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I FALLIMENTI DEL MERCATO, LA LORO €URO-RESTAURAZIONE E LA GARANZIA COSTITUZIONALE DELLA LIBERTA' DI INIZIATIVA ECONOMICA.

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Premessa: per capire cosa sia un "bene pubblico" (non un bene comune), occorre riportarsi ad un paradigma istituzionale: la normatività suprema della Costituzione non può essere scissa dalla concreta definizione di fallimento del mercato. E questa normatività non può essere soppressa da alcun trattato internazionale, a pena di violazione dei principi fondamentali della Costituzione che andremo ad esaminare.

1. Abbiamo di recente visto come è negli anni '70 del '900, (qui, pp. 2-3), che si colloca l'inizio della fase operativa della strategia cosmopolita (tanto quanto lo può essere la Trilateral, cioè, comunque, su basi gerarchiche al cui vertice si colloca la super-elite USA; sempre qui, pp.4-6), per distruggere la democrazia sociale: quest'ultima, infatti, perseguendo anzitutto la temuta piena occupazione, era considerata un intollerabile ostacolo al pieno ripristino della democrazia "liberale" (qui, p.4), cioè di quel simulacro di Stato di diritto che garantisce la libertà a pochi oligarchi timocrati, mentre considera assurdo privilegio e corruzione legalizzata ogni concessione fatta dai parlamenti alle "plebi poverissime e ignoranti" (qui, pp.4.1.-7). Che devono ridiventare tali il più presto possibile. 
Non a caso, questo lungo ma inarrestabile processo di restaurazione fu autodenominato, dai suoi stessi promotori e propagandisti, "rivoluzione liberale", per sottolinearne la radicalità del cambiamento di assetto sociale rispetto agli ordinamenti costituzional-democratici instauratisi (variamente) in Europa dopo la seconda guerra mondiale.

2. Negli anni '70, appunto, si colloca l'episodio che scandalizza il console USA nel suo report all'ambasciatore dopo un incontro con l'allora presidente dell'ENI (qui, p.3):  
"Il presidente dell'ENI scandalizza gli interlocutori USA (console a Milano che scrive all'ambasciatore del tempo) "osando" (went so far) dirgli che la "profittabilità" a cui sono orientate le industrie pubbliche, significava solo che dovessero ottenere piccoli margini di profitto o, in alcuni casi, il pareggio. "Gli obblighi sociali (ndQ; in realtà legali-costituzionali) di fornire occupazione, fare investimenti in aree depresse, e mantenere operative le industrie strategiche, costituivano anche finalità importanti".

3. Ci pare necessario sottolineare perché questi obblighi sociali fossero di natura "legale-costituzionale": in una chiave di lettura "immediata", si tratta evidentemente dell'attuazione della c.d. Costituzione economica (artt. 35-47 Cost.), che può sintetizzare il suo "statuto" nell'art.41 Cost. e non secondariamente nel "finale" art.47 (che gettano luce sugli articoli precedenti e anticipa armonicamente quelli seguenti). 
Ma mantenere la piena occupazione, indirizzare gli investimenti delle aree depresse e mantenere operative le industrie strategiche, e ovviamente, garantire attraverso il welfare la "dignità" dell'elemento centrale del lavoro, diviene meglio significativo su un piano interprertativo sistematico, che implica l'armonia complessadell'ordito costituzionale richiamato da Basso. 
Si tratta in sostanza della diretta e effettiva attuazione della norma più importante dell'intera Costituzione, quella dell'art. 3, comma 2, indicata come tale sia da Basso (qui, p.8), che da Calamandrei (qui, p.2) che da Mortati (qui, p.1).

