1. La "lotta" di cui si devono evitare i segni, stra-ovviamente, è quella con L€uropa delle macroregioni in cui dissolvere gli Stati nazionali.
QED in diretta sincronica ital-€uropeista:
I referendum secessionisti ( ripeto, secessionisti) e la possibilità di superare gli Stati nazionali https://t.co/ZxKtt0eHuT— Pat (@PgGrilli) 21 settembre 2017
Chiaro, no? pic.twitter.com/otTN6P0LgD
2. Sul punto macroregioni, loro essenza, e DICHIARATE finalità, da rileggere questi due post:
A) L'ATTACCO FINAL€ ALLA SOVRANITA' DEMOCRATICA: LE MACROREGIONI (zitti, zitti, nella "notte" delle Costituzioni democratiche...la "grande società" avanza)
B) MACROREGIONI E "BEST PRACTICE" (irish-way) ALL'INTERNO DELL'AREA EURO: MA SIETE SICURI?
Sintesi (dei due lunghi post, corredati dalla illustrazione della enorme mole delle fonti dirette L€uropee, già emanate "a vostra insaputa"):
"...le macroregioni trovano il loro senso, - come risulta evidente dalla procedura di proposta e approvazione, rigidamente controllata dalle istituzioni UE all'interno (sicuramente per quanto ci riguarda) della moneta unica-, nel divenire un sistema di attuazione accelerato del modello economico dell'euro.
Esse, dunque, implicano l'accettazione rafforzata, e senza riserve, dei trattati proprio nella parte in cui essi prevedono l'asimmetria antisolidale che caratterizza la moneta unica stessa.
In questo quadro strategico (intrisencamente tecnocratico), che tende ulteriormente a forzare l'applicazione dei trattati, aggirando le resistenze di Stati nazionali e relativi parlamenti, le macroregioni servono essenzialmente a evitare di dover dare soluzione ai problemi di mutamento dell'assetto europeo.
Ed infatti, oltrepassano a livello ideologico-culturale, fondato su una neo-etnia condivisa e "contro" le identità nazionali di provenienza, i problemi di asimmetria dell'eurozona.
Insomma, implicano un'accettazione idealistica, tanto labile quanto facile da suscitare, in nome della dissipazione delle nazionalità, identificate, senza alcuna coerenza con la realtà delle vicende dell'eurozona, con gli Stati "oppressori" e "tassatori".
Esse possono quindi contare su un (ben noto) serbatoio propagandistico internazionalista e, al tempo stesso localista, tipico dell'attacco dispersivo delle sovranità democratiche portatrici del welfare.
Ottenuta l'adesione fideistica delle comunità interessate all'accordo autorizzato da Bruxelles (e già la contraddizione dovrebbe essere un campanello d'allarme), le macroregioni creano, a livello sub-statale (e simultaneamente internazionalizzato) una coesione competitiva, inevitabilmente diretta a prevalere, cioè ad affermare la propria supremazia economico-commerciale, sulle aree e regioni non incluse nel patto, in perfetta aderenza alla logica mercantilista e liberoscambista che inevitabilmente caratterizza lo scopo essenziale di rimodellamento sociale della moneta unica.
Ed infatti, oltrepassano a livello ideologico-culturale, fondato su una neo-etnia condivisa e "contro" le identità nazionali di provenienza, i problemi di asimmetria dell'eurozona.
Insomma, implicano un'accettazione idealistica, tanto labile quanto facile da suscitare, in nome della dissipazione delle nazionalità, identificate, senza alcuna coerenza con la realtà delle vicende dell'eurozona, con gli Stati "oppressori" e "tassatori".
Esse possono quindi contare su un (ben noto) serbatoio propagandistico internazionalista e, al tempo stesso localista, tipico dell'attacco dispersivo delle sovranità democratiche portatrici del welfare.
Ottenuta l'adesione fideistica delle comunità interessate all'accordo autorizzato da Bruxelles (e già la contraddizione dovrebbe essere un campanello d'allarme), le macroregioni creano, a livello sub-statale (e simultaneamente internazionalizzato) una coesione competitiva, inevitabilmente diretta a prevalere, cioè ad affermare la propria supremazia economico-commerciale, sulle aree e regioni non incluse nel patto, in perfetta aderenza alla logica mercantilista e liberoscambista che inevitabilmente caratterizza lo scopo essenziale di rimodellamento sociale della moneta unica.
...
Ma l'innesco della suddetta suggestione "ideale" non tiene conto degli effetti concreti che subiranno le relative comunità, proprio perchè il sistema, diretto e monitorato da Bruxelles, non può differire da quello attualmente vigente, di cui, invece, costituisce un'evoluzione accelerativa ulteriore.
