
Inizia con questo post, una lunga trattazione del tema "Democrazia. Federalismo. Indipendentismo" che nasce dalla cooperazione tra Bazaar e Arturo: l'argomento è stato frazionato in quattro puntate e risulta di grande importanza per comprendere il nostro "punto-nave", nelle procellose acque dell'internazionalismo-mondialista imperante. O meglio, mai così aggressivo e disastroso nei suoi esiti.
Fare, con una riflessione socio-economica e storico-istituzionale, il "punto-nave", non ci fornisce solo informazioni su come e perchè la rotta effettiva sia stata quella finora seguita, ma ci consente anche di capire quale rotta di "salvezza" potremmo (almeno) tentare di intraprendere.
E questo vale per ogni genere di azione politica, dandoci utilmente la direzione e la misura delle correzioni che occorrerebbe apportare: se lo si volesse.
E lo si può "volere", solo se si abbia chiaro il quadro dei fattori e degli elementi di spinta a cui si è stati, e si è, tutt'ora soggetti: magari a propria insaputa. O magari non lo si può volere perché non si è (più: dopo tanto stordimento inconsapevole) in grado di afferrare tali fattori. O perché, infine, non "conviene": in termini di ammissione delle responsabilità accumulate nel portarci fino a questo punto.
(Consiglio vivamente di non tralasciare le preziose note a pié di pagina).
P.S.: mi accorgo che la lunghezza della nota che mi sono permesso di aggiungere "a chiarimento", finisce per portare lo scritto praticamente a 6 mani.
Mi perdonino i due illustri co-autori di questo blog: ma, in fondo, non è questo il metodo con cui, di regola, procede la parte più fruttuosa e "divertente" dell'approfondimento che riusciamo da compiere?
P.S.: mi accorgo che la lunghezza della nota che mi sono permesso di aggiungere "a chiarimento", finisce per portare lo scritto praticamente a 6 mani.
Mi perdonino i due illustri co-autori di questo blog: ma, in fondo, non è questo il metodo con cui, di regola, procede la parte più fruttuosa e "divertente" dell'approfondimento che riusciamo da compiere?
1 – Introduzione
«Intervenendo nel dibattito sulle riforme o controriforme istituzionali chiamate a consacrare e consolidare i risultati della marcia su Roma, il grande sociologo [e celebre economista neoliberale Vilfredo Pareto, ndr]chiarisce con lucidità l’ obiettivo reale da perseguire e da non perdere di vista nell’accavallarsi di proposte disparate e spesso contraddittorie:
“La presente dittatura, tosto o tardi, metterà capo ad una riforma costituzionale. Meglio tosto che tardi. "Conviene che la riforma rispetti quanto è possibile le forme esistenti, rinnovando la sostanza” (Pareto, 1974, voi. 2, p. 796)
“I modi sono infiniti, lo scopo è unico ed è di evadersi dalle ideologie democratiche della sovranità della maggioranza. A questa rimanga l’apparenza, ma vada la sostanza ad una élite, poiché è per il meglio oggettivamente” (Pareto, 1974, voi. 2, p. 800)», cit. da Losurdo, "Bonapartismo e democrazia", 1993, pp. 182-183
Si riporta, in relazione all'articolo sulle rivendicazioni indipendentiste, la sintesi di una discussione tra me ed Arturo attraverso un lungo scambio epistolare in cui ci si è confrontati su diversi temi, tra cui, quello principale, è stato proprio il rapporto tra democrazia sostanziale, sovranità, ed indipendentismo. Inutile aggiungere che gran parte del lavoro filologico e di ricostruzione documentata del pensiero storico e della dialettica intorno a questi temi, è stata fornita da Arturo.

2 – Stato nazionale, identità e sovranità: il rapporto tra ethnos e demos fra valori relativi ed assoluti.
"Per quasi tutti i caratteri ereditari troviamo che le differenze fra singoli individui sono più importanti di quelle che si vedono fra gruppi razziali" - L. e F. Cavalli Sforza, Chi siamo, Milano, Mondadori, 1995, pag. 333
Parliamo di razze, proprio nel senso di race usato dagli angloamericani, che, di razzismo, se ne intendono: bene, è notoriamente impossibile identificare in modo discreto, ovvero discriminare per via genetica, l'appartenenza di un individuo ad un gruppo razziale rispetto ad un altro.
