Sofia ci regala un altro dei suoi post di accurata ricostruzione dei problemi. Qui vengono affrontati vari problemi, partendo da definizioni e tendenze immancabili del mercato che è bene ricordare ab imis. La esposizione è necessariamente lunga, ma (al contrario della mia :-)), scorrevole; e consente di capire o di "ripassare" concetti che ci pongono in grado costantemente di decifrare la realtà, al di là della melassa mediatica che, - è questo è il tema della seconda parte-, tende costantemente a manipolare e a "orientare" la nostra opinione. Per consolidare il potere di fatto di grandi interessi economici.
I quali tendono e tenderanno sempre a controllare le Istituzioni democratiche; e quando queste non sono ben piegabili ai loro fini, a MODIFICARLE. Questa è la nuova frontiera della difesa della democrazia: non prestarsi a manipolazioni che vogliano farci accettare, come una ennesima necessità, il mutamento della Costituzione.
E' bene ricordare sempre che qualsiasi mutamento costituzionale, nelle condizioni ben illustrate nel post, risponderà IMMANCABILMENTE solo agli interessi di queste forze. E noi dobbiamo resistere, per preservare quello che rimane del valore della democrazia.
Il punto che però mi piace sottolineare è un meccanismo psicologico di massa che gli influencers usano a mani basse. Nel post si dice: "Nel documento (UNCTAD ndr.) si critica il monopolio sulle notizie esercitato dalle agenzie di stampa occidentali e, più in generale, il flusso unidirezionale dell’informazione - dai paesi industrializzati verso quelli in via di sviluppo, nonché l’approccio stereotipato agli avvenimenti, focalizzato in particolare su fatti drammatici, come guerre, catastrofi naturali e instabilità politica."
Ora il meccanismo è questo: se "noi" (monopolisti dell'informazione, controllati dai poteri economico-finanziari a caccia di istituzionalizzazione autoritaria del potere) siamo così sensibili da preoccuparci di tutte queste disgrazie, di questi "problemi umanitari", come potremmo NON volere il vostro bene quando vi imponiamo delle riforme socio-economiche?
I quali tendono e tenderanno sempre a controllare le Istituzioni democratiche; e quando queste non sono ben piegabili ai loro fini, a MODIFICARLE. Questa è la nuova frontiera della difesa della democrazia: non prestarsi a manipolazioni che vogliano farci accettare, come una ennesima necessità, il mutamento della Costituzione.
E' bene ricordare sempre che qualsiasi mutamento costituzionale, nelle condizioni ben illustrate nel post, risponderà IMMANCABILMENTE solo agli interessi di queste forze. E noi dobbiamo resistere, per preservare quello che rimane del valore della democrazia.
Il punto che però mi piace sottolineare è un meccanismo psicologico di massa che gli influencers usano a mani basse. Nel post si dice: "Nel documento (UNCTAD ndr.) si critica il monopolio sulle notizie esercitato dalle agenzie di stampa occidentali e, più in generale, il flusso unidirezionale dell’informazione - dai paesi industrializzati verso quelli in via di sviluppo, nonché l’approccio stereotipato agli avvenimenti, focalizzato in particolare su fatti drammatici, come guerre, catastrofi naturali e instabilità politica."
Ora il meccanismo è questo: se "noi" (monopolisti dell'informazione, controllati dai poteri economico-finanziari a caccia di istituzionalizzazione autoritaria del potere) siamo così sensibili da preoccuparci di tutte queste disgrazie, di questi "problemi umanitari", come potremmo NON volere il vostro bene quando vi imponiamo delle riforme socio-economiche?
1) TENDENZA ALLA FORMAZIONE DI MONOPOLI/OLIGOPOLI
Hermann Levy, uno storico economico tedesco ha evidenziato [1] come, nell'industria moderna, si sia passati da una fase in cui sono prevalse piccole formazioni monopolistiche, ad uno stadio concorrenziale, ad una fase in cui si è affermata la concentrazione industriale e in cui sono prevalsi grandi formazioni produttive con situazioni di monopolio/oligopolio. Queste formazioni monopolistiche al di là dei casi in cui si sono formate per effetto di specifiche politiche statali, soprattutto negli ultimi anni si sono formate ad opera di potenti coalizioni d'interessi economici privati (non è un caso che si siano formati anche in paesi molto diversi tra loro e perfino in paesi che avevano antiche tradizioni liberistiche, a dimostrazione che non si tratta di trasformazioni accidentali, bensì, di un processo).
