
1. L'argomento è tra i più sdrucciolevoli e ingannevoli. Se non si ha ben saldo il concetto di democrazia e di mercato del lavoro come oggetto della tutela dello Stato per evitarne la mercificazione, se non si comprende più la lezione keynesiana, ci si cade con tutte le scarpe, come si suol dire.
Sentite questo ragionamento, ("Il web sta uccidendo la classe media"), che risulta della massima efficacia per distogliere l'attenzione dal problema del conflitto sociale, determinato dalla istituzionalizzazione del controllo neo-liberista o "offertista" sugli Stati ex-sovrani:
"...Negozi che muoiono, asfaltati da Amazon e le sue sorelle. Lavoratori che assistono all'inabissamento dei loro salari, prima parametrati ai cinesi, ora al software. Conclusione (sofferta e provvisoria): «Per quanto mi faccia male dirlo, potremo anche sopravvivere distruggendo solo la classe media composta da musicisti, giornalisti e fotografi. Ciò che non è sostenibile è la distruzione di quella che lavora nei trasporti, nella manifattura, nel settore energetico, nell'educazione e nella sanità, oltre che nel terziario. E una tale distruzione accadrà, a meno che le idee dominanti sull'economia dell'informazione non facciano dei passi avanti». Fine dell'innocenza. La reazione immediata a questo atto d'accusa è una scrollata di spalle: è il progresso, bellezza! Nella prima rivoluzione industriale i telai hanno fatto fuori gli operai tessili, oggi i computer rimpiazzano professionisti d'ogni ordine e grado. Ma ci sono differenze sostanziali.
Quando si è passati dalla carrozza all'auto c'era sempre un uomo al volante, mentre l'imminente driverless car farà a meno anche di lui. Prima i robot alleviavano il lavoro pesante dei colletti blu, ora l'algoritmo rende superfluo quello leggero e creativo dei colletti bianchi. E poi, fino a una certa data, più efficienza (dovuta largamente all'automazione) significava un'economia più florida. Magari uno perdeva il posto in manifattura e ne trovava un altro nei servizi. Neppure quelli sono più un rifugio. Un dato da mandare a memoria: dal dopoguerra al 2000 produttività e occupazione crescono di pari passo. Dopo, la seconda curva si affloscia perché le macchine corrono troppo in fretta, hanno bisogno di meno uomini e questi non ce la fanno ad acquisire le competenze per star loro dietro.
È il Grande Disaccoppiamento di cui parlano Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, due professori del Mit, in The Second Machine Age . Il Pil complessivo cresce, il salario medio no. Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, docenti a Oxford, hanno calcolato che il 47 per cento dei mestieri attuali negli Stati Uniti è a rischio estinzione per l'informatizzazione. Lo strappo è violento e rapido. Lanier è tra i primi a infrangere il tabù per cui internet e benessere economico".
2. Dovrebbe essere evidente che un ragionamento del genere riposa su alcune premesse istituzionalizzate che, una volta verificate, lo smentiscono radicalmente e ne rivelano l'implicita premessa, che è poi il paradigma che si vorrebbe affermare, con l'aria di volerlo combattere.
Queste premesse sono le seguenti:
a) che il settore manifatturiero sia illimitatamente robotizzabile, in base ad uno sviluppo di crescenti investimenti innovativi, sempre più convenienti, che farebbero salire la produttività a scapito dell'occupazione;
b) che i settori "energetico", dei trasporti, dell'educazione e della sanità, possano soltanto essere settori di mercato privato e, in aggiunta, integralmente erogabili, nella decisione lasciata a operatori privati, mediante la "tecnologia dell'informazione"; cioè essenzialmente trasformando la prestazione umana di utilità, in cui consistono, in informazioni trasmissibili mediante la rete. Parliamo, per capirci, della diagnosi medica e della terapia ovvero dell'assistenza ospedaliera, della trasmissione progressiva di conoscenza secondo un percorso di cui occorre scegliere i contenuti e i gradi di crescente complessità, dello spostamento fisico delle persone che può rispondere a bisogni lavorativi essenziali o invece solo di impiego leisure del tempo libero;
c) in sintesi, che l'effettuazione degli investimenti sia indipendente dalla domanda aggregata effettiva; e, quindi, dal livello diffuso del reddito della comunità sociale di cui si ristruttura, secondo le nuove "inarrestabili" tecnologie, produttive di questi asseritamente "identici" prodotti o servizi, il mercato del lavoro;
d) che, dunque, in modo sostanzialmente lineare, l'applicazione del capitale tecnologico sia sempre cresciuta;
d) infine, che questa crescita "lineare" si sia verificata sempre e comunque per effetto della spontanea evoluzione della produzione privata, nei vari settori di mercato.
