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GLI OSCURI FRAMMENTI DI UN DISCORSO SCONOSCIUTO (che ha effetti molto conosciuti e "programmati").

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Per fare un pò il punto, eviterò di spendere troppe parole "mie" (visto che, per la parte più autorevole della Scienza "infusa e "diffusa", sono un povero squilibrato dalla "prosa involuta"). 
Mi affiderò piuttosto ad una sequenza di citazioni. E neanche ritrovate da me, ma, per lo più, dai più attenti commentatori di questo blog "collettivo" (il mio squilibrio mentale non mi consente di individuare correttamente neppure dei "passi" significativi: d'altra parte, lo avete visto con von Hayek quanto non ci avessi compreso nulla e quanto, i fatti storico-politici degli ultimi 40 anni, mi stiano dando torto).
E mi perdonerete se oserò aggiungere qualche parola (involuta ed oscura, naturalmente) di raccordo.

Cominciamo allora proprio dal ribadire questo, caposaldo di von Hayek:
Hayek pensa ad una federazione di Stati, e la cosa davvero interessante è la sua discussione, come dice appunto il titolo, delle conseguenze economiche di una tale federazione
Con logica stringente, Hayek dimostra che una federazione fra Stati realmente diversi porta necessariamente all'impossibilità di un intervento statale nell'economia, e quindi alla vittoria di politiche economiche liberiste (il che ovviamente dal suo punto di vista è un bene). 
Infatti una federazione per essere stabile ha bisogno di un sistema economico comune e condiviso, e quindi della libera circolazione di merci e capitali, e questo porterà ovviamente a una perdita di controllo dei singoli Stati sulle loro economie. Si potrebbe allora pensare che il controllo statale si sposti al livello federale
Il nuovo super-stato federale si riprenderebbe quei poteri di controllo sull'economia che i singoli Stati avranno perso.Hayek risponde di no. Perché l'intervento statale sull'economia presuppone la capacità di mediare fra interessi contrapposti, di accettare compromessi ragionevoli, che non ci sono, o sono più difficili, fra popoli di Stati diversi. Come scrive Streeck riassumendo Hayek:
"...in una federazione di stati nazionali la diversità di interessi è maggiore di quella presente all'interno di un singolo stato, e allo stesso tempo è più debole il sentimento di appartenenza a un'identità in nome della quale superare i conflitti stessi (…). Un'omogeneità strutturale, derivante da dimensioni limitate e tradizioni comuni, permette interventi sulla vita sociale ed economica che non risulterebbero accettabili nel quadro di unità politiche più ampie e per questo meno omogenee (pagg.121-122 di The Economic Conditions of Interstate Federalism", F.von Hayek, 1929, cit. da Streeck)"

Aggiungiamo subito questo, contiguo pensiero di Lordon datoci ieri da Arturo:
"Ripiegamento nazionale", in ogni caso, è diventato il termine spauracchio, suscettibile, nella sua genericità, di essere opposto a qualsiasi progetto di uscita dall'ordine neoliberale
Dal momento che, se quest'ordine in effetti si definisce come sforzo di dissoluzione sistematica della sovranità dei popoli, perché possa così dispiegarsi senza intralcio la potenza dominante del capitale, qualsiasi idea di porvi fine non può avere altro senso che quello di una restaurazione di questa sovranità. [...] 
Pronunciare la parola "nazione", come una delle possibili vie di questa restaurazione della sovranità popolare, forse anche la più agevole o almeno la più facilmente accessibile a breve termine - precisazione temporale importante, visto che il jacquattalismo mondiale può aspettare - pronunciare la parola "nazione", dunque, significa esporsi ai fulmini dell'internazionalismo, o almeno della sua forma più inconseguente: quella che, o sogna un internazionalismo politicamente vuoto, visto che non indica mai le condizioni concrete della deliberazione collettiva, oppure, indicandole, non si accorge che sta semplicemente reinventando il principio (moderno) della nazione su scala più ampia!

Su quest'ultima ipotesi, della"reinvezione" della sovranità, a giustificazione della prospettiva di una mai nata, e neppure seriamente ipotizzata, democrazia "internazionalista", abbiamo speso molte parole: a veder bene, peraltro, tratte dal più limpido pensiero su come oggi la sovranità sia inscindibile dalla tutela dei diritti fondamentali che costituiscono l'essenza della democrazia costituzionale (cioè oggi democrazia e sovranità nazionale, nei paesi occidentali almeno, sono concepiti come un unicum) . 
Ma abbiamo anche visto come proprio von Hayek, questa ridislocazione internazionalista della sovranità, la consideri a realizzazione strutturalmente improbabile, se non impossibile, e su questo conta molto, tanto da teorizzarne la "dispersione" (che è poi dispersione della democrazia entro il quadro, qualsiasi quadro, internazionalista): questa stessa concezione (della ridislocazione, tipica dei desiderata apparenti della "costruzione europea"), consente però di propinarne l'idea tatticamente, per far digerire, ai popoli coinvolti, una trasformazione che abbia la parvenza di una "cosmetica" continuità