Levy ha spiegato le ragioni per cui si è arrivati a tali concentrazioni (progresso tecnologico, incremento dei mezzi di trasporto, aumento del volume di capitale minimo necessario per avviare la produzione[2] ecc) ed ha chiarito che quando in molte industrie la concentrazione tecnica e quella economica sono divenute molto elevate, sono sorte le premesse per la concentrazione finanziaria, non solo fra imprese dello stesso ramo, ma anche fra imprese di rami diversi, con collegamenti che necessariamente comportano un coordinamento nella politica dei prezzi[3] e degli investimenti delle diverse imprese.
E’ importante anche evidenziare che quando la concentrazione, in un determinato ramo produttivo, ha raggiunto un livello molto elevato, importa poco stabilire se essa sia andata aumentando o diminuendo: se le imprese grandissime, da quattro che erano in un certo momento, diventano tre, ovvero cinque, la situazione e la forma del mercato in sostanza non mutano: in esso praticamente si e raggiunto il limite della concentrazione.
L'oligopolio, dunque, non appare come un caso teorico particolare, ma come la forma di mercato più frequente, se pure variamente configurata, nella moderna realtà economica[4].
In particolare è l’oligopolio concentrato a rappresentare la nuova forma di mercato e sebbene questo si presenta soprattutto nell'industria manifatturiera, nei paesi evoluti, nel periodo più recente, si è verificato pure nel commercio-distribuzione di prodotti di largo consumo (grazie anche allo sviluppo dei mezzi di pubblicità).
L’Oligopolio[5], quindi, vede la presenza di un numero assai limitato di imprese, ciascuna delle quali controlla una quantità considerevole di produzione, di vendita di consumo di un bene (imprese petrolifere, automobilistiche, aeronautiche, assicurative, telefoniche, informatiche).
La concentrazione su pochi soggetti porta a un significativo potere di mercato con ampia capacità di determinazione o influenza sul prezzo, spesso espresso dall’impresa considerata leader; il contesto economico può essere considerato calmierabile solo parzialmente in virtù della possibile concorrenza da parte di altre imprese già presenti o comunque desiderose di entrare nel lucroso mercato. Ma la strategia seguita da queste imprese per controllare la concorrenza (o mantenerla all’interno della cerchia degli oligopolisti presenti e non accrescerne il numero) è quella di concordare tra gli interessati, in modo collusivo, un prezzo superiore a quello marginale in danno del consumatore.
L’oligopolio tende quindi a trasformarsi in una forma di "cartello", che equivale, negli effetti economici, alla più insidiosa forma di monopolio: quello ragginto attraverso intese occultate ai consumatori.
Oltre ai casi di oligopolio (al cui opposto si trova la diversa forma di mercato della concorrenza perfetta, che vede la presenza di innumerevoli compratori e venditori i quali agiscono con la massima libertà di movimento e la piena conoscenza della situazione economica e che permette di ottenere i risultati economici migliori perché i prezzi, le quantità di beni e i costi sono ottimizzati proprio dall’opera attiva dell’antagonismo tra i soggetti presenti sul mercato) si possono verificare anche ulteriori casi di concentrazione sul mercato, ossia i monopoli.
In questi casi si tratta di un mercato in cui opera un solo produttore o consumatore (acquirente: monopsomio) e non vi sono per altri possibilità di entrare nel settore di mercato, a causa di vincoli oggettivamente presenti in termini di tecnologia, prezzi o barriere di ingresso.
Il monopolista ha la massima libertà di esprimere il prezzo o in alternativa di decidere la quantità di beni da acquistare o vendere ottenendo il massimo potere di mercato. Il monopolio è quello che da i maggiori vantaggi a colui che dispone di questo privilegio perché questi sarà vincolato solo al perseguimento del suo massimo guadagno, ossia al maggior scarto assoluto tra i costi totali di produzione e i ricavi totali. Questi ultimi a loro volta sono collegati all’importo che scaturisce dal risultato dato dal prodotto della massima quantità di beni che il monopolista potrà vendere o acquistare, moltiplicato per il massimo prezzo unitario che vorrà o potrà praticare in funzione del massimo profitto totale raggiungibile.