3. Sul punto a), proprio in relazione alla realtà economica USA, ci giunge invece questa smentita: dopo il 2000 gli investimenti in capitale produttivo non aumentano, ma anzi, essenzialmente, crescono meno del PIL:

Quella che aumenta, invece, è proprio l'occupazione nel settore dei servizi e a scapito di quella nel settore manifatturiero, la cui "decimazione" non pare poter essere legata, appunto, a presunti massicci investimenti innovativi, che non risultano essere effettuati (come vedremo meglio poi parlando del settore dei servizi a "salario minimo"):

Tanto più che, negli USA, a partire dagli anni '50 (!), l'andamento decrescente dell'occupazione manifatturiera assume un carattere alquanto costante che smentisce una sua correlazione, in termini di significativa contrazione, con le innovazioni tecnologiche 2.0:

4. E infatti, questo è l'andamento del contributo del manifatturiero USA al PIL, a partire dagli anni '60, che descrive una tendenza che precede di gran lunga, in modo del tutto autonomo, la information technology:

"Curiosamente", l'innovazione tecnologica più recente, che pure non dovrebbe essere mancata, nel settore dei macchinari agricoli e della chimica nonché, degli stessi OGM, non ha determinato, proprio negli ultimi decenni del secolo scorso, un'equivalente riduzione dell'occupazione nel settore agricolo (che infatti si assesta, arrestando il suo precedente declino, proprio nel periodo di inizio della "nuova" rivoluzione tecnologica):

5. Ma quel che è più interessante, per verificare la validità della teoria supply side che ci offre, appunto, lo scenario della robotizzazione-informatizzazione del mercato del lavoro, è il riscontro delle prospettive occupazionali più recenti del mercato del lavoro USA, conseguente alla crisi del 2008.
Lo scenario che ne emerge racconta tutt'altro, rispetto alla teoria della robotizzazione:

Costruzioni, manifatturiero di beni non durevoli (quelli che risentono appunto maggiormente della concorrenza dei paesi a più basso costo della manodopera), e impiego pubblico, incluso quello "educativo", sono i settori più colpiti dalla crisi: e non pare certo perché si sia inserita la information-tecnology, dato che si tratta di contrazioni verificatesi più intensamente dopo la recessione, e obiettivamente accoppiate al calo dei redditi da lavoro che si accompagna alla espansione dell'occupazione nel settore dei servizi più "elementari"(addetti al settore del cibo e della distribuzione a bassi prezzi).
Cioè al perseguimento di un aumento della produttività che è quanto di più arcaico e tradizionale nello schema della teoria del valore neo-classica (pp. 5-6).
Abbiamo infatti l'espansione dell'occupazione nel settore meno tecnologico e meno "informatizzato" possibile, in cui sono state notoriamente riassorbite categorie di lavoratori che, in precedenza, avevano dignità di "impiegati", presso il governo o presso imprese...manifatturiere (che però hanno chiuso o delocalizzato: non si sono certo robotizzate).
6. Il problema secondo indicazioni più scientificamente fondate, sta nel mercato del lavoro incentrato sulla deflazione salariale, determinata da delocalizzazioni e precarizzazione, cioè dalla liberalizzazione dei capitali e dalla finanziarizzazione dei consumi (che devono trainare il PIL ma fruttare come "debito delle famiglie").
Il sistema si complementa con la valvola di sicurezza del salario minimo per (tentare di) riassorbire la domanda perduta, con la "strisciante" (sempre meno) de-scolarizzazione di massa, e la prospettiva di insolvenza finanziaria legata all'equilibrio della sotto-occupazione, ma con uno spiazzamento degli investimenti che è l'esatto opposto di quello assunto dalla teoria della robotizzazione e dell'innovazione 2.0.
