

Questo post di Bazaar è complesso e va riletto più volte (comprese le note a piè di pagina, che ho in parte integrato per una migliore comprensione di chi volesse approfondire). Ma ne vale la pena.
Non credo abbia bisogno, il post, di ulteriori commenti introduttivi: tratta di temi che, in questo blog, ricorrono continuamente e cerca di farne il punto. Teorico ma anche molto pratico.
La "continuità" dell'aspirazione strutturale neo-liberista è un processo in evoluzione, ma costante nei suoi principi informatori (che implicano un'idea riduzionistica dell'Uomo che tendono a realizzare "ad ogni costo": da qui il costruttivismo che caratterizza i suoi esiti totalitaristici conformi alle sue irrinunciabili premesse).
Perciò, calato nella Storia, assume forme (sovrastrutturali) solo apparentemente nuove, sicché nulla è più fuorviante, - e genera l'incapacità delle democrazie di impedire "che tutto questo si ripeta"-, che combattere, o stigmatizzare ritualmente, le sue forme "vecchie" (precedenti) come fossero una deviazione, peggio ancora se vista come irrazionalismo inspiegabile.
Nei meccanismi che contraddistinguoo il liberismo, si tende irresistibilmente a raggiungere sempre lo stesso "equilibrio allocativo", proiettato su dimensioni crescenti (ovvero, oggi, mondialiste), e a riprodurre la stessa natura gerarchica che disconosce l'eguaglianza sostanziale; cioè nega, implicitamente ma necessariamente, il valore della vita dei singoli individui (esseri umani in quanto tali), in favore dell'eguaglianza formale, che è solo un altro modo, socialmente accettabile (e solo in certe fasi) per denominare la gerarchia anti-umanitaria.
(Le parti in campo giallo corrispondono alle variazioni dell'ultima versione rielaborata da Bazaar).
(Le parti in campo giallo corrispondono alle variazioni dell'ultima versione rielaborata da Bazaar).
1 – Le scienze sociali: struttura e sovrastruttura.
« Se c'è qualcosa di certo, è che io non sono marxista», Karl Marx, 1882
Si è visto come rispetto a qualsiasi “maschera indossata” per confondere gli avversari nel conflitto distributivo (streghe, untori, “politici corrotti”, ebrei, musulmani, rettiliani, ecc.) la società gerarchizzata vede impersonalmenteun conflitto permanente in cui l'identità di classe, la coordinazione e – in definitiva – la coscienza sociale non sono diffuse equamente. Ovvero esiste una determinante asimmetria informativa tra la classe dominante e quelle subalterne.
Se esiste una classe sociale dominante – che politicamente “cospira” per definizione, indipendentemente dalle Istituzioni contestuali al momento storico – esiste anche una gerarchia sociale che tendenzialmente manipola cultura e informazionein modo più o meno marcato: in un regime totalitario, ovviamente, il “marcato” diventa totale.
Braudel sosteneva che: «Quando vogliamo spiegare una cosa, dobbiamo diffidare ad ogni istante della eccessiva semplicità delle nostre suddivisioni. Non dimentichiamo che la vita è un tutto unico, che anche la storia deve esserlo e che non bisogna perdere di vista in nessuna occasione, neppure per un attimo, l’intrecciarsi infinito delle cause e delle conseguenze. […] Noi studiamo la società e al nostro studio, in quanto tale, non possono bastare i mezzi di ogni singola scienza presa separatamente»
Ovvero la complessità sociale vuole un approccio multidisciplinare[1].
Affinché questo “tutto unico” possa essere analizzato negli aspetti principali in cui si declina, è necessario utilizzare una qualche forma di riduzionismo; ovvero ridurre la varietà dei criteri ad un unico modello semplificato.
«La vita è fatta di correnti che scorrono a velocità diverse: alcune […] mutano di giorno in giorno, altre di anno in anno, altre di secolo in secolo. […] geografia, civiltà, razza, struttura sociale, economia e politica. Tale classificazione si basa sulla velocità, più o meno grande, che caratterizza le diverse storie: all’inizio della serie, al massimo livello di profondità, le più lente, le meno condizionabili dall’intervento dell’uomo; alla fine, quelle che sono maggiormente influenzate, ovvero l’economia e la politica.»
La storia delle civiltà può essere quindi analizzata con diverse metodologie come la geopolitica, l'approccio etnico – di cui la teoria delle razze è la sua variante “estrema” – il liberalismo o il marxismo. Anche le religioni propongono propri modelli riduzionisti.