Non a caso, in un altro mitico passaggio, rivelatore dell'ordoliberismo nella sua radice di attacco strategico allo Stato nazionale "interventista", von Hayek fa la sua precisazione politico-metodologica con riguardo all'uso, ingannevolmente allusivo alla sovranità democratica in quanto trasposta in un contesto internazionalista, del "termine sociale"accostato al vero precetto normativo "liberista" che si intende addossare alle comunità (in precedenza democratiche). Questo uso è "plasticamente" rinvenibile proprio nell'art.3, par.3, del Trattato UE (che riprende la stessa locuzione del Tr. di Maastricht). E von Hayek può ben affermare:
"Non mi piace questo uso [dell'aggettivo "sociale" per qualificare ogni azione "pubblicamente consigliabile"; tra gli esempi: "economia sociale di mercato", a cui la nota si riferisce], anche se grazie ad esso alcuni miei amici tedeschi (e ultimamente anche inglesi) sembrano riusciti a rendere appetibile a circoli più ampi il tipo di ordine sociale che difendo". E' lui o non è lui? Certo che è lui! :-) F. A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, EST (Il Saggiatore), Milano, 2000, pag. 283, n. 26.

A questo punto, ci riallacciamo direttamente al post di ieri ed a come, nel pianificare l'avvento strategico e tattico del neo-liberismo,il Colloquio Lippmanci fornisca questa ulteriore precisazione, che ben spiega la apparente contraddittorietà della lamentata iperattività normativa "internazionalista" della UE-UEM, avversata da miopi oltranzisti del liberismo "tea-party" (che desiderano "tutto e subito", incuranti delle conseguenze sociali che, invece, devono essere rese accettabili con la dovuta gradualità):
"..Miksch, dice: “in questa politica neoliberale è possibile che gli interventi economici siano tanto ampi e numerosi quanto in una politica pianificatrice, ma sarà la loro natura a essere differente."

Ovviamente, nel secondo dopoguerra, si era ben coscienti della disattivabilità solo graduale dell'assetto sociale generato dalle Costituzioni democratiche (viste come una necessità obtorto collo in contrapposizione ai famosi carri armati di Stalin).  
Per superare l'ostacolo si doveva raggiungere il controllo integrale della cultura e dei mezzi di informazione, dato che (come ci segnalò un altro ottimo commentatore):
«Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi».
(F. von Hayek da "Verso la schiavitù", 1944).
 
Questo assunto, tattico e prima ancora strategico, era perfezionato su una lungimirante fede nella capacità di "spezzare" (intimamente, eticamente, psicologicamente, come ci additò poi Padoa Schioppa), le resistenze dei portatori degli ingiusti privilegi concessi dalle "legislazioni"- inclusive delle Costituzioni (pur sempre inferiori alla Legge superiore e naturale, metasociale, come in definitiva predicano gli europeisti nel sostenere la superiorità incondizionabile dei Trattati su ogni fonte nazionale),  e condensato nella seguente pragmatica enunciazione dello stesso von Hayek:
“Penso fermamente che lo scopo principale del teorico dell’economia o del filosofo politico sia di agire sull’opinione pubblica per rendere politicamente possibile quello che forse oggi è politicamente impossibile, e quindi l’obiezione che le mie proposte sono attualmente impraticabili, non mi scoraggia assolutamente a svilupparle.”

Naturalmente "l'oggi" consente, ormai (e certo non per caso), ben altri spazi di manovra ai neo liberisti di cui ci parla Lordon. 
Ma JP Morgan, coi suoi "analisti finanziari" dediti alla teoria generale degli Stati democratici, sono solo "nani sulle spalle dei giganti" come Hayek e Attali.

Si spiega allora molto bene come, consapevoli della direzione che stavano prendendo le "cose della democrazia", fin dagli anni '70 del secolo scorso, si indicassero alcune perplessità circa gli effetti del progredire del "meraviglioso mondo di von Hayek", pianificato fin dalla sequenza programmatica della moneta unica dalrapporto Werner (come abbiamo visto qui, nel modo stigmatizzato nel 1974 da Maiocchi).
Così Guido Carli (riferendosi all'idea, contenuta in tale "rapporto", di far partire la moneta unica senza un sistema federale di trasferimenti, lasciando poi alla seguente e ipotetica maturazione "politica" dei paesi aderenti questa realizzazione successiva ed eventuale):
"Se in questo momento la lotta all’inflazione appare l’obiettivo prioritario, l’Unione monetaria europea non può tuttavia essere imperniata su un meccanismo che tenda a relegare verso il fondo della scala gli obiettivi dello sviluppo e della piena occupazione, cioè ad invertire le scelte accettate dalla generalità dei popoli e dei governi in questo dopoguerra".