Quando il mercato del lavoro, totalmente precarizzato dalla minor resistenza "politica" determinata dalla destrutturazione del manifatturiero - che abbiamo visto non avere molto a che fare con l'irrompere della web economy, quanto con l'adozione del sistema del capitale mobile e internazionalizzato- si affida al salario minimo, infatti:
"Significa che cresceranno proprio quei lavori (nei servizi destinati a consumatori di medio-basso reddito) che sono incentivati dal tipo di domanda aggiuntiva che genera tale aumento salariale "d'autorità"; una domanda orientata ai consumi sui servizi a bassa intensità di capitale, con un evidente spiazzamento degli investimenti, sempre più legati ad un settore che non risolve il problema della competitività e dei conti con l'estero.. Lo si può vedere qui:

7. Insomma, il mito della varie "intelligenze artificiali" che rendono superfluo l'uomo, non regge neppure al riscontro dei fatti addotti per giustificarlo, mentre le altre condizioni, sopra viste, che esso presuppone, non sono prese seriamente in considerazione neppure dai più seri e qualificati economisti USA, come avevamo visto qui:
In realtà, il fenomeno della perdita di posti di lavoro non più ricreabili, nel nuovo presunto trend di ripresa economica, investirebbe, per la verità da decenni, anzitutto il settore manifatturiero, (prima ancora dei "servizi"), laddove cioè la robotica ha spiegato i suoi primari effetti.
Ma le ragioni di questa perdita di posti di lavoro, se correttamente connesse a delocalizzazione e deflazione salariale, come evidenziano Stiglitz e Krugman, e come in realtà sottointende laYellen, (quindi, in definitiva alla liberalizzazione del mercato dei capitali), sono rinvenibili in fattori che incidono essenzialmente e gravemente sulla domanda; cioè la disoccupazione strutturale è dovuta a quell'output-gap che discende dall'idea che la diffusione della disoccupazione sia un "sano" elemento che rende elastico verso il basso, e quindi "virtuoso", il mercato del lavoro e che a ciò debba essere strettamente funzionale la limitazione dell'intervento-deficit pubblico.
Su questa idea rigidamente neo-classica, in ultima analisi, la versione dei fatti qui criticata, insiste come implicita necessità: dallo small business diffuso in dissoluzione, alla stessa scarsa (se non sprezzante) considerazione delle utilità (merit goods) che solo il settore pubblico può fornire, tutta la ideologia economica neo-classica congiura per una visione del mercato del lavoro e della domanda aggregata esclusivamente asservita al criterio della competitività realizzabile solo dai privati, accompagnata alla negazione di ogni valore dei beni e dell'interesse collettivi: che importa se gli USA, pieni di intelligenza artificiale, vanno in tilt ad ogni forte nevicata, per non parlare dei vari tornados?
Vogliono forse gli "zotici", per di più inadeguati professionalmente alle nuove frontiere della tecnologia, essere tenuti sempre al riparo dalla "durezza del vivere", anche nelle sue più, asseritamente naturali manifestazioni?
Stiglitz e la Yellen, più che guardare all'economia del tempo libero e agli standards normativi impositivi di forme di protezione ambientale (da riversare poi mediante traslazione sui prezzi), sanno perfettamente quale sia il valore da attribuire al ritardo di adeguamento delle infrastrutture pubbliche ed all'indebolimento delle "funzioni pubbliche" di presidio minimo del territorio, cose che nei capitalismi avanzati - invariabilmente neo-liberisti, se non tea-party- o sono intese come occasione di vantaggio del business privato, con costi crescenti per i cittadini-utenti, o semplicemente non sono più prese in considerazione come oggetto di politiche di spesa pubblica.
