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L'ATTIVITA' BANCARIA "SECONDO L'EUROPA". L’INSOSTENIBILE INADEGUATEZZA DELLA REGOLAMENTAZIONE “PRUDENZIALE”.

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L'interessantissimo tema dell'attività bancaria, nella sua, si potrebbe dire, "tragica" attualità, è trattato in questo post inviatoci cortesemente da Hulk, che pubblichiamo con grande piacere. Le osservazioni da lui svolte sono "illuminanti" e di per sè chiarificatrici del "perchè" lo sbilanciamento dell'assetto sociale ed economico europeo a favore dei soggetti "finanziari" sia un costo crescente e insostenibile non solo per le "tasche" di cittadini e imprese, nonchè per i conti pubblici caricati di "salvataggi", ma proprio per la stessa democrazia.
Al contributo di Hulk, segue, come complemento di un inquietante scenario, un breve saggio di Sofia sulla Costituzione economica e sul "risparmio" in Costituzione, che amplia il discorso su come la "sterilizzazione" del germe della democrazia abbia ormai superato ogni ragionevole livello di guardia.
Ringraziamo entrambi, e facciamo nostre le osservazioni che ci consegnano, come "armi per una democrazia" costituzionale da ritrovare. Al più presto.

1. Il cambio di paradigma in materia di regolamentazione bancaria, richiesto dall’Europa per realizzare la libera circolazione dei capitali, parte da lontano e risale all’affermazione del carattere d'impresa dell'attività bancaria a discapito dell'interesse pubblico, proclamato nella legge bancaria del '36.

Con la prima direttiva comunitaria in materia bancaria (CE n. 780/77), recepita tramite il DPR 350/85, è stato introdotto nell’ordinamento interno il principio del libero accesso all’attività bancaria.
La seconda direttiva ( CE n. 646/89), poi, ha realizzato il coordinamento delle disposizione legislative nazionali. Unitamente alla prima diede vita ad una vera e propria “legge bancaria comunitaria”, che ha portato, in Italia, al Testo Unico Bancario del ’93 (d.lgs. 385/93).
Questo punto di svolta segnò il passaggio dalla cd. vigilanza cd. “strutturale”, volta a perseguire l’obiettivo della stabilità del sistema attraverso la preventiva valutazione del bisogno economico del mercato, a quella “prudenziale” fondata, essenzialmente, sulla valutazione dell’adeguatezza del patrimonio bancario a presidio dei “rischi d’impresa”.
In nome della Concorrenzaè stata fortemente limitata la discrezionalità tecnica della Banca d'Italia.
La potestà di normazione secondaria del regolatore nazionale è stata ridotta alla mera ricezione, via Commissione Europea e Comitato di Basilea, delle metodologie di misurazione dei rischi, ad elevato grado di astrazione, elaborate dagli stessi operatori internazionali nominalmente sottoposti al controllo della vigilanza bancaria.