Ma l'innesco della suddetta suggestione "ideale" non tiene conto degli effetti concreti che subiranno le relative comunità, proprio perchè il sistema, diretto e monitorato da Bruxelles, non può differire da quello attualmente vigente, di cui, invece, costituisce un'evoluzione accelerativa ulteriore.
La grande contropartita che viene offerta è essenzialmente psicologica, almeno per le masse "elettorali": la direzione delle operazioni è sì affidata a Bruxelles ma depotenziando radicalmente ogni voce in capitolo dello Stato nazionale. La prospettabilità di un tale vantaggio è vera quanto è vera la vulgata che gli Stati nazionali siano di ostacolo alla efficienza dei mercati e che il libero gioco di questi sia la panacea di tutti i mali. Che è poi un altro modo di considerare vera la spiegazione per cui il problema italiano sarebbero il debito pubblico, la casta, la corruzione e la spesa pubblica improduttiva.
Ciò presuppone che all'esistenza dello Stato, ed alla sua residua (molto poca) sovranità, sia attribuibile la responsabilità della crisi economica e delle difficoltà di sviluppo dell'area interessata, in un deliberato processo di rimozione della realtà dell'intera area euro, - basti dire che, tranne la Germania, solo i paesi UEM hanno persistenti difficoltà di crescita, ma non quelli dell'UE che non sono parte dell'area euro.
...
L'assetto che si registrerebbe nelle macroregioni è facilmente prevedibile: spostando su questo governo privatizzato e localista (per quanto allargato) la responsabilità di determinare l'assetto del mercato del lavoro, ed in genere, il co-governo transnazionale della parte essenziale dell'economia, si imporrebbe la immediata (anzi, istantanea) attuazione della correzione dei CLUP e quindi dei livelli salariali "relativi" dell'area interessata, in ogni sua parte "componente".
In altri termini, le aree italiane (partecipanti alle varie macroregioni), ove poste a diretto contatto con altre aree "core", dovrebbero necessariamente devolvere alle istituzioni macroregionali, che provvederebbero in forma di accordi deliberativi che bypassano ogni competenza costituzionale e legislativa nazionale, il potere di imporre l'immediata correzione dei livelli salariali che risulti determinata dalla rilevazione delle "pratiche virtuose" della regione più competitiva coinvolta nell'accordo.
L'aggiustamento quindi sarà in partenza asimmetrico, potendo NON esserlo solo in caso di precedente convergenza assoluta dell'andamento del CLUP e dell'indice di competitività dei rispettivi "ambiti regionali" interessati.
L'urgenza irrinunciabile corrisponde ad una correzione che sarebbe altrimenti impossibile, nella stessa misura e tempistica, a livello dell'intera area euro, se non altro perchè gli Stati che la realizzassero integralmente nella misura "voluta" dall'€uropa rischierebbero il collasso (anche se Irlanda e Portogallo, per non parlare della Grecia, hanno attuato le correzioni in misura quasi integrale, non riuscendo certo a risolvere "l'enigma" delle crescita stabile ed effettiva: naturalmente non cercate di capirlo in base a quanto vi dicono i media italiani).
O comunque la correzione gestita dagli Stati, può agire solo in un periodo molto più prolungato (come sanno gli italiani, i greci, i portoghesi e gli spagnoli che emigrano in Germania attualmente).
...
La Confindustria, ancora nel 2014, parla di una correzione salariale, di recupero della competitività, nella misura del 20%: opportunamente, in questa direzione, la macroregione, col suo "piano di azione" teleguidato da Bruxelles, potrebbe realizzare "d'imperio", cioè in via normativa obbligatoria per le popolazioni interessate, sancita dal suo organismo associativo "privato", dei tagli netti delle retribuzioni nelle misure che, adattate alle specifiche realtà macroeconomiche interessate, le riportino appunto sul livello della "best practice" dell'area appartenente al paese più competitivo (cioè che ha svalutato maggiormente il proprio tasso di cambio reale) che si è associato nella stessa macroregione.
La domanda interna e le strutture industriali dell'area aderente, che si trovi a subire questa correzione, si troverebbero in una situazione "greca", o al più irlandese. Questo l'esito più certo e inevitabile delle macroregioni, ove attuate nei settori che darebbero senso all'operazione - e non il carattere di ulteriore sovrapposizione di entificazioni di governo più o meno (macro)locale. Macro-locale ma, con certezza, fortemente centralizzato e, programmaticamente, autoritario (in quanto coessenzialmente orientato alla competitività sul costo del lavoro).
