Questa attenta ricostruzione di Sofia, risulta di scottante attualità: Confindustria "attende" la immancabile "ripresina" di fine anno, ma segnala come resti il problema del credito.
Ora sulla "ripresina" prossima ventura, fossi in loro, aspetterei la "manovrina" in ondivaga preparazione estiva, prima di lanciarmi in previsioni (regolarmente smentite dai fatti, con gli immancabili "report" di aggiustamento del DEF, che in Parlamento, utilizzano ormai prodigiose "parafrasi" per continuare a nascondere che la recessione è tutta dovuta alle politiche fiscali...di risanamento dei conti...che neppure tornano).
Ma il credit crunch, invece, quello no: è una sicurezza e la via d''uscita non si intravede. O meglio, la stanno "acchittando" come un rimedio peggiore del male (ma molto "europeo")...
In una recente intervista il prof. Giulio Sapelli espone uno scenario che si può riassumere in questi termini.
Vi sarebbe un “piccolo establishment” (parte di Confindustria che fa riferimento a Montezemolo, De Benedetti – a cui i renziani sono organici ecc) che, non avendo più fiducia in uno sviluppo autonomo manifatturiero del nostro Paese, pensa ad una integrazione subalterna franco-tedesca di ciò che rimane dell’industria italiana (“in sostanza, crede che l’Italia non ce la possa fare e quindi cerca di venderla al prezzo migliore”). Questa linea subalterna e rinunciataria si scontrerebbe con quella di Bazoli e Guzzetti (entrambi appartenenti al mondo bancario) che vedrebbero messo in discussione il ruolo delle banche grazie anche a un appoggio di una parte di Bankitalia.
“Il Ministro Saccomanni, che viene da Bankitalia, martedì nel convegno sulle soluzioni al credit crunch ha aperto le porte ai credit found, cioè allo shadow banking. Di fatto si tratta di un attacco frontale a Bazoli e a Intesa, che cerca ancora di difendere un po’ di rapporto con l’industria italiana (che è stato rappresentato anche dalla linea Passera). Non a caso anche le banche popolari, che hanno rapporti con le imprese sul territorio, sono state prese a bastonate da Bankitalia”. Ed inoltre, poiché Letta e Alfano hanno avuto un atteggiamento fermo nei confronti dell’Europa, questo “piccolo establishment” (renziani compresi) vorrebbe far cadere il Governo e vedere perseguiti i fini tedeschi.
Alla luce di questa interessante intervista, quindi, potrebbe essere utile soffermarsi sull’incontro tenuto il 16 luglio da Saccomanni con operatori e banche e sulla soluzione da questi proposta al credit crunch (stretta creditizia) nei confronti delle imprese.
Nel discorso da questi tenuto, si legge che le esigenze di credito debbano essere soddisfatte da altri attori istituzionali e da nuove forme di intermediazione finanziaria di cui i credit funds sono un esempio (gli intermediari concedono direttamente prestiti alle imprese, attraverso la sottoscrizione delle loro obbligazioni o intervenendo direttamente nel capitale). Si tratta di intermediari la cui operatività rientra nello 'shadow banking' (il sistema grazie al quale la Cina, sempre secondo l’opinione di Sapelli nell’intervista su riportata, è oggi in crisi).
Saccomanni, nel prendere atto della richiesta delle banche di poter ottenere maggiori sgravi fiscali man mano che fanno emergere le loro perdite sui crediti a imprese divenute ormai insolventi (!), rilancia l’idea delle cartolarizzazioni, e sostiene che le banche dovrebbero accompagnare ''gradualmente le Pmi verso forme di finanziamento non bancario (come ad esempio il private equity e il venture capital), - misure di cui si sente parlare già da tempo - in grado di favorire la nascita di nuove imprese di maggiori dimensioni attraverso fusioni e incorporazioni, la crescita e l'innovazione di quelli esistenti, il ricambio generazionale del management''.
Saccomanni, quindi chiarisce che scopo dell’incontro è proprio quello di valutare i vincoli presenti in Italia per lo sviluppo di canali non bancari di finanziamento delle imprese. “E’ un tema strutturale, connesso alla configurazione del nostro sistema finanziario e produttivo, che vede le ridotte dimensioni medie delle imprese italiane un ostacolo di per se all’espansione degli intermediari e degli strumenti finanziari non bancari”.
Quindi, di fronte al dato di fatto:
a) del credit crunch (operato dalle banche) e
b) di un tessuto industriale italiano fatto di PMI (che più di tutte risentono della contrazione del credito, come conferma anche a BCE: sono più opache e le loro capacità di fare impresa sono più difficili da valutare, perché i loro bilanci offrono meno informazioni e le loro storie di credito sono generalmente più brevi. A queste caratteristiche si aggiungono i maggiori costi fissi di valutazione esterna e monitoraggio. Tutto questo si traduce per le PMI in costi di transazione più elevati, in particolare per quelli derivanti da asimmetrie informative”),
le soluzioni, secondo Saccomanni, non possono che essere due: (in parole semplici) trovare altri finanziatori che non siano le solite banche e far crescere le imprese.