È evidente come questa sia la forma che più penalizza il consumatore.
Al monopolio puro si affianca la concorrenza monopolistica, caratterizzata dalla presenza sul mercato, in genere accanto a un operatore di maggiori dimensioni (c.d. "incumbent"), di un numero elevato di imprese (ma non illimitato come nella libera concorrenza) che vendono prodotti pressoché uguali ma distinguibili dagli altri in ragione di particolari qualità, vere o presunte, adeguatamente pubblicizzate ed esaltate con particolari strategie di marketing che ovviamente finisce per influenzare il prezzo di vendita. Il potere di mercato, quindi, viene determinato da questa presunta unicità, ed il produttore viene a godere di spazi di ricavo superiori ai costi marginali di produzione nei confronti di quelli previsti e ottenibili in regime di libera concorrenza (potendo tutta l'offerta adeguare i prezzi intorno a quelli fissati dall'operatore maggiore).
In conclusione, quindi, emerge, da un lato, che la formazione di forme di concentrazione è un processo naturale e ciclico e, dall’altro, che queste forme sono estremamente svantaggiose per gli utenti-consumatori-cittadini.
Già questo ultimo dato, da solo, deve portare a considerare una forma di democrazia effettiva, cioè caratterizzata dalla presenza dell'intervento pubblico correttivo delle "iniefficienze" del mercato (a danno dei cittadini-utenti), quella di resistere alla privatizzazione imposta dall’ideologia della globalizzazione economica e non certo una forma di demagogia, né di complottismo.
Le multinazionali che finiscono per operare in regime monopolistico-oligopolistico al posto degli enti pubblici esponenziali degli interessi generali, concepiscono il mondo in termini di mero possesso e il mercato in termini di mero profitto, operando, come si è visto, in modi che consentono di privilegiare una rendita di posizione che influisce sui prezzi, la cui fissazione non corrisponde affatto al libero gioco di domanda e offerta; anziché generare abbondanza, queste privatizzazioni subordinate al profitto producono nuove esclusioni, espulsioni e maggiore povertà e trasformando ogni cosa in merce e in merce ogni risorsa, privando i popoli dei propri fondamentali diritti dietro slogan a favore del benessere e della "efficienza", ma al solo fine di monopolizzare ogni risorsa.
Queste forme di concentrazione generano esclusione e l’esclusione è il prezzo che la globalizzazione economica cerca di occultare proprio perché gli accordi economici che promuovono la globalizzazione non vengono decisi democraticamente, ma sono sanciti e imposti da organizzazioni come la Banca mondiale, il WTO o il Fondo monetario internazionale a prescindere dalla volontà delle comunità e dei paesi direttamente coinvolti.
Le multinazionali che controllano la globalizzazione economica indeboliscono le istituzioni democratiche dei paesi in cui operano, perché le loro decisioni vengono prese scavalcando le istituzioni parlamentari (costrette ad approvare una serie di riforme economiche di stampo neoliberista) e i singoli cittadini, determinando nuove forme di dittatura (quella economica, appunto).
Inoltre, con il pretesto di favorire gli interessi della collettività, finiscono per determinare una grande trasformazione del modo di concepire i diritti e le risorse: tutto viene imposto come un modello di sviluppo inevitabile, nascondendosi la realtà del potere di mercato abusivo che invariabilmente si accompagna a queste forme economiche private, in grado di condizionare sia il salario corrisposto ai dipendenti sia di ampliare le conseguenti rendite, senza alcuna comprovata maggior efficienza.
Quest'ultima, infatti, non è propria dell'operatore in posizione dominante, che può raggiungere un superprofitto anche senza l'innovazione tecnologica, e i presupposti della ricerca e dell'investimento .
Ovviamente non è contro il commercio internazionale che si punta il dito, ma contro specifiche forme di colonialismo, il quale è nato proprio dal desiderio di dominare i mercati. Sono in molti ormai ad accorgersi che decisioni e strategie politiche ed economiche che riguardano direttamente la qualità della vita di miliardi di essere umani vengono prese e sviluppate senza possibilità di contestazione da potentati di una nuovo tipo di feudalesimo finanziario.
