Cerchiamo di essere pragmatici. Come abbiamo già visto, la questione delle privatizzazioni è un autentico "turning point" nell'emersione dello scontro tra "interesse nazionale", evidente e tanto obiettivo da sollevare una vera opposizione svincolata dalla stessa appartenenza politico-ideologica, e aspirazioni alla deindustrializzazione-colonizzazione definitiva in salsa UEM.
Non è che le improvvide privatizzazioni siano più "gravi" del restante apparato di regole sovranazionali che penalizzano l'Italia in violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale.
Basterebbe citare, alla luce dell'art.11 Cost., l'assunzione, già con Maastricht, di un sistema di vincoli fiscali, imperniati sulla genetica fissazione di un debt ceiling, in situazione di macroscopica disparità tra Italia e paesi europei più "importanti", che hanno consapevolmente voluto congegnare l'euro come un inevitabile sistema di competitività fra Stati, imponendo infatti il limite del 3% che, guardacaso, è l'onere degli interessi sul rispettivo debito sovrano che Francia e Germania, non hanno mai superato.
Aspetto decisivo del "vincolo"€uropeo che, come abbiamo più volte evidenziato, ritroviamo oggi alla base di quella distruzione del livello minimo di investimenti pubblici in infrastrutture adeguati nel tempo che si è ripercosso nella dissoluzione del territorio sotto il profilo ambientale e idrogeologico.
Ora le privatizzazioni hanno la "sfortuna", per i nostri decidenti proni ai diktat della Commissione, di dover essere deliberate proprio mentre il territorio mostra le conseguenze luttuose dello stato di abbandono, acuito dal fatto che la logica del consolidamento fiscale "perpetuo" rendeva conveniente, ad enti locali disastrati dai vari "patti di stabilità interna", incassare i contributi e anche l'ICI, l'IMU, Tarsu e ogni altra diavoleria di pressione tributaria all'uopo escogitata per "far quadrare i conti", in una situazione di indebitamento privato che, con l'aggravarsi post 1999 della nostra posizione netta sull'estero, ci ha posto sempre più in una condizione insostenibile.
Ora le privatizzazioni hanno la "sfortuna", per i nostri decidenti proni ai diktat della Commissione, di dover essere deliberate proprio mentre il territorio mostra le conseguenze luttuose dello stato di abbandono, acuito dal fatto che la logica del consolidamento fiscale "perpetuo" rendeva conveniente, ad enti locali disastrati dai vari "patti di stabilità interna", incassare i contributi e anche l'ICI, l'IMU, Tarsu e ogni altra diavoleria di pressione tributaria all'uopo escogitata per "far quadrare i conti", in una situazione di indebitamento privato che, con l'aggravarsi post 1999 della nostra posizione netta sull'estero, ci ha posto sempre più in una condizione insostenibile.
Che poi questo "timing" non sia casuale, preannunzia, in realtà, che tutti i nodi stanno venendo al pettine. Cioè non solo disastri ambientali si accoppiano alla intempestività antieconomica della privatizzazioni, ma questi fenomeni spogliano di ogni mascheramento la stessa connessione con il livello di disoccupazione dilagante e con la rinuncia sistemica, €uro-vincolata, ad ogni forma di politica industriale, (termine, a un certo punto, divenuto, una sorta di bestemmia, contraria alla logica della "competitività" propria dell'€uropa).
Da parte della "politica", con ritardo ormai clamoroso, e vuotezza di sbocchi tempestivi e assistiti da un minimo di capacità negoziale effettiva, si equivoca che la crescita debba, non si sa come e quando, ridivenire al centro dell'agenda europea.
Ma al massimo si parla del problema della governance finanziaria, cioè della creazione (adesso? A buoi usciti dalla stalla?) di eurobonds o di irrealizzabili "trasferimenti" all'interno dell'area euro, con una irrealistica chiamata ad associarsi rivolta ai titubanti francesi. Troppo poco, troppo tardi, troppo inefficace rispetto alla attitudine a riprodursi degli squilibri commerciali tra paesi dell'eurozona, ormai avviluppati da una crisi da domanda generata esclusivamente dalla stessa €uropa, attitudine che non viene neppure ancora ammessa nei suoi esatti termini e responsabilità.
Insomma, non sarà questa o quella voce individuale a decretare che il solo accettare che Olli Rehn possa ancora pontificare sulla realtà economica italiana sia ormai circondato da un unanime crisi da rigetto.
Sentite cosa scrive, in perfetta (ma autonoma) linea con quanto sostenuto qui e, certamente, altrove sul web, una voce "diplomatica" e istituzionale che non può certo essere definita antieuropea:
Enrico Letta sostiene che bisogna avere i conti in ordine e le carte in regola per potersi fare sentire in Europa. Cosa dobbiamo dimostrare ancora a Bruxelles? Che la cura imposta da regole miopi e ritagliate su situazioni economiche in periodi di crescita stanno producendo la deindustrializzazione del Paese e un tasso di disoccupazione mai visto? A Letta, come a molti leader europei, sembra sfuggire che la marea euroscettica ed anti euro sta montando in maniera vertiginosa e rischia di travolgere i fragili argini frapposti dai partiti tradizionali in vista delle prossime elezioni del Parlamento Europeo. L'Europa attuale non è in grado di sviluppare politiche di crescita e non ha gli strumenti per assicurare occupazione e lavoro.
