché oggettivamente tutto questo mi sembra un delirio schizofrenico…."
La risposta si connette al problema della "misurabilità" di qualsiasi "giudizio di valore" circa il fallimento, o la "non attendibilità" delle politiche propugnate, nel solco genetico della liberalizzazione dei capitali, dai vari organismi sovranazionali (FMI, OCSE e le stesse BCE e commissione UE).
E anche qui ci si trova ad affrontare dei "grossi" problemi di democrazia costituzionale e di "correlazioni" con le visioni economiche insite nell’attuale "politica" europea.
In particolare: quale è la soglia obiettiva oltre la quale un diritto "sociale" deve considerarsi "massacrato"?
Si possono misurare grandezze che hanno un senso ("dato", cioè accettato come presupposto metodologico e descrittivo di un "certo" metodo di analisi economica, sebbene, appunto, "variabile" a seconda delle "teorie" o "scuole"), dentro al linguaggio che descrive la fenomenologia economica.
Ma non altrettanto si può fare per quanto riguarda il contenuto "minimo" o "inderogabile" di un diritto sociale in senso giuridico (che è poi quello che veramente conta politicamente).
Il "diritto sociale" è una creazione delle Costituzioni, o meglio dell’evoluzione politico-sociale della comunità che dà luogo al fenomeno costituente, e quindi ha un'univocità che è solo "contestuale": cioè mutevole col contesto storico e ideologico. Ciò che ci rinvia, appunto, al problema della precomprensione.
Ed, infatti, è in base ad asserzioni storicamente e ideologicamente sopravvenute a quelle che sottostanno all’impianto costituzionale del 1948, che Andreatta, a suo tempo (come citato nel capitolo dedicato alla dottrina delle banche centrali indipendenti) e oggi, Draghi o Fornero, possono affermare che lo "stato sociale" è un qualcosa di eccessivo, a cui dobbiamo rinunciare.
Occorre quindi interrogarsi sulla questione di come, con evidenza, senza alcuna connessione con la funzione e la sistematica costituzionale democratica, illustri e stimati personaggi, "liquidino" a cuor leggero il "welfare" e i diritti "sociali".
Questo atteggiamento, risulta però meno attendibile se si manifestasse una rilevante reazione basata sulla comprensione del diritto costituzionale così come proposto da Mortati, Basso, Calamandrei, o Fanfani.
Infatti, la Costituzione ha un'assiologia graduata, logica, nella sua struttura. Cioè esprime una gerarchia di valori non derogabile e risultante non solo dalla lettura "estrapolata" delle singole disposizioni", cioè "asistematica": lettura che per una Costituzione è un gravissimo vizio metodologico, come sempre evidenzia Mortati.
Esattamente ciò che molti costituzionalisti, al pari degli economisti, tendono oggi a porre in ombra.
La Costituzione, dunque, afferma, in base all'art.3, comma 2, (grund-norm, architrave della comprensione dell’intera Costituzione, secondo Mortati), che qualcosa, in termini di posizioni dei cittadini e di attività dovute dallo Stato, "debba" esserci e in un certo modo. E questo “modo” implica che un certo obiettivo sociale si sviluppi in una direzione che l’enunciazione stessa della Costituzione indica, normalmente, con molta chiarezza: così la tutela del lavoro implica che il livello retributivo debba essere “equo” (art.36 Cost.) e che, dunque, non sia posto in pericolo da una prevalente e diffusa instabilità del posto di lavoro e da un’endemica disoccupazione; o ancora che, sul piano della condizione del lavoratore successiva alla sua fase di vita “attiva”, il livello pensionistico non possa essere inidoneo a fornirgli “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita” (art.38 Cost.).
Ed è chiaro che la “equità” del salario nonché la “adeguatezza” della pensione vanno considerate in base a normali condizioni di sviluppo della società, quali prefigurate dal complesso dei principi fondamentali della Costituzione: non invece in base a condizioni socio-economiche provocate da scelte politiche che, maturate al di fuori delle finalità costituzionali di intervento e tutela poste a carico della Repubblica, portino a comprimere sistematicamente e deliberatamente i livelli retributivi e pensionistici, giustificando ciò in base ad uno specifico modello monetario e fiscale imposto dal vincolo di un trattato “internazionale”.