Liberalismo e marxismo riducono le dinamiche storiche all'economia: quella che, prendendo in prestito gli strumenti cognitivi messi a disposizione da Marx[2], viene definita struttura:l'organizzazione della società gerarchizzata in funzione del modo di produzione. Ovvero «l’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale»
Il modo di produzione «condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita».
Con sovrastruttura si intendono «tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato» così come le ideologie, condizionanti la percezione del reale e con funzione anestetizzante rispetto la dissonanza cognitiva degli individui e dei gruppi sociali che le subiscono passivamente. L'ideologia introiettata diviene falsa coscienza.
Hayek non si è inventato niente, ha solo ricordato ciò che è sempre stato pacifico sia tra i liberali – esotericamente– sia tra i marxisti, essotericamente[3].
Ovvero, anche tra i liberali – con buona pace di Popper– è comunemente accettato il “materialismo storico” (che di base nulla ha a che fare con l'ateismo, a differenza di ciò che credono alcuni “tradizionalisti”: mentre ha molto a che fare con le istituzioni religiose).
Questa convergenza economicistica tanto liberale quanto marxiana illumina anche il motivo per cui la nostra Costituzione trova la sue norme fondanti a tutela dei diritti fondamentali proprio nella cosiddetta costituzione economica.
Il ciclo retroattivo struttura, sovrastruttura e coscienza inquadra ancora perfettamente, ai giorni nostri, il fenomeno mediatico.
Chi controlla la struttura economica, controlla i mezzi di informazione e «ciò per cui gli uomini debbano credere e per cui si debbano affannare»: controlla le ideologie dominanti, ovvero il sistema di valori e la coscienza della comunità sociale.
Poiché questo processo ha una retroazione - come era già chiaro ai socialisti di fine '800, e, “ingegnerizzato” nel mondo liberale da maestri della propaganda come Bernayse Lippmann – tanto la sovrastruttura politica, quanto la propaganda ideologica manipolatrice delle coscienze, potevano cambiare fino a rivoluzionare la struttura economica.
Bene, così è più chiaro perché la propagandaci incita a fare le “riforme”... strutturali.[4]
2 – Chi non comprende la Storia è destinata a riviverla: coscienza storica è coscienza politica.
«Fu soltanto durante la guerra, dopo che le conquiste nell’est europeo avevano reso possibili i campi di sterminio e messo a disposizione enormi masse umane, che la Germania fu in grado di instaurare un regime veramente totalitario […] Il regime totalitario è infatti possibile soltanto dove c’è sovrabbondanza di masse umane sacrificabili senza disastrosi effetti demografici» H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, pp. 430-431.
Si è già nominato in precedenza il totalitarismo rovesciato e verrà meglio focalizzato in seguito: a proposito Chris Hedges e Joe Sacco (in “Days of Destruction, Days of Revolt.”, 2012), sostengono che in questo regime:
a) ogni risorsa naturale ed ogni essere umano è mercificato e sfruttato all'estremo;
b) i cittadini sono espropriati della loro libertà e della loro partecipazione politica tramite l'eccesso di consumismo e di sensazionalismo.
Il sensazionalismo può essere a suo volta considerato “consumismo applicato alle informazioni” – informazioni come “beni di consumo di massa” – e il consumismo stesso come mera sovrastruttura volta al controllo della fase keynesiana dello sviluppo capitalistico. Ovvero, il consumismonon ha sostanzialmente nulla a che fare con la struttura economica “keynesiana” e con il consumo di massa identificato con la domanda aggregata.
La propaganda, la manipolazione dell'informazione, della cognizione e della coscienza diventano strumenti per creare – insieme a modi di produzione nuovi – un utopico (o distopico...) “uomo nuovo”.