4. A titolo esemplificativo, rammentiamo le fondamentali dichiarazioni in Costituente di Cevolotto e Ruini (ritrovate il tutto esposto sistematicamente e commentato ne "La Costituzione nella palude"). 
Cevolotto indica, rispetto all'art. 3, comma 2, come propulsore della effettività del diritto al lavoro (art. 4 Cost.), e come presupposto necessario e sufficiente dell'attribuzione di significativi poteri d'intervento statale funzionali a tale effettività, i punti di riferimento entro cui si sta muovendo l'ampio accordo raggiunto tra le forze politiche presenti in Assemblea
"...quando il relatore, nel primo capoverso del suo articolo, vuol dire come lo Stato garantirà al cittadino questo diritto al lavoro, usa una formula che introduce un altro concetto sul quale bisogna bene meditare. Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini — si dichiara nell'articolo — lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l'attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione secondo un piano che dia il massimo rendimento per la collettività. Quindi, intervento dello Stato nella produzione, intervento cui si arriva attraverso la garanzia del diritto al lavoro.
Fa presente in proposito che mentreun ritorno in materia economica al liberismo sarebbe una proposizione assolutamente superata, è da domandarsi se una regolamentazione totalitaria dell'attività produttiva sia veramente utile e scevra di pericoli in una economia come quella italiana. Ricorda che si sono già avuti esempi di questo intervento dello Stato nel dirigere tutta la produzione: intervento che trovò il dissenso immediato anche di economisti socialisti". 
 
5. In sostanza, ciò ci indica che la direzione prescelta dai Costituenti non è affatto il "collettivismo", ma il ripudio del "liberismo" attraverso una disciplina di poteri strumentali dello Stato che consentano di perseguire l'effettività del diritto al lavoro prevenendo e correggendo i "fallimenti" del mercato. Essenzialmente riassumibili nelle distorsioni, di prezzo e di distribuzione del reddito prodotto, ma prima ancora del gioco democratico, derivanti dalla constatata tendenza alla formazione di monopoli, e oligopoli dominanti, privati (con il che l'art.41 Cost. si riconnette agli artt. 42 e, più ancora, 43 Cost.), nonché nelle c.d. esternalità la cui "disutilità sociale" l'art.41 Cost, infatti, intende come un epifenomeno della formazione di poteri economici di fatto oligopolistici privati.
 
6. La mancata prevenzione e sanzione, nell'interesse generale, deifallimenti del mercato, è un fatto politico, la cui rilevazione, da parte dei Costituenti, procede dall'esperienza storica: le esternalità (inquinamento delle acque e dell'aria, consumazione illegale del territorio,  lo stesso sottosviluppo degli investimenti e del livello di occupazione dovuti alla creazione de facto di barriere all'entrata nei vari settori produttivi), sono realmente eludenti e quindi dannose, in quanto i poteri economici privati, per la loro dimensione, siano in grado di imporsi con la forza politica che inevitabilmente deriva da essa, potendo quindi puntare al condizionamento istituzionale ed alla "omissione di intervento" del Legislatore; insomma, autoorganizzandosi nel controllo delle istituzioni - naturalmente "al riparo dal processo elettorale"- per farla franca nel riversare i costi dell'attività produttiva sulla collettività.
 
7. La clausola chiave del non contrasto con l'utilità sociale (art. 41, comma 2), dunque, lungi dall'essere un'evocazione del "collettivismo"è, prima di tutto, una garanzia della effettiva libertà dell'iniziativa economica privata (art. 41 comma 1). 
Questa libertà deve essere garantita a tutti modificando il presente, e la sua ingiustizia, e per il futuro, senza che lo Stato rimanga inerte a ratificare i rapporti di forza politici ed economici già instauratisi.
La libertà economica varrà effettivamente per tutti in quanto non ostacolata dalle varie barriere all'entrata (comprese quelle tecnologiche che tendono a diventare inefficienti in assenza dell'indirizzo statale che corregga il monopolio privato, e che, essenzialmente, si compendia nella stessa attività industriale strategica dello Stato medesimo; art. 43 Cost.). 
I Costituenti tengono esplicitamente conto del fenomeno per cui le posizioni di forza monopolistica privata, fanno leva su vantaggi indebiti di costo (cioè sull'imposizione di rendite, essendosi price-maker, fuori da un efficiente gioco concorrenziale e non price-taker), sulle asimmetrie informative, sull'esenzione dal sopportare i costi delle esternalità, riversati sulla comunità sociale, sull'accesso privilegiato e discriminatorio al credito etc.
 