Ora, da notare, la sequenza delle soluzioni per come viene posta dal Ministro.
La crescita delle imprese dovrebbe essere di per sé, già da sola, un fenomeno risolutivo del credit crunch, perché se le dimensioni delle imprese aumentassero, allora queste avrebbero automaticamente maggiore accesso al credito tradizionale operato dalle banche e non vi sarebbe bisogno di ricorrere al sistema finanziario non bancario. Però, da un lato, nella situazione di crisi economico-finanziaria attuale,le imprese non hanno da sole la forza di provvedere a fusioni, incorporazioni, aumenti di capitale e gli imprenditori non hanno sufficienti capitali per mettere su aziende di grosse dimensioni; dall’altro non esistono norme che tendono a facilitare l’aumento dimensionale delle imprese allo scopo di facilitare l’accesso al credito.
Inoltre (per ragioni che diremo più avanti) la crescita comporta maggiori costi dovuti alla maggiore complessità degli investimenti che spesso le PMI non sono in condizione di affrontare, per cui queste preferiscono concentrare le energie sulla risoluzione delle complessità legate alla sfera produttiva piuttosto che quelle legate alla crescita).
Eco perché pare rilevante la sequenza nella proposizione delle due soluzioni avanzata da Saccomanni. Conscio che l’aumento dimensionale delle imprese non è, di fatto, attuabile, propone:
- la possibilità/necessità di spostare maggiormente il sistema creditizio da quello bancario a quello finanziario non bancario (Shadow banking system – venture capital), cercando di copiare una esperienza soprattutto americana, dove il 70 per cento del credito alle imprese arriva dal mercato tramite bond o fondi d’investimento e solo il 30 per cento dagli istituti. Nell’area euro le proporzioni sono inverse, il 70 per cento dei prestiti si raccoglie in banca e il 30 per cento sul mercato; in Italia invece più del 90 per cento del finanziamento dipende ancora dagli sportelli del distretto o del quartiere;
- e solo poi - l’utilizzo di questi finanziamenti per consentire la nascita di imprese di maggiori dimensioni o la crescita di quelle esistenti.
Ora, per comprendere la fattibilità o meno della (prima) soluzione, nonchè gli effetti, occorre comprendere meglio come funziona il sistema di finanziamento delle imprese e, in particolare, delle PMI che costituiscono il grosso del nostro tessuto imprenditoriale.
Il Prof. Cesare Pozzi, esperto di economi industriale, proprio in occasione dell’incontro tenutosi a giugno a Viareggio mi aveva spiegato, in parte, il processo attraverso il quale le imprese si spostano sempre di più dal settore bancario a quello finanziario (ossia quello propugnato da Saccomanni). Egli (ma la sua tesi è esposta anche in Liberalizzazione e politica industriale, di Fabio Gobbo e Cesare Pozzi - Rivista “Economia e politica industriale”, n. 2, 2005), aveva chiarito che lo spostamento verso il sistema finanziario avviene solitamente in due casi:
1) Quando l’impresa cresce, perché diventa più complessa l’attività di investimento: bisogna gestire attività di acquisizione e/o di internazionalizzazione e in questa prospettiva non può essere la piccola banca locale a seguire lo sviluppo d’impresa né i soci dispongono dei mezzi necessari per investire in azienda. Così ci si rivolge alle grosse banche o a forme di finanziamento che le piccole banche non sono in grado di offrire.
2) Quando vi sono situazioni congiunturali che determinano contrazione del credito che, generalmente, avviene prioritariamente nelle piccole banche così che gli imprenditori sono costretti a rivolgersi alle banche più grosse e strutturate - fenomeno tra l’altro accentuato anche dalle numerose concentrazioni bancarie- o a investitori esterni.
Ovviamente lo spostamento verso il sistema finanziario non è senza effetti.
Il primo degli effetti è la trasformazione dell’investimento, che da strumento di sviluppo dell’impresa, si trasforma, sempre di più, in sistema di investimento puro, monetario e svincolato dal reale valore dell’impresa in termini di produttività e know-how (cioè si considera il rendimento di "portfolio" riferito al bench mark dell'investimento finanziario).
La piccola banca generalmente conosce l’imprenditore, conosce il contesto locale in cui opera lo stesso, è in grado di fare delle valutazioni economiche dell’impresa, di capire quanto vale; la concessione del credito, insomma, diventa uno strumento di sviluppo dell’impresa anche perché, tra l’altro, le PMI solitamente hanno bisogno di finanziamenti a breve termine e questi sono facilmente concessi (in situazioni economico-finanziare ordinarie) da piccoli istituti bancari a fronte di un rischio di concessione del credito limitato.
Quando per varie ragioni l’impresa è costretta a rivolgersi alle grosse banche, nessuna di queste ha gli strumenti, le competenze e la voglia per un’attenta politica di screening e monitoring: molto più facilmente il rischio viene gestito con principi di tipo assicurativo. Inoltre le banche hanno pochi strumenti per essere propositive, in quanto manca la conoscenza diretta dell’imprenditore.
