
1. L'amico Alessandro Lelli, in questo post su Scenarieconomici.it, lamenta giustamente l'insoluta (in tutti i sensi) questione dei crediti delle imprese verso la p.a., - di cui mancano all'appello 35 miliardi rispetto alla scadenza di pagamento"promessa" (entro fine settembre), mentre si riaccumulano i ritardi su quelli venuti a scadenza successivamente alla stima del 2013, - cui si aggiunge l'ulteriore inasprimento dello split-payment dell'IVA fatturata per le prestazioni alla stessa pubblica amministrazione, che determina un ritardo di 5 mesi (circa) tra il momento del mancato flusso di cassa relativo all'IVA (non più incassata) e la possibilità di compensazione con l'IVA "a credito" (esposta nelle fatture emesse verso i propri fornitori).
2. Il problema di "cassa" delle imprese (che è poi di solvibilità minima rispetto ai fisiologici "atti d'impresa), rispetto a beni e servizi comunque prodotti e già forniti alla p.a.,è allarmante per la stessa sopravvivenza delle imprese "in un momento in cui, oltre allo Stato che non paga, anche il sistema bancario sta erogando sempre meno credito".
Già ma per quali imprese?
Non per tutte: solo per le piccole e medie imprese e solo per quelle che si fondano sulla domanda interna, nella quale rientra per eccellenza la domanda pubblica.
Lo Stato che non paga e limita gli incassi che danno il flusso di sopravvivenza pone un problema solo a chi non ha accesso al credito e a chi produce (prevalentemente) per vendere in Italia.
Basti dire che a non avere accesso al credito sono proprio quelle imprese (appunto PMI fondate sulla domanda interna) che non danno luogo agli "incagli" che pesano sul sistema bancario nazionale.
3. Perchè, a dirla tutta, la gran parte delle sofferenze, (secondo i calcoli della CGIA di Mestre), è attribuibile alle grandi imprese, cioè al primo 10%, per dimensioni, dei debitori bancari:
"...quasi l’80% dei prestiti bancari va alle grandi imprese che, nonostante siano ridotte numericamente al lumicino, possono contare su un rapporto privilegiato nei confronti degli istituti di credito del Paese."
Dice Bortolussi, segretario della stessa CGIA:
“Appare evidente, salvo forse qualche rara eccezione – prosegue Giuseppe Bortolussi della CGIA di Mestre – che questo 10% di maggiori affidati non sono certo piccoli imprenditori o famiglie o lavoratori autonomi, ma quasi esclusivamente grandi società o gruppi industriali. E visto che il trend delle sofferenze a carico dei maggiori affidati degli ultimi anni è passato dal 72,8% del 2000 al 78,8% del primo trimestre di quest’anno, possiamo dire che le banche italiane ormai sono molto condizionate dalle grandi imprese. Queste ultime sono quelle che ricevono i maggiori finanziamenti e per contro presentano i tassi di insolvenza più elevati. Non vorremmo che questa anomalia fosse dovuta al fatto che nella grande maggioranza dei casi nei Consigli di Amministrazione dei più importanti istituti di credito italiani sono presenti proprio questi grandi imprenditori o manager a loro molto vicini”.
4. Questa, offerta da Rischio Calcolato, la situazione delle sofferenze a lugio 2014, aggravatasi nei mesi successivi, con una crescita che, secondo l'ABI, sfiorava a ottobre i 180 miliardi:

Per le grandi imprese e per le imprese esportatrici, spesso integrate in un sistema che vede fasi prevalenti di produzione delocalizzate, dunque il problema non si pone negli stessi termini; anzi, per queste lo Stato non è affatto "vampiro", assumendosi i costi della disoccupazione da "delocalizzazione" con una crescente spesa pubblica in ammortizzatori sociali.