Allo stato attuale, le crisi finanziarie che si sono succedute nell’ultimo trentennio, con maggiore frequenza e intensità rispetto al passato, e con costi crescenti a carico dei bilanci pubblici per ripianamento delle perdite, impongono una riflessione critica anche sulla praticabilità di un modello di controllo basato sulla centralità del Patrimonio e sull’omogeneità del modello imprenditoriale di banca universale adottato (ma anche imposto “ope legis”) dagli operatori.
Le difficoltà incontrate dalle Autorità di vigilanza nel far osservare i principi della corretta gestione creditizia, non potranno essere superate– neanche in improbabili contesti sovranazionali – fintanto che non verrà messo in discussione l’approccio “prudenziale”, eccessivamente rispettoso delle prerogative degli operatori di mercato (e molto meno di quelle di depositanti e contribuenti).
L’eccessiva confidenza nella capacità degli operatori di valutare autonomamente i rischi contrasta con la stessa ragione dell’intervento regolamentare pubblico quella di limitare il “moral hazard” del banchiere, cioè la particolare tentazione, connaturata all’attività, di appropriarsi tout court delle risorse affidate dai risparmiatori omettendo di effettuare la dovuta selezione degli impieghi in una ideale logica di funzionalità del sistema.
Nel sistema della legge del ’36 l’interesse pubblico posto sull’attività bancaria costituiva un efficace argine per il “moral hazard” che nessuna possibile misura del patrimonio bancario, pur sempre una frazione della massa dei depositi, può rimpiazzare.
Il patrimonio di una banca, qualunque sia la forma giuridica, è essenzialmente un patrimonio di relazioni (in teoria una banca potrebbe operare con patrimonio negativo), quelle buone portano buoni frutti, quelle pericolose portano alla crisi. Il conto di quest’ultime è portato ai contribuenti.
Nel sistema delineato dalle normative comunitarie, prima con il recepimento di Basilea 1 e poi con Basilea 2, gli strumenti d'intervento posti a disposizione delle Autorità di vigilanza non si sono dimostrati efficaci a prevenire le crisi. Un’ulteriore complicazione al mercato del credito, derivata da Basilea 2, è la prociclicità, che porta gli operatori a restringere le erogazioni nelle fasi discendenti del ciclo economico per “risparmiare” capitale.
Le linee di riforma stabilite da Basilea 3, dichiaratamente nate per porre rimedio alle falle che hanno prodotto la crisi del 2007-2008
[1], si pongono in sostanziale continuità con lo schema già accennato, tanto che alcuni specialisti parlano di occasione mancata (o falsa panacea)[2], apportando, di nuovo, solo sistemi di ripartizione delle perdite dell'attività bancaria, per particolari categorie di finanziatori (bail in).
Non risulta modificato, anche in prospettiva, l’impianto regolamentare, deputato ad assicurare il controllo sulle banche alle quali è pacificamente riconosciuto, per i motivi sopra accennati, il carattere di impresa “speciale”, tanto da meritare una specifica attenzione pubblica.
In tali condizioni, di “controllo volontaristico”, nella pratica, una banca resta stabile fintanto che il “prelievo alla fonte”, ovvero il “frutto” del moral hazard, operato dai poteri decisori interni è sopportabile della generale massa dei clienti depositanti e prenditori ordinari.
Detto "prelievo" si estrinseca nell’acquisizione di attivi bancari "farlocchi", tanto le classiche concessioni di credito predestinate a trasformarsi in sofferenze, quanto i più moderni prodotti della finanza innovativa (derivati et similia) di incerto valore che, tuttavia godono di favorevoli ponderazioni (quotazioni cd. 'mark to fantasy').

Nel sistema “prudenziale” non vi è modo per la vigilanza bancaria di contrastare la formazione delle perdite preordinate ex-ante, nonostante la continua iperfetazione della normativa secondaria, restando solo la decisione di ritiro della “licenza” bancaria quando il “prelievo” osservato non è più sopportabile dalla generica clientela della banca.
Peraltro, la possibilità di applicare questa “punizione”, che interviene, per definizione, solo quando i danni sono già stati prodotti, è in pratica possibile solo per gli intermediari di minori dimensioni, non per quelli di rilevanza sistemica. Qualche voce critica sulla ridondanza della strumentario utilizzato dalla vigilanza “prudenziale” si è levata di recente dallo stesso ambiente delle banche centrali[3]

Quanto detto induce una riflessione critica sullo stesso concetto di “politica creditizia”.
Nella pratica bancaria si dovrebbe scindere il senso fra 'politica' a favore dei predetti soggetti vicini ai decisori e 'attività creditizia' verso gli altri soggetti prenditori di fondi. In genere, le perdite derivanti da questa seconda categoria di clienti sono del tutto sopportabili dalla gestione bancaria.
Gli affidamenti della prima categoria, in genere di grandi dimensioni per grandi banche, non dovrebbero essere nella disponibilità di decisori privati tout court, ma riservate ad articolazioni della Politica d'intervento pubblico in economia, come avveniva in passato tramite istituti di credito speciale. Poiché, se “prelievo” vi deve essere, ovvero accettazione di un elevato rischio d’insuccesso, ebbene, che abbia almeno una ricaduta positiva nel sistema economico.
Quanto argomentato sottende l’opportunità della riapertura di un dibattito sulle modalità con le quali perseguire efficacemente le finalità dell'intervento pubblico nel settore bancario, nell’attuale scenario di crisi, riammettendo l’opportunità del’intervento diretto dello Stato, via nazionalizzazione (tanto più opportuno se si considerano 'garanzie' statali già concesse alla BCE ex art. 8 del D.L. n. 201/2011 “Salva Italia”).
Per di più, le banche pubbliche non hanno bisogno di "capitale" ex-ante a presidio dei rischi
perché forniscono sicurezza. Tramite il loro modo di operare "regolamentato" contribuiscono a 'calmierare' anche i rischi sistemici.