Un “uomo” palingeneticamente trasformato tanto nella psicologia quanto, per vie eugenetiche, biologicamente: Simona Forti elabora questo pensiero di Hannah Arendt: « “la vera natura del totalitarismo” sembra infatti corrispondere a un'esplosiva combinazione di determinismo e costruttivismo[5]razionalistico. La volontaristica asserzione per cui tutto è possibile, anche trasformare "la condizione umana", si farebbe forte del richiamo alle irresistibili e inarrestabili leggi della Natura e della Storia, e si invererebbe nel tentativo di generare, per la prima volta, una nuova natura dell'uomo. Grazie al deserto prodotto dal terrore, da una parte, e alla ferrea logica deduttiva dell'ideologia, dall'altra, il totalitarismoriesce in ciò che per la metafisica era rimasto sempre e soltanto un sogno, un'ipostasi del pensiero: la realizzazione di un'unica Umanità, indistinguibile nei suoi molteplici appartenenti. Nei campi di concentramento gli esseri umani ridotti a esemplari seriali di una stessa specie animale perdono completamente quell'unicità e quella differenza che sono la conseguenza del fatto che "non l'Uomo, ma gli uomini abitano la terra"[6]»
Al di là della imprescindibile distinzione che la stessa Arendtfarà in seguito per l'esperienza stalinista che, da “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, distinguerà nettamente dal totalitarismo nazifascista per motivi eticirelegandola ad una forma classica di autoritarismo, la differenza da aggiungere – e magari correlare – sono le differenze di carattere strutturale ben rimarcate da Kalecki rispetto agli «ignoranti» che equiparano l'interventismo statalista del nazifascismo a quello sovietico.
Il “nazifascismo”, a differenza di ciò che viene comunemente condiviso dai “nostalgici” nonostante le strabordanti evidenze storiche, proponeva sì una certa propaganda anticapitalista (a cui però veniva sovrapposto l'antisemitismo) ma, appunto, goebbelsiana sovrastrutturaelevata sopra la struttura di un sistema capitalistico eticamente sfrenato che cercava di internazionalizzarsi finanziando cinicamente una folle politica imperialista.
D'altronde, l'adattabilità del liberismo economico in funzione del contesto geostoricoha dimostrato anche nella storia moderna di usare strumentalmente lo Stato come Leviatano funzionalmente alla libertà del capitale e al contestuale asservimento del lavoro: dal neoliberismo imposto con la violenza nel Cile di Pinochet, all'ordoliberismo che, insieme alla retorica dell'irenismo kantiano del federalismo, è stato progettato per servirsi di un autoritario Stato burocratizzato volto all'instaurazione di un mercato libero da finalità sociali.[7]
Dato il disgusto morale (o, forse, “estetico”) per le sovrastrutture ideologiche promosse dal nazifascismo, pare che a Friburgo l'élite abbia studiato una soluzione diversa e più correct; ma i fini sono strutturalmente i medesimi: la liberalizzazione dei capitali con ogni mezzo e l'asservimento dei lavoratori.
Le proposizioni nell'ordoliberismo sono usate come fossero complementari – ad es. “libero mercato” E“giustizia sociale”, “stabilità monetaria” E“piena occupazione”[8]– mentre, per motivi strutturali, qualsiasi sovrastrutturagiuridica non potrà obbligare gli organi di governo ad eseguire entrambi gli obiettivi, essendo per motivi “tecnici” mutuamente esclusivi. Poiché il capitale è naturalmente più forte del lavoro, la spoliticizzazione del governo delle comunità sociali permette di relativizzare l'ordine giuridico in funzione degli interessi del capitale del Paese dominante.
Questo spiega anche in breve il funzionamento dell'Unione Europea.
3 – Il totalitarismo liberale.
«Finché tutti gli uomini non sono resi egualmente superflui - il che, finora, è avvenuto solo nei campi di concentramento, l’ideale del dominio totale non è raggiunto», Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo”, Ed. di Comunità, Milano 1996, p. 626
Date queste premesse, si propone che il totalitarismo non è altro che la fase assoluta a cui tende il sistema capitalistico liberale – senza freni e limiti – nel momento in cui viene mercificato e monopolisticamente prezzato qualsiasi oggetto sensibile, da qualsiasi risorsa naturale, all'uomo, dalle norme morali, ai sentimenti.
Sheldon Wolin, il grande teorico politico americano recentemente scomparso, all'inizio degli anni 2000, analizzando la proiezione degli Stati Uniti sul mondo, propose la definizione di “totalitarismo rovesciato”, secondo le più accettate nozioni del concetto sviluppato inizialmente nell'Italia fascista da Giovanni Amendola, da Sturzo, da un giovanissimo Lelio Basso (che ha coniato il neologismo) e, in seguito, da Carl Schmitt durante la Germania nazista. Fino ai politologi dei giorni nostri.
