Quantcast
Channel: Orizzonte48
Viewing all articles
Browse latest Browse all 1237

RAZZISMO, XENOFOBIA: LE FRONTIERE DELLA MISTIFICAZIONE.

$
0
0

RAZZISMO, XENOFOBIA: LE FRONTIERE DELLA MISTIFICAZIONE.



Post di Arturo

Se avete un qualsiasi contatto con i media non potrete fare a meno di notare la reiterata, direi ossessiva, accusa di razzismo, quando non di fascismo, rivolta, oltre che al nuovo governo, agli elettori della maggioranza che lo sostiene.
Emblematica, tra le molte fonti pertinenti, un’intervista a Camilleri, che esordisce con questa surreale preterizione: “Non voglio fare paragoni ma intorno alle posizioni estremiste di Salvini avverto lo stesso consenso che a dodici anni, nel 1937, sentivo intorno a Mussolini. Ed è un brutto consenso perché fa venire alla luce il lato peggiore degli italiani, quello che abbiamo sempre nascosto.



Vorrei soffermarmi in particolare su due aspetti: l’accusa di razzismo; il significato politico di tale accusa. In questo post mi concentrerò sulla prima, mentre rimando l’esame del secondo a un’altra occasione.

Vorrei iniziare recuperando osservazioni chiarificatrici avanzate a suo tempo da un intellettuale del calibro di Lévi-Strauss, autore fra l’altro di due famosi interventi sull’argomento, entrambi redatti su commissione dell’UNESCO: Razza e cultura, nel 1952; Razza e storia, nel 1971 (per tutte queste notizie, e le citazioni che seguono, sto utilizzando C. Lévi-Strauss, D. Eribon, Da vicino e da lontano, Rizzoli, Milano, 1988, cap. 16).
Osserva Lévi-Strauss, intervistato da Eribon:
Però i giornali, la radio, eccetera, richiedono spesso il suo parere sulla questione del razzismo, e lei generalmente rifiuta di rispondere…
Non ho voglia di rispondere perché, in questo campo, si naviga in piena confusione, e qualunque cosa si dica so in anticipo che sarà male interpretata. Come etnologo sono convinto che le teorie razziste siano allo stesso tempo mostruose e assurde. Ma banalizzando la nozione di razzismo, applicandola a sproposito, la si svuota di contenuto, e si rischia di giungere al significato opposto a quello che si persegue. Infatti, che cos’è il razzismo? Una dottrina precisa, che si può riassumere in quattro punti. Uno: esiste una correlazione tra il patrimonio genetico da un lato e le abitudini intellettuali e le inclinazioni morali dall’altro. Due: questo patrimonio, da cui dipendono queste attitudini e queste inclinazioni, è comune a tutti i membri di certi raggruppamenti umani. Tre: questi raggruppamenti chiamati “razze” possono essere ordinati secondo una scala in funzione della qualità del loro patrimonio genetico. Quattro: queste differenze autorizzano le “razze” dette superiori a comandare, sfruttare gli altri, eventualmente a distruggerli. Teoria e pratica insostenibili per numerose ragioni che dopo altri autori, o contemporaneamente ad essi, ho enunciato in “Razza e cultura” con altrettanto vigore che in “Razza e storia”. Il problema dei rapporti fra culture si situa su un altro piano.

Qui sta la mistificazione su cui si gioca!

Quindi, secondo lei, l’ostilità di una cultura nei confronti di un’altra non è razzismo?
L’ostilità attiva sì. Niente può autorizzare una cultura a distruggere o reprimere un’altra. Quella negazione dell’altro si fonderebbe inevitabilmente su ragioni trascendenti: quelle del razzismo, o ragioni equivalenti. Ma che certe culture, pur rispettandosi, possano sentire maggiori o minori affinità le une per le altre, è una situazione di fatto che è esistita in ogni tempo: è di norma nei comportamenti umani. Denunciandola come razzista si rischia di fare il gioco del nemico, perché molti sprovveduti diranno: se il razzismo è questo, allora io sono razzista.
[…]
Se comprendo bene la sua definizione di razzismo, lei ritiene che non vi sia razzismo nella Francia di oggi.
Si osservano fenomeni inquietanti, ma che – salvo quando si uccide un arabo perché è arabo, cosa che si dovrebbe punire all’istante e senza pietà – non appartengono al razzismo nel senso forte del termine. Ci sono e ci saranno sempre comunità inclini a simpatizzare con quelle i cui valori e il cui genere di vita non contrastano con i propri; e meno con altre. Ciò non impedisce che anche con queste ultime i rapporti possano e debbano restare sereni. Se il mio lavoro richiede il silenzio e se una comunità etnica si trova bene nel rumore o se ne compiace perfino, non la biasimerò e non metterò sotto accusa il suo patrimonio genetico, preferire tuttavia non abitare troppo vicino, e non mi piacerebbe che con quel falso pretesto si cercasse di farmi sentire in colpa.

