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ZIO ADOLFO E LA MOBILITAZIONE LIBERO-SCAMBISTA: LA MIA SOVRANITA' E' LA NEGAZIONE DELLA TUA (1)

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http://c8.alamy.com/comp/E0KR1A/adolf-hitler-during-a-meeting-at-the-reichstag-E0KR1A.jpg
"Reduce" this!

In margine a quel post si sono svolti molti interessanti commenti, il cui spunto di avvìo è stato un concetto che, pur essendo piuttosto autovidente, stenta ad essere riconosciuto dall'opinione pubblica (i semi-colti...). L'economia internazionale degli scambi - è questo il concetto- non è un'arena governata dalla razionalità economica e dalla convenienza generale (dell'umanità vista positivamente come formata da esseri umani potenzialmente portatori di eguali diritti e capacità di creare "valori"). 
Gli scambi internazionali, piuttosto, corrispondono ad un'arena in cui, tanto maggiore è la libertà che gli si vuole riconoscere in via istituzionale (cioè attraverso regole giuridiche vincolanti, dettate da trattati di diritto internazionale), tanto maggiore è l'incentivo alla volontà "di potenza" dei soggetti coinvolti, portando a un nichilismo (offerto come "trasmutazione di valori", di cui l'esaltazione della globalizzazione è il più imponente degli esempi)che avvinghia tanto i vincitori che i vinti di questo scontro politico.

2. In parole povere, il free-trade è solo lo strumento istituzionale, e quindi apparentemente statico(in quanto reso in regole giuridiche), di una dinamica conflittuale mondializzata, o più pragmaticamente europeizzata, al cui livello più "sottile" si pone il "mercantilismo" (come evidenziava Joan Robinson, cioè il free-trade...for others, qui, p.8), e al cui punto estremo di espansione di pone l'imperialismo razzista (che si afferma quando i nuovi rapporti di forza nascenti dalla competizione free-trade si sono stabilizzati e i trattati, come avviene di norma nel diritto internazionale, sono allegramente calpestabili).

3. Per illustrare in modo molto pratico come inevitabilmente si arrivi a tale punto estremo in questa "progressione", muovendo dalla apparente staticità delle "buone regole" dei trattati free-trade (in cui spicca quello UE con eurozona annessa), prendiamo spunto da questo passaggio dell'ultimo post-intervista di Goofynomics (che integro con qualche link)
"Questa storia dell’Europa che porta la pace, e uscendo dalla quale troveremmo la guerra, ormai non fa più ridere, e lo dico con molta amarezza. La"pace" portata dall'Europa si chiama Yugoslavia, Ucraina, Libia, col corredo di politici di sinistra che si fanno fotografare a braccetto di criminali neonazisti (neonazisti sul serio, non come i vertici di AfD). Punto. 
Le tensioni create da regole economiche assurde, dettate dal forte nel suo esclusivo interesse, hanno ridotto la Grecia in condizioni post-belliche e hanno dato alimento a partiti di destra ultraconservatrice, spazzando via gli utili idioti sedicenti di sinistra dal panorama politico europeo, con la felice (si fa per dire) eccezione del nostro paese, che non credo resterà tale (cioè un'eccezione) a lungo. 
Dire che la rottura della zona euro di per sé, necessariamente, condurrà a guerre commerciali significa fare un'operazione intellettualmente disonesta, della quale non si avverte il bisogno. La verità è che continuando a sproloquiare in questo modo si seminano nell'opinione pubblica i germi di una irrazionalità, di un pensiero magico, di una regressione infantile (i mercati ci faranno tottò perché siamo stati cattivi), della quale non ci sarebbe mai bisogno, e tanto meno ce ne sarà al momento della rottura. Vorrei solo che chi si esprime in questo modo ci portasse un precedente storico. Storicamente, la guerra viene prima, non dopo, lo smantellamento delle grandi unioni monetarie (quella austro-ungarica, quella sovietica), per il semplice fatto che le tensioni create dall'imperialismo monetario concorrono, generalmente, alla sconfitta dei grandi imperi (non ne sono la sola causa, ma una concausa rilevante sì), e che dopo la sconfitta della potenza imperiale di turno gli oppressi si riappropriano di spazi di autonomia. La guerra viene prima, ripeto, non dopo".

4. Ed infatti è così (e porteremo subito il precedente storico confermativo): il free-trade, cioè l'imposizione di trattati e regole giuridiche, consegue alla intrapresa, da parte delle oligarchie capitaliste di una nazione "forte", di uno o più conflitti (ce lo spiegò Keynes e lo ha aggiornato, ai nostri tempi, molto acutamente Ha Joon Chang); l'assoggettamento commerciale di aree politicamente ascrivibili a diverse comunità nazionali(comunque in precedenza "sovrane") trascende in imperialismo economico e in diverse forme, più o meno istituzionalizzate-formalizzate, di colonialismo politico.
Se dunque promuovo la "libertà degli scambi", partendo pur sempre da una collocazione territoriale politicamente ben individuabile, voglio necessariamente acquisire il predominio politico su altre popolazioni politicamente sovrane, negando tale sovranità (tendenzialmente "nazionale") per affermare l'espansione della mia (imperialistica, cioè sovranazionale)
E attenzione. Non farò stare meglio il popolo-nazione "di partenza"  di questo impulso espansivo (della sovranità in altrui danno), anzi,lo mobiliterò propagandisticamente ad accettare di stare peggio in cambio di una remunerazione per lo più puramente morale: l'acquisita appartenenza ad una "nazione" o "razza" superiore a quelle "sottomesse" (una logica, oggi, che potremmo definire "calcistica").