Di fronte alla drammatica situazione in cui versano migliaia di famiglie e di imprese le parole di Olli Rehn, un burocrate che ha fatto carriera nelle istituzioni europee, appaiono deliranti. L'Italia come altri paesi non puo' più accettare le regole europee che esprimono una politica sbagliata e stigmatizzata come nociva alla crescita dai principali partners commerciali dell'Europa come USA e Cina. Intanto Angela Merkel mette in guardia contro ogni tentativo di porre un freno al suo export, preoccupata di conservare la rendita di posizione di cui gode, in una situazione di competitività decrescente della sua industria.
Per l'Italia è tempo di lanciare un solido piano di politica industriale, con investimenti destinati alla sistemazione del territorio, alle infrastrutture, alla ricerca, all'innovazione, anche se questo dovesse comportare lo sforamento dei parametri brussellesi. Questa è la scelta che un governo degno di questo nome dovrebbe fare e non svendere i pochi gioielli di famiglia rimasti per soddisfare le esose richieste di una governance europea sempre meno credibile
Prese di posizione come questa, non più isolate, non sono di poco peso: indicano come il venire "i nodi al pettine", stia faccia tracimare una crisi di rigetto collettiva, per manifesta inadeguatezza del sistema euro, che, nei prossimi mesi dilagherà travolgendo gli argini dell'ipocrisia del "lo vuole l'Europa", fino al punto da rendere questo formula non solo inservibile come strumento di "illusione finanziaria" neo-liberista, ma addirittura da creare, nella crescente parte consapevole del Paese, a cominciare dai ceti c.d. "produttivi", una messa in mora dell'intera classe politica nel saper affermare decisamente il contrario: cioè lo vogliamo "noi" italiani, perchè ciò è veramente necessario a un'operazione di necessaria salvezza nazionale DALLA STESSA €UROPA.
Per le sue immediate connessioni con questa emergenza di immediata e totale revisione delle politiche seguite da un (triste) ventennio, ben oltre il casus belli delle privatizzazioni, vi riproduco un'intervista rilasciata all'Avvenire da Cesare Pozzi, indicativa in sè, del timing distrastroso cui stanno andando incontro le politiche del PUD€:
D: Ce lo chiede l’Europa, che vuole un abbattimento netto del debito. Non è d’accordo?
R: Di questo passo, il mantra di Bruxelles che impone delle misure ai singoli Stati e puntualmente le ottiene, sta diventando una condanna. Siamo entrati in una crisi globale e per merito dell’austerity abbiamo fatto peggio. Non è un momento particolarmente felice per la burocrazia del Vecchio continente e, comunque, la Commissione ha già chiesto tanto e noi abbiamo dato in abbondanza.
D: Cosa non la convince del dossier privatizzazioni?
R: È un tema da inquadrare molto bene: si possono vendere società controllate o partecipate dallo Stato, ma occorre farlo valutando caso per caso. Prima dobbiamo chiederci qual è il tipo di mission di queste aziende e cosa possono fare sul territorio. Si parla tanto della cessione di quote di Terna, ad esempio, e io penso che lo Stato in una fase così delicata per il mercato dell’energia, possa al contrario chiedere in questo campo di investire di più.
D: Teme la svendita dei gioielli di famiglia?
R: No, è sbagliato pensare solo alla generazione di cassa. Le questioni aperte sono tante e vanno dai contratti di concessione, alla rete dei fornitori fino al rapporto di queste società col territorio e con le loro comunità di riferimento. Il futuro di aziende come Eni, Enel o Ferrovie deve rientrare in un dibattito pubblico sul futuro industriale del Paese.
D: Non c’è nulla che merita di essere almeno in parte ceduto?
R: Forse si può mettere sul mercato una rete Rai, ma quanto vale e chi può comprarsela? Se arriva un soggetto straniero, è necessario capire le motivazioni strategiche che lo spingono a muoversi. Iniziamo a fare i conti sulle privatizzazioni del passato: dovremmo chiederci non solo quanto lo Stato ha incassato dalla vendita, ma anche quanto ha rinunciato in termini di dividendi e quanto è stato pagato all’estero. Telecom è un caso emblematico: era la più grande impresa europea e ora cosa è rimasto? L’industria delle telecomunicazioni sembra esser stata dimenticata da tutti. Il vero rischio è fare operazioni che indeboliscono il Paese generando non creazione, ma distruzione di valore.
D: È la rivincita di Keynes in tempi in cui il libero mercato gode ancora di buona fama, nonostante gli eccessi dimostrati dalla crisi...
R: Il mercato non può tutto: i cinesi forse si preoccupano di rispettarne le regole? Semmai è cruciale discutere sulle leve strategiche da preservare per lo sviluppo del Paese, riportando capitali freschi nelle attività imprenditoriali. Bisogna attirare nuovi fondi, non solo sul mercato azionario.