Un ulteriore effetto derivante dallo spostamento verso le grosse banche o dall’aprirsi agli investitori esterniè un più accentuato spostamento verso il settore della finanza che può voler dire andare direttamente in borsa o ricorrere al Venture capital e al private equity (esattamente gli strumenti citati da Saccomanni).
Il prof. Pozzi, al riguardo, ha evidenziato un ulteriore aspetto che merita di essere segnalato: ossia che, molto spesso, un fenomeno legato alla crescita delle imprese, è la necessità per queste, di dover diversificare le fonti finanziarie, a prezzo di una complessità organizzativa sempre maggiore. Ragion per cui a volte queste preferiscono concentrare le energie sulla risoluzione delle complessità legate alla sfera produttiva, piuttosto che su quella finanziaria, ma che può risolversi in uno squilibrio, che rende fragili anche le strategie produttive ( la mancata disponibilità ad affrontare la complessità finanziaria induce a rinunciare alla crescita).
Questo, da un lato, evidenzia come la complessità finanziaria favorisce solo le grandi imprese e costituisce una barriera per le PMI, non solo in una situazione normale del ciclo economico, ma a maggior ragione in situazioni di crisi laddove l’incidenza del credit crunch diventa più rilevante (dato anche questo confermato dalla BCE: “E’ quindi in qualche misura inevitabile che, durante le recessioni economiche, le fonti di credito per le piccole imprese tendano a prosciugarsi più rapidamente che per le grandi imprese”).
Dall’altro, spiegherebbe l’incoraggiamento del Ministro Saccomanni verso fonti finanziarie alternative. Insomma, come dire, rendere maggiormente dipendente dall’influenza finanziaria un fetta di mercato (quella delle PMI) che, per ragioni strutturali, sinora ne era più o meno rimasta fuori.
Il tutto favorito da una situazione in base alla quale:
- il credit crunchè molto forte (-34%, con inasprimento dei tassi, 62%, e delle garanzie richieste, +44%);
- una piccolissima percentuale (pare non raggiunga il 20%) dei prestiti (rispetto al totale di quelli concessi) va alle PMI (un esercito di 3,8 milioni di microimprese, il numero più alto d’Europa, pari al 94,6% di tutte le aziende Italiane);
- l’erogazione della maggior parte dei prestiti avviene in favore delle grandi imprese, nonostante le sofferenze a carico di questi clienti così “privilegiati” è pari al 78,3% del totale. Insomma, pur non essendo dei buoni pagatori, le banche continuano a premiare proprio le grandi imprese.
- proprio le PMI sono quelle che maggiormente risentono della crisi finanziaria come confermato dallo studio della BCE su richiamato, così come di una moneta unica più cara che danneggia le esportazioni (i cui riflessi sulle PMI sono evidenti se si pensa alla vocazione all'export delle imprese italiane) e costringe le stesse, per essere maggiormente competitive sui mercati internazionali, ad usare i derivati sui cambi per coprirsi dal fattore valuta (o altri analoghi strumenti finanziari).
Una tale situazione richiederebbe, in via prioritaria, interventi pubblici a sostegno delle imprese,ma questi sinora, in Italia, sono stati piuttosto esigui rispetto alle medie europee (solo lo 0,6% del PIL, mentre la media UE è del 3,6% ).
Ed invece la soluzione proposta da Saccomanni è nella direzione assolutamente opposta: il ricorso allo Shadow banking system, al venture capital e al private equity, ossia tutti strumenti che consentono di spostare maggiormente il sistema creditizio da quello bancario a quello finanziario non bancario.
Tanto per chiarire: lo Shadow banking system (SBS) o Sistema bancario collaterale o Sistema bancario ombra è l'insieme di intermediari finanziari non bancari che facilitano la creazione di credito all'interno del sistema finanziario globale (fondi speculativi, derivati non quotati e altri strumenti finanziari non quotati, credit default swap…) ma che riescono a sfuggire ad una serie di controlli da parte delle banche centrali e altre istituzioni governative e, non essendo obbligati ad avere capitali accantonati al pari delle banche, riescono ad impiegare liquidità, credito e transazioni a rischio più alto del normale.
A livello globale, stima il FSB, lo shadow-banking, fra il 2009 e il 2011, ha pesato almeno il 25% dell’intermediazione creditizia (ed amministra 67 mila miliardi di dollari, una somma pari al 111% del Pil mondiale) http://www.giornalettismo.com/archives/612567/i-pericoli-del-sistema-finanziario-ombra/.
Il venture capitalè l'apporto di capitale di rischio da parte di un investitore per finanziare l'avvio o la crescita di un'attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo. Nella maggioranza dei casi, fondi necessari sono erogati da limited partnership o holding in aziende che per natura della attività e stadio di sviluppo non risultano finanziabili dai tradizionali intermediari finanziari (come appunto le banche).
Il venture capitalè una categoria del settore del private equity, che raggruppa tutte le categorie di investimenti in società non quotate su un mercato regolamentato.