Questo assunto è condiviso nella comunità scientifica da almeno i primi anni del XX secolo, tanto che curiosa è la constatazione per cui, chi si interessa di genetica e magari si arroga il diritto di proporre politiche volte ad un miglioramento del genoma umano (generalmente darwinisti sociali o malthusiani...), dovrebbe partire da presupposti (scientifici) condivisi che oggi non ci sono. Cioè, se non è possibile isolare una razza, non è possibile individuare chi, ad esempio, possa vantarsi di essere “ariano”.
Insomma, se si crede che l'intelligenza sia un valore irrinunciabile, è difficile che facendo accoppiare tedeschi biondi con gli occhi azzurri, si generino figli con la logica di Hegel o l'arte letteraria di Goethe.
Più interessante risulta il presupposto di chi, come il fondatore di Paneuropa Coudenhove-Kalergi, fa parte di coloro che si attribuiscono il diritto-dovere di proporre processi eugenetici tramite la selezione dovuta all'istinto sessuale: chi decide cosa è “eu” – εὖ – ovvero “bene”, “buono” nei cromosomi dell'essere umano così che il totalitaristicouomo nuovo sia piùfunzionalealla nuova (grande) società?
3 – Affinità elettive tra eugenetica e funzionalismo sociologico.
Comprendere le premesse etiche e le finalità politiche del funzionalismoin sociologia equivale a comprendere quelle insite nel liberismo economico[1]: “mirabile”, stando con il prof. Bagnai, è l'analisi sull'eurozona di Streeck, che fa notare come il celebre funzionalista strutturale Talcott Parsons abbia promosso l'idea liberale, tipica della scuola neoclassica, per cui la moneta sia neutrale, niente di più che un mezzo tecnico.
Sociologia ed economia, guarda un po', trovano un punto di incontro[2]: insomma, esiste un modello sociale che è naturalmente – quindi obiettivamente – efficace, efficiente, ed economico... o no? Ovvero, funzionale a...? A cosa? Agli interessi generali?
No.
Non secondo l'etica – e le scienze sociali che la supportano – della nostra Costituzione che definisce bene gli interessi generali che devono essere perseguiti. Interessi generali che non corrispondono all'evoluzione attuale della società descritti dal funzionalismo, ma che si compiono effettivamente – attraverso gli organi rappresentativi – con la rimozione degli ostacoli economici e sociali che le teorie funzionaliste in vario modo giustificano. Ovvero, si parte, nell'ottica della democrazia costituzionale, dal presupposto che le strutture sociali non siano “naturali”, ma risultato di un rapporto di forza storicamente determinato che oppone materialmente resistenza al perseguimento del programma costituzionale abbracciato da tuttele forze politiche.
Se la struttura sociale è determinata dai rapporti economici, la presenza in Costituzione dell'art.3 – e a maggior ragione in forza degli artt. 35 e ss. – dimostra l'intenzione effettiva dei Costituenti di non affidarsi alla “spontaneità” del mercato che esprime questi rapporti: si rigetta il liberalismo economico.
Quindi, tornando a bomba: se non sono univocamente identificabili le razze, e la razza è parte più o meno fondante nell'individuare un'etnia che, per come si definisce genericamente, dovrebbe essere altrettanto identificabile indipendentemente da confini naturali geografici o politici, anch'essi “relativi”, può essere che ci si trovi di fronte a differenze “formali” - “istituite” - ma non “sostanziali”, ovvero obiettive, “naturali” e storicamente immutabili?
Insomma, anche l'etnia è, in definitiva, un'invenzione culturale umana, che, come per tutte le ipostatizzazioni sociali (cioè le sintesi assunte come "certezze di giudizio"), è facilmente rappresentabile come espressione di rapporti di forza: l'identità etnica è genericamente riferibile, più che ad omogeneità razziali, culturali o linguistiche – che, come abbiamo visto, sono scientificamente non discriminabili – a omogeneità di carattere “contrappositivo”. Il gruppo sociale trova i propri confini e, quindi, la propria identità, nel momento in cui condivide un “nemico” – un competitor!– comune: come le classi sociali sono prodotte dal conflitto distributivo, così lo sono anche le sovranità nazionali e le entità politiche autonome in genere.