Alla luce di queste utili riflessioni potremmo quindi concludere che: salvi episodi criminali, da condannare senza esitazione, non ha senso parlare di razzismo in relazione a posizioni ostili all’immigrazione; sarebbe forse più pertinente evocarlo, congiuntamente al classismo, a proposito di chi si augura un arrivo di immigrati per svolgere mansioni che gli italiani, molto ipoteticamente, rifiuterebbero, quasi che l’immigrato debba essere naturalmente relegato a lavori faticosi e poco remunerativi. Su questo argomento tornerò dopo.





Ci si potrebbe però allora domandare se non sia invece fondata l’accusa di “xenofobia”.

Io direi proprio di no: xenofobia evoca un timore irrazionale, una paura priva di fondamento; qui però di infondato c’è ben poco.



Come su questo blog è stato detto e ripetuto, il controllo dell’immigrazione costituisce una prerogativa dello Stato nel diritto internazionale, il cui esercizio il nostro diritto costituzionale vincola ai fini di una sovranità democratica fondata sul lavoro (vedi soprattutto qui, in particolare n. 7 e n. 8).
Che l’immigrazione possa rappresentare una duplice minaccia, economica e politica, per i cittadini e lavoratori del paese di arrivo, è stato ampiamente argomentato citando il già linkato Chang, l’American Socialist Party, Barba e Pivetti (n. 6), Engels e Korpi mentre un utile esame di fonti marxiane è stato compiuto da Visalli e da Moreno Pasquinelli.

(Per duplice minaccia, non fosse chiaro, si intende sia l’attacco diretto ai salari, sia la moltiplicazione di conflitti sezionali di tipo culturale (menzionati qui, n. 13.1; per l’osservazione che si tratta di un caso specifico di una più generale prassi delle élite globaliste, di oggi e di ieri, vedi le osservazioni di Rodrik, riportate qui, n. 4).

Qui intendo riportare ulteriori fonti, non bastassero quelle già esaminate: cominciamo con Dean Baker, economista americano non certo di destra.
Nel suo libro, The Conservative Nanny State. How the Wealthy Use the Government
to Stay Rich and Get Richer,  Center for Economic and Policy Research, Washington DC, 2006 (che potete peraltro scaricare liberamente qui), figura un interessante paragrafo dal titolo: “Immigrazione: un altro strumento per la compressione salariale”. Citerò, traducendo, da pagg. 23 e 24.
Vediamo un po’: L’immigrazione è stato un altro importante strumento per deprimere i salari di un segmento significativo della forza lavoro. Il meccanismo con l’immigrazione è esattamente lo stesso che col commercio: si approfitta dei miliardi di lavoratori nei paesi in via di sviluppo disponibili a lavorare per un salario più basso dei lavoratori americani per abbassare i salari in un ampio ventaglio di professioni.
Le leggenda dello “stato balia” conservatore è che gli immigrati fanno lavori che i lavoratori americani non vogliono più fare [mi ricorda qualcosa questa argomentazione…], come per esempio custodi, lavapiatti e raccoglitori di frutta, tutti lavori con salari molto bassi. Il problema con questa leggenda è che la ragione per cui è poco probabile che i lavoratori autoctoni vogliano svolgere questi lavori è perché sono poco pagati, non perché sono sgradevoli in sé. Lavoratori autoctoni sono stati disponibili a fare molti lavori spiacevoli, se ben retribuiti. Il confezionamento della carne è un ovvio esempio di un industria che offriva lavori relativamente ben pagati, molto ricercati dagli autoctoni, anche se nessuno sarebbe particolarmente felice di lavorare in un macello. Questo è meno vero oggi che nel passato, perché l’industria di confezionamento della carne ha approfittato della disponibilità di lavoratori immigrati per peggiorare i salari e le condizioni di lavoro del settore. Il risultato è che oggi gli immigrati costituiscono una vasta porzione della forza lavoro nell’industria di confezionamento della carne.
Lo stesso avviene per tutti i lavori che in teoria i lavoratori autoctoni non vorrebbero fare: sarebbero in realtà disponibili a lavare piatti, pulire gabinetti e raccogliere pomodori per 20 $ l’ora. Quanto i conservatori “statalisti” affermano che non riescono a trovare autoctoni per questi lavori intendono che non riescono a trovarne ai salari che vogliono pagare, nello stesso modo in cui la maggior parte di noi non troverà un dottore o un avvocato autoctono disponibile a lavorare per 15 $ l’ora.