In genere, volendo distinguere, si parla di venture capital quando l’intervento dell’investitore esterno avviene nella fase iniziale della vita dell’impresa, mentre si fa riferimento al private equity nelle fasi successive.
Queste ultime forme di partnership in Italia possono operare sia con strumenti quali le Società Gestione Risparmio –SGR- sia tramite fondi "esteri" (basati in paesi con trattamenti fiscali particolari quali Lussemburgo, Belgio, Olanda, o le Channel Islands inglesi e molte altre).
E’ invalsa, però, negli ultimi anni, l’abitudine a parlare indistintamente di private equity per indicare l’intervento degli investitori nel capitale aziendale. Gli investitori acquisiscono quote più o meno ampie di una azienda diventandone a tutti gli effetti soci, stabiliscono precisi obblighi di riacquisto delle loro quote per l’imprenditore, e possono prevedere tutta una serie di strumenti di controllo per diminuire il rischio dell’investimento (partecipazione nel consiglio di amministrazione, diritto di veto su trasferimento di quote, approvazione diretta delle spese, diritto di veto su emissione di titoli e su cessione di beni sociali, frazionamento del credito in tappe successive, ecc.).
L’obiettivo dell’investitore, generalmente, è quello di subentrare in una fase iniziale (o di difficoltà) dell’azienda, attendere che acquisisca valore sul mercato per poi cedere le proprie quote - con modalità quali: offerta pubblica di vendita su un mercato regolamentato, cessione della partecipazione attraverso una trattativa privata con nuovi soci, acquisto della società partecipata da parte di un altro investitore finanziario, riacquisto delle azioni da parte della società stessa entro i limiti prefissati- e ottenere così un ricavo che costituisce, di fatto, la remunerazione dell’investimento (capital gain).
Ciò chiarito, si affaccia l'esigenza di verificare la "logica" di una tendenza all'ampliamento del "private equity".
In considerazione della grave situazione di crisi in cui versano le PMI, tra calo della domanda interna e difficoltà di cambio (che quindi rendono eccessivamente complesso valutare le prospettive di sviluppo, di crescita, di ripresa dell’azienda, e quindi difficile prevedere se vi sarà e in che misura una remunerazione dell’investimento) gli operatori finanziari dello shadow banking, al pari delle banche ordinarie, non dovrebbero avere alcun interesse a finanziare le imprese ed accollarsi questo rischio.
Nei fatti, invece, la convenienza sta proprio nelle caratteristiche intrinseche (su descritte) di questi strumenti finanziari. Si tratta di formule che consentono finanziamenti e apporto di capitali, le cui condizioni possono essere anche molto gravose per l’imprenditore e non solo in termini economici (e quindi di interessi, come per le banche), ma in termini di controllo societario, di ingerenza nella struttura produttiva e della sua organizzazione, di riacquisizione delle quote/azione e quindi della maggioranza nei processi decisionali… ed è ovvio che più l’impresa si trova in situazione di difficoltà, più onerose saranno le condizioni del finanziamento/investimento (garanzie, mediante warrant e rigide opzioni tese ad acquisire il controllo delle imprese).
Le PMI, quindi, più di tutte, in questa situazione di crisi, si trovano strette in una morsa.
Se rimangono piccole:
a) difficilmente riescono ad ottenere finanziamenti a causa del credit crunch;
b) Nella situazione di difficoltà si apre lo scenario della colonizzazione (o della “integrazione subalterna franco-tedesca”, come l’ha definita il prof. Sapelli nell’intervista riportata all’inizio - insomma, una vendita al miglior offerente);
c) sono maggiormente soggette al fallimento (secondo i dati qui riportati continua a crescere il numero di imprese costrette a chiudere i battenti: +65% negli ultimi 4 anni per quasi 50mila fallimenti dall’inizio della crisi, di cui 3.637 solo nei primi 3 mesi del 2013. Ogni giorno si registra la chiusura di 40 imprese in media).
Oppure, se anche grazie ai sistemi di finanziamento non bancari che si sono visti, riescono ad ingrandirsi, lo fanno al prezzo di perdere la propria capacità decisionale, finendo per trovarsi nella situazione di essere svendute ai padroni esteri e ai controllori finanziari, con distribuzione dei profitti non certo agli azionisti, ma agli AD della comunità finanziaria stessa.
Insomma, Saccomanni, in ultima analisti, "caldeggia" l'acquisizione finanziaria, per lo più estera, del sistema delle PMI (auspicandone l’aumento dimensionale proprio al fine di consentirne la svendita) sulla scia di quanto già avvenuto per Lamborghini, Ducati, Valentino, Bulgari, Fendi, Ferrè, Emilio Pucci, Gucci, Bottega Veneta, Parmalat, Loropiana (i dati elaborati dalla società di consulenza Kpmg parlano per il 2011 di 108 acquisizioni tra aziende italiane grandi e piccole, per un controvalore totale di 18 miliardi). Nella maggior parte dei casi si tratta di imprese che finiscono nelle mani di fondi di private equity stranieri .
E la stessa Coldiretti lancia l’allarme, denunciando come questi passaggi di proprietà significhino svuotamento finanziario delle società acquisite, delocalizzazione della produzione, chiusura di stabilimenti e perdita di occupazione.