Gli stati-nazione mascherano la loro impotenza continuando a rappresentare lo spettacolo e i riti di una sovranità ormai decaduta, col solo effetto di fungere da paravento al potere reale dei nuovi feudatari e di aggravare il peso di un castello burocratico sempre più vessatorio nei confronti dei cittadini, anche essi spogliati di fatto della sovranità insieme agli Stati e ridotti alla mera funzione di sudditi.
Il dato stupefacente è che mentre combattiamo, sappiamo della nostra guerra molto meno di quanto non ne abbiano mai saputo i popoli in ognuna delle innumerevoli occasioni in cui hanno avuto a che fare con strumenti e logiche di guerra.
Oggi, al massimo di informazione sembra corrispondere il minimo di verità. Tra informazione e verità si è aperta una divaricazione:tutti sanno, anzi, tutti vedono (credono, si illudono di vedere) tutto; ma quel tutto è sempre spostato di qualche grado rispetto al vero centro del problema (Alberto Asor Rosa, La Guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana).
La diffusione del senso comune di vivere nella globalizzazione è dovuta anzitutto dal contemporaneo incremento dell’offerta e utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa. Però se comunicazione e informazione si fanno potenzialmente globali, significa che anche il controllo dell’informazione si fa potenzialmente tale. E ciò per due ordini di ragioni.
Da un lato, perché coloro che operano in situazioni di concentrazione hanno bisogno dello strumento informazione per continuare a mantenere la loro situazione di monopolio/oligopolio e tenderanno, quindi, ad avere il controllo delle imprese che si occupano dell’informazione.
In secondo luogo perché l’informazione non è solo potere, ma anche un bene da gestire; essa diventa innanzitutto PRODOTTO.
Esistono quindi multinazionali dell’informazione esattamente come per altri prodotti che, come le altre multinazionali, tendono a fusioni e concentrazioni (vedere dati del 2000 rapporto UNCTAD) che tagliano fuori i concorrenti.
Se l’informazione è una merce appetitosa, è ragionevole aspettarsi che le fonti dell’informazione e i canali di distribuzione siano destinati al controllo di pochi, con buona pace dei teorici della rivoluzione via internet (anche internet è un prodotto e come tale riproduce alcuni caratteri dominanti del mercato globale).
Così come sarà inevitabile che le grandi multinazionali o comunque tutte le forme di concentrazione o di monopolio (nell’ambito delle quali l’informazione è il principale strumento per continuare a detenere situazioni di potere privilegiate) tenderanno ad acquisire, controllare, strumentalizzare le industrie della rete che sfruttano l’informazione come merce/prodotto da sfruttare economicamente.
2) I MONOPOLI DELL’INFORMAZIONE
Come funzionano e come si reggono i monopoli dell’informazione?
Concentrandosi prevalentemente sulla rete (e quindi su internet) Evgeny Morozov, un ricercatore di Stanford che da tempo studia la rete ed il suo funzionamento, chiarisce che Internet ha al suo interno delle gerarchie solidissime ma, appunto, spesso occulte. Alcune fra queste disuguaglianze sono il risultato del funzionamento segreto di siti come Google, Twitter o Facebook.
Questi siti sono delle Black box, di cui non conosciamo gli algoritmi che ci consegnano risultati di ricerca o ci suggeriscono nuovi amici o profili da seguire. Meccanismi che influenzano enormemente il nostro modo di fruire internet e, attraverso l’uso della rete, il mondo.
Non pare ci siano dubbi, egli sostiene, che quali che siano i meccanismi di funzionamento di questi brand multinazionali essi debbano seguire la logica dell’aumento del profitto e non certo quella della libera circolazione d’idee.
Internet 2.0 è insomma un luogo profondamente segnato dalle logiche mercato, dalle gerarchie che derivano da esso o che vengono importate dal mondo extra rete. Tutto il contrario di un piano orizzontale su cui costruire la tanto mitizzata, democrazia diretta. Oltre ad essere occultamente e massicciamente gerarchicizzato l’ambiente internet ha anche un’altra fondamentale caratteristica “politica” (non è certo un caso che il movimento 5 stelle generi tanto entusiasmo negli operatori finanziari come Goldman Sachs, presso gli imprenditori come Del Vecchio o scaldi gli animi dell’ambasciata americana, certo non un covo di attivisti antisistema).