Vediamo ad esempio C. Friedrich e Z. Brzeziński (1956) sul significato storico di totalitarismo, proponendo già alcuni spunti di riflessione tra parentesi quadre:
a) un'ideologia onnicomprensiva che promette la piena realizzazione dell'umanità; [tipo il “mondialismo”?]
b) un partito unico di massa, per lo più guidato da un capo, che controlla l'apparato statale e si sovrappone a esso; [tipo il “PUDE”, il “PUO” o il partito unico liberale con a capo il Grande Fratello, ovvero il Mercato?]
c) un monopolio quasi totale degli strumenti della comunicazione di massa;
d) un monopolio quasi totale degli strumenti di coercizione e della violenza armata;
e) un terrore poliziesco esercitato attraverso la costrizione sia fisica sia psicologica, che si abbatte arbitrariamente su intere classi e gruppi della popolazione;
f) una direzione centralizzata dell'economia. [Possiamo chiamare anche questo “monopolio” di un mercato massimamente concentrato che pianifica produzione e fissa i prezzi?].
b) un partito unico di massa, per lo più guidato da un capo, che controlla l'apparato statale e si sovrappone a esso; [tipo il “PUDE”, il “PUO” o il partito unico liberale con a capo il Grande Fratello, ovvero il Mercato?]
c) un monopolio quasi totale degli strumenti della comunicazione di massa;
d) un monopolio quasi totale degli strumenti di coercizione e della violenza armata;
e) un terrore poliziesco esercitato attraverso la costrizione sia fisica sia psicologica, che si abbatte arbitrariamente su intere classi e gruppi della popolazione;
f) una direzione centralizzata dell'economia. [Possiamo chiamare anche questo “monopolio” di un mercato massimamente concentrato che pianifica produzione e fissa i prezzi?].
Ovvero, secondo Simona Forti:
«Il totalitarismo è messo in moto e tenuto in vita da un terrore che, a differenza della normale violenza politica, non mira a ottenere semplicemente la sottomissione. Se appare “assurdo” e “delirante” è perché non sembra rispondere a nessun tipo di necessità razionale, ma alla volontà di rendere superflue intere categorie di persone che con la loro semplice presenza disturbano il compimento del progetto totalitario(v. Maffesoli, 1979; v. Ferry e Pisier-Kouchner, 1985). Tale terrore si dimostra pertanto inscindibile dall'ideologia. Vero e proprio principio politico del regime, il progetto ideologico si pone l'obbiettivo di una destrutturazione radicale del presente e di una sua ricostruzione finalizzata all'edificazione della nuova storia,della nuova società e del nuovo uomo.»
«Il totalitarismo è messo in moto e tenuto in vita da un terrore che, a differenza della normale violenza politica, non mira a ottenere semplicemente la sottomissione. Se appare “assurdo” e “delirante” è perché non sembra rispondere a nessun tipo di necessità razionale, ma alla volontà di rendere superflue intere categorie di persone che con la loro semplice presenza disturbano il compimento del progetto totalitario(v. Maffesoli, 1979; v. Ferry e Pisier-Kouchner, 1985). Tale terrore si dimostra pertanto inscindibile dall'ideologia. Vero e proprio principio politico del regime, il progetto ideologico si pone l'obbiettivo di una destrutturazione radicale del presente e di una sua ricostruzione finalizzata all'edificazione della nuova storia,della nuova società e del nuovo uomo.»
E la seguente proposizione potrebbe essere anche presa come didascalia all'ordoliberalismoe al diritto internazionale subordinato ai trattati liberoscambisti:
«[..]il regime totalitario fa convivere una preoccupazione formalistica per il rispetto del diritto positivo con una sostanziale negligenza della legge scritta».
Il totalitarismo è volto «all'annientamento dell'identità psicofisica individuale.»
E sull'identità, che sia di classe o nazionale (o di genere?), ci si ritornerà (v. nota 5).
4 – Democrazia controllata e totalitarismo rovesciato.
Le differenze che trova Sheldon Wolin in forma di attributi di segno inverso nell'attuale totalitarismo sono principalmente tre:
1 – Le grandi imprese sostituiscono lo Stato come principale attore economico e, tramite attività di lobbying, controllano il governo senza che ciò sia ritenuto corruzione;
2 – Non viene più ricercata una costante mobilitazione di massa, ma la popolazione viene tenuta in uno stato perenne di apatia politica;[9]
L'unico momento in cui vengono coinvolti i lavoratori è al momento delle elezioni, in cui il parossismo mediatico raggiunge il suo culmine e l'ordinamento formalmente democratico permette di far accettare “idraulicamente” il programma imposto dall'élite.