Sensibile alla pressione dell'euro sistema, infatti, lo Stato concede le sue politiche a questo sistema industriale "eletto", - sempre più peraltro in mani estere, anzi, di cui si auspica, da parte dei governi, il crescente controllo non nazionale mediante i famosi "investitori esteri"-, e per questo si mette in scena la ristrutturazione sociale delle "riforme".
Il jobs act, con il suo via libera al ricatto del demansionamento e della accelerata espulsione dei baby-boomers dal mercato del lavoro, rischia di essere il punto finale di una crisi irreversibile di domanda, rafforzata dalla "opportuna" incentivazione delle nuove assunzioni decontribuite e ulteriormente precarizzate.
E' chiaro che quei pochi "forti" che hanno accesso al credito e determinano le sofferenze - precludendone l'accesso ai chi, invece, fa ogni sforzo per essere solvibile-, si trovano o a delocalizzare (divenendo imprese estere) o a cedere il controllo agli investitori esteri; ed il quadro normativo determinato delle riforme rende ora ancora più appetibile acquisirlo, avendo di fronte aziende depatrimonializzate, a prezzi di "saldo", e finalmente anche un mercato del lavoro che, col jobs act, diviene uno dei più flessibili al mondo.
5. E questo, dato che il licenziamento senza reintegra generalizzato e il livello retributivo incentivato verso il demansionamento-dequalificazione non può che avere un effetto di ulteriore scalata italiana nel ranking OCSE dei mercati del lavoro più flessibilizzato (notare l'accelerazione "decrementale" italiana, verso il basso pari solo a quella registrata dalla Grecia: e sono dati che non scontano, per l'appunto, il jobs act) :

6. Ribadiamo quanto detto in precedenza per capire che lo scenario non è solo quello di uno Stato vampiro, definizione che, in definitiva si addice alla strategia che vuole la competitività come processo di ristrutturazione dell'offerta, sacrificando la domanda ed espellendo lo stesso odiato sistema delle PMI dalla struttura produttiva auspicata, meglio ancora se "colonizzata" dai grandi investitori esteri:
"Questa è appunto una crisi da domanda, che, tra l'altro, essendo praticamente in corso dal 2008 -con double dip"rigenerato" dalle cure Monti del 2011-2012-, implica una strutturale deindustrializzazione che fa a pugni con ogni tipo di correzione dal lato dell'offerta: non ha senso cercare di abbassare, per via fiscale, i costi delle imprese (ad es; tagliando l'IRAP nella parte in cui include il costo del lavoro o con modeste decontribuzioni per i nuovi assunti) se le imprese producono per una domanda interna che non c'è più e non deve esserci, altrimenti i consumi in ripresa si dirigono prevalentemente verso prodotti importati.
La legge di stabilità, così com'è, corrisponde a questa visione supply-side, con qualche contraddittoria concessione.
Vediamola in sintesi estrema sui saldi...
...Dunque: si propongono presunti "nuovi" 18 miliardi di sgravi fiscali sul lavoro e i costi di impresa, così ripartiti (per voci principali meglio stimate):
a) circa 10 per la conferma degli 80 euro di sgravio: questa misura è praticamente ad effetto crescita zero: il PIL 2014 l'ha già sostanzialmente scontata ed ha semmai impedito una recessione più ampia. Confermarla significa quindi solo evitare l'effetto recessivo di una riespansione della pressione fiscale sui redditi da lavoro per il 2015 col relativo effetto depressivo (per circa 10 miliardi con un moltiplicatore FMI di 0,6-0,7, evitando un effetto recessivo di circa 0,4 punti di PIL);
b) decontribuzione per i nuovi assunti: il suo effetto di riduzione del carico fiscale vale nella misura limitata ipotizzata: 1,9 miliardi. I commentatori mainstream si affrettano ad evidenziarne la limitazione dando per scontato che sia tutta fruibile dal sistema datoriale. Ma ipotizzare i "soli" 200.000 nuovi assunti cui porrebbe capo è una scommessa del tutto irrealistica, a fronte di uno stimolo alla domanda in cui nella legge di stabilità non v'è traccia. Effetto su PIL, riguardando nuovi assunti in situazione di ricercata deflazione salariale e di limitatissima influenza della misura in sè sugli investimenti: indeterminabile (nella più ottimistica delle ipotesi, sarebbe di poco più di 0,1 punti di PIL."
