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1978 e 1992- III. IL "DOPO" E IL NOSTRO PRESENTE A UN BIVIO (finale)

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1. Proviamo a parlare de "la questione generale".
Nel post di ieri Alberto Bagnai ha proposto una linea interpretativa che definisce e sviluppa le cause e i rimedi di tale questione. 
Alberto, peraltro, si rivolge a degli interlocutori considerati, alla luce degli sviluppi più recenti della politica italiana, più rilevanti e potenzialmente "idonei": diciamo riassuntivamente a quella parte della "dissidenza" interna al partito di maggioranza relativa (nonchè di governo) che ha iniziato a raccontare come e perchè le cose non possono andare bene. 
Riassuntivamente, dicevo; modalità che, sul piano contenutistico della "questione", cioè su quello della evoluzione della realtà socio-economica italiana, può ormai dirsi strutturale. 
In altri termini, la politica economico-fiscale seguita, certamente negli ultimi quattro anni, ma in sostanza da oltre un ventennio (Maastricht, per semplificare), costituisce un continuum coerente  (con delle accelerazioni che portano il sistema sotto stress, ma sempre sul tracciato della stessa rotta che includeva ab initio il propinare dosi crescenti di shock economy) che "ridisegna" in modo strutturale la società italiana.

2. Credo di poter dire che Alberto faccia necessariamente riferimento a questo intero disegno, quando, segnala, - con riferimento alla opportunità, perduta, di anticipare in occasione dell'approvazione del jobs act una rivendicazione "finale" sul dissolvimento della democrazia-, come il cogliere questa stessa opportunità "avrebbe almeno portato l'attenzione sul punto cruciale del disegno liberista del quale l'euro è testata d'angolo: il tentativo (finora riuscito) di estirpare il diritto al lavoro dalla costituzione, per riportarlo nel codice civile". 
Alberto conclude con questa pregnante esortazione:
"Ma almeno, e questo ve lo suggerisco toto corde nell'interesse vostro e del paese, trovate il modo di spiegare perché, come e quando avete capito che quello che difendevate non aveva senso, che la narrazione che avete propugnato era sbagliata. Documentando il vostro percorso (senza far nomi, per carità, altrimenti i colleghi si ingelosiscono!) eviterete di fare la figura dei voltagabbana, e soprattutto aiuterete quelli che a voi interessano tatticamente, cioè gli insider, a fare un percorso simile, o quanto meno a porsi delle domande. Come siete passati dal fateprestismo montiano alla percezione scientificamente fondata che il sistema è insostenibile? Lo volete spiegare ai vostri compagni? Non è che dobbiate fargli una lezioncina: ci sono mille e uno modi per farsi capire! Gli esperti siete voi..."


3. Questa esortazione contiene un passaggio fondamentale: l'enunciazione dell'interesse tattico a far compiere agli "insider" - cioè ai, si suppone, bene informati- un percorso simile: questo vuol significare il confluire in una sorta di "rivoluzione culturale" (espressamente richiamata da Alberto come rimedio indispensabile) dell'apporto positivo degli economisti (evidentemente in termini di diffusione aperta e completa di verità economiche manifeste, se non addirittura auto-esplicative: cioè appartenenti al minimo etico della oggettività scientifica).

Non è per muovere obiezioni a questa analisi che cerco di sviluppare qualche ulteriore osservazione: tutt'altro. Ed infatti, dobbiamo dare per scontate le dinamiche socio-culturali di settore che da sempre pongono in una situazione peculiare la scienza economica. 
Su questo aspetto rinvio a quanto in precedenza evidenziato dall'acuta analisi di una delle menti più brillanti mai apparse nel mondo dell'economia, Thorstein Veblen. 
Questi - come ci dice Galbraiith nella sua "Storia dell'economia" (pagg.194-195), compie, nel libro "The Higher Learning in America- a Memorandum on the Conduct of Universities by Business Men", un esame "mirabilmente corrosivo" del mondo accademico americano. 
"I colleges e le università americani...erano controllati molto rigidamente dagli interessi commerciali di società che facevano sentire i loro voleri attraverso i consigli di amministrazione. Le opinioni dei docenti venivano esaminate con grande attenzione alla ricerca di possibili eresie, le quali venivano definite come qualsiasi cosa si opponesse ai bisogni percepiti dalle grandi società industriali
Aggiunge Galbraith. "Benchè nel frattempo le cose siano molto cambiate, un'eco di quegli atteggiamenti un tempo dominanti si avverte nella convinzione tuttora persistente che l'orientamento ultimo della cultura accademica debba essere fornito da uomini d'affari - oggi dirigenti dei grandi gruppi societari- in quanto dotati di una formazione adeguata nell'amministrazione pratica..."