Si tratta, in sostanza, di interrogarsi sul nesso di causalità della congiuntura cui è sottoposta l’Italia (o un altro paese a Costituzione democratica, coinvolto nella unione monetaria): se una corretta identificazione delle cause porta ad attribuire le stesse essenzialmente, o in modo comunque rilevante, a tale cornice pattizia internazionale, sarebbe dovere della Repubblica, con le sue istituzioni di governo, rimuoverle per riportare l’equilibrio consentito dai poteri e dai doveri previsti dalla Costituzione. Esemplificativo di ciò, è proprio il caso della recessione 2007-2008, provocata certamente da una crisi finanziaria mondiale, in contrapposizione con la successiva recessione emersa dal 2011, indotta direttamente dalle politiche riduttive del deficit, ad effetti pro-ciclici, imposte dall’UE, in base ad una visione economica non solo non seguita dagli altri paesi coinvolti nella prima crisi, ma difficilmente compatibile con le clausole fondamentali della Costituzione.
Questi rilievi valgono dunque, a maggior ragione, se tale trattato non trovi alcuna giustificazione in termini di sua oggettiva e prioritaria “necessità” al fine di assicurare “la pace e la giustizia fra le Nazioni” e non rispetti neppure, in concreto, le “condizioni di parità con gli altri Stati”. Cioè se il trattato non rispetti, o riveli manifestamente di non rispettare, le condizioni di operatività delle “limitazioni” di sovranità che pone l’art.11 della Costituzione.
In altri termini, una compressione “relativa” dei diritti dei lavoratori, rispetto ad un certo livello presente nel passato, per fattori contingenti dovuti al radicale mutamento di scenari economici mondiali, che coinvolgano anche lo Stato italiano, è dunque concepibile. Non risulta invece legittima allorquando, senza alcuna diretta connessione a tali scenari, sia piuttosto il frutto di una particolare “dottrina” economica estranea a quella recepita nella Costituzione e rispondente, appunto, a decisioni assunte in una sede internazionale. Quindi, il frutto di un’opzione politico-ideologica specifica che caratterizza una determinata organizzazione internazionale.
Questo dunque è il punto di emersione del “massacro” dei diritti. In presenza di un fenomeno di vistosa riduzione dei diritti costituzionali, programmaticamente prolungata nel tempo, la sua ingiustificabilità si segnala in ragione della fonte del vincolo imposto, appunto un “trattato”, e della non rispondenza di quest’ultimo, nei suoi scopi palesi, e nei suoi continuativi effetti sulla società nazionale, alle rigorose condizioni previste dall’art.11 Cost.
In conclusione, i termini della tutela apprestata dalla Costituzione al “livello” dei diritti, andrebbe sempre visto preliminarmente alla luce del solo dettato dei principi fondamentali e, solo in secondo momento, si può procedere alla consequenziale verifica di compatibilità con qualunque vincolo esterno di origine internazionale.
In quest’ultima prospettiva, se si considera il diritto al "lavoro", Draghi, Andreatta e Fornero, hanno sostanzialmente affermato che non c'è alcun obbligo preciso in Costituzione nonostante gli artt.1 (fondamento "lavorista” della Costituzione) e 4 Cost. (diritto al lavoro). E in effetti, non c'è una formulazione che metta in rapporto preciso il singolo con un'istituzione-competenza dello Stato e determini ciò che questo "debba" fare. Abbiamo visto come questo punto, già nei lavori della Costituente, contrappose Basso allo stesso Calamandrei: ma abbiamo lo stesso visto come il primo ne abbia, con chiare parole, indicato la soluzione sul piano costituzionale.
Ed infatti, l'art.3, comma 2, Cost., ci dice che tutta la Repubblica è obbligata a "promuovere" la eguaglianza sostanziale, "rimuovendo gli ostacoli...che impediscono…l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese": se ne desume che, poiché i principi fondamentali sono inderogabili e non revisionabili (art.139 Cost. correttamente inteso), la Repubblica deve programmare la propria azione (anzitutto con la sua attività politico-legislativa) affinché il lavoro - fondamento del patto sociale - non diminuisca (ovviamente nel livello di occupazione) e sia anche sempre meglio retribuito (art.36 in relazione all'art.3 Cost.).
Conseguentemente, per gli artt.11 e 139 Cost., nessuna imposizione europea potrebbe giungere ad imporre obblighi che contraggano il livello di occupazione e delle retribuzioni.