Ora sulla "ripresina" prossima ventura, fossi in loro, aspetterei la "manovrina" in ondivaga preparazione estiva, prima di lanciarmi in previsioni (regolarmente smentite dai fatti, con gli immancabili "report" di aggiustamento del DEF, che in Parlamento, utilizzano ormai prodigiose "parafrasi" per continuare a nascondere che la recessione è tutta dovuta alle politiche fiscali...di risanamento dei conti...che neppure tornano).
Ma il credit crunch, invece, quello no: è una sicurezza e la via d''uscita non si intravede. O meglio, la stanno "acchittando" come un rimedio peggiore del male (ma molto "europeo")...
In una recente intervista il prof. Giulio Sapelli espone uno scenario che si può riassumere in questi termini.
Vi sarebbe un “piccolo establishment” (parte di Confindustria che fa riferimento a Montezemolo, De Benedetti – a cui i renziani sono organici ecc) che, non avendo più fiducia in uno sviluppo autonomo manifatturiero del nostro Paese, pensa ad una integrazione subalterna franco-tedesca di ciò che rimane dell’industria italiana (“in sostanza, crede che l’Italia non ce la possa fare e quindi cerca di venderla al prezzo migliore”). Questa linea subalterna e rinunciataria si scontrerebbe con quella di Bazoli e Guzzetti (entrambi appartenenti al mondo bancario) che vedrebbero messo in discussione il ruolo delle banche grazie anche a un appoggio di una parte di Bankitalia.
“Il Ministro Saccomanni, che viene da Bankitalia, martedì nel convegno sulle soluzioni al credit crunch ha aperto le porte ai credit found, cioè allo shadow banking. Di fatto si tratta di un attacco frontale a Bazoli e a Intesa, che cerca ancora di difendere un po’ di rapporto con l’industria italiana (che è stato rappresentato anche dalla linea Passera). Non a caso anche le banche popolari, che hanno rapporti con le imprese sul territorio, sono state prese a bastonate da Bankitalia”. Ed inoltre, poiché Letta e Alfano hanno avuto un atteggiamento fermo nei confronti dell’Europa, questo “piccolo establishment” (renziani compresi) vorrebbe far cadere il Governo e vedere perseguiti i fini tedeschi.
Alla luce di questa interessante intervista, quindi, potrebbe essere utile soffermarsi sull’incontro tenuto il 16 luglio da Saccomanni con operatori e banche e sulla soluzione da questi proposta al credit crunch (stretta creditizia) nei confronti delle imprese.
Nel discorso da questi tenuto, si legge che le esigenze di credito debbano essere soddisfatte da altri attori istituzionali e da nuove forme di intermediazione finanziaria di cui i credit funds sono un esempio (gli intermediari concedono direttamente prestiti alle imprese, attraverso la sottoscrizione delle loro obbligazioni o intervenendo direttamente nel capitale). Si tratta di intermediari la cui operatività rientra nello 'shadow banking' (il sistema grazie al quale la Cina, sempre secondo l’opinione di Sapelli nell’intervista su riportata, è oggi in crisi).
Saccomanni, nel prendere atto della richiesta delle banche di poter ottenere maggiori sgravi fiscali man mano che fanno emergere le loro perdite sui crediti a imprese divenute ormai insolventi (!), rilancia l’idea delle cartolarizzazioni, e sostiene che le banche dovrebbero accompagnare ''gradualmente le Pmi verso forme di finanziamento non bancario (come ad esempio il private equity e il venture capital), - misure di cui si sente parlare già da tempo - in grado di favorire la nascita di nuove imprese di maggiori dimensioni attraverso fusioni e incorporazioni, la crescita e l'innovazione di quelli esistenti, il ricambio generazionale del management''.
Saccomanni, quindi chiarisce che scopo dell’incontro è proprio quello di valutare i vincoli presenti in Italia per lo sviluppo di canali non bancari di finanziamento delle imprese. “E’ un tema strutturale, connesso alla configurazione del nostro sistema finanziario e produttivo, che vede le ridotte dimensioni medie delle imprese italiane un ostacolo di per se all’espansione degli intermediari e degli strumenti finanziari non bancari”.
Quindi, di fronte al dato di fatto:
a) del credit crunch (operato dalle banche) e
b) di un tessuto industriale italiano fatto di PMI (che più di tutte risentono della contrazione del credito, come conferma anche a BCE: sono più opache e le loro capacità di fare impresa sono più difficili da valutare, perché i loro bilanci offrono meno informazioni e le loro storie di credito sono generalmente più brevi. A queste caratteristiche si aggiungono i maggiori costi fissi di valutazione esterna e monitoraggio. Tutto questo si traduce per le PMI in costi di transazione più elevati, in particolare per quelli derivanti da asimmetrie informative”),
le soluzioni, secondo Saccomanni, non possono che essere due: (in parole semplici) trovare altri finanziatori che non siano le solite banche e far crescere le imprese.
Ora, da notare, la sequenza delle soluzioni per come viene posta dal Ministro.