4. Questa fenomenologia non può che acuirsi in un ambiente (ri)globalizzato, e  più che mai liberoscambista-finanziarizzato, dove "uomini d'affari" provenienti dal mondo delle grandi banche universali, o in esse approdati da specifici percorsi accademici e/o governativi, sono sempre più indistiguibili dai vertici istituzionali degli organismi che governano i processi sovranazionali di decisione politico-economica (direi, politica tout-court).  
E questa anomalia (per i parametri della imparzialità dell'esercizio delle funzioni di governo, sancita dalla nostra Costituzione) non può che acuirsi, in tali condizioni, perchè si verifica un'eccezionale concentrazione di potere: essa caratterizza la nostra epoca anche più di altre, configurando una piramide gerarchica che disarticola-  in un modo che non ha precedenti, se non nel...medioevo-, il concetto (centrale, negli ordinamenti costituzionali democratici) di interesse generale (non di "bene comune": vi prego, non arrendetevi alla terminologia ingannevole proveniente da questa stessa matrice culturale!).

Tale è l'accentramento di potere istituzionale in questi soggetti che, il loro potere di influenzamento, che è poi un potere supremo di indirizzo e di creazione normativa vincolanti,  viene ormai esercitato a doppio e intrecciato titolo: come eminenti uomini d'affari (spesso divenuti tali in un percorso di induzione reciproca tra i due piani, istituzionale e privato-professionale) e,  aggiuntivamente, proprio in conseguenza di ciò, come legittimati preferenziali alla titolarità delle cariche di governo sovranazionale (e per la verità, anche nazionale, laddove lo "stato di eccezione" riemerga periodicamente nella vita dei sinigoli Stati nazionali assoggettati al vincolo sovranazionale).

5. Non elaborerò oltre (l'abbiamo già fatto ripetutamente): mi limito a segnalare che riscontrandosi nel nostro tempo una classe dirigente "suprema", investita di una simile "effettività" autoritativa, cioè una governance sovranazionalizzata e padrona di imporre quasi a suo piacimento "lo stato di eccezione" (quello che caratterizza la sovranità, sottratta ai processi democratici nazionali), è naturale fenomeno sociologico quello del consolidarsi di una cultura conformistica
Il fenomeno a cui assistiamo è che le riforme strutturali non investono solo il mercato del lavoro, cioè l'obiettivo principale ed essenziale del "sistema", ma sono opportunamente e sollecitamente dirette ad occuparsi di ogni gruppo e funzione professionale "strategici", cioè che possano recare problemi di incompatibilità con gli obiettivi perseguiti o che, durante il processo di affermazione del regime, si rivelino propensi a fare qualsiasi tipo di "resistenza":  e questo non da oggi (cioè non solo negli ultimi quattro anni, sia chiaro), perchè un regime pianificato da un'elaborazione pluridecennale ben conosce gli snodi della società che intende controllare e modificare.
Una "riforma" - orchestrata dall'appoggio mediatico totalitario che l'ordine sovranazionale dei mercati (euro-istituzionalizzato, in Europa), si è previamente assicurato nel realizzare la sua inarrestabile affermazione- può sempre divenire, tempestivamente e all'occorrenza, attuale: non è solo il "costo del lavoro" o la competitività, e cioè il mondo del lavoro direttamente coinvolto nella determinazione dei costi dell'offerta ad essere oggetto dell'attenzione programmatica del nuovo "ordo".
Anche gli insider, cioè coloro che avrebbero i mezzi per realizzare la natura del processo di concentrazione del potere in corso (che è poi il "l'ordine internazionale dei mercati"), alla stessa stregua di ogni altra categoria sociologica, sono stati (o possono ulteriormente essere) assoggettati alla "conformazione" che procede dal vertice agli strati intermedi della neo-gerarchia; e ciò in base ad un processo brutale, fatto di punizioni (di status) e di ristretti privilegi ben indirizzati, secondo la neo-tecnica legislativa che si irradia in ogni livello o settore sociale, senza tralasciare alcuno strumento di coercizione disponibile, anzitutto politico-normativo. Parliamo dell'accumularsi di riforme legislative ordinamentali-sezionali, che riguardano invariabilmente ogni categoria-chiave nell'affermazione del controllo di questa governance.

