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LIBERALISMO "RISTRETTO": DA HAYEK A PINOCHET, PASSANDO PER EINAUDI

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In prosecuzione del discorso avviato col post di ieri, ho ritenuto che questo intervento di Arturo, per completezza e profondità, meritasse un'autonoma collocazione, per meglio fruire dei suoi importanti elementi cognitivi e di riflessione.

I difensori di Hayek naturalmente hanno attribuito quest'uscita (quella relativa alla preferenza verso la dittatura autolimitabile rispetto alla democrazia, che non lo sarebbe ndr.), a un appannamento senile; la patetica scusa è stata articolatamente smontata da Corey Robin, che alla von Hayek-Pinochet connection ha anche dedicato un corposo dossier (qui anche alcune telegrafiche riflessioni sul rapporto fra Hayek e Schmitt, di cui si parlava sopra).

Mi pare che all'argomento avessimo già accennato; qui trovo utile riportare la principale prova utilizzata da Robin a confutazione dell'estemporaneità dell'intervista, cioè un passo del solito Legge, legislazione e libertà che vi trascrivo dalla traduzione italiana (pag. 467): 
"E' errata la credenza di autori come G. Myrdal e J. K. Galbraith secondo cui i difetti dell'ordine esistente sono soltanto transitori e possono venir corretti quando si completerà il processo di organizzazione. Ciò che rende vitale la maggior parte delle economie occidentali è che l'organizzazione degli interessi è soltanto parziale e incompleta. Se fosse completa ci si troverebbe in una situazione insostenibile di blocco reciproco tra i diversi interessi organizzati, con una struttura economica totalmente rigida che nessun accordo fra gli interessi maggiori, ma solo la forza di un *potere dittatoriale* potrebbe spezzare". 

Quella di Hayek mi pare in fondo la risposta del liberalismo classico, che ha un coté profondamente antidemocratico, alla "grande trasformazione":
 "[...] it should not be forgotten that not only did the classics of the liberal tradition refer to democracy with coldness, hostility and sometimes frank contempt, but regarded its advent as an unlawful, intolerable rupture of the social contract and hence as a legitimate cause for the "appeal to Heaven" (in Locke's words) or to arms" (D. Losurdo, Liberalis. A counter-history, Verso, London, 2011, pag. 341). 

Un analogo (anche nell'individuazione dei nemici: sul piano economico, Keynes per entrambi; su quello filosofico, Kelsen per Hayek, l'ultimo Croce per Einaudi) "liberalismo ristretto", come lo definiscono Paggi e D'Angelillo, prospera ovviamente anche in Italia, in particolare sotto le venerabili insegne del sunnominato Luigi Einaudi, di armoniosa conserva con la teoria della casta-cricca-corruzione, che è sì, come ci informa Chang, un format internazionale, ma che ha anche conosciuto una sua compiuta, antica e fortunata elaborazione autoctona nell'ambito del liberismo autoritario paretiano.

Il libro di Paggi e D'Angelillo (I comunisti italiani e il riformismo), che l'accumulo di letture mi aveva obbligato a posporre, è davvero importante ("Il liberismo infatti non può non sentire come ostacolo al funzionamento delle leggi economiche, e come corruzione del "buongoverno", qualsiasi elemento di autodifesa che le società producono nei confronti della logica del mercato": pag. 152) e ringrazio molto Cesaratto per averlo così caldamente consigliato. 
Credo sarà utile tornarci.

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