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MASSE E POTERE. E LEGGI DELLA DINAMICA DI NEWTON

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Voglio molto bbbene a Bazaar e se, con questo post, enfatizzo una mia puntualizzazione sul suo pensiero, non è per un disaccordo di sostanza (dal punto di vista cognitivo-critico è un interlocutore privilegiato), ma per via del mio approccio anti-intellettuale. 
Magari questa affermazione per alcuni risulterà un po' paradossale, data la conclamata complessità e oscurità del mio pensiero, ma rimango lo stesso estremamente scettico sull'attitudine intellettuale, intesa come attività cui sarebbe dedita una classe di soggetti "padroni" (o autoproclamatisi tali) degli strumenti dell'analisi cognitiva dei fatti "complessi", ad avere capacità correttiva degli assetti di potere.
Non che non abbia fiducia nella potenzialità de-costruttiva - a livello individuale di consapevolezza- del pensiero rispetto alla "descrizione del mondo" su cui, storicamente, si verifica quello che è chiamato il "consenso" (percettivo): il mio dubbio riguarda la capacità di propagazione di questa capacità de-costruttiva, cioè la sua potenzialità a innescare un processo sostitutivo del "consenso" al di fuori della cooperazione di coloro che condividono la communis opinio.  
E' un fatto energetico: il "consenso"è equiparabile, in termini di percezione della realtà, al moto rettilineo uniforme o allo stato di quiete di cui parlano le leggi della dinamica di Galileo e Newton.

Il problema si pone sulla influenza decisiva o meno dei media nel determinare l'opinione di massa. Che come abbiamo visto qui, non è più, in tempi di riduzionismo pop a conduzione tecnocratica, una opinione pubblica risultante dalla sintesi di una dialettica articolata su basi più o meno consapevoli (in quanto "informate" e, prima ancora, "formate", ammesso che ciò si sia mai verificato: ma questo è un problema storico-economico che, per il momento, tralasceremo).
Di questo problema qui abbiamo parlato tante volte, anche sotto la categoria della "questione mediatica" e...connessi fattoidi.
Vi riporto i termini del dialogo (allo stato) tra me e Bazaar.

"Non credo che la stampa sia un problema: né tantomeno "Il problema".

Il lavoro che stiamo instancabilmente facendo insieme è risalire all'incipit, all'arché di quel processo culturale per cui, in un circolo vizioso, qualsiasi sociopatico che abbia il suo tiramento possa imporre la propria personale distopia come ordinamento globale.

Da umanista ed eternamente grato ad Heisenberg per averci dialetticamente salvato dai "deterministi antiumani", non posso accettare quel fatalismo "a-karmico" percui la Storia proceda indipendentemente dai suoi attori. (Caro Mattia, su questo punto non mi trovi proprio d'accordo).

Chi crede nell'Uomo crede nel libero arbitrio ma anche nella potenza del suo pensiero.

La cultura è un fattore squisitamente esogeno solo per chi non la influenza: un potente impianto valoriale ed ideologico trova la sua diffusione indipendentemente dalla struttura del sistema di potere dominante.

Se le crisi economiche sono conseguenza di crisi politiche e queste sono l'effetto di crisi culturali, è dirimente produrre cultura, cominciando a fare "ecologia epistemologica" di quella già prodotta prima che gli inetti, falliti
indegni intellettuali "conformati al nostro secolo"inquini irrimediabilmente i pozzi.

(un caro ricordo a Preve)"

Questa la mia risposta (arricchita in queste sede con qualche link ulteriore):

"Se le crisi economiche sono conseguenza di crisi politiche e queste sono l'effetto di crisi culturali,": già questa premessa sillogica è un pochino...determinista.  
Ma poi "produrre cultura" orientata a correggere quella (a livello di fondamenti, cioè epistemologica), prodotta dagli intellettuali "conformati del nostro secolo", è aspirazione certamente degna ma, messa in questi termini intenzionali di autolegittimazione, soffre di "titanismo".
Sul piano intellettuale-culturale si può arrivare a grandi formulazioni critiche, lampanti e decisive, eppure rimanere insignificanti in termini di "conformità", cioè di cultura connessa (se non coincidente) con la opinione pubblica, che è poi il livello politico della cultura.

Il problema allora diventa: come combatti il riduzionismo pop, che è il vettore e l'essenza dell'effetto culturale che si vuole correggere?

Gli intellettuali "conformati" forse sono criticamente "inetti", ma sicuramente non lo sono coloro che, a monte, ne decidono rilevanza e finanziamento.
E questi "coloro", ancorchè identificati, non possono essere scalzati "criticamente", semplicemente perchè hanno il controllo economico (finanziario) dei meccanismi di trasmissione di massa della stessa cultura. Cioèriduzionistica pop(batteriologica). Che è poi quella neo-liberista e, in sintesi fenomenologica, antidemocratica. Che ha, appunto, creato un "batterio" nel proprio laboratorio strategico-mediatico per il quale non si conosce, ancora, un efficace vaccino

Ma un'informazione democratica, capace di resistere al pop, nasce da un fattore di decisivo controllo politico: lo stesso di cui parla Kalecky (rispetto all'intervento economico dello Stato fuori dal diretto impegno industriale-produttivo), proiettato sull'azione statale di istruzione
http://orizzonte48.blogspot.it/2014/01/lautoinganno-del-tecnicismo-pop.html
http://orizzonte48.blogspot.it/2013/06/istruzione-opinione-pubblica-e.html

In estrema sintesi: le "risorse culturali" vivono su una massa critica - in un senso o nell'altro- e questa è direttamente proporzionale al consolidamento di un assetto di potere dotato di effettività prima culturale e poi giuridica. E l'effettività è controllo dei mezzi di formazione-informazione di "massa
".

Il dibattito, peraltro, è del tutto aperto: non chiedo di meglio di poter superare i problemi che la realtà ci mostra sempre più drammaticamente come (quasi) insolubili.

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