7. Insomma, per le PMI non c'è scampo: l'idea dominante delle politiche €uropee,è quella della ristrutturazione competitiva, preferibilmente a controllo estero, di settori industriali selezionati, con l'abbandono di tutta la produzione che viene considerata irrimediabilmente "inefficiente" (nella logica free-trade dei vantaggi comparati).
Ma non è uno Stato-vampiro: è un non-Stato privo di sovranità che esegue i diktat dei controllori dell'economia globale.
Un disegno che in Europa ha il potente catalizzatore dell'euro e di un assetto istituzionale che disattiva la Costituzione e le previsioni degli artt.45 e 47 Cost. (quelle che dovrebbero tutelare in primo luogo proprio le PMI in raccordo con le politiche dell'art.41 Cost.).
8. Mentre va in scena il rabbioso tramonto dell'euro, nelle sue proiezioni preannunziate dal QE senza nè arte nè parte - in termini di interessi nazionali e quindi delle nostre PMI-, la massa "critica" degli stessi medio-piccoli imprenditori se ne dovrebbe rammentare: il problema è l'euro e l'assetto finanzario-internazionalizzato dell'Europa.
Prendersela con questo fantasma evanescente di Stato-esecutore di diktat, non è che una battaglia di retroguardia: se non comprendono la vera manovra in atto, finiranno per affondare in blocco senza aver compreso neppure di aver sbagliato rotta e di aver impattato l'iceberg.
ADDENDUM: amici del mondo delle medie e piccole imprese mi hanno scritto ponendomi il (a mio parere prevedibile e ragionevole) quesito: "ma cosa potrebbero aver fatto di diverso le stesse PMI, essendo alle prese con un "quotidiano" in cui lo Stato, nel suo volto fiscale più punitivo, le pone alle strette senza che esse possano influire non solo sulla scelta della moneta unica, ma anche sulle inefficienze burocratiche e sulla loro stessa capacità, perduta, di reagire alla sfida della competizione internazionale?"
Questa la mia risposta:
"Siamo d'accordo su certe tendenze.
Ma il punto sono:
a) le politiche industriali, impedite d'autorità dall'UE (esigono politiche fiscali anche sul lato della domanda e anticicliche, ormai in soffitta) e
b) la conservazione dell'alta tecnologia ancorata al territorio, che può essere consentita solo dalla grande industria PUBBLICA.Ciò, coincidecon la privatizzazione selvaggia di quel settore industriale pubblico che è il volano delle PMI (storicamente e funzionalmente; su questo credo di aver imparato da un gigante degli economisti italiani, e, a mio parere, non solo, come Cesare Pozzi).
Infatti non ho parlato solo di cambio flessibile -anzi non ne ho parlato affatto- ma di un intero modello produttivo, anzi, "sociale", creato dal free-trade, e quindi export-led, secondo il paradigma specializzato dei vantaggi comparati ricardiani: questo inevitabilmente distrugge intere filiere, in nome della competitività-deflazione salariale, e senza che le PMI possano rimproverarsi vere o presunte incapacità di competere (anche leggersi "Bad Samaritans" di Chang è illuminante)..
Questa è l'UE-UEM è infatti ho proprio detto che l'euro è un potente "catalizzatore" cioè un innesco strumentale di tutta la faccenda.
La responsabilità delle PMI è culturale e politica: non arrivano a comprendere cosa significhi il free-trade imposto per trattato, credendo che la globalizzazione istituzionalizzata (WTO-UEM-FMI) sia un fenomeno inevitabile, mentre invece è una creazione umana, molto ideologica e accettata passivamente contro limiti insormontabili della Costituzione (credendo che questa si limiti a tutelare il sindacato e cadendo nella trappola della rincorsa alla distruzione della domanda interna, tramite l'ostilità indistinta e poco meditata verso la spesa pubblica).