Queste considerazioni inducono a riflettere anche su come il sistema disegnato dalla legge bancaria del ’36 si è dimostrato più performante sotto il punto di vista della tutela del risparmio richiamata nell’art. 47 della Costituzione, rimasto compresso dal sovrappeso attribuito all’art. 41 (primo comma), per ossequio formale al principio della concorrenza introdotto via normative europee!
Quando, poi, in dottrina, la struttura dell’industria bancaria è stata associata ad un oligopolio naturale, peraltro favorito dalla stessa legislazione che ha elevato le barriere all’ingresso accrescendo la complessità delle norme e dei requisiti organizzativi anche per i piccoli operatori.


[1] http://www.bancaditalia.it/vigilanza/basilea3
[2] http://ideas.repec.org/s/mul/jqmthn.html Autore: Sergio Sorrentino
[3] Cfr Andrew Haldane – The dog and the frisbee (www.bis.org/review/r120905a.pdf) , per il quale i parametri di valutazione del rischio dovrebbero essere piuttosto grezzi e di facile comprensione.


2. La Costituzione italiana nel perseguimento di una “economia sociale di mercato”, attribuisce allo Stato specifiche finalità - delineate nei primi quattro articoli della Cost.- e conseguenti strumenti (che possono individuarsi nella c.d. Costituzione economica) che hanno l’intento di orientare l’iniziativa privata verso “fini sociali” per renderla funzionale ai fondamentali diritti della persona e delle comunità. Dal che ne consegue che tali strumenti non possono essere utilizzati in maniera indiscriminata e al di fuori del perseguimento del fine citato.
Il primo di questi strumenti è il riconoscimento del diritto di proprietà e di iniziativa economica, purché però l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali, ovvero purché l’iniziativa privata possa svolgersi in modo da non essere in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (articolo 41).
E ancora: lo Stato può limitare il diritto di proprietà per “renderla accessibile a tutti” (articolo 42); per erogare servizi pubblici essenziali e fronteggiare “situazioni di monopolio” (articolo 43); al “fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali” (articolo 44). Altro strumento riguarda il controllo del credito.
Lo Stato favorisce la formazione di risparmio attraverso la stabilità monetaria (articolo 47) e finanziaria (articolo 81).
E tuttavia si riserva di esercitare un controllo sul credito (articolo 47) in modo da assicurare una distribuzione funzionale e geografica degli investimenti. Si riserva cioè un ruolo nella formazione e allocazione del risparmio nazionale. Non la considera una funzione esclusiva del mercato: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito (articolo 47).
Nell’ambito di queste norme, quindi, la tutela dei diritti sociali assume un ineliminabile e caratterizzante significato programmatico, mentre la legittimazione degli strumenti di intervento pubblico non può mai oltrepassare la soglia della violazione dei diritti fondamentali, cui queste norme sono, per necessità dettata dalla scala di valori delineata dagli art.139 e 1-12 Cost., inscindibilmente legate.
E strumenti voluti dall’Europa, ma contrastanti coi principi fondamentali della Costituzione sono da respingere, ove non ne sia possibile il ragionevole “bilanciamento” (come sostiene la stessa Corte costituzionale tedesca e pure quella francese), proprio in base al “corretto” intendimento dell’art.11 Cost.
Con la firma dei Trattati di Maastricht (1992) e Amsterdam (1997), è stata delineata  una “costituzione economica europea”, che è stata recepita dall’ordinamento italiano, mediante legge parlamentare di ratifica, senza un esplicito e diretto atto popolare o fonte di esplicita revisione costituzionale, soggetta al limite dei principi fondamentali che danno forma alla Repubblica democratica del lavoro (di cui parlano i padri costituenti).
Anche per questa ragione gli interpreti hanno molto discusso sulla compatibilità delle due costituzioni e dei rispettivi principi informatori.