La crescita delle imprese dovrebbe essere di per sé, già da sola, un fenomeno risolutivo del credit crunch, perché se le dimensioni delle imprese aumentassero, allora queste avrebbero automaticamente maggiore accesso al credito tradizionale operato dalle banche e non vi sarebbe bisogno di ricorrere al sistema finanziario non bancario. Però, da un lato, nella situazione di crisi economico-finanziaria attuale,le imprese non hanno da sole la forza di provvedere a fusioni, incorporazioni, aumenti di capitale e gli imprenditori non hanno sufficienti capitali per mettere su aziende di grosse dimensioni; dall’altro non esistono norme che tendono a facilitare l’aumento dimensionale delle imprese allo scopo di facilitare l’accesso al credito.
Inoltre (per ragioni che diremo più avanti) la crescita comporta maggiori costi dovuti alla maggiore complessità degli investimenti che spesso le PMI non sono in condizione di affrontare, per cui queste preferiscono concentrare le energie sulla risoluzione delle complessità legate alla sfera produttiva piuttosto che quelle legate alla crescita).
Eco perché pare rilevante la sequenza nella proposizione delle due soluzioni avanzata da Saccomanni. Conscio che l’aumento dimensionale delle imprese non è, di fatto, attuabile, propone:
- la possibilità/necessità di spostare maggiormente il sistema creditizio da quello bancario a quello finanziario non bancario (Shadow banking system – venture capital), cercando di copiare una esperienza soprattutto americana, dove il 70 per cento del credito alle imprese arriva dal mercato tramite bond o fondi d’investimento e solo il 30 per cento dagli istituti. Nell’area euro le proporzioni sono inverse, il 70 per cento dei prestiti si raccoglie in banca e il 30 per cento sul mercato; in Italia invece più del 90 per cento del finanziamento dipende ancora dagli sportelli del distretto o del quartiere;
- e solo poi - l’utilizzo di questi finanziamenti per consentire la nascita di imprese di maggiori dimensioni o la crescita di quelle esistenti.
Ora, per comprendere la fattibilità o meno della (prima) soluzione, nonchè gli effetti, occorre comprendere meglio come funziona il sistema di finanziamento delle imprese e, in particolare, delle PMI che costituiscono il grosso del nostro tessuto imprenditoriale.
Il Prof. Cesare Pozzi, esperto di economi industriale, proprio in occasione dell’incontro tenutosi a giugno a Viareggio mi aveva spiegato, in parte, il processo attraverso il quale le imprese si spostano sempre di più dal settore bancario a quello finanziario (ossia quello propugnato da Saccomanni). Egli (ma la sua tesi è esposta anche in Liberalizzazione e politica industriale, di Fabio Gobbo e Cesare Pozzi - Rivista “Economia e politica industriale”, n. 2, 2005), aveva chiarito che lo spostamento verso il sistema finanziario avviene solitamente in due casi:
1) Quando l’impresa cresce, perché diventa più complessa l’attività di investimento: bisogna gestire attività di acquisizione e/o di internazionalizzazione e in questa prospettiva non può essere la piccola banca locale a seguire lo sviluppo d’impresa né i soci dispongono dei mezzi necessari per investire in azienda. Così ci si rivolge alle grosse banche o a forme di finanziamento che le piccole banche non sono in grado di offrire.
2) Quando vi sono situazioni congiunturali che determinano contrazione del credito che, generalmente, avviene prioritariamente nelle piccole banche così che gli imprenditori sono costretti a rivolgersi alle banche più grosse e strutturate - fenomeno tra l’altro accentuato anche dalle numerose concentrazioni bancarie- o a investitori esterni.
Ovviamente lo spostamento verso il sistema finanziario non è senza effetti.
Il primo degli effetti è la trasformazione dell’investimento, che da strumento di sviluppo dell’impresa, si trasforma, sempre di più, in sistema di investimento puro, monetario e svincolato dal reale valore dell’impresa in termini di produttività e know-how (cioè si considera il rendimento di "portfolio" riferito al bench mark dell'investimento finanziario).
La piccola banca generalmente conosce l’imprenditore, conosce il contesto locale in cui opera lo stesso, è in grado di fare delle valutazioni economiche dell’impresa, di capire quanto vale; la concessione del credito, insomma, diventa uno strumento di sviluppo dell’impresa anche perché, tra l’altro, le PMI solitamente hanno bisogno di finanziamenti a breve termine e questi sono facilmente concessi (in situazioni economico-finanziare ordinarie) da piccoli istituti bancari a fronte di un rischio di concessione del credito limitato.
Quando per varie ragioni l’impresa è costretta a rivolgersi alle grosse banche, nessuna di queste ha gli strumenti, le competenze e la voglia per un’attenta politica di screening e monitoring: molto più facilmente il rischio viene gestito con principi di tipo assicurativo. Inoltre le banche hanno pochi strumenti per essere propositive, in quanto manca la conoscenza diretta dell’imprenditore.