Avendo noi rudimenti economici tali da poter strutturalmente analizzare questo pensiero al di là del dato meramente politologico, sociologico e storico, possiamo agevolmente proporre che “il totalitarismo nazifascista” sia stato una contingenza storica fondata su un imperialismo basato sul nazionalismo statualista in quanto peculiare ad una struttura socioeconomicaespressione, a sua volta, di un capitale non ancora sufficientemente internazionalizzato.
La famosa reductio ad Hitlerum di Leo Straussè da considerarsi nefasta non semplicemente come fallacia logica introdotta per un uso “eristico” nella dialettica di chi non ha argomenti, ma per motivi esattamente oppostia quelli portati avanti dagli educatori “liberal”[10]che hanno incominciato ad ingrossare le file dei socialisti dopo la seconda guerra mondiale: infatti, oltre ad innumerevoli storici, attentissimi teorici politici come la Arendthanno giustamente osservato che stigmatizzare etica, pensieri ed idee riconducibili agli orrori della seconda guerra mondiale (in breve “ad Hitler”), poteva servire ad evitare che certe aberrazioni ideologiche fossero di nuovo funzionali ad un nuovo Olocausto.
Ma perché questa comune argomentazione abbia senso, è necessario affermare – come alcuni storici hanno fatto – che le responsabilità dell'Olocausto sia da attribuire nella sostanza ad Hitler e alla sovrastrutturaideologica del nazifascismo.
Usando noi l'analisi economica come metodo scientifico volto all'ermeneutica delle sovrastrutturegiuridiche, politiche ed ideologiche, possiamo quindi altrettanto stigmatizzare come fallace questa posizione: si attribuisce alla struttura storica una genesi sostanzialmentesovrastrutturale, che – come abbiamo postulato inizialmente – dovrebbe solo in termine “retroattivi” conformare le dinamiche storiche, ovvero in termini di retroazione della coscienza sociale sui modi di produzione da cuiè stata sostanzialmente creata.
Questa “retroazione” ha avuto come accidente Hitler e la sovrastrutturaideologica antisemita, producendo l'apparente incomprensibile orrore della Shoah; resta fondamentale a supporto la dimostrazione empirica a sostegno della metodologia analitica qui proposta: John Maynard Keynes ne “Le conseguenze economiche della pace” predice la sostanza delle imposizioni economiche del Trattato di Versailles.
Non poteva prevedere qualitativamente cosa sarebbe successo, essendo – appunto – ancora da verificarsi l'ascesa al potere di Hitler: ma l'analisi di profilo economicistico, nonostante errori e approssimazioni, permise di anticiparne con largo anticipo la sostanza tragica.
Ridurre tutti i fenomeni ad Hitler– al di là della fallacia logica e dell'uso propagandistico – significa non aver compreso le fondamenta strutturali della società capitalistica moderna.
Significa – paradossalmente rispetto alle preoccupazioni espresse da studiosi come la Arendt– non contribuire a produrre la coscienza necessaria affinché questo genere di orrori non si ripeta mai più.
Il capitalismo pare essere “funzionale” soltanto fino a che è funzionale al capitale: il concentrazionismopotrebbe essere la sua naturale evoluzione.
« “Arbeit macht frei” [...] “Il lavoro rende liberi”. […] Tradotta in linguaggio esplicito, [la scritta] avrebbe dovuto suonare press’a poco così: “il lavoro è umiliazione e sofferenza, e si addice non a noi, [Ubermenschen], [razza] di signori e di eroi, ma a voi [Untermenchen]. La libertà che vi aspetta è la morte”.
In realtà, e nonostante alcune contrarie apparenze, il disconoscimento, il vilipendio del valore morale del lavoro era ed è essenziale al mito fascista in tutte le sue forme. Sotto ogni militarismo, colonialismo, corporativismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di sfruttare il lavoro altrui, e ad un tempo di negargli ogni valore umano. [...]
Questa volontà appare già chiara nell’aspetto antioperaio che il fascismo italiano assume fin dai primi anni, e va affermandosi con sempre maggior precisione nella evoluzione del fascismo nella sua versione tedesca, fino alle massicce deportazioni in Germania di lavoratori provenienti da tutti i paesi occupati, ma trova il suo coronamento, ed insieme la sua riduzione all’assurdo, nell’universo concentrazionario.