E queste multinazionali dell’informazione, come mantengono le loro situazioni di monopolio/oligopolio una volta che le hanno acquisite? Ma ovviamente alla maniera di qualunque altro grosso imprenditore o operatore economico: cercando di non pagare le imposte (una delle tecniche più di di moda è il c.d. sandwich olandese) ma soprattutto cercando di sfruttare il lavoro per abbassare i costi. Il quotidiano The Morning Call, ha pubblicato una lunga e dettagliata inchiesta – intitolata Inside Amazon’s Warehouse – sulle terribili condizioni di lavoro nei magazzini Amazon della Lehigh Valley .
Senza trascurare anche il controllo politico. Si legge qua che: “ Il social network ha deciso di seguire le orme dei concorrenti - Google e Microsoft in pole position - per avere voce in capitolo con una sua "lobby". Costituito il Political Action Commitee: fornirà appoggio economico a partiti e candidati in vista delle prossime elezioni americane”.
Il problema riguarda molte compagnie associate a Internet in modo tanto stretto da essere identificate con la rete stessa.
Un altro caso da manuale è Apple, così come situazioni di lavoro precarie sono state registrate anche nella Foxconn, multinazionale cinese nelle cui fabbriche si assemblano iPad, iPhone e iPod.
In tutti questi casi, neppure ci si accorge del fenomeno, come se la rete e la tecnologia funzionassero di forza autonoma, una realtà che si evolve da sola, spontaneamente e teleologicamente. Ed invece così non è:solo che sono accuratamente occultati i rapporti di classe, di proprietà, di produzione, e difficile è comprendere chi ne sia proprietario, chi detenga il controllo reale dei nodi, delle infrastrutture, dell’hardware.
Il fenomeno è talmente poco evidente che nonostante ci siano multinazionali che tutti i giorni (in rete) espropriano ricchezza sociale e (dietro le quinte) vessano maestranze, sono considerate “meno multinazionali” delle altre. Ed invece non vi è differenza tra una grossa impresa petrolifera ed una Apple o un Google.
In tutti i casi a fenomeni liberalizzanti, di conquista di autonomia o libertà, conseguono anche fenomeni di assoggettamento: la rete è utilizzata per manifestare liberamente il pensiero, per la maggiore diffusione delle idee e delle notizie, per favorire la circolazione dei beni superando ogni tipo di barriera, ma nel contempo è anche usata per sfruttare e sottopagare il lavoro intellettuale, per controllare e imprigionare le persone, per imporre nuovi idoli e feticci alimentando nuovi conformismi, per veicolare l’ideologia dominante, per gli scambi del finanzcapitalismo.
Ciò detto, comunque, la questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento (produce entrambe le cose), ma è avere ben chiaro che la rete è la forma che prende oggi il capitalismo (il quale si affermò liberando le masse dai vincoli feudali, da antiche servitù e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti).
E non si tratta di un concetto nuovo. Marx nel Capitolo VI del Capitale (pagg. 57-58) sosteneva che «L’incremento delle forze produttive sociali del lavoro, o delle forze produttive del lavoro direttamente sociale,socializzato (reso collettivo) mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica, l’impiego delle macchine e in genere, la trasformazione del processo di produzione in cosciente impiego delle scienze naturali, della meccanica, della chimica ecc. e della tecnologia per dati scopi, come ogni lavoro su grande scala a tutto ciò corrispondente [...] questo incremento, dicevamo, della forza produttiva del lavoro socializzato in confronto al lavoro più o meno isolato e disperso dell’individuo singolo, e con esso l’applicazione della scienza – questo prodotto generale dello sviluppo sociale – processo di produzione immediato, si rappresentano ora come forza produttiva del capitale anziché come forza produttiva del lavoro, o solo come forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale; in ogni caso, non come forza produttiva del lavoratore isolato e neppure dei lavoratori cooperanti nel processo di produzione.
Quindi l’informazione è un prodotto, ed è un prodotto che viene utilizzato per acquisire potere e rendite economiche attraverso lo sfruttamento del lavoro. E la rete ed i social media sono forse la prima forma di profitto che utilizza la tendenza umana alla cooperazione e alla condivisione di informazioni.
