
L'Unione europea si basa sull'idea di mercato del lavoro c.d. neo-classica, cioè ordoliberista, comunque condivisa, a livello culturale piùo meo cosciente, da tutti gli economisti e politici che hanno influenzato la redazione del trattato di Maastricht.
Questa idea di mercato, come in questa sede si è detto più volte, si incentra sulla perfetta flessibilità verso il basso dei livelli salariali, come mezzo principale se non unico di riaggiustamento degli equilibri di mercato, alterati per qualunque motivo.
Nella pura visione neo-classica"Marshalliana"la crisi congiunturale del sistema economico non esiste, o meglio non "può" esistere, perchè non esiste una forza che possa impedire che si dispieghi questo meccanismo naturale di riequilibrio, riportando in opera in senso riallocativo-ottimale l'invisibile mano del mercato.
Più precisamente, a fronte della reazione che i "fatti" sociali hanno opposto alla pretesa realtà scientifico-naturale della visione dell'equilibrio neo-classico liberista, e cioè a seguito della progressiva attivazione della solidarietà tra lavoratori mediante l'auto-organizzazione sindacale, la versione liberista del meccanismo di riequilibrio delle (transitorie) crisi è stata riformulata in modo più esteso ma significativo.
Si è cioè detto che la perfetta flessibilità verso il basso del prezzo del lavoro conduce inevitabilmente al riequilibrio delle fasi negative, salvo che il mercato del lavoro sia distorsivamente irrigidito dalla presenza delle resistenze e rivendicazioni sindacali.
Questa è in particolare la visione dei vari "liberali" o liberisti che portò alla costruzione europea. Dalla visione negativa degli "interessi sezionali" portati avanti dai sindacati, quale formulata da Spinelli (sotto l'influenza di Einaudi), fino alla vaste argomentazioni che contraddistinguono von Hayek, von Mises, Lippman, Roepke, Eucken, - e cioè l'insieme indistinto dell'ordoliberismo-, l'europa nasce all'insegna del RIPRISTINO DEL LAVORO-MERCE.
Si vuol dire che ogni formulazione teorica alla base di quanto espresso nei trattati si impernia su questo concetto, ritenuto essenziale.
Non importa quale sia la dichiarazione esteriore di presunta "attenzione" al lavoro, ed alle questioni sociali, contenuta in un trattato europeo: e questo, quantomeno, a partire dalla formulazione dell'Atto unico del 1986, o in qualunque fonte attuativa UE.
Una tale dichiarazione avrà sempre un effetto precettivo pari a zero, cioè risulterà COSMETICA, di facciata. Nel mentre, tuttavia, la sostanza dell'assetto perseguito da queste fonti, sarà invariabilmente quella di garantire la massima flessibilità dei SALARI-REDDITI DA LAVORO.
Tale flessibilità, nella chiave cosmetica, si esplica:
a) nella più o meno esplicita enunciazione della preferenza per il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, priva di ogni meccanismo sanzionatorio preciso ed univoco;
b) nella indifferenza, "permissiva" per implicito, nel consentire ogni possibile ampliamento della risolubilità del rapporto di lavoro; il silenzio del trattato sul punto, conduce cioè a un'esilissima tutela contro il licenziamento e riqualifica l'instabilità sostanziale del formalmente auspicato rapporto a tempo indeterminato. La "stabilità", da norme non cogenti del trattato, è infatti lasciata alla ipotesi residuale del licenziamento "discriminatorio", secondo una formula soggetta peraltro a progressiva restrizione interpretativa.
Com'è che l'ordoliberismo, o in generale il neo-liberismo imperante in Europa, denunzia questa sua preferenza circa il mercato del lavoro?
Attraverso la ben nota norma "costituzionale-chiave" del Trattato sull'Unione, cioè l'art.3, par.3, che predica una "piena occupazione" che si accompagna ad un'economia sociale di mercato fortemente competitiva e caratterizzata dall'obiettivo principale della stabilità dei prezzi.
Rendendo contemporaneamente applicabili questo insieme connesso di supremi principi ne risulta il concetto di lavoro-merce, sopra descritto.
Poichè lo scopo ultimo di ciò è quello di rendere perfettamente flessibile verso il basso il prezzo del lavoro, gli strumenti cosmetici che si accompagnano a questo obiettivo cercano di dissimulare che per rendere flessibili i lavoratori sul salario (prima ancora che sullo strumentale aspetto del licenziamento), occorre disattivare la sostanza dell'azione sindacale e portare le politiche deflattive (di perseguimento della stabilità dei prezzi) a una tale coerenza e durata che la disoccupazione si attesta strutturalmente ad un livello molto alto, fiaccando sia la forza del sindacato, sia il potere contrattuale dei disoccupati, e di chi si affaccia sul mercato del lavoro (ovviamente, quanto al poter negoziare il livello di accesso o di crescita reale dei salario).