Il carattere sperimentale dei Lager è oggi evidente, e suscita un intenso orrore retrospettivo. Oggi sappiamo che i Lager tedeschi, sia quelli di lavoro che quelli di sterminio, non erano, per così dire, un sottoprodotto di condizioni nazionali di emergenza (la rivoluzione nazista prima, la guerra poi); non erano una triste necessità transitoria, bensì i primi, precoci germogli dell’Ordine Nuovo. Nell’Ordine Nuovo, alcune razze umane [...] sarebbero state spente; altre [...] sarebbero state asservite e sottoposte ad un regime di degradazione biologica accuratamente studiato, onde trasformarne gli individui in buoni animali da fatica, analfabeti, privi di qualsiasi iniziativa, incapaci di ribellione e di critica.
I Lager furono dunque, in sostanza «impianti piloti» anticipazioni del futuro assegnato all’Europa nei piani nazisti. Alla luce di queste considerazioni, frasi come quella di Auschwitz, «Il lavoro rende liberi», o come quella di Buchenwald, «Ad ognuno il suo», assumono un significato preciso e sinistro. Sono, a loro volta, anticipazioni delle nuove tavole della Legge, dettata dal padrone allo schiavo, e valida solo per quest’ultimo.»[11]Primo Levi, in «Triangolo Rosso», Aned, novembre 1959.
ADDENDUM: le obiezioni storiche e logiche di Arturo, che trovate nei suoi primi due commenti, sono correttamente fondate sulla completa considerazione di fatti di indubbia rilevanza economica e sociale.
Certamente, e in questa sede lo abbiamo evidenziato, la seconda guerra mondiale si accompagna alle conseguenze della crisi del 1929, ma questa crisi può essere vista, a sua volta, - senza che occorra rimproverare a Keynes di (non) essere un "veggente", prima ancora che uno scienziato di straordinaria intelligenza-, come il sussulto dell'ostinazione ad aderire al paradigma marshalliano e al connesso (se non altro sul piano storico-politico) gold-standard.
Il fascismo e, come per molti versi evidenzia Bazaar, il nazismo, sono figli, partoriti nel"panico"(di perdere il "controllo": ciò che costituisce la negazione stessa del liberalismo), dell'equilibrio della sottoccupazione.
Un fenomeno, quest'ultimo, che, solo più tardi (rispetto alle"conseguenze economiche della pace"), Keynes avrà evidenziato: certo non poteva spettargli di poter predire le "conseguenze"politico-ideologiche concretamente innescate, per l'autoconservazione del paradigma (cioè Bruning e la sua follia, innescante una controfollia già contenuta, però, in quel paradigma), in conseguenza della incurabilità sociale e politica di tale ipotetico equilibrio.
Ma quell'autoritarismo è un fenomeno insito nelle premesse scientifico-politiche del liberismo, una volta che il capitalismo (l'oligarchia) si trovasse, inevitabilmente, a dover sottrarre ciò che aveva concesso, a causa della sua capacità automatica di produrre crisi economico-finanziarie.
Di fronte alla consequenzialità della crisi del '29 dall'assetto socio-politico neo-classico (che è la scienza del tardo '800, come ci conferma Ruini in Costituente), possiamo ritrovare nella pace di Versailles una continuità sintomatica, cioè un antecedente significativamente omogeneo (l'imperialismo free-trade produce la guerra e la guerra implica l'eliminazione possibilmente definitiva del concorrente, senza pensare a effetti geopolitici, che non rientrano nel calcolo del mercantilista imperiale).
Ma altrettanto questa omogeneità si ritrova negli sviluppi successivi alla crisi, in Germania come in ogni altro Stato "occidentale": usando il "metro" di Bazaar,vogliamo parlare di una dialettica interna al paradigma, geograficamente differenziata quanto alla sovrastruttura?
Cioè, nella "reazione" alla crisi stessa, i paesi non di (lunga) tradizione imperialista seguono una via di socializzazione che è evidentemente strumentale e contingente; vale a dire, funzionale a ripristinare al più presto, su basi geopolitiche più estese, i principi dell'equilibrio neo-classico (lo stesso potremmo dire dei paesi imperialistico-coloniali tradizionali, ma in forme che matureranno molto più tardi: e solo dopo che la vittoria militare avrà consentito di prendere tempo rispetto al problema "principale" che, comunque, poneva il socialismo reale sovietico).
