La mirabolante crescita italiana dal 2000 al 2015. pic.twitter.com/IdcAbc99G3— 𝐀𝐥𝐞𝐬𝐬𝐚𝐧𝐝𝐫𝐨 𝐆𝐑𝐄𝐂𝐎 (@Pgreco_) 9 marzo 2018
Moltiplicatori (e Haavelmo) questi sconosciuti.— LucianoBarraCaraccio (@LucianoBarraCar) 9 marzo 2018
Ma non erano proprio loro che privilegiavano per l'Italia la sorveglianza sulla regola del debito?
Se in un triennio si ritrovassero dp/pil migliorato e 3% rispettato, DOVREBBERO rinunciare a proc. di infraz!https://t.co/s1tRik0HJQ
1. Per trovare un intermezzo all'anZia nella lunga fase di "trattative" per la formazione del governo appena al loro inizio, vi traduco alcuni brani delle risposte di Ha Joon Chang nell'intervista in cui, più di un anno fa, gli hanno chiesto di commentare le politiche che Trump aveva intenzione di intraprendere. Le risposte di Chang, oggi di particolare attualità, rivelano dei nodi ancora irrisolti dell'approccio occidentale alla crescita, alla democrazia e al mercato del lavoro. Non caso questo il titolo dell'intervista:
Exposing the Myths of Neoliberal Capitalism: An Interview With Ha-Joon Chang
"Il piano di Trump per una ripresa economica americana è ancora vago, ma, da quanto posso capire, ha due assi principali -- indurre le grandi imprese americane a creare più posti di lavoro a casa e aumentare gli investimenti nelle infrastrutture.
Il primo asse appare piuttosto fantasioso. Egli sostiene che lo realizzerà principalmente con un maggior protezionismo; ma non potrà funzionare per due ragioni.
Primo, gli USA sono legati da ogni sorta di accordi internazionali di commercio -- il WTO (ndQ; e infatti), il NAFTA (ndQ. e, pure qui, infatti), e da accordi bilaterali di free-trade (con Korea, Australia, Singapore, etc.).
Sebbene si possa spingere in direzione protezionista estrema persino in questa cornice (ndQ; v. Corea e acciaio), sarà difficile per gli USA "picchiare" con extra tariffe che siano abbastanza elevate da riportare indietro i posti di lavoro in America nella vigenza di questi accordi.
Il tema di Trump afferma che rinegozierà tali tratttati, ma ci vorranno anni, non mesi (ndQ. v. alla voce NAFTA), e ciò non produrrà alcun risultato tangibile durante il primo termine della presidenza Trump.
In secondo luogo, anche se pesanti tariffe potranno in qualche modo essere imposte contro i vari trattati internazionali, la struttura dell'economia americana, oggi, è tale che si avranno enormi resistenze interne contro queste misure protezionistiche (ndQ.; e infatti...).
Molte prodotti importati da paesi come la Cina e il Messico sono cose che sono prodotte "da" - o almeno prodotte "per" - imprese americane.
Quando il prezzo dell'iPhone e delle Nike made in China o delle auto GM made in Mexico, salirà del 20%, o del 35%, non soltanto i consumatori americani ma anche grandi imprese come Apple, Nike and GM saranno intensamente insoddisfatti.
Ma questo si tradurrà nel risultato che Apple o GM faranno rientrare la produzione negli USA? No, probabilmente, si trasferiranno in Vietnam or Thailandia, laddove non siano colpiti da tali tariffe.
Il punto è che lo svuotameto dell'industria manifatturiera americana è progredito nel contesto della globalizzazione (US-led) della produzione, e della ristrutturazione del sistema di commercio internazionale, e non può essere invertito con semplici misure protezionistiche.
Sarà invece necessaria la totale riscrittura delle regole globali di commercio e la ristrutturazione della cosiddetta catena globale del valore.
Persino a livello domestico, il revival dell'economia americana richiederà misure di gran lunga più radicali di quelle che l'Amministrazione Trump sta contemplando.
Richiederà una politica industriale sistematica che ricostruisca le capacità produttive dell'economia americana, e che spazieranno dalle competenze della forza lavoro, a quelle manageriali (non finanziarie), alla ricerca industriale di base fino a infrastrutture modernizzate.
Per avere successo, una tale politica industriale, dovrà essere sostenuta da un radicale ridisegno del sistema finanziario, in modo che più "patient capital" sia reso disponibile per investimenti orientati al lungo periodo, e più persone di talento vadano a lavorare nel settore industriale piuttosto che in quello delle banche di investimento o in quello degli scambi commerciali esteri.
Il secondo asse della strategia di rilancio di Trump è l'investimento in infrastrutture.
Come detto più sopra, il miglioramento delle infrastrutture è un ingrediente fondamentale di una strategia genuina di rinnovo dell'economia americana.
Comunque, ciò potrebbe incontrare la resistenza dei conservatori (austero)fiscali in un Congresso dominato dai repubblicani.
Sarà interessante osservare come questo potrà dar luogo a degli esiti, ma la mia preoccupazione maggiore è che Trump sia indotto a incoraggiare dei tipi di investimento infrastrutturale "sbagliati" -- cioè quelli connessi al settore immobiliare,(suo natural e territorio), piuttosto che quelli correlati allo sviluppo industriale.
Se accadesse, ciò non solo fallirà nel contribuire al rilancio dell'economia, ma potrebbe anche contribuire a creare delle bolle immobiliari, che sono state un'importante causa della crisi finanziaria globale del 2008".