8. Questo quadro spiega concretamente ciò che Ruini (sempre qui, infine) aveva ben presente nel replicare a Einaudi ed al suo tentativo di ripristinare, in sede Costituente, la supremazia della forza economica come "fatto compiuto", inibendo ogni intervento correttivo dello Stato, in nome del nostalgico e fantomatico "libero mercato", che, già allora, tentava la via cosmetica della restaurazione denominandosi neo-liberismo, ordoliberismo e "terza via" (la parola chiave, non enunciata, ma sottintesa per come emersa nel corso del precedente dibattito costituente è "rentiers"):
"Gli economisti — i migliori — riconoscono che il loro edificio teorico, la scienza creata dall'Ottocento, non regge più sul presupposto di una economia di mercato e di libera concorrenza, che è venuto meno, non soltanto per gli interventi dello Stato, ma in maggior scala per lo sviluppo di tendenze e di monopoli delle imprese private
Quando vedo i neo liberisti, come l'amico Einaudi, proporre tale serie di interventi per assicurare la concorrenza, che qualche volta possono equivalere agli interventi di pianificazione, debbo pur ammettere che molto è mutato
Non pochi vanno affannosamente alla ricerca della terza strada
La troveranno? Non lo so. Questo so: che si avanza la forza storica del lavoro
Non potevamo rifiutarci a questa affermazione. 
Mazzini diceva che noi tutti un giorno saremo operai; i cattolici hanno il codice di Malines e quello di Camaldoli, dove sono stati stabiliti i principî d'una economia del lavoro. 
Ho sentito da questa parte (Accenna a destra) chi pur faceva vive critiche: «Se per socialismo si intende un rinnovamento sociale, anche noi siamo socialisti». 
Allora, perché avremmo dovuto rifiutarci a riconoscere che la nuova Costituzione è basata sul lavoro e sui lavoratori? 
Parlando di lavoratori, noi intendiamo questo termine nel senso più ampio, cioè comprendente il lavoratore intellettuale, il professionista, lo stesso imprenditore, in quanto è un lavoratore qualificato che organizza la produzione, e non vive, senza lavorare, di monopolî e di privilegi. 
Sono cieche le correnti degli imprenditori che non rivendicano — se sono ancora in tempo lo dirà la storia — la loro vera funzione ed il titolo glorioso di lavoratori
 
9. La Costituzione dunque, indicava una linea di evoluzione democratica della stessa attività d'impresa, attraverso questa  garanzia della effettiva libertà d'iniziativa economica privata,  una garanzia apprestata dallo Stato che, perseguendo la piena occupazione, assume contemporaneamente un concetto di "diritto al lavoro" che includeva gli "imprenditori", assicurando che il divenire tali potesse essere una scelta concretamente possibile per TUTTI - e non un'opzione meramente teorica MA DI FATTO PRECLUSA, come nella società classista fondata sui poteri economici di fatto, oggi sempre più spesso stranieri.
 
10. Lo stesso Lelio Basso, spiega i vantaggi generali, di crescita e di benessere diffuso, del modello costituzionale, specificando la direzione che avrebbe potuto assumere la gestione dell'industria pubblica (naturalmente in assenza del crescente ed instrusivo "vincolo esterno"€uropeo, esplicitamente inteso a neutralizzare la Costituzione economica). 
Vi riporto, come segnalataci da Francesco, la sua lunga locuzione (del 1958) che vale la pena di comprendere in profondità oggi più che mai, perché si rivela un programma per il presente di straordinaria attualità:

E.N.I., I.R.I., partecipazioni statali, Sturzo, Mattei, Bo, liberismo, statalismo, capitalismo di Stato: ecco dei nomi e delle sigle che popolano ogni giorno di più la polemica politica, senza che il grande pubblico abbia ancora potuto formarsi una idea chiara della natura e dell’importanza vitale dei problemi che si dibattono e degli interessi che sono in gioco. 
E probabilmente neppure tutti i compagni socialisti hanno idee chiare in proposito, anche perché il Partito non ha fino ad oggi sufficientemente delineato e precisato la sua politica. Certo, su due punti esso ha avuto una posizione chiara ed efficace: ha appoggiato vigorosamente la azienda di Stato contro i monopoli privati e il rapace capitalismo straniero in materia di idrocarburi, e ha condotto in Parlamento e fuori una lotta tenace per lo sganciamento delle aziende I.R.I. dalla Confindustria. Ma questo non basta a delineare una politica, e opportunamente quindi la Direzione del Partito ha deciso di convocare prossimamente a Roma un convegno nazionale che investa tutto il complesso problema delle partecipazioni.