In buona sostanza, se sono riuscito a spiegarmi, il problema non è tanto individuare fatti storici eclatanti che possano costituire, sul piano del nesso causale, i fattori strutturali decisivi a spiegare il totalitarismo e la seconda guerra mondiale (e la loro comune genesi della crisi del '29), quanto individuare l'elemento strutturale che ne costituisce il tratto comune, complessivamente intesi: cioè dall'imperialismo colonialista, al gold standard, alla prima guerra mondiale, alla pace di Versailles, al fascismo, alla crisi del '29, alle strategie strumentali che variamente ne conseguirono, fino alla seconda guerra mondiale.
Da questo punto di vista, mi pare eloquente questa sintesi di George Bernard Shaw:
![]()
I Lager furono dunque, in sostanza «impianti piloti» anticipazioni del futuro assegnato all’Europa nei piani nazisti. Alla luce di queste considerazioni, frasi come quella di Auschwitz, «Il lavoro rende liberi», o come quella di Buchenwald, «Ad ognuno il suo», assumono un significato preciso e sinistro. Sono, a loro volta, anticipazioni delle nuove tavole della Legge, dettata dal padrone allo schiavo, e valida solo per quest’ultimo.»[11]Primo Levi, in «Triangolo Rosso», Aned, novembre 1959.
ADDENDUM: le obiezioni storiche e logiche di Arturo, che trovate nei suoi primi due commenti, sono correttamente fondate sulla completa considerazione di fatti di indubbia rilevanza economica e sociale.
Certamente, e in questa sede lo abbiamo evidenziato, la seconda guerra mondiale si accompagna alle conseguenze della crisi del 1929, ma questa crisi può essere vista, a sua volta, - senza che occorra rimproverare a Keynes di (non) essere un "veggente", prima ancora che uno scienziato di straordinaria intelligenza-, come il sussulto dell'ostinazione ad aderire al paradigma marshalliano e al connesso (se non altro sul piano storico-politico) gold-standard.
Il fascismo e, come per molti versi evidenzia Bazaar, il nazismo, sono figli, partoriti nel"panico"(di perdere il "controllo": ciò che costituisce la negazione stessa del liberalismo), dell'equilibrio della sottoccupazione.
Un fenomeno, quest'ultimo, che, solo più tardi (rispetto alle"conseguenze economiche della pace"), Keynes avrà evidenziato: certo non poteva spettargli di poter predire le "conseguenze"politico-ideologiche concretamente innescate, per l'autoconservazione del paradigma (cioè Bruning e la sua follia, innescante una controfollia già contenuta, però, in quel paradigma), in conseguenza della incurabilità sociale e politica di tale ipotetico equilibrio.
Ma quell'autoritarismo è un fenomeno insito nelle premesse scientifico-politiche del liberismo, una volta che il capitalismo (l'oligarchia) si trovasse, inevitabilmente, a dover sottrarre ciò che aveva concesso, a causa della sua capacità automatica di produrre crisi economico-finanziarie.
Di fronte alla consequenzialità della crisi del '29 dall'assetto socio-politico neo-classico (che è la scienza del tardo '800, come ci conferma Ruini in Costituente), possiamo ritrovare nella pace di Versailles una continuità sintomatica, cioè un antecedente significativamente omogeneo (l'imperialismo free-trade produce la guerra e la guerra implica l'eliminazione possibilmente definitiva del concorrente, senza pensare a effetti geopolitici, che non rientrano nel calcolo del mercantilista imperiale).
Ma altrettanto questa omogeneità si ritrova negli sviluppi successivi alla crisi, in Germania come in ogni altro Stato "occidentale": usando il "metro" di Bazaar,vogliamo parlare di una dialettica interna al paradigma, geograficamente differenziata quanto alla sovrastruttura?
Cioè, nella "reazione" alla crisi stessa, i paesi non di (lunga) tradizione imperialista seguono una via di socializzazione che è evidentemente strumentale e contingente; vale a dire, funzionale a ripristinare al più presto, su basi geopolitiche più estese, i principi dell'equilibrio neo-classico (lo stesso potremmo dire dei paesi imperialistico-coloniali tradizionali, ma in forme che matureranno molto più tardi: e solo dopo che la vittoria militare avrà consentito di prendere tempo rispetto al problema "principale" che, comunque, poneva il socialismo reale sovietico).