Un ulteriore effetto derivante dallo spostamento verso le grosse banche o dall’aprirsi agli investitori esterniè un più accentuato spostamento verso il settore della finanza che può voler dire andare direttamente in borsa o ricorrere al Venture capital e al private equity (esattamente gli strumenti citati da Saccomanni).
Il prof. Pozzi, al riguardo, ha evidenziato un ulteriore aspetto che merita di essere segnalato: ossia che, molto spesso, un fenomeno legato alla crescita delle imprese, è la necessità per queste, di dover diversificare le fonti finanziarie, a prezzo di una complessità organizzativa sempre maggiore. Ragion per cui a volte queste preferiscono concentrare le energie sulla risoluzione delle complessità legate alla sfera produttiva, piuttosto che su quella finanziaria, ma che può risolversi in uno squilibrio, che rende fragili anche le strategie produttive ( la mancata disponibilità ad affrontare la complessità finanziaria induce a rinunciare alla crescita).
Questo, da un lato, evidenzia come la complessità finanziaria favorisce solo le grandi imprese e costituisce una barriera per le PMI, non solo in una situazione normale del ciclo economico, ma a maggior ragione in situazioni di crisi laddove l’incidenza del credit crunch diventa più rilevante (dato anche questo confermato dalla BCE: “E’ quindi in qualche misura inevitabile che, durante le recessioni economiche, le fonti di credito per le piccole imprese tendano a prosciugarsi più rapidamente che per le grandi imprese”).
Dall’altro, spiegherebbe l’incoraggiamento del Ministro Saccomanni verso fonti finanziarie alternative. Insomma, come dire, rendere maggiormente dipendente dall’influenza finanziaria un fetta di mercato (quella delle PMI) che, per ragioni strutturali, sinora ne era più o meno rimasta fuori.
Il tutto favorito da una situazione in base alla quale:
- il credit crunchè molto forte (-34%, con inasprimento dei tassi, 62%, e delle garanzie richieste, +44%);
- una piccolissima percentuale (pare non raggiunga il 20%) dei prestiti (rispetto al totale di quelli concessi) va alle PMI (un esercito di 3,8 milioni di microimprese, il numero più alto d’Europa, pari al 94,6% di tutte le aziende Italiane);
- l’erogazione della maggior parte dei prestiti avviene in favore delle grandi imprese, nonostante le sofferenze a carico di questi clienti così “privilegiati” è pari al 78,3% del totale. Insomma, pur non essendo dei buoni pagatori, le banche continuano a premiare proprio le grandi imprese.
- proprio le PMI sono quelle che maggiormente risentono della crisi finanziaria come confermato dallo studio della BCE su richiamato, così come di una moneta unica più cara che danneggia le esportazioni (i cui riflessi sulle PMI sono evidenti se si pensa alla vocazione all'export delle imprese italiane) e costringe le stesse, per essere maggiormente competitive sui mercati internazionali, ad usare i derivati sui cambi per coprirsi dal fattore valuta (o altri analoghi strumenti finanziari).
Una tale situazione richiederebbe, in via prioritaria, interventi pubblici a sostegno delle imprese,ma questi sinora, in Italia, sono stati piuttosto esigui rispetto alle medie europee (solo lo 0,6% del PIL, mentre la media UE è del 3,6% ).
Ed invece la soluzione proposta da Saccomanni è nella direzione assolutamente opposta: il ricorso allo Shadow banking system, al venture capital e al private equity, ossia tutti strumenti che consentono di spostare maggiormente il sistema creditizio da quello bancario a quello finanziario non bancario.
Tanto per chiarire: lo Shadow banking system (SBS) o Sistema bancario collaterale o Sistema bancario ombra è l'insieme di intermediari finanziari non bancari che facilitano la creazione di credito all'interno del sistema finanziario globale (fondi speculativi, derivati non quotati e altri strumenti finanziari non quotati, credit default swap…) ma che riescono a sfuggire ad una serie di controlli da parte delle banche centrali e altre istituzioni governative e, non essendo obbligati ad avere capitali accantonati al pari delle banche, riescono ad impiegare liquidità, credito e transazioni a rischio più alto del normale.
A livello globale, stima il FSB, lo shadow-banking, fra il 2009 e il 2011, ha pesato almeno il 25% dell’intermediazione creditizia (ed amministra 67 mila miliardi di dollari, una somma pari al 111% del Pil mondiale) http://www.giornalettismo.com/archives/612567/i-pericoli-del-sistema-finanziario-ombra/.
Il venture capitalè l'apporto di capitale di rischio da parte di un investitore per finanziare l'avvio o la crescita di un'attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo. Nella maggioranza dei casi, fondi necessari sono erogati da limited partnership o holding in aziende che per natura della attività e stadio di sviluppo non risultano finanziabili dai tradizionali intermediari finanziari (come appunto le banche).
Il venture capitalè una categoria del settore del private equity, che raggruppa tutte le categorie di investimenti in società non quotate su un mercato regolamentato.
In genere, volendo distinguere, si parla di venture capital quando l’intervento dell’investitore esterno avviene nella fase iniziale della vita dell’impresa, mentre si fa riferimento al private equity nelle fasi successive.