Perché i socialisti hanno dimostrato questo favore all’iniziativa pubblica?
Perché hanno voluto la separazione anche organizzativa e sindacale dall’iniziativa privata?
E come è accaduto che su queste richieste si incontrasse anche il consenso della D.C. o di una parte di essa, una parte essendo invece apertamente rimasta legata agli interessi privati?
Credo che, partendo da queste domande, si possa arrivare ad alcune conclusioni in ordine ai temi che saranno trattati al prossimo convegno.

Diciamo subito, anche per rispondere a certe obiezioni che ci sono venute pure dall’interno del Partito, che noi non abbiamo difeso l’iniziativa pubblica perché siamo ingenuamente tratti a confondere le attuali forme di capitalismo di Stato con forme di proprietà socialista, o perché ignoriamo che cosa l’azienda di Stato possa diventare, e stia diventando, nelle mani degli attuali governanti
Al contrario, sappiamo benissimo che se la D.C. ha fatto sua la proposta dello sganciamento delle aziende I.R.I. e della creazione di un ministero delle Partecipazioni, è proprio perché essa mira a fare del vastissimo settore delle imprese pubbliche un suo hortus conclusus, un campo chiuso del proprio dominio, mettendo alla testa delle aziende uomini di stretta osservanza, praticando una politica di discriminazione nelle assunzioni, servendosene in ogni modo per scopi elettorali e per il consolidamento del proprio potere, accentuando la presa clericale sul Paese.

Non solo, ma sappiamo altresì che nelle mani della D.C. le imprese pubbliche, anche sganciate dalla Confindustria, non romperanno mai i loro legami di interessi con i monopoli privati, perché conosciamo bene la partecipazione che al capitale e alla direzione dei monopoli dà il Vaticano nella sua funzione di holding; e sappiamo che il Vaticano fungerà da tramite per accordi e collusioni di interessi al fine di sottoporre al suo controllo tutta la vita economica nazionale.
Sappiamo tutto questo e sappiamo quindi che, nonostante lo sganciamento e nonostante il ministero, la battaglia per una seria politica delle imprese statali è appena agli inizi. Quali debbono esserne gli sviluppi? In proposito, ecco, in rapidissima sintesi, il mio pensiero...
L’economia italiana, sotto la guida del capitalismo privato, si è sviluppata in modo abnorme, creando la situazione ormai a tutti nota di alcune grandi imprese o gruppi di imprese ad alto sviluppo tecnico, con larghi sovrapprofitti, con un grande potere economico sul mercato, e, per contro, di una vasta zona di sottosviluppo, caratterizzata da scarsa produttività, da metodi precapitalistici, da disoccupazione e sottoccupazione, che non si limita soltanto al Mezzogiorno, ma, geograficamente, tocca anche l’Italia del Nord (si pensi per esempio al Delta padano o all’Arco alpino), e, economicamente, investe come settori di produzione, come gran parte dell’agricoltura, del commercio e, più in generale, dei settore terziario.

Se lo sviluppo dell’economia italiana continua ad essere abbandonato alla cosiddetta spontaneità del mercato, e cioè in pratica alla forza predominante dei monopoli, questa situazione permarrà e si aggraveranno anzi gli squilibri fra regione e regione, fra settore e settore, fra ceto e ceto: l’arretratezza con tutte le sue conseguenze (fra cui appunto disoccupazione e sottoccupazione, miseria, analfabetismo e semianalfabetismo, ecc.) continuerà a caratterizzare la vita italiana, impedendo la formazione di un Paese moderno e democratico, e il dominio dei monopoli si accentuerà anche nella vita politica, con le sue inevitabili tendenze all’esercizio di un potere totalitario.

Solo un intervento cosciente e programmato nell’economia del paese può invertire la tendenza, creando le condizioni dello sviluppo economico: investimenti industriali non soltanto e non prevalentemente nell’ambito delle aziende già fortemente sviluppate, MA AL CONTRARIO CON SCOPI ESTENSIVI DELL’OCCUPAZIONE, e in settori propulsivi dell’economia e capaci di effetti moltiplicati; industrializzazione del Mezzogiorno per dare a questa vasta zona d’Italia, finora abbandonata alla politica paternalistica delle opere pubbliche, uno strumento automatico di sviluppo; riforma agraria, ecc.