Ma le ragioni di questa perdita di posti di lavoro, se correttamente connesse a delocalizzazione e deflazione salariale, come evidenziano Stiglitz e Krugman, e come in realtà sottointende laYellen, (quindi, in definitiva alla liberalizzazione del mercato dei capitali), sono rinvenibili in fattori che incidono essenzialmente e gravemente sulla domanda; cioè la disoccupazione strutturale è dovuta a quell'output-gap che discende dall'idea che la diffusione della disoccupazione sia un "sano" elemento che rende elastico verso il basso, e quindi "virtuoso", il mercato del lavoro e che a ciò debba essere strettamente funzionale la limitazione dell'intervento-deficit pubblico.
Su questa idea rigidamente neo-classica, in ultima analisi, la versione dei fatti qui criticata, insiste come implicita necessità: dallo small business diffuso in dissoluzione, alla stessa scarsa (se non sprezzante) considerazione delle utilità (merit goods) che solo il settore pubblico può fornire, tutta la ideologia economica neo-classica congiura per una visione del mercato del lavoro e della domanda aggregata esclusivamente asservita al criterio della competitività realizzabile solo dai privati, accompagnata alla negazione di ogni valore dei beni e dell'interesse collettivi: che importa se gli USA, pieni di intelligenza artificiale, vanno in tilt ad ogni forte nevicata, per non parlare dei vari tornados?
Vogliono forse gli "zotici", per di più inadeguati professionalmente alle nuove frontiere della tecnologia, essere tenuti sempre al riparo dalla "durezza del vivere", anche nelle sue più, asseritamente naturali manifestazioni?
Stiglitz e la Yellen, più che guardare all'economia del tempo libero e agli standards normativi impositivi di forme di protezione ambientale (da riversare poi mediante traslazione sui prezzi), sanno perfettamente quale sia il valore da attribuire al ritardo di adeguamento delle infrastrutture pubbliche ed all'indebolimento delle "funzioni pubbliche" di presidio minimo del territorio, cose che nei capitalismi avanzati - invariabilmente neo-liberisti, se non tea-party- o sono intese come occasione di vantaggio del business privato, con costi crescenti per i cittadini-utenti, o semplicemente non sono più prese in considerazione come oggetto di politiche di spesa pubblica.
8. E ci piace riproporre, da quello stesso post, la sottolineatura di Cesare Pozzi, circa la prevalenza del fattore istituzionale, cioè delle decisioni politiche di chi "controlla" lo Stato, rispetto all'aspetto occupazionale:
D. Si sostiene che l'attuale disoccupazione diffusa, nei paesi a capitalismo "maturo", è essenzialmente dovuta agli effetti dell'applicazione delle nuove tecnologie nei modelli di impresa evolutisi negli ultimi anni: è una valutazione realistica o fuorviante?
R. La domanda sottende uno dei principali "bachi" della teoria ortodossa.
L'economia di mercato che la maggior parte dell'Umanità ha in cuore - perché è liberale, quindi non vincola il destino terreno dell'uomo alla sua dotazione iniziale di diritti, e promette un benessere diffuso su una quota mai raggiunta della popolazione di ogni Comunità - si basa su una particolare declinazione del capitale che ne enfatizza la dimensione artificiale e perciò può essere detta "capitalistica". Su questa falsariga se l'applicazione di nuove tecnologie riduce la necessità di occupare in alcuni mercati, apre lo spazio per nuovi mercati e per l'aumento del tempo libero.
Il problema della disoccupazione si crea a causa degli assetti istituzionali, quando sono il risultato di teorie normative che discendono da teorie economiche non coerenti con i propri presupposti (se si spacciano per liberali) e quindi male regolano tutti gli aspetti critici che si vengono a creare, comunità per comunità, lungo il tempo storico.
D. Se esiste una correlazione stimabile, rispetto all'intero mercato del lavoro, tra la diminuzione degli occupati e l'applicazione delle innovazioni tecnologiche, questo effetto non dovrebbe rallentare in un periodo in cui una vasta e prolungata recessione, dovuta a cause iniziali essenzialmente finanziarie e poi a politiche fiscali restrittive, determina naturalmente una caduta degli investimenti produttivi (lamentata in tutte le aree, dall'UE al Giappone)?