Salta agli occhi come l’armamentario retorico che ci viene propinato, da noi a quanto pare ritenuto più spendibile se imbellettato con un’allure “progressista”, è precisamente quello denunciato da Baker.

Un’altra fonte utile, e direi abbastanza devastante, per studiare gli effetti sociali e culturali dell’immigrazione di massa è questo paper di Robert Putnam.
Notate bene che l’autore è favorevole all’immigrazione, ma un esame onesto dei dati e della vasta letteratura lo costringe a dipingere un quadro piuttosto scoraggiante, per usare un eufemismo.
Ve ne riassumo i punti principali.
In primo luogo Putnam ammette (pag. 142) che la “contact hypothesis”, sostenuta, io direi in assai dubbia buona fede, dai multiculturalisti, secondo cui la diversità aumenterebbe la tolleranza e la solidarietà sociale, non è supportata dalla maggioranza degli studi, che tende invece a convalidare la “conflict theory”, secondo cui la “diversità alimenterebbe la sfiducia extra-gruppo e la solidarietà intra-gruppo”, cioè sostanzialmente la ghettizzazione.
Quello che è interessante del lavoro di Putnam è che in realtà le sue conclusioni sono ancora peggiori di così. Studi empirici svolti in USA, Australia, Svezia, Canada e Gran Bretagna riscontrano una correlazione fra immigrazione, riduzione della solidarietà sociale e addirittura dell’investimento in beni pubblici. L’aspetto però più disturbante dei risultati di Putnam è che la solidarietà sociale non tende semplicemente a restringersi a un più piccolo gruppo di “simili”, ma cade in generale, anche all’interno dei vari gruppi etnici. La conclusione (pag. 149) è che la “differenza tende a innescare non una divisione fra esterni e interni al gruppo, ma anomia e isolamento sociale. In termini colloquiali, la gente in ambienti etnicamente differenziati tende a ritirarsi nel proprio guscio, come una tartaruga”. E questo vale per tutti i gruppi esaminati, con modeste differenze per età, sesso e convinzioni politiche.
Non molto incoraggiante per chi ritiene importanti valori come solidarietà e impegno; appetibile per chi da sfiducia e astensionismo ha tutto da guadagnare.
In effetti l’happy end multiculturale di Putnam si riduce a un “hunch” (pag. 163), un’intuizione. Andiamo bene. Naturalmente però irrazionale e razzista è sempre il popolino ignorante.   

Con ciò, sia chiaro una volta per tutte, non si intende affatto rinunciare a valori come universalismo e solidarietà, ma semplicemente prendere atto che per affrontare in modo quanto più democratico possibile situazioni complesse e fra loro molto diverse, si richiede un’articolata pluralità di mediazioni politiche, non bambineschi, ma interessati, “we are the world”, imposti a colpi di ciniche strumentalizzazioni di tragedie del passato.

Per esempio che l’emigrazione risulti dannosa per il paese che vi fa ricorso – ne abbiamo parlato a proposito di un intervento dei vescovi africani (n. 7) – è un fatto noto da lunga pezza alla letteratura economica dello sviluppo.
Nei lontani anni ’50 Myrdal (An International Economy, Harper & Brothers, N. Y., 1956, pag. 95) scriveva: “Chiedere ai paesi ricchi di aprire le loro frontiere all’immigrazione di massa sarebbe davvero una discutibile forma di idealismo. Se in un paese persiste una situazione di eccedenza di manodopera in quanto lo sviluppo economico non tiene il passo con l’aumento di popolazione, occorre aumentare il ritmo dello sviluppo quanto le risorse del paese consentono. Se non è comunque possibile conseguire il pieno impiego, l’aumento della popolazione dovrebbe essere controllato. Affidarsi ai paesi stranieri perché si scelgano lavoratori formati che, seppure non rappresentano un gran valore produttivo nel loro paese, finché esso rimane sottosviluppato, costituiscono comunque costi notevoli spesi per loro fino a quando non sono pronti per emigrare, rappresenta la via alla povertà permanente.

Insomma, con tutti i quantocicosta con cui ci bombardano quotidianamente, potrebbero degnare di un minimo di attenzione la tragedia sociale, e costituzionale, dell’emigrazione italiana, che da anni si consuma sotto i nostri occhi. (E che ovviamente non si intende minimamente ridurre a un problema di poste contabili…).  











Viewing all articles
Browse latest Browse all 1237

Trending Articles