QUESTO INTERVENTO COSCIENTE E PROGRAMMATO PUÒ ESSERE OPERATO DALLO STATO SOLO SE ESSO DISPONE DI STRUMENTI ECONOMICI EFFICACI, E, PER RICONOSCIMENTO GENERALE, non sono oggi più sufficienti, anche se molto importanti, gli strumenti classici della fiscalità, della manovra monetaria e del controllo del credito, adoperati, a seconda dei casi, come freno o come incentivo, e quindi agenti in forma indiretta: SONO NECESSARI ANCHE STRUMENTI DI INTERVENTO DIRETTO, QUALI APPUNTO LE IMPRESE PUBBLICHE, che possono effettuare esse stesse i necessari investimenti, promuovere le industrie in base agli opportuni criteri di scelta economica e geografica, praticare direttamente la necessaria politica dei prezzi, ecc.

Le partecipazioni statali sono quindi oggi necessarie a una politica di sviluppo, ma possono operare utilmente soltanto se sono libere da qualsiasi interferenza di interessi privati: infatti una politica di sviluppo non è possibile, se non entrando in conflitto con gli interessi dei monopoli, sia per quanto riguarda l’acquisizione del capitale e la scelta degli investimenti, sia per quanto riguarda la politica dei prezzi e l’allargamento del mercato
>.  

Come potrebbe seriamente concepirsi una politica di sviluppo che non rompesse le strozzature dei prezzi imposti dal monopolio in materia p. es. di tariffe elettriche, di concimi chimici, di cemento, e via discorrendo? Perciò lo sganciamento dalla Confindustria non deve significare soltanto una separazione puramente organizzativa, ma dev’essere il primo passo per una totale indipendenza di direzione, che permetta alla industria di Stato di assolvere i suoi compiti, che sono di aperta competizione con gli interessi del monopolio.
Un’impostazione di questa natura porta necessariamente con sé la conseguenza che la politica delle partecipazioni statali, appunto perché diretta essenzialmente a finalità di interesse pubblico (che, si badi bene, non sono affatto in contrasto con l’economicità, purché l’economicità sia riferita non al semplice bilancio aziendale annuale, ma all’utile generale che si vuole perseguire) , dev’essere sottoposta continuamente al controllo democratico della collettività, controllo diretto soprattutto a garantire la corrispondenza dell’attività svolta al fini assegnati e a impedire conseguentemente ogni ulteriore collusione con gli interessi privati, non soltanto a livello aziendale ma, che è più importante, sul piano della politica generale
Quali siano oggi le forme più efficaci di controllo, è, a mio giudizio, problema arduo, che sfugge alle troppo facili formulazioni: parlare di controllo operaio o di controllo parlamentare non significa ancora uscire da formule generiche e da formule che, fino ad oggi, non hanno rivelato una particolare efficacia.

Ma, appunto per questa difficoltà, è necessario che il problema di un controllo democratico sia bene al centro delle nostre preoccupazioni, non solo perché è problema inscindibile da quello dello indirizzo generale di politica economica, ma perché è attraverso il controllo democratico che si esercita la vigilanza e la pressione delle masse.

Ora il significato più specificamente socialista di questa politica non sta nella famosa e fumosa “socialità” di cui parlano i cattolici, non sta neppure in possibili vantaggi sindacali cui potrebbero aspirare i lavoratori di queste aziende, ma sta nel fatto che ATTRAVERSO QUESTA POLITICA È LA COLLETTIVITÀ STESSA, SONO I LAVORATORI ORGANIZZATI E COSCIENTI CHE ASSUMONO L’INIZIATIVA POLITICA ANCHE IN CAMPO ECONOMICO, strappandola dalle mani dei gruppi dirigenti che con il loro chiuso egoismo hanno avvilito tutta la vita della Nazione.

In questo senso questa politica è parte viva di una alternativa democratica, che non può esaurirsi soltanto in un mutamento di leggi e in un rinnovamento di istituti, ma ha per scopo essenziale, attraverso una più forte presa di coscienza e una maggiore acquisizione di potere e quindi una più attiva presenza dei lavoratori nella direzione della cosa pubblica, di dare un nuovo protagonista alla vita nazionale, nel che sono contenute in nuce ulteriori possibilità di democratizzazione e di socialismo
” [L. BASSO, I socialisti e le partecipazioni statali, Avanti!, 26 febbraio 1958].

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