In buona sostanza, se sono riuscito a spiegarmi, il problema non è tanto individuare fatti storici eclatanti che possano costituire, sul piano del nesso causale, i fattori strutturali decisivi a spiegare il totalitarismo e la seconda guerra mondiale (e la loro comune genesi della crisi del '29), quanto individuare l'elemento strutturale che ne costituisce il tratto comune, complessivamente intesi: cioè dall'imperialismo colonialista, al gold standard, alla prima guerra mondiale, alla pace di Versailles, al fascismo, alla crisi del '29, alle strategie strumentali che variamente ne conseguirono, fino alla seconda guerra mondiale.
Da questo punto di vista, mi pare eloquente questa sintesi di George Bernard Shaw:

[1] [1]Un esempio per “ingegneri”: i decisori delle classi dominati che prendono le decisioni politiche si trovano a far delle “derivate” per comprendere come “spingere la Storia”, chi è escluso dal processo decisionale e vede la Storia “dall'esterno” (ovvero “la subisce”), si ritrova a far degli “integrali”...
[2] “Per la critica dell’economia politica”, K. Marx, 1859
[3] Mentre nel marxismo viene esplicitato come l'economia sia da ritenere minimo comun denominatore di tutti i fenomeni sociali, nel liberalismo questo viene lasciato implicito.
[4] Lo si diceva che “l'unico ad aver letto e capito Marx sono stati i banchieri”....
[5] TINA: “There is no alternative”, non esiste alternativa: un determinismo storico, attivamente nichilistain quanto “costruttivista”, alla base delle passate esperienza di totalitarismo.
[6] Si potrebbero fare una moltitudine di considerazioni, in particolare sul virgolettato finale il cui concetto ha già ispirato alcune sintetiche riflessioni: l'ingiustizia sociale porta naturalmente al relativismo morale.
Invertendo la proposizione arendtiana, si può parlare di Uomo se e solo se tutte le persone sono eguali nella sostanza. Ovvero non esiste una pluralità di uomini formalmente differenti se la loro esistenza non ha nella sostanza pari dignità.
Un altro spunto di riflessione sul principio per cui “l'uguaglianza formale” distrugge l'identità, cristallizza il funzionalismo sociale – e l'immobilità tra classi che questo comporta – è che rende moralmente accettabili le politiche di controllo sociale di carattere malthusiano.
Si può quindi proporre che il principio esposto per cui “insistere sull'uguaglianza formale, produce maggiore disuguaglianza sostanziale”, sarebbe stato rinvenibile nell'art.3 Cost. nel momento in cui non fosse stato enunciato il secondo comma: ovvero si può supporre che si sarebbe progressivamente sviluppata quella logica antidemocratica su cui sono stati fondati gli ordini liberali come quello USA e che ora vengono presi a modello per l'unificazione europea.
[7] Giusto un promemoria: il liberista thatcheriano, hayekiano, friedmaniano, einaudiano, ecc., che sproloquia di “concorrenza perfetta” e “Stato minimo”, si scorda che il liberismo(o meglio i suoi corollari, come le privatizzazioni...) è il passaggio ultimo dopo che sono stati imposti i trattati di libero scambio. (Anche la Germania nazista stava costruendo la sua area di free trade con moneta unica, il Lebensraum). Quindi nei processi di liberalizzazione esiste un'asincroniatra libero scambio e laissez-faire. Il paradiso dei liberali, però, si tradurrà a livello globale, con un centrocomunquefortemente burocratizzato e una periferia con, effettivamente, uno “Stato minimo”, tipo lo Zimbabwe (che ovviamente “non ha fatto le riforme” perché non c'è nulla“da riformare”...).
Lo Stato può essere storicamente visto come semplice albero di trasmissione del potere: dove serve, quando serve... in funzione delle esigenze di chi lo controlla.
[8] Si insiste sull'uguaglianza formaletra capitale e lavoro nonostante i fattori della produzione siano sostanzialmentediversi.
[9] Cfr. con “The crisis of democracy”.
[10] Si potrebbero fare riflessioni interessanti sull'evoluzione del trotzkijsmo o su come la Scuoladi Francoforte e la tradizionale critica socialista si siano lentamente spostate dalla critica alla “struttura” alla critica delle “sovrastrutture”...
[11] Grazie a Winston Smith per la segnalazione sulle riflessioni del nostro Primo Levi.