6. Diciamo che la cultura, intesa come espressione di pensiero (generale o specialistico) oggetto di comunicazione, è sovrastruttura, e che una diversa cultura può discendere solo dall'affermazione progressiva di una diversa struttura: non è che con questo voglia implicare che il nostro destino  sia bloccato in modo irrevocabile  in questa palude in cui affonda la democrazia.
Dico solo che una forza correttiva deve possedere una spinta tendenzialmente eguale e contraria a quella, patologica, che intende correggere.
Potrebbe l'azione (auspicabilmente, appassionata e coraggiosa) degli interlocutori "idonei" indicati da Alberto produrre questa spinta?
Difficile dirlo: se l'intero regime ordinamentale-legislativo, e di conseguenza culturale, è ormai il prodotto di ciò che si intende avversare, - avendo avuto il tempo di divenire "vincolo" irradiato in ogni settore della società-, l'innesco di una spinta contraria dovrebbe manifestarsi, anzitutto, mediante un potenziale di consenso di massa enorme, direi scardinante (tale da minacciare di sovvertire, secondo la teoria generale del diritto, la "effettività" del regime coincidente con la istituzionalizzazione dell'ordine internazionale dei mercati).
Se invece la si vuole vedere come una spinta "correttiva" che debba generarsi in modo mirato, in quanto opportunamente concentrata in un settore socio-professionale nevralgico, - tale cioè da irradiarsi immediatamente verso l'alto e da trascinare poi spontaneamente ciò che si colloca al di sotto di esso-, tale spinta dovrebbe essere accoppiata alla capacità dei suoi promotori di "esentare" i propri destinatari  dalle conseguenze sanzionatorie (in senso lato, agevolmente comprensibile nel contesto di cui stiamo parlando) predisposte dal regime (nel senso di categoria descrittiva di diritto pubblico). Cioè accoppiata alla capacità di prospettare, alla categoria "strategica", di aver acquisito un contro-potere normativo di reindirizzo-ridisciplina (egualmente correttiva) del segmento sociale e professionale considerato decisivo nell'espandere la spinta correttiva. O almeno di  prospettare la rapida caduta della "effettività" del potere di controllo sociale del regime avversato. 

7. Ed allora, siamo spacciati?
Probabilmente sì, perchè il ritardo nel reagire, in questa situazione, equivale al non aver reagito affatto, dato che la posta in gioco è il collasso definitivo dell'ordinamento democratico-costituzionale.
E tuttavia...
Le cose, forse, non sono messe così male, ma certo occorre saper ben sfruttare i punti deboli del sistema avversato. 
Mi riporto alla recensione di un interessante libro scritto da Giuseppe Berta, professore di storia alla Bocconi, per trovare la mappa di questo "percorso inverso" che appare assolutamente necessario. Notiamo la quasi coincidenza nell'individuare le due date cruciali della storia italiana rispetto ai nostri post sull'argomento, col solo piccolo dettaglio che nella nostra trattazione abbiamo fatto riferimento alla data di effettiva conclusione di Maastricht, cioè al 1992:
"L’Italia fu rappresentata nel cruciale negoziato di Maastricht da Guido Carli, Ministro del Tesoro del Governo Andreotti (che è in realtà il primario responsabile delle due scelte gemelle dell’adesione allo SME e all’Euro, deciso nel Trattato che crea l’Unione Europea) nel 1991. Queste sono le due date essenziali della storia italiana recente, quelle della devoluzione di sovranità entro uno schema Europeo già preordinato –nell’asse Francia-Germania- all’affermazione del modello sociale ed economico nordico (rappresentato in Italia come “vincolo esterno”): 1978 e 1991. Nella prima data l’Italia aderisce allo SME, malgrado le perplessità ed opposizioni,nella seconda aderisce alla UE, e di fatto, all’Euro (che nascerà di lì a pochi anni di serrata trattativa, come ricorda anche un protagonista come  Sarrazin). 
Carli conduce la trattativa nella convinzione, maturata da lungo tempo, che l’Italia non potrà “riformarsi” da se stessa, secondo le auspicate linee liberali, senza essere costretta a ciò da vincoli istituzionali indisponibili alle pressioni sociali. Per questa ragione è per lui assolutamente necessario creare “un vincolo giuridico internazionale” per ripristinare una “sana finanza pubblica”. Secondo la sua visione, ancora oggi fortemente condivisa, lo stato dei conti e la stessa nazione ha bisogno di assoggettarsi ad un’autorità sovranazionale, “per sottoporre a disciplina i comportamenti di partiti e società” (come scrive Berti). La società italiana gli appare, infatti, in quegli anni “frammentata, lacerata, disorganica”, con una vita politica bloccata e indifferente. 
Partendo da questa analisi, tutt’altro che priva di fondamento, Carli vede nel Trattato di Maastricht lo strumento per dare il necessario “scossone violento” che altrimenti solo un regime autoritario, come quello fascista, potrebbe dare (risposta dello stesso a chi lo invitava a maggiore azione nel suo ruolo di Ministro, p.100). Lucidamente Carli vede quindi che la del Trattato è ; cioè “la drastica riduzione del potere dei governi nazionali” alla quale, in una delle più incredibili e illuminanti affermazioni riportate nell’utile libro di Berta, Carli fa corrispondere nella sua valutazione “un accrescimento del potere decisionale dei singoli cittadini". 
 