2. Un po' prima di questa intervista, e proprio parlando del controverso, e certamente miope, rapporto tra Trump e le elites globaliste, (che al tempo si dedicavano a tentate "rivoluzioni arancioni" contro Trump...e di cui la Botteri è l'ultima sostenitrice a oltranza), avevamo fatto questo ragionamento, appoggiato a un'insolito soccorso scientifico-economico alle intenzioni del neo-presidente:
Vi conviene, piuttosto, prendervi una bella pausa e augurarvi che Trump, coscientemente o meno (nessuno può scommettere sulla sua consistenza "culturale"), attui esattamente ciò che, negli anni '40 - quando per voi i "mulini" non erano più così bianchi e covavate la rivincita nel risentimento, senza aver evidentemente appreso la grande lezione della crisi del 1929-, indicava Kalecky (v. p.5):
Vi conviene, piuttosto, prendervi una bella pausa e augurarvi che Trump, coscientemente o meno (nessuno può scommettere sulla sua consistenza "culturale"), attui esattamente ciò che, negli anni '40 - quando per voi i "mulini" non erano più così bianchi e covavate la rivincita nel risentimento, senza aver evidentemente appreso la grande lezione della crisi del 1929-, indicava Kalecky (v. p.5):
...In un’economia nella quale l’attrezzatura produttiva è scarsa è quindi necessario un periodo di industrializzazione o ricostruzione […]. In tale periodo può essere necessario impiegare controlli non dissimili da quelli impiegati in tempo di guerra.» (10). Un’affermazione come questa basta da sola a mostrare tutta l’inconsistenza e la superficialità dell’identificazione, che tanto spesso si è voluta fare, fra keynesismo e politiche keynesiane, basate esclusivamente sul sostegno della domanda aggregata".
Se, anziché con la politica dell’offerta, il miglioramento dei conti con l’estero viene perseguito per mezzo della deflazione, il freno che ne deriva alla formazione di capacità produttiva tenderà ad aggravare ulteriormente la situazione. «E’ un affare molto serio - ha scritto un altro keynesiano della prima generazione, Richard Kahn - se l’attività produttiva deve essere ridotta perché la produzione a pieno regime comporta un livello di importazioni che il paese non può permettersi. Ed è un affare particolarmente serio se la riduzione in esame prende largamente la forma di una riduzione degli investimenti, inclusi gli investimenti volti alla formazione della capacità produttiva capace di farci esportare più beni a prezzi più concorrenziali e di diminuire la nostra dipendenza dalle importazioni.» (11).Se proprio occorre ridurre gli investimenti, afferma ancora Kahn, tale riduzione deve essere «altamente discriminatoria»: bisogna, cioè, tentare di «stimolare gli investimenti nelle industrie esportatrici e in quelle capaci di sostituire le importazioni, particolarmente nei settori in cui è l’attrezzatura produttiva a rappresentare la strozzatura, e di scoraggiarli in tutti gli altri settori. Le restrizioni monetarie possono, tuttavia, essere caricate di un contenuto discriminatorio solo con difficoltà ed entro limiti piuttosto ristretti. Vi sono qui, per eccellenza, forti ragioni per ricorrere a metodi alternativi di scoraggiare gli investimenti, e particolarmente a quei metodi che operano attraverso controlli diretti» (12).
Dal fatto che la sostituzione delle importazioni e il potenziamento della capacità di esportazione sono obiettivi di medio o lungo termine, mentre la deflazione va evitata fin dall’inizio (anche per non pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi suddetti), può discendere la necessità di imporre controlli amministrativi sulle importazioni di particolari merci, e dunque sulla loro distribuzione all’interno del paese".
3. Si capisce meglio (c'è da augurarsi) perché Chang, saggiamente, parli de "la totale riscrittura delle regole globali di commercio e la ristrutturazione della cosiddetta catena globale del valore", di "una politica industriale sistematica", e di un "radicale ridisegno del sistema finanziario, in modo che più "patient capital" sia reso disponibile per investimenti orientati al lungo periodo".
Si tratta di quello che, un tempo, avevamo già, in Italia: come dimostra questo documento leakato, in cui gli USA, al tempo, cioè nel 1977, impegnati a smontare, a casa loro (come ci racconta Galbraith), quello che oggi avrebbero disperatamente bisogno di rimettere insieme, apprendono da Egidi, già collaboratore di Mattei, le ragioni macroeconomiche della gestione dell'industria pubblica (che, con molta fretta, - visti i risultati successivi delle politiche imposteci in termini di crescita italiana-, gli USA vedevano come "fallimentari" e inaccettabili):

Il presidente dell'ENI scandalizza gli interlocutori USA (console a Milano che scrive all'ambasciatore del tempo) "osando" (went so far) dirgli che la "profittabilità" a cui sono orientate le industrie pubbliche, significava solo che dovessero ottenere piccoli margini di profitto o, in alcuni casi, il pareggio. "Gli obblighi sociali (ndQ; in realtà legali-costituzionali) di fornire occupazione, fare investimenti in aree depresse, e mantenere operative le industrie strategiche, costituivano anche finalità importanti".
4. Ecco: di fronte a tutte queste terribili problematiche globalizzate, - e al molto peggio in forma di eurovincolo- che, in termini di disoccupazione e mancata crescita, ci ha offerto il modello che ci veniva forzatamente imposto a partire da quegli anni, ancora stiamo a discutere se convenga uscire dall'euro-gold standard?
Quanto tempo dovrà essere ancora perso in questa follia monetaria, mentre persino nel cuore dell'impero si sta imponendo (nei fatti irrefutabili), come unica soluzione REALISTICA di salvezza, esattamente quello che noi avevamo già e gestivamo egregiamente, grazie alla nostra Costituzione economica, garantendoci crescita, occupazione, e equilibrio costante (o attivo) delle partite correnti in una misura che oggi appare poco più di un miraggio?