Ad esempio Facebook (tanto per citare il più rilevante) si muove come se volesse inglobare tutta la rete e sostituirsi ad essa. Ognuno dei milioni di utenti che usa Facebook, ogni giorno produce contenuti per il network: contenuti di ogni genere, non ultimo contenuti affettivi e relazionali, sono parte del general intellect di Facebook. Ognuno su Facebook di fatto lavora senza accorgersenee senza essere pagato, produce valore anche se non si traduce in salario, ma in profitto per altri (i proprietari dei mezzi di produzione che vendono i dati sensibili, i pattern della navigazione ecc) ossia coloro che fanno soldi col il lavoro dei primi.
L’informazione, abbiamo visto, è merce. La comunità che usa Facebook produce informazione (sui gusti, sui modelli di consumo, sui trend di mercato) che il capitalista impacchetta in forma di statistiche e vende a soggetti terzi e/o usa per personalizzare pubblicità, offerte e transazioni di vario genere.
Ovviamente ciò è possibile solo grazie ad un monopolio di dati che vengono accumulati attraverso particolari algoritmi ed in base ad un nuovo modello di egemonia cognitiva che si basa sulla rendita cognitiva, ossia sullo sfruttamento di una nuova mediascape per l'intelligenza collettiva che è solo apparentemente libero e aperto. Google, ad esempio, è definito come un parassita del datascape digitale perché, da un lato, fornisce servizi gratuiti benevoli ma, d'altro canto, accumula valore attraverso una piattaforma diffusa di pubblicità web (Adsense e Adwords). E riesce, inoltre a stabilisce la propria gerarchia di proprietà di valore per ogni nodo di Internet e diventa quindi la prima rentier globale sistematica dell'intelletto comune.
Google, quindi, è a tutti gli effetti una azienda in situazione monopolistica, così come Facebook, in quanto la rappresentazione della più estesa rete di relazioni sul pianeta, è una merce. L’azienda Facebook può vendere informazione solo se, al contempo e senza sosta, vende quella rappresentazione di se stessa. Facebook, Google, Amazon ed Apple sono giganteschi monopoli che hanno affossato il sogno di quelle startup che, secondo i guru della New Economy, avrebbero dovuto competere alla pari con i colossi della IT, mentre oggi possono solo aspirare a farsi comprare.
3) LA TENDENZA DELLE MULTINAZIONALI O DELLE ALTRE IMPRESE IN SITUAZIONE DI MONOPOLIO/OLIGOPOLIO AD ACQUISIRE IL CONTROLLO DEI MONOPOLI DELL’INFORMAZIONE.
Occorre considerare che quasi il 48% delle maggiori imprese e banche del mondo è statunitense, il 30% europeo e il 10% giapponese. Il potere economico si trova concentrato su sole tre grandi aree. In questo sistema imperiale, vediamo un potere economico dominante contrastato da altrettanti poli imperialisti. I settori chiave interessati da grosse forme di concentrazione sono banche, farmaceutica e biotecnologia, telecomunicazioni, informatica, gas e petrolio, software, assicurazione.
Dagli studi delle realtà produttive dei vari paesi è risultato che gli investimenti diretti esteri crescono con il commercio internazionale e che in sostanza i due fenomeni sono intrecciati fra loro.
La crescita delle imprese multinazionali all’estero contribuisce alla conoscenza dei mercati ed accelera quei processi che senza il commercio internazionale sarebbero più lenti. L’economia mondiale è sottoposta ad un processo di competizione globale e mondializzazione dei mercati e della concorrenza a carattere delocatizzativo tramite imprese-rete multinazionali e filiere produttive internazionali; contemporaneamente si assiste a forti e continui processi di concentrazione della proprietà di impresa, il tutto in un contesto di speculazione finanziaria.
La filiera internazionale è quindi costituita da una rete di connessioni sia economiche sia tecnologiche che consentono di attuare delle strategie di partenrship in ambiti nazionali diversi.
Tale fenomeno con processi di concentrazione accelerata che stanno attraversando tutti i maggiori poli capitalisti significa una economia mondiale sempre più nelle mani di poche multinazionali che dispongono di un dominio illimitato capace di controllare il mondo.
La concentrazione del potere economico mondiale nelle maggiori imprese e banche significa che i mercati mondiali non sono competitivi ma che sono in gran parte modellati dai monopoli.