Il complesso degli sviluppi apportati da Maastricht, proprio in termini di internazionalismo, era paventato, già nel 1978, e in occasione dell'adozione dello SME, da Luigi Spaventa, in un modo che rivela tutt'ora la sua impressionante attualità e che pare collimare in modo impressionante con le osservazioni di Lordon sopra riportate (solo che lui le fa oggi, e Spaventa non risultò più..."pervenuto" su questi temi):
"si ritiene che l’edificazione del sistema monetario rappresenti il primo sussulto dell’idea europea dopo anni di letargo; l’occasione non può e non deve essere persa...Obiettare a questo argomento è pericoloso - si badi - perché si rischia di essere marchiati di antieuropeismo, si rischia di essere marchiati come nazionalisti, come retrogradi, perché esiste anche una sorta di terrorismo ideologico europeistico...Sono, quelle del sistema monetario, imperfezioni tecniche o non piuttosto i difetti di una creatura nata politicamente male e politicamente malformata?Non derivano, queste imperfezioni, dagli egoismi nazionali degli altri paesi più forti della Comunità? Perché mai, altrimenti, i costi che ci si chiede di sopportare dovrebbero essere solo i nostri, mentre non paiono esservi costi per i paesi più forti? Queste domande io vorrei porre agli amici europeisti, insieme a tante altre..."

E la traumaticità degli effetti economico-sociali (di SME, divorzio tesoro-bankitalia, liberalizzazione dei capitali, Maastricht e ovviamente, UEM), che pure non scosse mai molto i costituzionalisti italiani, apparve chiara ad un illustre economista come Graziani (unitamente ad Acocella e Brancaccio), che ci dice (come ci ha segnalato Flavio):
"...Personalmente, non vedo con favore l'approvazione di questa Costituzione europea, almeno nel testo del Progetto finora divulgato. E questo, prima di tutto, perché intravvedo un pericolo, anche se non sono in grado di valutarlo nella sua portata effettiva: e cioè che la Costituzione italiana possa essere messa - in parte o in tutto - nell'ombra. 
Mi riesce difficile capire quale potrà essere il valore della nuova Costituzione europea; ma se davvero la Costituzione europea dovesse in qualche misura prevalere, per i paesi che la accettano, sulle singole Costituzioni nazionali, questo significherebbe per noi rinunciare in tutto o in parte a una Costituzione che a me sembra frutto di una stagione politica particolarmente felice, che poi non si è mai più ripetuta. È per questa ragione che essa è tra le più avanzate sia sul terreno politico che sociale: e noi dovremmo tutelarla nel modo più rigoroso. 
Si tratta, infatti, di norme costituzionali non immediatamente applicabili ma particolarmente aperte, che lasciano intravedere anche la possibilità di ammettere i lavoratori alla partecipazione nella gestione dell'impresa.
Tutto questo nel progetto di Costituzione europea è rigorosamente soppresso e cancellato, poiché la Costituzione europea in questo ordine di problemi, come si è detto, si occupa soltanto della stabilità monetaria e della Banca centrale europea, che ha questo come obiettivo preminente
E mette incredibilmente in secondo piano - subordinandoli alla stabilità monetaria - tutti gli altri obiettivi (livello di attività, occupazione, stabilità, benessere e distribuzione del reddito). 
Io capisco che, con l'adozione della moneta unica, la stabilità monetaria possa diventare un obiettivo. Anzi, mi rendo conto che il fatto che l'Italia ha un tasso di inflazione che ufficialmente è fissato al 2,8% (ma tutti sappiamo, anche solo mettendo il naso fuori dalla finestra, che è molto maggiore), oltre a mettere le esportazioni italiane in grande difficoltà, può rappresentare una mina per la stabilità dell'euro: per cui risulta una necessità per tutti quella di attenersi a un tasso di inflazione in linea con quello degli altri paesi europei. 
Ma resta il fatto che, nonostante i vincoli della moneta comune, l'aver dichiarato che la stabilità monetaria è il primo e dominante obiettivo della politica economica dei paesi aderenti all'euro corrisponde a una visione restrittiva

Per ora ci fermiamo qui. 
Abbiamo abbastanza tracce per una ricostruzione. Sempre che la si voglia fare
I miei attenti commentatori mi hanno aiutato a farla (e sono fiero di essere "in combutta" con loro) e credo che tutto sommato sia un esercizio molto più utile della "ovvia" misurazione "a posteriori" di ciò che era stato così ben congegnato ed esplicitato; e che rendeva del tutto prevedibile, e previsto, l'incubo in cui si saremmo inevitabilmente ritrovati. 
 



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