...
Le implicazioni sarebbe molte: dalla insostenibilità di un sistema sociale integrato, plurinazionale, che si basi esclusivamente sulla esportazione-competitività, al costo fiscale che la inevitabile caduta della domanda interna imporrebbe in termini di minor base imponibile, in situazione di obbligatorio pareggio di bilancio -immediato e senza mediazioni- e di invarianza delle precedenti risorse pubbliche (che comunque diminuirebbero), fino alla depatrimonializzazione delle attività aziendali e immobiliari, soggette, come tali, all'acquisizione "agevolata" dei famosi investitori esteri.
Naturalmente, come sta accadendo di fronte alla evidenza offerta dal complesso delle folli politiche €uropee, tutto quanto qui sinteticamente illustrato non verrà "creduto": si crederà alla immaginifica efficienza dei mercati ed al fatto che, "dentro l'euro noi ce la possiamo fare"...Andando festosamente all'autodistruzione. Autodistruzione delle "masse" e non delle elites, localistiche e estero-investitrici, per cui, invece sarebbe un autentico "banchetto". 3. Però, però...se quella che precede è la sintesi (di una pletora ingovernabile, per l'intelligenza umana, delle elucubrazioni cosmetiche sponsorizzate da ESSI), relativa alla STRUTTURA cui aspirano le macror€gioni, val bene la pena di fare un piccolo cenno alla "sovrastruttura" ideale e pseudo-culturale (chiedere a Soros...), che costituisce l'alimentatore del consenso (disinformato) indispensabile a realizzare questo (senza dubbio) brillante disegno. Anche in questo caso traggo e sintetizzo, apportando alcune precisazioni (spero) chiarificatrici, da un precedente ciclo di post sul tema "federalismo & indipendentismo" e relativa soluzione "geniale" del conflitto tra oligarchie e massa di "perdenti" (inutile che ne ri-consigli la ri-lettura):
"Insomma, anche l'etnia è, in definitiva, un'invenzione culturale umana, che, come per tutte le ipostatizzazioni sociali (cioè le sintesi assunte come "certezze di giudizio"), è facilmente rappresentabile come espressione di rapporti di forza:l'identità etnica è genericamente riferibile, più che ad omogeneità razziali, culturali o linguistiche – che, come abbiamo visto, sono scientificamente non discriminabili – a omogeneità di carattere “contrappositivo”.
Il gruppo sociale trova i propri confini e, quindi, la propria identità, nel momento in cui condivide un “nemico”– un competitor!– comune: scegliete voi dagli innumerevoli esempi degli ultimi decenni, in Italia, e sempre rammentando cosa dice Rodrik sul divide et impera su cui prosperano le elites liberoscambiste (qui, p.4). Come le classi sociali sono prodotte dal conflitto distributivo, così lo sono anche le sovranità nazionali e le entità politiche autonome in genere.
...Va peraltro aggiunto che il conflitto distributivo costituisce (comunque, in ogni periodo storico: per lo meno successivo all'instaurarsi della civiltà "agricola") il naturale esplicarsi delle dinamiche di gruppi sociali a interessi differenziati, in ragione della "proprietà" (la Chiesa ha tanto da insegnare - alle elites contemporanee- su questo), ma gruppi coesistenti in modo continuativo su un territorio avente caratteri geo-morfologici tendenzialmente comuni, o, volendo essere precisi, "accomunanti"; e, dunque, naturalisticamente interagenti fra loro, al punto da potersi riscontrare un comune patrimonio linguistico e culturale.
Infatti, la prossimità e la conseguente interconnessione di insediamenti, appunto caratterizzati da vicinanza fisica, rileva in funzione della consistenza del periodo storico in cui si struttura un "vincolo geografico" tra gruppi.
Ovviamente ciò vale a certe date condizioni storiche di struttura economica e di conoscenze scientifiche - che determinano i mezzi di trasporto disponibili e la tipologia ed estensione di infrastrutture comuni come strade, ponti, centri di accoglienza e di stoccaggio per i mercanti in viaggio, etc.: queste condizioni promuovono e determinano- in modo variabile storicamente- l'ampiezza e la stessa omogeneità del vincolo geografico tra gruppi sociali. Inoltre, pur ottusamente trascurate, nei nostri giorni di predominio dell'irrazionale neo-liberista e antistatalista, fondamentali risultano le condizioni organizzative e istituzionali comuni, da cui, in definitiva, dipende lo stesso avvio di ogni processo sia di avanzamento scientifico che di infrastrutturazione. Si pensi alla cesura tra medio-evo e epoca dell'Impero romano d'Occidente, in termini di diversa crescita delle condizioni di benessere generale, e di diffusione di conoscenze e tecnologie poi andate, appunto, perdute durante l'antistatalista anarchismo feudale.