Gli strumenti per completare la cosmesi che rende persino irrilevante la "preferenza" europea per il lavoro a tempo indeterminato, una volta che la disoccupazione strutturale, l'ammissibilità di un numero infinito di contratti di lavoro atipici e l'ampia licenziabilità senza causa, abbiano operato verso la sostanziale instaurazione del lavoro-merce, sono riassumibili in una formula: la FLEXICURITY.

Avvertenza preliminare: in effetti è un'idea che va vista sempre nel quadro del fiscal compact e del pareggio di bilancio: altrimenti non se ne può nè formulare in astratto, nè stimare attendibilmente, l'impatto.
Inevitabilmente, "nuovo", idoneo a fronteggiare la "sfida della globalizzazione", e le "iniquità"per i lavoratori da essa derivanti, giammai dal modello ordoliberista del trattato ("because of the inequity brought about byglobal – namely non EU – trade."; cfr; pag.10), il sistema della flexicurityè, naturalmente, "multilevel": cioè ci si può mettere dentro tutto quello che, per l'occasione, può assumere ruolo cosmetico di sedativo in quanto occasionato dalla iniquità del "non EU-trade" (!), cioè dalla finanza cattiva, dalla Cina minacciosa e da tutte le ingiustizie che si perpetrano fuori dal mondo perfetto dell'UE-M.
Ma state certi che la flexicurity, oltre ad una congerie di formule "meravigliose", su come ti assisteranno, in caso di disoccupazione, con nuovi tipi di riqualificazione, nuova formazione orientata alle nuove professionalità, in nuove forme di nuova compartecipazione tra nuovi lavori dipendenti e nuove tipologie di impresa, legate alle nuove tecnologie, tenderà ad imporre:
1) forme, vecchie e nuove, di salario minimo;
2) forme vecchie e nuove, di reddito universale o di cittadinanza, ovvero sussidio generalizzato di disoccupazione (per forme anche nuove di "inoccupazione" che si coniughino con nuove tutele delle pari opportunità).
Il primo strumento fissa un livello di fondo, nella flessibilità salariale verso il basso, che il fronte del capitale-datori di lavoro, è autorizzato a toccare in ogni settore industriale e rispetto ad ogni possibile segmento professionale: cioè è un minimo di paga unico per tutto (o quasi) il mercato del lavoro e stabilito d'autorità, bypassando ogni trattativa sindacale nazionale per comparti.
Il suo effetto è quello di portare ogni settore professionale di lavoro, indipendentemente da contenuti e livelli, ad una restribuzione che sia durevolmente stabilizzata verso il bench-mark del salario minimo (un giovane ingegnere potrà, di fatto, avere un minimo potere contrattuale individuale per pretendere solo pochi decimali di maggiorazione rispetto al lavoratore di livello professionale più basso: cioè chi studia ingegneria e si mantiene con un mc-job, potrebbe scoprire che avrebbe potuto farne a meno e...rimanere a vita precario nel mc job, perchè tanto non cambia molto....).
Il secondo strumento l'abbiamo descritto varie volte su questo blog (ma rimane proprio "quello che non vogliono capire"...ma proprio non "vogliono").
Con qualunque formula di attribuisca un reddito a chi non può arrivare ad un autonomo sostentamento, l'effetto fondamentale del "reddito di cittadinanza"non cambia: estenderlo ai sottoccupati a livelli reddituali sotto-soglia, ai pensionati poveri, alle casalinghe-madri che hanno rinunciato a cercare lavoro, agli studenti e ai giovani "falsi-partita IVA", è solo una questione di "platea degli aventi titolo" e di relativo finanziamento a carico pubblico.
Potrebbe sembrare che allargando la platea al massimo, cioè facendone un reddito universale (o la consimile "imposta negativa" di Friedman), si rallenterebbe la deflazione salariale; e ciò appunto in quanto sarebbe erogato un tale livello combinato di benefici a classi intrecciate di beneficiari da riattribuire al fronte dei disoccupati-sottoccupati un certo potere contrattuale nei confronti dei potenziali datori di lavoro.
Ma non è così.
Si dimentica che il reddito di cittadinanza lo paga lo Stato e che, poichè questo è sprecone e corrotto e bisogna disciplinarlo con limiti al deficit o il pareggio di bilancio, il finanziamento del reddito di cittadinanza è SOSTITUTIVO di altre spese dello Stato. Esso deve cioè essere finanziato LIMITANDO O ABROGANDO IL RESTO DEL WELFARE.