Invece, tutt'ora le PMI
- votano per i partiti del free-trade-internazionalisti (magari con inconsapevolezza sia degli eletti che degli elettori: problema di "risorse culturali" non da poco);
- si colpevolizzano per il "non saper competere" (quando il fenomeno dell'apertura dei mercati è comunque un colpo imparabile, programmato);
- esaltano il "tea-party" (limitare il perimetro dello Stato, cioè esattamente l'opposto di quello che gli ha consentito di nascere e di prosperare in passato);
- disprezzano la Costituzione, credendo che sia "comunista". Quando invece il suo ripristino è l'unica protezione che gli è rimasta...
ADDENDUM: amici del mondo delle medie e piccole imprese mi hanno scritto ponendomi il (a mio parere prevedibile e ragionevole) quesito: "ma cosa potrebbero aver fatto di diverso le stesse PMI, essendo alle prese con un "quotidiano" in cui lo Stato, nel suo volto fiscale più punitivo, le pone alle strette senza che esse possano influire non solo sulla scelta della moneta unica, ma anche sulle inefficienze burocratiche e sulla loro stessa capacità, perduta, di reagire alla sfida della competizione internazionale?"
Questa la mia risposta:
"Siamo d'accordo su certe tendenze.
Ma il punto sono:
a) le politiche industriali, impedite d'autorità dall'UE (esigono politiche fiscali anche sul lato della domanda e anticicliche, ormai in soffitta) e
b) la conservazione dell'alta tecnologia ancorata al territorio, che può essere consentita solo dalla grande industria PUBBLICA.Ciò, coincidecon la privatizzazione selvaggia di quel settore industriale pubblico che è il volano delle PMI (storicamente e funzionalmente; su questo credo di aver imparato da un gigante degli economisti italiani, e, a mio parere, non solo, come Cesare Pozzi).
Infatti non ho parlato solo di cambio flessibile -anzi non ne ho parlato affatto- ma di un intero modello produttivo, anzi, "sociale", creato dal free-trade, e quindi export-led, secondo il paradigma specializzato dei vantaggi comparati ricardiani: questo inevitabilmente distrugge intere filiere, in nome della competitività-deflazione salariale, e senza che le PMI possano rimproverarsi vere o presunte incapacità di competere (anche leggersi "Bad Samaritans" di Chang è illuminante)..
Questa è l'UE-UEM è infatti ho proprio detto che l'euro è un potente "catalizzatore" cioè un innesco strumentale di tutta la faccenda.
La responsabilità delle PMI è culturale e politica: non arrivano a comprendere cosa significhi il free-trade imposto per trattato, credendo che la globalizzazione istituzionalizzata (WTO-UEM-FMI) sia un fenomeno inevitabile, mentre invece è una creazione umana, molto ideologica e accettata passivamente contro limiti insormontabili della Costituzione (credendo che questa si limiti a tutelare il sindacato e cadendo nella trappola della rincorsa alla distruzione della domanda interna, tramite l'ostilità indistinta e poco meditata verso la spesa pubblica).
Invece, tutt'ora le PMI
- votano per i partiti del free-trade-internazionalisti (magari con inconsapevolezza sia degli eletti che degli elettori: problema di "risorse culturali" non da poco);
- si colpevolizzano per il "non saper competere" (quando il fenomeno dell'apertura dei mercati è comunque un colpo imparabile, programmato);
- esaltano il "tea-party" (limitare il perimetro dello Stato, cioè esattamente l'opposto di quello che gli ha consentito di nascere e di prosperare in passato);
- disprezzano la Costituzione, credendo che sia "comunista". Quando invece il suo ripristino è l'unica protezione che gli è rimasta...