- Nota di Quarantotto: va peraltro aggiunto che il conflitto distributivo è (comunque, in ogni periodo storico: per lo meno successivo all'instaurarsi della civiltà "agricola") il naturale esplicarsi delle dinamiche di gruppi sociali coesistenti in modo continuativo su un territorio avente caratteri geo-morfologici tendenzialmente comuni (o volendo essere precisi, "accomunanti"): e, dunque, naturalisticamente interagenti fra loro, al punto da potersi riscontrare un comune patrimonio linguistico e culturale.
Infatti, la prossimità e la conseguente interconnessione di insediamenti, appunto caratterizzati da vicinanza fisica, rileva in funzione della consistenza del periodo storico in cui si struttura un "vincolo geografico" tra gruppi.
Ovviamente ciò vale a certe date condizioni storiche di struttura economica e di conoscenze scientifiche (che determinano i mezzi di trasporto disponibili e la tipologia ed estensione di infrastrutture comuni come strade, ponti, centri di accoglienza e di stoccaggio per i mercanti in viaggio, etc). Ottusamente trascurate, nei nostri giorni di predominio dell'irrazionale neo-liberista e antistatalista, sono poi le condizioni organizzative e istituzionali comuni, da cui, in definitiva, dipende lo stesso avvio di ogni processo sia di avanzamento scientifico che di infrastrutturazione (si pensi alla cesura tra medio-evo e epoca dell'Impero romano d'Occidente, in termini di crescita delle condizioni di benessere generale e di diffusione di conoscenze e tecnologie, poi andate perdute durante l'antistatalista anarchismo feudale).
Questo insieme di caratteri, storicamente contigenti, possono tuttavia rimanere costanti, in termini di memoria collettiva, per varie generazioni vissute all'interno di quel territorio, plasmando i contatti e la comunicazione intragruppo: si generano così prassi o "costumi", che, attraverso lo spontaneo rafforzamento del mezzo di comunicazione per eccellenza, il linguaggio -divenuto segno identificativo attraverso la "lingua"- fa assurgere naturalmente il frequente spostamento di "contatto" a autorappresentazione di una comune memoria culturale.
Lingua e interazioni condivise, divengono memoria collettiva attraverso forme di narrazione culturale: musiche, canti, balli, credenze e celebrazioni ritualizzate, si sedimentano rispetto al gruppo che vive su quel territorio, fino alla elaborazione di una "letteratura" che codifica quella lingua e gli eventi "significativi" di quella memoria collettiva.
La precisazione appena fatta è un richiamo alla"effettività" del legame linguistico-culturale.
Le "date" conoscenze scientifiche e tecnologiche, influiscono, in modo direttamente proporzionale alla loro velocità di mutamento, sul tipo di struttura economica e di comunicazione,inclusa la (progressiva modificazione della) lingua, cioè influiscono sui caratteri sociali aggregativi in precedenza caratterizzanti un certo territorio "omogeneo": ma influiscono, appunto, evolvendole in forme la cui portata può sfuggire all'interno della percezione propria di una vita umana.
Questo mismatching o "time-lag", tra percezione dei singoli individui (interna alla durata della singola esistenza) e portata "sfasata" del ciclo di mutamenti strutturali, può dar luogo a forme "identitarie" coesistenti e, spesso, confliggenti tra loro, in funzione di fattori psicologici collettivi: il "nuovo" crea e distrugge e il bilancio (di benessere) dei più può risultare negativo.
La spinta "conservativa" della memoria linguistico-culturale precedente, può essere tanto più forte quando più una forma "unificatrice" di struttura economica, tipicamente il capitalismo, si manifesta con la sua straripante capacità di innovazione e produttiva.