Il fatto che non ci sia questo rallentamento è il segnale che alla nostra crisi strutturale si sta rispondendo in questa fase generando la maggior pressione possibile sul lavoro in modo da consolidare l'idea che sia tornato una merce. Quando la situazione di rassegnazione si sarà affermata si cercherà di arrivare a un assetto di occupazione diffusa a basso reddito. E' significativo in questo senso l'enfasi che si è posta sui dati italiani relativi alla distribuzione del reddito (che sono tra i meno diseguali nel Mondo occidentale) rispetto al silenzio sul fatto che 85 persone possiedono quanto la metà più povera dell'umanità (che mi sembra in linea con quanto dico).
R. La domanda sottende uno dei principali "bachi" della teoria ortodossa.
L'economia di mercato che la maggior parte dell'Umanità ha in cuore - perché è liberale, quindi non vincola il destino terreno dell'uomo alla sua dotazione iniziale di diritti, e promette un benessere diffuso su una quota mai raggiunta della popolazione di ogni Comunità - si basa su una particolare declinazione del capitale che ne enfatizza la dimensione artificiale e perciò può essere detta "capitalistica". Su questa falsariga se l'applicazione di nuove tecnologie riduce la necessità di occupare in alcuni mercati, apre lo spazio per nuovi mercati e per l'aumento del tempo libero.
Il problema della disoccupazione si crea a causa degli assetti istituzionali, quando sono il risultato di teorie normative che discendono da teorie economiche non coerenti con i propri presupposti (se si spacciano per liberali) e quindi male regolano tutti gli aspetti critici che si vengono a creare, comunità per comunità, lungo il tempo storico.
D. Se esiste una correlazione stimabile, rispetto all'intero mercato del lavoro, tra la diminuzione degli occupati e l'applicazione delle innovazioni tecnologiche, questo effetto non dovrebbe rallentare in un periodo in cui una vasta e prolungata recessione, dovuta a cause iniziali essenzialmente finanziarie e poi a politiche fiscali restrittive, determina naturalmente una caduta degli investimenti produttivi (lamentata in tutte le aree, dall'UE al Giappone)?
Il fatto che non ci sia questo rallentamento è il segnale che alla nostra crisi strutturale si sta rispondendo in questa fase generando la maggior pressione possibile sul lavoro in modo da consolidare l'idea che sia tornato una merce. Quando la situazione di rassegnazione si sarà affermata si cercherà di arrivare a un assetto di occupazione diffusa a basso reddito. E' significativo in questo senso l'enfasi che si è posta sui dati italiani relativi alla distribuzione del reddito (che sono tra i meno diseguali nel Mondo occidentale) rispetto al silenzio sul fatto che 85 persone possiedono quanto la metà più povera dell'umanità (che mi sembra in linea con quanto dico).
9. Che è poi, in termini più generali, quello che riportava il post Flags of Our Fathers- 3, nel sottoriportato passaggio del giurista americano John W. Whitehead sull'Huffington post (edizione USA).
Se il territorio, e la stessa dimensione comunitaria della società che su di esso vive, con la sua necessità "indivisibile" di infrastrutture legate al benessere essenziale dei cittadini, viene abbandonato dalla mano pubblica e governato da quella "invisibile", se cioè si privatizzano, nella loro parte preponderante, sanità, istruzione, utilities e trasporti, non viene solo a mancare il benessere, ma la disoccupazione e la sottoccupazione divengono un fattore strutturale di controllo sociale, che non ha mai avuto bisogno delle presunte rivoluzioni tecnologiche per affermarsi:
“[...] Oggi viviamo in un sistema a due livelli di giustizia e di governance. Ci sono due tipi di leggi: uno per il governo e le imprese, e un altro per voi e per me (…) le leggi che si applicano alla maggior parte della popolazione consentono al governo di fare cose come controllarvi il retto durante una sosta lungo la strada, o ascoltare le vostre telefonate e leggere tutti i messaggi e-mail, o incarcerarvi a tempo indeterminato in una cella di detenzione militare (…) poi ci sono le leggi costruite per l'élite, che permettono ai banchieri che fanno cadere l'economia di camminare liberi [...]” , un pensiero al quale è accomunato anche il giurista di Harvard Larry Lessig, quando scrive che “viviamo in un mondo in cui gli architetti della crisi finanziaria cenano regolarmente alla Casa Bianca".