Ebbene dagli approfondimenti dottrinari (non solo di giuristi, ma anche di economisti) emerge che le due costituzioni se pure sembrerebbero perseguire finalità sociali compatibili e complementari, in una visione peraltro contraddetta dal modo in cui, in concreto sono stati interpretati i trattati, certamente sono in contrasto quanto ai mezzi.
La Costituzione italiana così come la costituzione europea giustifica ampiamente l’intervento pubblico in economia, solo che la seconda introduce regole e vincoli di gran lunga più stringenti (si pensi al principio di “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” che impedisce alle autorità politiche di adottare dazi, premi o altri strumenti distorsivi della concorrenza; al principio della stabilità monetaria e finanziaria, che impone al Sistema europeo di banche centrali di perseguire l’obiettivo prioritario della stabilità dei prezzi e vieta ai governi nazionali di accumulare deficit e debiti pubblici superiori a certi limiti quantitativi; al “principio di sussidiarietà”, che suggerisce alla Comunità di intervenire soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri).
Invece la nostra Costituzione:
a) non recepisce il principio della concorrenza. Natalino Irti afferma che “la Costituzione italiana di certo non accoglie né il modello dell’economia di mercato né il generale principio della concorrenza” (Irti N. - L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, Laterza 1998, pag. 18).
La Costituzione italiana considera la tutela del mercato una condizione necessaria ma non sufficiente e giustifica il ricorso a politiche economiche PUBBLICHE attive, che possono includere misure protezionistiche, premi all’industria nazionale, discriminazioni fiscali, svalutazioni competitive e quanto altro (escluse dalla costituzione europea).
b) la Costituzione italiana originaria (fonte prevalente anche sulle successive “revisioni” costituzionali”, comunque non adottate) non recepiva il principio di sussidiarietà.
Scrive Quadrio Curzio: “È bene rammentare che nella Costituzione 1948 esso  era, a  nostro avviso, assente e che in Italia un ampio interesse politico per il principio di sussidiarietà è relativamente recente ed è principalmente dovuto a due eventi: l’Unione europea e l’istanza federalista italiana” (Quadrio Curzio A., Verso una Costituzione poco europea, in il Mulino, 1997, n. 374, pag. 1105).
c) quanto al principio della stabilità monetaria e finanziaria, gli articoli 47 e 81 potrebbero impegnare lo Stato italiano (governo e parlamento) a perseguire la stabilità monetaria e finanziaria, innanzitutto per tutelare il risparmio nazionale, ma non mancano differenze significative.
La costituzione europea, anche se in realtà i trattati avrebbero una portata più articolata di quella oggi "imposta" a forza di diktat della trojka, impegna il Sistema europeo di banche centrali a perseguire l’obiettivo prioritario della stabilità dei prezzi, fissa limiti quantitativi per deficit e debiti pubblici degli Stati membri, mentre nella costituzione italiana non vi è alcun riferimento in proposito e non pone limiti quantitativi o vincoli stringenti.
Nonostante ciò, in ragione del fatto che lo richiede l’Europa, la politica italiana prende sempre più le distanze dai principi costituzionali come su delineati facendone un uso distorto, ad uso e consumo della necessità di rispettare il pareggio di bilancio e delle politiche di controllo dei prezzi richieste dall’UE.
Ne è un esempio l’art. 47 della Cost. che attiene alla tutela del risparmio.
Tale articolo non pone regole di comportamento vincolanti, non disciplina procedure e non organizza istituti, ma, allo stesso tempo, appartiene a quella categoria di norme dedicata all’organizzazione dell’economia, che non formula meri principi morali, auspici e valori politici “generici”.  Si tratta di una norma programmatica, cioè cogente nelle finalità enunciate come coessenziali e irrinunciabili, e che si riempie di significato in connessione con l’art.3, comma 2, Cost., cioè con l’uguaglianza sostanziale e il programma di azione della Repubblica per rimuovere gli ostacoli che impediscono a “tutti” di partecipare alla vita sociale, economica e politica del paese.