Queste ultime forme di partnership in Italia possono operare sia con strumenti quali le Società Gestione Risparmio –SGR- sia tramite fondi "esteri" (basati in paesi con trattamenti fiscali particolari quali Lussemburgo, Belgio, Olanda, o le Channel Islands inglesi e molte altre).
E’ invalsa, però, negli ultimi anni, l’abitudine a parlare indistintamente di private equity per indicare l’intervento degli investitori nel capitale aziendale. Gli investitori acquisiscono quote più o meno ampie di una azienda diventandone a tutti gli effetti soci, stabiliscono precisi obblighi di riacquisto delle loro quote per l’imprenditore, e possono prevedere tutta una serie di strumenti di controllo per diminuire il rischio dell’investimento (partecipazione nel consiglio di amministrazione, diritto di veto su trasferimento di quote, approvazione diretta delle spese, diritto di veto su emissione di titoli e su cessione di beni sociali, frazionamento del credito in tappe successive, ecc.).
L’obiettivo dell’investitore, generalmente, è quello di subentrare in una fase iniziale (o di difficoltà) dell’azienda, attendere che acquisisca valore sul mercato per poi cedere le proprie quote - con modalità quali: offerta pubblica di vendita su un mercato regolamentato, cessione della partecipazione attraverso una trattativa privata con nuovi soci, acquisto della società partecipata da parte di un altro investitore finanziario, riacquisto delle azioni da parte della società stessa entro i limiti prefissati- e ottenere così un ricavo che costituisce, di fatto, la remunerazione dell’investimento (capital gain).
Ciò chiarito, si affaccia l'esigenza di verificare la "logica" di una tendenza all'ampliamento del "private equity".
In considerazione della grave situazione di crisi in cui versano le PMI, tra calo della domanda interna e difficoltà di cambio (che quindi rendono eccessivamente complesso valutare le prospettive di sviluppo, di crescita, di ripresa dell’azienda, e quindi difficile prevedere se vi sarà e in che misura una remunerazione dell’investimento) gli operatori finanziari dello shadow banking, al pari delle banche ordinarie, non dovrebbero avere alcun interesse a finanziare le imprese ed accollarsi questo rischio.
Nei fatti, invece, la convenienza sta proprio nelle caratteristiche intrinseche (su descritte) di questi strumenti finanziari. Si tratta di formule che consentono finanziamenti e apporto di capitali, le cui condizioni possono essere anche molto gravose per l’imprenditore e non solo in termini economici (e quindi di interessi, come per le banche), ma in termini di controllo societario, di ingerenza nella struttura produttiva e della sua organizzazione, di riacquisizione delle quote/azione e quindi della maggioranza nei processi decisionali… ed è ovvio che più l’impresa si trova in situazione di difficoltà, più onerose saranno le condizioni del finanziamento/investimento (garanzie, mediante warrant e rigide opzioni tese ad acquisire il controllo delle imprese).
Le PMI, quindi, più di tutte, in questa situazione di crisi, si trovano strette in una morsa.
Se rimangono piccole:
a) difficilmente riescono ad ottenere finanziamenti a causa del credit crunch;
b) Nella situazione di difficoltà si apre lo scenario della colonizzazione (o della “integrazione subalterna franco-tedesca”, come l’ha definita il prof. Sapelli nell’intervista riportata all’inizio - insomma, una vendita al miglior offerente);
c) sono maggiormente soggette al fallimento (secondo i dati qui riportati continua a crescere il numero di imprese costrette a chiudere i battenti: +65% negli ultimi 4 anni per quasi 50mila fallimenti dall’inizio della crisi, di cui 3.637 solo nei primi 3 mesi del 2013. Ogni giorno si registra la chiusura di 40 imprese in media).
Oppure, se anche grazie ai sistemi di finanziamento non bancari che si sono visti, riescono ad ingrandirsi, lo fanno al prezzo di perdere la propria capacità decisionale, finendo per trovarsi nella situazione di essere svendute ai padroni esteri e ai controllori finanziari, con distribuzione dei profitti non certo agli azionisti, ma agli AD della comunità finanziaria stessa.
Insomma, Saccomanni, in ultima analisti, "caldeggia" l'acquisizione finanziaria, per lo più estera, del sistema delle PMI (auspicandone l’aumento dimensionale proprio al fine di consentirne la svendita) sulla scia di quanto già avvenuto per Lamborghini, Ducati, Valentino, Bulgari, Fendi, Ferrè, Emilio Pucci, Gucci, Bottega Veneta, Parmalat, Loropiana (i dati elaborati dalla società di consulenza Kpmg parlano per il 2011 di 108 acquisizioni tra aziende italiane grandi e piccole, per un controvalore totale di 18 miliardi). Nella maggior parte dei casi si tratta di imprese che finiscono nelle mani di fondi di private equity stranieri .
E la stessa Coldiretti lancia l’allarme, denunciando come questi passaggi di proprietà significhino svuotamento finanziario delle società acquisite, delocalizzazione della produzione, chiusura di stabilimenti e perdita di occupazione.