...
Questo insieme di caratteri, storicamente contigenti, possono tuttavia essere "percepiti" come costanti, in termini di memoria collettiva, per varie generazioni vissute all'interno di quel territorio, plasmando i contatti e la comunicazione intragruppo.Si generano così prassi o "costumi", che, attraverso lo spontaneo rafforzamento del mezzo di comunicazione per eccellenza, il linguaggio - divenuto segno identificativo attraverso la "lingua"- fa assurgere naturalmente il frequente spostamento di "contatto" (con altri gruppi territorialmente localizzati: ma sempre in modo storicamente variabile) a autorappresentazione di una comune memoria culturale.
Lingua e interazioni condivise, divengono memoria collettiva attraverso forme di narrazione culturale: musiche, canti, balli, credenze e celebrazioni ritualizzate, si sedimentano rispetto al gruppo che vive su quel territorio, fino alla elaborazione di una "letteratura" che codifica quella lingua e gli eventi "significativi" di quella memoria collettiva.
La precisazione appena fatta è un richiamo alla"effettività" del legame linguistico-culturale: questa effettività è, per definizione, relativa e mutevole nel tempo. Solo che risulta (intellettualmente e psicologicamente) difficile percepirlo nell'ambito di una singola generazione e, facilmente, si cade nella staticità identitaria: con grande soddisfazione delle elites, cosmopolite (qui, p.2), che godono dei frutti della strumentalizzazione di tale autopercezione statica (e torniamo sempre a Rodrik, sopra linkato).
Le "date" conoscenze scientifiche e tecnologiche, infatti, influiscono, in modo direttamente proporzionale alla loro velocità di mutamento, sul tipo di struttura economica e di comunicazione, che caratterizzano un gruppo territoriale: e questo include la (progressiva modificazione della) lingua. Le predette condizioni(tecnologico-scientifiche e quindi proprie della trasformazione sociale capitalista)e la loro (variabile) velocità di cambiamento, quindi, influiscono anche sui caratteri sociali aggregativi in precedenza caratterizzanti un certo territorio "omogeneo": ma influiscono, appunto, evolvendole in forme la cui portata può sfuggire all'interno della percezione propria di una vita umana.
Questo mismatching o "time-lag", tra percezione dei singoli individui (interna alla durata della singola esistenza) e portata "sfasata" del ciclo di mutamenti strutturali, può dar luogo a forme "identitarie" coesistenti e, spesso, confliggenti tra loro, in funzione di fattori psicologici collettivi: il "nuovo" crea e distrugge e il bilancio (di benessere) dei più può risultare negativo.
La spinta "conservativa" della memoria linguistico-culturale precedente, può essere tanto più forte quando più una forma "unificatrice" di struttura economica, tipicamente il capitalismo, si manifesta con la sua straripante capacità produttiva e di innovazione.
Questa forma di organizzazione sociale e politica "capitalista" (che oggettivamente ci troviamo oggi a fronteggiare, nella sua stessa evoluzione e contraddittorietà) è per definizione fortemente capace di instaurare assetti sociologici di produzione ben definiti (con la divisione del lavoro), dando luogo a forme politiche a sé convenienti, che contrassegnano il territorio, qualunque territorio, in funzione delle esigenze dei rapporti di forza dominanti così instaurati.
Ma questi "nuovi" rapporti di forza affermati dal capitalismo, dovrebbe essere intuitivo, non necessariamente, anzi quasi mai, coincidono con quelli delle precedenti comunità territoriali caratterizzate dalle diverse, e più antiche (obsolete, secondo il nuovo paradigma) condizioni sociali comunitarie, sempre coincidenti con una, altrettanto ingannevole, fase agricola "arcadica" intessuta della nostalgia - ideologicamente propagandata- di una perduta felicità agreste che era, invece, la dura realtà del servaggio della gleba e del latifondismo:variano in modo decisivo le condizioni di conoscenza scientifica (sistema di istruzione e formazione), di produzione e scambio (organizzazione del lavoro e infrastrutture) e le modalità di insediamento conseguente (polarizzazione su centri produttivi pianificati, rispetto all'insediamento agricolo "diffuso").
...
Questa precisazione ci è parsa utile per meglio comprendere il passaggio del post che precede, relativo alla generazione di un carattere contrappositivo (autodifensivo) del demos, una volta instaurate, dall'evoluzione dei rapporti di produzione, certe condizioni di forte e incompatibile mutamento strutturale (e culturale).