E’ dunque una di quelle norme programmatiche che, se lasciano alla legge ordinaria, con una certa discrezionalità di scelte, l’organizzazione delle materie considerate (nel caso di specie l’organizzazione della tutela del risparmio e del controllo del credito), non di meno pone degli obiettivi INDECLINABILI, IRRINUNCIABILI, PROPRIO PERCHE’ ESPRIMONO NEL CAMPO ECONOMICO-SOCIALE IL PRINCIPIO FONDAMENTALE DELL’ART.3.
I due valori espressi dall’art. 47 sono, da un lato, l’incoraggiamento e la tutela del risparmio (quello che si forma presso le famiglie, quale parte del reddito non consumato) e, per il risparmio popolare, la sua destinazione alla proprietà della casa, alla proprietà diretta coltivatrice, all’investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese; dall’altro lato la disciplina, il coordinamento ed il controllo del credito (che nel suo significato più esteso dovrebbe comprendere tutte le forme di investimento finanziario, anche partecipativo e di rischio come le azioni ed i titoli di credito partecipativi, ma che nell’eccezione costituzionale di cui all’art. 47 sembra riferirsi solo al credito come esercizio dell’attività creditizia per cui la norma attiene solo agli  operatori professionali che intermediano il risparmio raccolto).
La tutela del risparmio in quanto tale, come valore economicamente e socialmente rilevante, sta a significare che non solo uno dei precisi compiti della “Repubblica” è di difendere come valore in sè la moneta, che è l’elemento in cui si traduce la liquidità, ma anche il reddito cioè il flusso di ricchezza che dà orgine alla stessa formazione del risparmio.
Il risparmio può essere difeso solo se contemporaneamente si difende il valore, MA PRIMA ANCORA, IL “RUOLO” ECONOMICO E SOCIALE della moneta, cioè se si controlla opportunamente l’intero ciclo finanziario della formazione del risparmio “incoraggiata”, perché essenziale ad un sistema economico fondato su UN PROGRAMMA ECONOMICO DI AVVICENDAMENTO DELLE CLASSI SOCIALI NELLA PROPRIETA’, NEL SENSO DI CONSENTIRNE E PROMUOVERNE L’ACCESSO A “TUTTI”, anche, ma non solo, attraverso l’investimento attraverso le imprese bancarie.
Ciò anche per il fatto che non si tratta di un valore costituzionale isolato e da perseguire astrattamente,  ma è la sintesi della costituzionalizzazione di una serie poteri concatenati che in maniera dinamica dovrebbe concorrere a fare della circolazione dei valori monetari un elemento cardine della costituzione economica.
Le connessioni con altre norme costituzionali rilevanti sono facilmente deducibili:  il principio della retribuzione sufficiente per una esistenza dignitosa di cui all’art.36, presuppone una capacità di acquisto della moneta tendenzialmente costante ma, quindi, implica anche l’adeguamento delle retribuzioni alle variazioni del tasso di inflazione; l’art. 53, nel collegare i prelievi di ricchezza alla capacità contributiva e al criterio di progressività, presuppone che venga corretto il fenomeno dell’inflazione (c.d. fiscal drag) che agendo come prelievo generalizzato non risulta collegato alla capacità contributiva ed al criterio della progressività.
Il 2° comma dell’art. 47 prevede un particolare favor per la trasformazione del risparmio popolare nella titolarità di alcuni particolari beni e lo schema, così come emerse anche dai lavori preparatori, aveva un duplice scopo:
1) tutelare il risparmio, appunto, popolare, che, per la misura limitata e l’ampiezza dell’arco temporale di formazione, è più esposto non solo al fenomeno negativo dell’inflazione, ma alla stessa “debolezza” della posizione dei lavoratori, rispetto ai detentori del capitale, nel garantirsi una fonte di reddito e quindi di risparmio.  Il risparmio popolare dovrà così derivare da reddito da lavoro subordinato, artigianale, professionale e in genere da qualsiasi altra fonte che per sua natura non possa che determinare un surplus monetario limitato ed a lenta formazione. MA ANZITUTTO, LA REPUBBLICA GARANTISCE CHE LA POSSIBILITA’ STESSA DEL RISPARMIO CI SIA, NON CHE IL RISPARMIO NAZIONALE DIVENGA ADDIRITTURA NEGATIVO COME IMPLICA IL FISCAL COMPACT;
2) permettere l’anticipata trasformazione del risparmio monetario “popolare” nella proprietà individuale di beni ritenuti socialmente ed economicamente rilevanti; la norma si riconnette al II comma dell’art. 42 che impone alla legge di dettar norme idonee a rendere la proprietà privata “accessibile a tutti” ed è la traduzione normativa di una delle ideologie politico sociali che hanno concorso alla elaborazione della Carta Costituzionale.
Cioè, arrivare, ed è questo secondo Mortati, Sandulli e Rodotà, il programma insito nella norma chiave dell’art.3, comma 2, Cost., a creare un tessuto sociale di “titolarità” proprietà individuali di beni particolarmente significativi al fine di determinare le caratteristiche della costituzione economica. Ma questo è esattamente ciò che, una volta provocato col vincolo della moneta unica, l’indebitamento estero privato “strutturale”, i creditori tedeschi (in testa) ci vogliono sottrarre.
Questi gli assunti su cui si sarebbe dovuta basare la legislazione di dettaglio ed in particolare la regolamentazione bancaria che invece, al fine di realizzare la libera circolazione di capitali in un’ottica di concorrenza richiesta dall’Europa ha finito per determinare effetti distorsivi sul sistema di tutela del risparmio e conseguentemente anche sul sistema di incentivazione e tutela della proprietà privata. Effetti distorsivi che, nell’attuale fase, giungono, a velocità crescente, a negare del tutto la stessa possibilità della proprietà diffusa e a porre in vuote parole il dettato costituzionale.



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