Qui c’è il nodo ideologico, ed operativo, della costruzione della nuova Europa. Carli intende esattamente che l’indebolimento del potere dei Governi Nazionali (e dunque dei Partiti e dei Parlamenti democratici, ma anche delle organizzazioni sociali che influenzano la sfera pubblica nazionale) sia bilanciato da un maggiore dei cittadini a . Cosa? Cosa possono i “singoli” che restano tali, cioè che non si organizzano o associano, che non partecipano a processi politici?

Lo dice lui stesso, con impareggiabile chiarezza di pensiero e franchezza, il potere è nel diritto di investire i propri soldi nel debito pubblico o altrove. In altre parole la democrazia che resta è quella “dei mercati”. Con le sue parole: la “sintesi politica” è data dal “permanere del debito pubblico nei portafogli delle famiglie italiane, per una libera scelta, senza costrizioni, rappresenta la garanzia per la continuazione della democrazia” (p. 100, da G.Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza 1993, p. 386-7). 
Questo i-n-c-r-e-d-i-b-i-l-e rovesciamento di due secoli di pensiero politico democratico, di ogni prassi democratica, di ogni lotta condotta in Europa dalla rivoluzione francese ad oggi, questo vero e proprio pensiero eversivo, è la ragione per la quale il Ministro della Repubblica (che ha giurato sulla Costituzione Italiana), perfettamente cosciente di attuare una “rivoluzione del potere”, promuove nel negoziato. L’implementazione di una “federazione europea basata sul principio dello Stato minimo;, tenuta unita da una politica monetaria, da una politica estera e da una Difesa unitaria”. Questa Federazione è l’unica, a suo parere, che può resistere agli “urti che provengono da un mondo esterno che cade in frantumi”.



E’ questa visione della globalizzazione (ma siamo nel 1991, dunque ai suoi esordi), e del processo di crollo dello schema d’ordine della guerra fredda (siamo negli anni in cui l’Urss di dissolve), che ispira il tentativo delle èlite finanziarie e politiche, di cui Carli è da sempre parte integrante, internazionali di ricondurre ad uno schema più semplice le forze sociali e politiche che agitano le arene nazionali. Dunque i paesi del sud (e l’Italia in particolare), come sottolinea opportunamente Berta, devono abbandonare il proprio modello storico di sviluppo (imperniato su una versione dell’ che aveva fatto il dopoguerra).

Ma, dato che non esiste il necessario consenso politico e sociale per questa trasformazione, viene in soccorso lo strumento dell’Euro(e dell’intera Unione Europea) per “ridurre e contenere gli spazi della democrazia, almeno di quella che si è sperimentata in Italia dal 1945 al 1993, in quanto non più compatibile con l’assetto di una nuova Europa” (come scrive giustamente Berti). 
Una formazione istituzionale il cui assetto deve “corrispondere alle trasformazioni poi rubricate sotto l’etichetta onnicomprensiva della globalizzazione” (p. 102). Questa chiarissima scelta liberista, che Berti qualifica come espressione della volontà di “subordinare le istanze politiche all’egemonia di un’economia desiderosa di autoregolamentarsi fin dove può” è appena temperata dal tentativo (che Carli dice di aver condotto senza successo) di far inserire nella l’obiettivo della lotta alla disoccupazione a fianco alla stabilità dei prezzi (come è nella missione della FED). Chiaramente aggiungere ai famosi Parametri di Maastricht anche un target di disoccupazione avrebbe mitigato la purezza ideologica “nordica” del disegno, ma non avrebbe cambiato la sostanza delle cose. Il cuore del progetto è di ridurre la partecipazione democratica."