Questa forma di organizzazione sociale e politica "capitalista" (che oggettivamente ci troviamo oggi a fronteggiare, nella sua stessa evoluzione e contraddittorietà) è per definizione fortemente capace di instaurare assetti sociologici di produzione ben definiti (con la divisione del lavoro), dando luogo a forme politiche a sé convenienti, che contrassegnano il territorio, qualunque territorio, in funzione delle esigenze dei rapporti di forza dominanti così instaurati.
Questi rapporti di forza, dovrebbe essere intuitivo, non necessariamente, anzi quasi mai, coincidono con quelli delle precedenti comunità territoriali caratterizzate dalle diverse, e più antiche (obsolete, secondo il nuovo paradigma) condizioni sociali comunitarie: variano in modo decisivo le condizioni di conoscenza scientifica (sistema di istruzione e formazione), di produzione e scambio (organizzazione del lavoro e infrastrutture) e le modalità di insediamento conseguente (polarizzazione su centri produttivi pianificati, rispetto all'insediamento agricolo "diffuso").
Questa precisazione ci è parsa utile per meglio comprendere il passaggio del post che segue, relativo alla generazione di un carattere contrappositivo (autodifensivo) del demos, una volta instaurate certe condizioni di forte e incompatibile mutamento strutturale (e culturale).
Non ultimo, in questa fenomenologia, è il dato della ben più lenta evoluzione del fattore linguistico, rispetto ad altre condizioni di mutamento strutturale della vita di una comunità territorialmente identificabile (nei termini sopra definiti).
Il fattore linguistico, va subito detto, è però di per sè un (per quanto inevitabile) fattore di resistenza peculiare; infatti, è indifferente, o meglio apparentemente neutro, se non contraddittorio, rispetto agli istinti di preservazione che fronteggiano il "nuovo".
Il "nuovo", quindi, riflette l'affermazione di interessi prevalenti e contrapposti a quelli della maggioranza, all'interno della comunità, pur, spesso, anzi per lo più, nascendo da un'azione che si produce dall'interno della comunità "linguistica" medesima: eccettuato, ovviamente, il caso eclatante del mutamento indotto dalla guerra di conquista coloniale, in tutte le sue forme, "moderne" e più recenti.
Riservandoci un maggior approfondimento, la conquista colonialeè quella operata da un gruppo vivente su un distinto territorio, avente una distinta lingua e tradizione culturale, e tesa ad instaurare uno stabile e unilaterale assetto predatorio delle risorse del gruppo territoriale assoggettato, che viene controllato da un governo che: a) è situato, nelsuo vertice decisionale, nel territorio del gruppo dominante; b) esclude istituzionalmente la partecipazione di esponenti del gruppo assoggettato a ogni forma di governo e di determinazione dell'indirizzo politico.
Riservandoci un maggior approfondimento, la conquista colonialeè quella operata da un gruppo vivente su un distinto territorio, avente una distinta lingua e tradizione culturale, e tesa ad instaurare uno stabile e unilaterale assetto predatorio delle risorse del gruppo territoriale assoggettato, che viene controllato da un governo che: a) è situato, nelsuo vertice decisionale, nel territorio del gruppo dominante; b) esclude istituzionalmente la partecipazione di esponenti del gruppo assoggettato a ogni forma di governo e di determinazione dell'indirizzo politico.
Insomma, parlare una lingua o un dialetto comuni non elimina il fatto che alcuni - pochi e autoproclamatisi "legittimati" sopra le vecchie "prassi e costumi"-, in quanto capaci di dirigere l'assetto sociale, si avvantaggiano a danno di altri che, pur condividendo lo stesso idioma (e una certa tradizione territorial-culturale, subiscono le decisioni dei primi. -

Quindi le etnie che formano un demos, nel senso di popolo sovrano, non sono un prodotto “naturale”, ovvero, più empiricamente, una semplice evoluzione sociale in funzione della geografia, del patrimonio genetico e culturale, ma sono anche – e soprattutto!– il prodotto della rivalità tra demoied ethnoi che non sono altro che gruppi sociali che hanno interessi contrapposti.
Questi interessi sono “statici”? Sono spontaneamente conciliabili in modo funzionale, ovvero armonico, ad una pacifica convivenza internazionalista?
No! Cambiano in funzione dello sviluppo storico.