5. Abbiamo dunque una sequenza "modello mercantilista di partenza- mobilitazione e "sacrifici" di popolo/Nazione per l'assoggettamento di "nuovi spazi" commerciali- imperialismo", che, nei fatti storici (non immaginari) sfata il luogo comune odierno sulla reale funzione di un certo tipo di protezionismo preparatorio dell'offensiva free-trade anticooperativa, ben distinto da quello utilizzato dai popoli sovrani per conservare la propria indipendenza rispetto alle aggressioni commercial-imperialiste (v. qui, p.3: gli Stati"libero-scambisti" imperialistici, infatti, sono, appunto, "liberoscambisti...all'interno delle loro sfere di influenza territorial-militare, serbando un simmetrico protezionismo, - cioè una preferenza assoluta di accesso e di sfruttamento di sbocchi commerciali, riserve di manodopera e di materie prime-, rispetto alle altre "analoghe"potenze, considerate avversarie senza alcuna possibilità di mediazione: almeno nel corso della cruciale prima parte del '900, quando appunto, il protezionismo "conflittuale", guerrafondaio, è quello ascrivibile agli imperi coloniali e, per riflesso, ai grandi Stati europei loro "contendenti" sul piano globale, e non certo quello dei minori Stati nazionali, europei in particolare).

6. Questa vicenda sequenziale risulta particolarmente evidente se si ha riguardo al vero pensiero economico di Hitler, appunto quale, in buona parte riportatoci da Arturo nei commenti al post (Vademcum) suddetto. Perciò li accorpo e li traduco per darvene un'esposizione più organica. 
Per una migliore comprensione lascerò la struttura di sviluppo esposivito storico-documentale proveniente dalla fonte da cui trae Arturo (cioè il libro di ToozeThe Wages of Destruction).

7. La prima significativa fonte, peraltro,è agli atti del Reichstag come discorso del Führer (il che rende difficile negarne sia l'esistenza che l'inequivocabile contenuto). Mantengo il sempre nitido commento di Arturo:

“Dinanzi alla diligenza e alla capacità delle energie produttive razionalmente impiegate di una nazione, impallidiscono tutte le riserve auree e di divise. 
Noi non possiamo che sorridere pensando ai tempi in cui i nostri economisti con la maggiore serietà di questo mondo sostenevano che il valore di una moneta viene determinato dalle riserve auree e di divise, accantonate nei tesori delle Banche di Stato e, soprattutto viene da essa garantito. 
Noi, al contrario, abbiamo imparato e sappiamo che il valore di una valuta è insito nella energia produttiva di un popolo, che l’aumentato volume di produzione sostiene una valuta, anzi, in determinate circostanze la rivalorizza, mentre ogni diminuito rendimento della produzione deve necessariamente condurre, presto o tardi, a una svalutazione. 
Ecco perché lo Stato nazionalsocialista, in un periodo in cui i gran sacerdoti della finanza e della economia degli altri Paesi ci profetizzavano ogni trimestre o semestre lo sfacelo, stabilizzava il valore della sua moneta, aumentando in misura straordinaria la produzione. 
Tra la produzione tedesca in aumento e il denaro in circolazione venne creato un rapporto naturale. La formazione dei prezzi, attuata con tutti i mezzi, fu possibile soltanto mantenendo stabile il livello dei salari
Ma tutto ciò che in questi ultimi sei anni è stato distribuito in Germania dall'aumento del reddito nazionale, corrisponde all'aumentato rendimento del lavoro
In tal modo si è potuto non solo dare lavoro a 7 milioni di disoccupati, ma anche assicurare al loro aumentato reddito una corrispondente capacità di acquisto; in altre parole, ad ogni marco pagato corrisponde (nella stessa misura) un aumento della nostra produzione nazionale.
In altri Paesi avviene esattamente l’opposto. Viene ridotta la produzione, si aumenta il reddito nazionale aumentando i salari, si diminuisce con ciò la capacità di acquisto del denaro e si arriva infine alla svalutazione della moneta. 
Ammetto che il sistema tedesco, in sé e per sé, è meno popolare, in quanto stabilisce che ogni aumento di salario deve necessariamente dipendere da un aumento della produzione, per cui l’aumento dei salari deve sempre passare in seconda linea rispetto alla produzione: ne consegue, in altre parole, che l’inserimento di 7 milioni di disoccupati nel processo produttivo, non è o non era in primo luogo un problema salariale, bensì una pura questione di produzione”.

Se da parte degli uomini di Stato esteri ci si minaccia con rappresaglie economiche, non so bene di qual genere, io sono in grado di assicurare che, in tal caso, verrebbe impegnata una battaglia economica disperata che noi potremmo condurre molto facilmente a buon fine. Per noi questa lotta sarebbe più facile che per le altre nazioni satolle, poiché la ragione di questa battaglia economica sarebbe semplicissima. 
Eccola: popolo tedesco, se vuoi vivere, esporta, altrimenti perirai!. (Hitler al Reichstag, 30 gennaio 1939, Società Editrice Di Novissima, Roma, pp. 42-44 e 45)".

Ovvero anche il vecchio zio Adolfo era, ideologicamente, un offertista votato alla stabilità dei prezzi, contrario alle svalutazionicompetitive, seguace della teoria quantitativa della moneta e di un’economia export led (riarmo permettendo).

Certo che se con tutto il moralismo e i sensi di colpa che hanno riversato sui tedeschi ci avessero messo anche un po’ di economia, certi “mai più” sarebbero un filo più credibili."
(1- SEGUE)
 

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