8. Mi è piaciuto riportare per esteso questa recensione perchè è una soddisfazione in sè vedere come un altro pensatore, utilizzando premesse fattuali omogenee con quelle qui utilizzate, arrivi grosso modo alla stessa descrizione e analisi storico-economica. 
Ma di più, questa impostazione, ci induce a alcune altre osservazioni:
a) che è (ancora) possibile esprimere certe verità (elementari) a livello accademico, ma, non di meno, queste non possono immediatamente trasmettersi a tutta la platea di  coloro che, per predisposizione e mezzi culturali, sarebbero in grado di coglierne l'importanza (è accaduto con "Euro e(o) democrazia costituzionale", così com'è accaduto nel caso dei libri, di ancora maggiore successo di pubblico, di Alberto e di Vladimiro Giacchè). E questo a causa del conformismo irradiato di cui abbiamo sopra parlato (con il suo minaccioso substrato ordinamentale-sanzionatorio, se non altro preclusivo dei privilegi estemporanei di cui è disseminato), conformismo  che rende (piaccia o meno) difficile la simultanea coincidenza delle proprie soggettive esigenze di manifestazione pubblica del pensiero;
b)  che promuovere una correzione di paradigma culturale esige una preparazione organizzativa ben strutturata, che non può essere disgiunta da una coesione umana (prima ancora che politica), raggiunta attraverso la stabile aggregazione almeno di quelle voci che, oggi separatamente, collimano, nei vari settori della cultura e della politica, nel formulare la diagnosi e nel prefigurarsi un rimedio;
c) che questo è quanto ci mostra la Storia, circa la preparazione che precedette l'esperienza dei CNL e la predisposizione di una cultura democratica "pronta" e già consolidata, che consentì di produrre l'esperienza dell'Assemblea Costituente. Come abbiamo visto,è in questa esperienza che si ritrova tutta l'energia (non dispersiva) della parte autenticamente vittoriosa dell'Italia uscita dal conflitto mondiale;
d) la coesione umana e organizzativa a cui faccio riferimento implica un impegno di dialogo e di "riunione" progressiva che, se ben svolto, condurrebbe ad un effetto aggregativo in espansione, tale da divenire fenomeno "comunicativo" in sè, cioè, a sua volta, aggregativo dell'opinione pubblica. 
Ma per ottenere questo effetto, occorre in primo luogo l'abbandono, da parte di chi ritenesse di promuovere un tale sforzo, di ogni compromesso con la post-ideologia del libero mercato, in ogni sua pregressa manifestazione storica (recente e meno recente), avendo ben chiara questa vicenda storica e senza alcuna riserva mentale circa i limiti "opportuni" di un eventuale "ravvedimento". 
In questo sono totalmente d'accordo con Alberto;
e) Infine, per ottenere questo effetto aggregativo, - sempre che esistano la volontà e l'urgenza di dargli vita-, occorre a maggior ragione superare anche gli steccati ideologici "pre-1992", (diciamo così per semplificare), cioè l'idea che esistano una sinistra e una destra che ancora possano razionalmente dirsi tali di fronte alla comune prospettiva di svuotamento dell'ordine democratico.
Su questo tema si può a lungo discutere, ma il solo fatto di continuare a farlo, implica il "non rendersi conto": cioè non aver compreso che i partiti di massa non possono più esistere nel tempo dell'ordine sovranazionale dei mercati mentre, viceversa, in una democrazia sostanziale "effettiva", un partito dichiaratamente liberista non potrebbe altro che raggiungere percentuali elettorali irrisorie.

Ma una democrazia sostanziale consente una partecipazione generale ed informata alla vita economica e sociale del paese (art.3, comma 2, Cost.) che non ha nulla a che vedere con l'attuale penetrazione totalitaria dell'ideologia dello Stato minimo e delle "risorse limitate", consentita dalla grande schermatura della pace e della costruzione europea.
Quindi, la scelta, quale che sia la matrice ideologica stancamente trascinata dai singoli individui (privata di ogni concreto significato, se non quello di attirare, inerzialmente, consenso elettorale di breve termine) è tra l'uno e l'altro paradigma, l'una e l'altra  "forma di governo" materiale (con ben diverse ricadute istituzionali, come constatiamo proprio in questi tempi di accelerazione).
La denuncia ineludibile di questa dicotomia, che è in realtà la conseguenza della divaricazione insanabile tra Costituzione vigente e vincolo esterno,è ciò che dovrebbe accomunare ogni settore della cultura e della società che ancora ritiene che l'Italia abbia un senso come comunità nazionale impegnata a ritrovare le ragioni della sua sovranità.
Cioè del perseguimento da parte delle istituzioni dell'effettivo benessere e dei diritti fondamentali dei cittadini.
Quanti sono oggi gli insider e i cittadini, e i politici, che potrebbero capire ciò? Molti, forse. Magari "abbastanza". Ma potrebbero non aggregarsi mai; almeno in tempo per salvarsi e salvarci.


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