4 – Il federalismo sovranazionale come aggressione alle sovranità nazionali: il matrimonio tra destra e sinistracome vero problema gender.
Per iniziare a focalizzare le dinamiche dietro alle arcinote narrazioni ideologiche sul Fognodella Federazioneunica mondiale per cui esisterà una sola moneta , iniziamo a guardare da “sinistra” il problema. Ci si soffermerà da questo “lato” per una semplice constatazione: una sinistra politica e culturale che non è consapevole di essere espressione della storica “destra economica”– il cui paradigma sociale è stato rigettato dalle democrazie costituzionali – svolge un ruolo nefasto per la coscienza di classe necessaria a tener viva la carta costituzionale e le conquiste sociali che rappresenta.
I valori della Sinistra politica trovano storicamente le proprie radici nei principi della tutela del lavoro, della giustizia sociale e, in ultimo, nella diffusione del potere politico alle classi subalterne: ha gettato le fondamenta per lo sviluppo della democrazia sostanziale.
Ci chiediamo: ma come è possibile che il federalismo europeo sia da decenni bandiera politica e ipostatizzazione culturale di chi si dovrebbe richiamare storicamente alla lotte laburiste? Dove nasce questo fervore antinazionale?
Confrontiamo allora il socialismo marxista delle grandi lotte operaie con la moderna Sinistra cosmopolita, che scambia indifferentemente l'internazionalismo con l'anazionalismo; sì, quell'ideologia diffusasi dalla comunità dell'esperanto, di cui il celebre esponente socialista Eugéne Lanti, discutendo con la sua compagna – zia di George Orwell– contribuì involontariamente all'idea distopica della neolingua in 1984...
(1- Continua...)
[1] I tratti reazionari del liberalismoe le sue illegittime pretese rispetto alla nostra Carta dichiaratamente progressiva, possono benissimo essere ricondotti tanto al liberismo economico quanto al funzionalismo sociologico: in particolare, di quest'ultimo, con buona pace della “teoria dei giochi”, si notano l'implicito “interclassismo” (inteso come mero desiderio solidaristico o falsa coscienza e retorica tout court) e “internazionalismo irenico” alla base della coscienza identitaria di classe. Non a caso, infatti, tutti i moderni totalitarismi sono stati “interclassisti” (negando l'esistenza conflittuale tra i diversi gruppi sociali, e, quindi, la violenta oppressione delle classi subalterne): per certi versi e in senso improprio (“improprio” perché la Costituzione sovietica era “classista” - la dittatura del proletariato! - a differenza della Costituzione Italiana, “pluriclasse” e informata del naturale conflitto distributivo) anche quello stalinista: «lo strangolamento del partito, dei soviet e dei sindacati comporta l'atomizzazione politica del proletariato. Invece di essere superati politicamente, gli antagonismi sociali vengono soppressi per via amministrativa.»
Degno di nota, in rif. alla Russia degli anni'90 e alla secessioneimposta ad una parte importante del territorio, segue: «Sotto tale pressione essi si accumulano nella stessa misura in cui scompaiono le risorse politiche per risolverli in modo normale. La prima grande scossa sociale, esterna o interna, potrebbe gettare la società sovietica atomizzata in una situazione di guerra civile. [...] Il disfacimento del sistema troverà naturalmente un'eco violenta e caotica nelle campagne e si ripercuoterà inevitabilmente sull'esercito. Lo stato socialista crollerà, cedendo il posto al regime capitalistico o, più esattamente, all'anarchia capitalista.» Lev Trotskij, 1933
[2] Si noti come la locuzione marxiana di “rapporti di produzione” riassuma in sé un connotato sia economicistico che sociologico: la prospettiva del conflitto troverà proprio in Marx la paternità nella scienza sociologica, e, come ricorda Streeck, un contributo fondamentale anche in Weber. Pare che i tedeschi, si pensi anche a List, per riuscire ad arrampicarsi “sull'albero delle olive” su cui gli anglosassoni si sono arrampicati per primi, siano stati più motivati a sgretolare tanto il liberoscambismoquanto il funzionalismo sociologico del liberalismo english-speaking.