Questa concentrazione di potere economico è ciò che definisce la natura imperiale dell’economia, assieme ai mercati che esse controllano, le materie prime che saccheggiano, il lavoro che sfruttano. Si parla di ACCUMULAZIONE FLESSIBILE dell’era post-fordista basata sui processi di finanziarizzazione dell’economia e sull’uso massiccio, in termini di accumulazione valoriale, del capotale intangibile, delle risorse immateriali, quali la conoscenza, l’informazione, la comunicazione, che si modellano intorno ad un mercato del lavoro sempre più flessibile e precario e basse garanzie.
Come sottolinea Jeremy Rifkin, la multinazionale è “un’istituzione quasi politica che esercita un enorme potere sulle persone e sui luoghi per mezzo del controllo sull’informazione e la comunicazione”.
L’infowar si sovrappone alla guerra economica, sostenuta dalle multinazionali con le nuove tecnologie d’informazione e di comunicazione ed Internet, le imprese per dominare lo scambio economico devono dominare le reti. Ciò avviene con il controllo dell’informazione. Così il controllo dell’informazione diventa elemento chiave del potere economico-politico.
Tanto che pure di fronte ad una enorme mole di informazioni il cittadino medio spesso non è in grado di comprendere dove arriva la verità ed il problema e dove l’esigenza della multinazionale.
D’altra parte i grossi monopoli per rimanere tali, devono trasformare qualunque cosa in strumento di ricchezza e in bene di consumo. E riescono a farlo attraverso la strumentalizzazione di dati e lo sfruttamento delle fonti di informazione.
Per mantenere la propria egemonia economica creano bisogni nei consumatori al fine di generare e/o incrementare la domanda di beni e quindi la produzione. Per vendere su larga scala un prodotto, le multinazionali devono creare o estendere un dato tipo di domanda. A tale scopo, utilizzano strumenti “incentivanti” finalizzati a creare un certo tipo di gusto ed a far nascere nei consumatori quei desideri che porteranno all’acquisto del bene prodotto.
Così, con l’obiettivo di ottenere un risultato commerciale, le multinazionali “giocano” su fattori psicologici e sociali, modificando radicalmente i comportamenti, le abitudini di vita e quindi l’intero tessuto socio culturale.
E questo avviene attraverso i media, la pubblicità, internet, propaganda e sponsorizzazioni sociali e attraverso questi strumenti diventano “ingegneri” dei cambiamenti sociali, politici e culturali. Basano la propria strategia pubblicitaria sulla sensibilità sociale, utilizzano l’immagine, spesso quella di un’impresa grande, forte, “pulita”, dalla parte dei più deboli, per assume una valenza strategica verso ogni tipo di interlocutore, e spesso legano il loro nome e la loro immagine a quella di associazioni ed organizzazioni umanitarie, di beneficenza e ambientaliste.
Insomma maggiori sono le insane concentrazioni, maggiore è il conseguente controllo sulla diffusione dell’informazione: sia a livello internazionale, per via del potere delle agenzie multinazionali, la mancanza di controlli e le forme eclatanti di emarginazione e sia all’interno dei paesi, dove si sono consolidati monopoli, oligopoli e ambigui conflitti di interesse.
E non si tratta di complottismo. L’entità del fenomeno si è percepita da tempo.
Nel ’46, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite affermava che “tutti gli stati dovrebbero proclamare politiche che proteggano il libero flusso dell’informazione all’interno dei paesi e attraverso le frontiere”, come ribadito due anni più tardi dall’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani.
Nel 1976 si riconosce che “un Nuovo ordine mondiale dell’Informazione e della comunicazione di massa è tanto vitale quanto un Nuovo Ordine Economico internazionale”. Una prima denuncia di questo fenomeno è stata lanciata nel 1980 nella ricerca "Many Voices, One World", sviluppata dalla Commissione internazionale per lo studio nel campo delle comunicazioni dell’Unesco;http://www.unesco.org/new/en/communication-and-information/.
Nel documento si critica il monopolio sulle notizie esercitato dalle agenzie di stampa occidentali e, più in generale, il flusso unidirezionale dell’informazione - dai paesi industrializzati verso quelli in via di sviluppo, nonché l’approccio stereotipato agli avvenimenti, focalizzato in particolare su fatti drammatici, come guerre, catastrofi naturali e instabilità politica.