Più è ampia la platea degli aventi titolo più ciò sarà realizzato in tempi concentrati.
L'effetto di ciò non è una mera redistribuzione, fra diversi destinatari, della spesa pubblica.
Il finanziamento del reddito di cittadinanza, mediante distruzione del welfare costituzionale, è infatti una gigantesca misura combinata di deflazione salariale, distruttivadi ogni livello di reddito e della stessa quota salari su PIL.
Infatti, il reddito di cittadinanza si accompagna alla regola giuridica che chi, comunque, supera una certa soglia di reddito perde il beneficio pubblico; ciò in tutto o in parte, a seconda dell'ammontare della soglia e della possibile considerazione di elementi di status familiare.
Tale regola è completata da un'altra, altrettanto coessenziale al sistema: cioè che, per non perdere il beneficio, occorra dimostrare di essere attivamente alla ricerca di lavoro, NON rifiutando offerte di lavoro che risultino attestate - secondo scarti anche percentualmente inferiori, fissabili dall'autorità della legge- intorno al livello dello stesso reddito di cittadinanza (o anche rapportate al salario minimo).
E' evidente come il sole che, in presenza di un alto livello di disoccupazione, il reddito di cittadinanza diventerà lasoglia massima "diffusa" di reddito che i datori di lavoro saranno disposti a dare ai nuovi occupati e a numerosi disoccupati in cerca di lavoro.
Contemporaneamente, poi, il finanziamento del reddito di cittadinanza in sostituzione - ovvero in drastica limitazione del livello di erogazione- del sistema pensionistico, come primo ovvio punto di partenza finanziario, conduce all'aspettativa che la base pensionistica futura sarà costituita da un generale livellamento sul reddito di cittadinanza.
Ergo, su un livello di reddito differito talmente basso da non consentire la formazione di risparmio durante la vita lavorativa della schiacciante maggioranza della popolazione attiva.
Ciò porta prima alla generalizzazione "sociale" di un profilo di rischio che difficilmente consentirà l'erogazione di mutui per comprare l'abitazione come di altre forme di credito al consumo e, conseguentemente, conduce poi ad una caduta di consumi e investimenti, perpetuando un alto livello di disoccupazione ed aggravando le spinte deflattive che riproducono "a spirale" questa tendenza.
Ciò porta prima alla generalizzazione "sociale" di un profilo di rischio che difficilmente consentirà l'erogazione di mutui per comprare l'abitazione come di altre forme di credito al consumo e, conseguentemente, conduce poi ad una caduta di consumi e investimenti, perpetuando un alto livello di disoccupazione ed aggravando le spinte deflattive che riproducono "a spirale" questa tendenza.
Ne deriverà, come in tutte la fasi deflazionistiche da caduta della domanda, l'ulteriore prosecuzione di alti livelli di disoccupazione combinata alla (quasi equivalente) precarizzazione e inutilizzazione dei fattori produttivi e, quindi, la forte caduta delle entrate tributarie, legate ad una base imponibile - e contributiva- generale in continua contrazione.
Ciò rende inevitabile l'insostenibiità del livello inizialmente fissato di reddito universale, o di cittadinanza, per drastica riduzione delle fonti di finanziamento indicate originariamente a copertura (in pareggio di bilancio).
Si renderà quindi necessario rifissare un nuovo e più basso livello del reddito di cittadinanza, adeguato a tale spinta deflazionista innescata dalla stessa introduzione del reddito di cittadinanza...e così via, rafforzando e perpetuando la predetta spirale deflazionista.
Questo se si rimane nell'euro.
Ma se non ci fosse l'euro, il mercato del lavoro-merce non sarebbe stato imponibile a forza allo Stato costituzionale democratico italiano.
Ma se non ci fosse l'euro, il mercato del lavoro-merce non sarebbe stato imponibile a forza allo Stato costituzionale democratico italiano.
E, se non ci fosse stato l'euro, il problema della FLEXICURITY E DEL REDDITO DI CITTADINANZA non si sarebbe nemmeno posto.
Ma vedrete che, se anche l'euro si sfaldasse, abbandonato dai suoi "padroni", in Italia, se ne parlerà ancora...
Una cosmesi deflattiva è per sempre...
Ma vedrete che, se anche l'euro si sfaldasse, abbandonato dai suoi "padroni", in Italia, se ne parlerà ancora...
Una cosmesi deflattiva è per sempre...