...
Il "nuovo", quindi, riflette anch'esso, come già il passato idealizzato agricolo-feudale, l'affermazione di interessi prevalenti e normalmente contrapposti a quelli della maggioranza, all'interno della comunità. E ciò anche quando, come spesso, anzi per lo più, si verifica, questi nuovi interessi nascano da un'azione "innovativa" che si produce dall'interno della comunità "linguistica" medesima.
Da aggiungere. Il tratto comune tra il passato (arcadico) idealizzato e i nuovi assetti della produzione, è tuttavia qualcosa di enormemente gradito alle elites capitaliste, specialmente quelle di scuola Hayekiana: l'implicito consolidamento delle GERARCHIE consentito dal comunitarismo ideale, propagandato come "coagulante", sebbene contro la stessa realtà del passato rinarratodai "centri di irradiazione" del potere economico.Da questa disomogeneità di interessi ed effetti, interni alla comunità "etnica" precedentemente identificabile, e promossa da forze (dominanti) espresse dalla stessa comunità, va naturalmente differenziato il caso eclatante del mutamento indotto dalla guerra di conquista coloniale, in tutte le sue forme, "moderne" e più recenti.
Ma anche qui, tra rivendicazione a trazione elitaria (ben dissimulata) del "localismo" e colonizzazione, si ravvisa un tratto comune, proprio del liberismo, formalmente territoriale ma sostanzialmente e sempre, "cosmopolita": in termini di stabilità della conquista,"nessuna forma (moderna) di colonialismo" (che non sia debellatio militare e sterminio con sostituzione etnica, cosa in cui pure "eccelle" una non lontana vocazione germanica), "è possibile senza la cooperazione delle elites locali"....la conquista colonialeè quella operata da un gruppo vivente su un distinto territorio, avente una distinta lingua e tradizione culturale, e tesa ad instaurare uno stabile e unilaterale assetto predatorio delle risorse del gruppo territoriale assoggettato, che viene controllato da un governo che: a) è situato, nel suo vertice decisionale, nel territorio del gruppo dominante (come nel caso di Bruxelles rispetto alle macroregioni...); b) esclude istituzionalmente la partecipazione di esponenti del gruppo assoggettato a ogni forma di governo e di determinazione dell'indirizzo politico (idem come sopra).
Insomma, (al di fuori del caso del colonialismo, e peraltro solo tendenzialmente), parlare una lingua o un dialetto comuni non elimina il fatto che alcuni - pochi e autoproclamatisi "legittimati" al di sopra delle vecchie "prassi e usanze"-, in quanto divenuti capaci di dirigere l'assetto sociale, si avvantaggiano a danno di altri che, pur condividendo lo stesso idioma (e una certa tradizione territorial-culturale), subiscono le decisioni dei primi.
4. Per concludere questa lunga sintesi (di tanto materiale e copiose fonti), mi rifaccio al succo del discorso che è riassumibile in questo passaggio di Lelio Basso (se non cogliete le evidenti correlazioni con tutto quanto precede, a mio modesto avviso, siete messi male, a meno che non facciate parte dell'oligarchia: ma in tal caso, coglierete benissimo e avrete anzi tutto l'interesse, molto personale, a negare l'evidenza):
“…penso che la battaglia per la democrazia nei singoli paesi debba essere prioritaria rispetto ai fini federalisti…ci sono cose che vanno, secondo me, profondamente meditate. A me, se così posso dire, la sovranità nazionale non interessa; però c’è una cosa che mi interessa: è la sovranità democratica...Nella Costituzione abbiamo scritto, nel primo articolo: “L’Italia è una Repubblica democratica”; poi abbiamo aggiunto quelle parole forse sovrabbondanti “fondata sul lavoro”; e poi abbiamo ancora affermato il concetto che la “sovranità appartiene al popolo”.
Sembra una frase di stile e non lo è. Le costituzioni in genere hanno sempre detto “la sovranità emana dal popolo” “risiede nel popolo”; ma un’affermazione così rigorosa, come “la sovranità appartiene al popolo che la esercita” era una novità arditissima. Contro la concezione tedesca della “sovranità statale”, di quella francese della “sovranità nazionale”, noi abbiamo affermato la “sovranità popolare” quindi democratica. A questo tipo di sovranità io tengo…” [37].La sovranità costituzionale è tutto.
(L. BASSO, Consensi e riserve sul federalismo, L’Europa, 15-30 giugno 1973, n. 10/11, 109.118).
(L. BASSO, Consensi e riserve sul federalismo, L’Europa, 15-30 giugno 1973, n. 10/11, 109.118).