Negli anni ’90 mentre le multinazionali si espandono e le disuguaglianze continuano a esistere, alcuni studiosi delle comunicazioni, come Gornman e McLean, mettono in discussione il concetto di imperialismo culturale o mediatico: “quando i pubblici non sono rinchiusi dentro confini nazionali e le frontiere geografiche sembrano non contare più nulla per le comunità “virtuali” o “immaginarie”, diventa difficile accettare modi di ricezione dei prodotti mediatici e dunque l’influenza reale di chi ne elabora i contenuti: il modello semplice dell’imperialismo statunitense non è più pertinente nel mondo attuale, dove il settore dei media comprende da una parte i giganti globali e dall’altra diverse industrie nazionali”.
Eppure i condizionamenti rimangono: come digital divide e censure illustrano in maniera eclatante. Essere in grado di comunicare ed essere informati rimangono aspirazioni non facilmente raggiungibili per buona parte dell’umanitàhttp://www.unimondo.org/Guide/Informazione-e-Cultura/Mass-media/(desc)/show.
Altra denuncia è arrivata con il rapporto Measuring the Information Society dell’International Telecommunication Union, presentato nel marzo 2009.
Nonostante tali denunce e a distanza di anni la situazione non è mutata: il 95% delle notizie che circolano ogni giorno tramite i vari media proviene da otto grandi agenzie stampa del Nord: CNN, BBC, AP, Reuter, AFP, DPA, EPE, ANSA e anche nel settore di diffusione delle immagini televisive esiste un primato occidentale, così come nel mercato radiofonico internazionale, ed infine, quanto al mondo di internet si è già ampiamente detto.
Le imprese monopolistiche e gli oligopoli, d’altra parte, per riconfigurarsi al meglio di fronte alle dinamiche politiche finanziarie o sociali non faranno mai a meno di questo sistema complesso di captazione e controllo che dev’essere anch’esso continuamente regolato, gerarchizzato, messo a punto. E lo fanno attraverso i mezzi finanziari, organizzativi e tecnologici, attraverso l’esercizio del biopotere, la finanziarizzazione indotta dal Cloud Computing[6], l’aggiramento dei diritti nazionali del lavoro, e le tecniche di persuasione Marketing. Riescono così a mantenere le traiettorie di distruzione e privatizzazione dei servizi collettivi. E grazie alle ambiguità che circondano il Capitalismo 2.0[7], che i vari Google, Apple o Facebook riescono anche a darsi un’immagine contemporanea.
[1]inThe New Industrial System, Routledge, London 1936, pp. 270-71 nonchè in Monopole, Kartelle und Trusts, tradotta e pubblicata in inglese nel 1911Monopoly and Competition, Macmillan, London
[2] Come del resto chiarito anche da Marx ne il Capitale, libro I, cap. XXIII, 2.
[3] Lo aveva detto a suo tempo anche Adamo Smith in Ricchezza delle Nazioni, libro I, cap. VIII
[4] http://dspace.unitus.it/bitstream/2067/609/1/OLIGOPOLIO-1967.pdf
[5] Per un approfondimento delle forme di mercato vedere http://dspace.unitus.it/bitstream/2067/609/1/OLIGOPOLIO-1967.pdf
[6]consiste nell’affidare ad un’impresa privata, detta Fornitore di servizi, le proprie applicazioni, i propri dati per farli “girare” su una nuvola, un’infrastruttura (servers, reti etc.) virtuale, opaca e poco controllabile. Molti la denunciano come un’operazione marketing, ma si tratta innanzitutto d’un gigantesco filone di “affari” che implica l’espulsione di manodopera dei servizi IT delle imprese per accellerare i processi d’esternalizzazione (Outsoursing) e l’eliminazione fisisca di milioni di servers e centri informatici pubblici o privati per trasferirne la potenza di calcolo nelle immense, nascoste ed antiecologiche “servers farms” di Google, Amazon o Microsoft
[7]Giorgio Griziotti[1] Capitalismo digitale e bioproduzione cognitiva: l’esile linea fra controllo, captazione ed opportunita’ d’autonomia, in Uninomade, 2011,