
Questo post di Sergio Govoni riporta un caso in cui l'assurdità delle politiche del lavoro (eufemismo) e della flexicurity, volute dall'€uropa, trasmoda nel surreale. O anche nel "virtuale": pur di mantenere l'"esercito di riserva" dei disocuppati in condizioni di tensione e disciplina, e di sterilizzare l'effettiva domanda di lavoro nel mondo reale, si organizza un autentico "Truman Show".
Il bello è che questa flexicurity, culminante nel reddito di cittadinanza, il "baraccone"implica anche una spesa pubblica che, a sua volta, sarà in qualche modo finanziata: magari prelevando un contributo dalle imprese - che lo traslano sui prezzi o, in assenza di domanda, sui...licenziamenti!- o magari, nel complesso, tagliando la spesa del welfare.
Inutile dire che una volta inoltrati su questa strada, non c'è limite: ogni occupazione, ogni attività umana, può essere virtualizzata e fatta passare come beneficio di un lavoro fittizio, in condizioni di simulazione a cui non corrisponde alcuna retribuzione. Se non il "reddito di cittadinanza".
Il senso di colpa, circa la inutilità e non competitività del lavoro svolto, - ma comunque trasformabile nelle tipologie di "formazione" ritenute funzionali al sistema- può essere dilatato, sfruttando un accorto condizionamento mediatico e la sedazione del "reddito di cittadinanza", fino a porre tutti quanti in questa condizione virtuale. E altamente precaria: insomma, ti fanno lavorare per farti un piacere, per un riguardo da parte di persone "sensibili", ma a reti (e retribuzioni simboliche) unificate.
Inutile dire che una volta inoltrati su questa strada, non c'è limite: ogni occupazione, ogni attività umana, può essere virtualizzata e fatta passare come beneficio di un lavoro fittizio, in condizioni di simulazione a cui non corrisponde alcuna retribuzione. Se non il "reddito di cittadinanza".
Il senso di colpa, circa la inutilità e non competitività del lavoro svolto, - ma comunque trasformabile nelle tipologie di "formazione" ritenute funzionali al sistema- può essere dilatato, sfruttando un accorto condizionamento mediatico e la sedazione del "reddito di cittadinanza", fino a porre tutti quanti in questa condizione virtuale. E altamente precaria: insomma, ti fanno lavorare per farti un piacere, per un riguardo da parte di persone "sensibili", ma a reti (e retribuzioni simboliche) unificate.
Lavorare per finta
Un articolo del New York Times su finte imprese in cui si finge di lavorare pur di non restare a casa (In Europe, Fake Jobs Can Have Real Benefits) ha un tono surreale. Ci racconta che entrando nella sede di un’azienda come la francese Candelia in orario di ufficio si trova personale che risponde al telefono e fa fotocopie. I conti vanno bene.
Solo che l’azienda finge di avere clienti e fornitori. Immaginarie sono le banche che prestano all’azienda e le consegne degli spedizionieri. E naturalmente chi ci “lavora” finge di ricevere uno stipendio. Questa messinscena si ripete per migliaia di volte attraverso l’Europa.
Nate in Germania come iniziativa di formazione per studenti e riqualificazione per disoccupati, queste finte aziende sono diventate anche luogo di “lavoro” per disoccupati di lungo periodo, e servono loro per alleviare la frustrazione della disoccupazione e per mantenere le competenze necessarie al lavoro. Tra cui quelle di fare uno sciopero, finto anch’esso, per non dimenticare come si fa.
Ogni tanto qualcuna di queste ditte fa fallimento (virtuale), e i dipendenti procedono alla sua chiusura e all’apertura di un’altra, chiedendo prestiti ad una banca, finta, che può anche respingere la richiesta di credito se le carte non sono a posto.
Questi centri di formazione ottengono risultati, spiega l’articolo del Times: tra il 60 e il 70 per cento di chi c’è stato trova lavoro; si tratta però per la maggior parte di lavoro malpagato e di breve durata, dai tre ai sei mesi. Una ex manager di una ditta di spedizioni che perse il suo lavoro nel 2013 ha trovato un impiego trimestrale con un taglio dello stipendio di un terzo rispetto al suo lavoro precedente.
È evidente come questo sistema di gestione della disillusione sia perfettamente compatibile con un mercato del lavoro che ruota attorno al reddito di cittadinanza.
Se con il reddito di cittadinanza vai a fare un finto stage presso una finta azienda, ti basterà poco di più di stipendio per accettare un lavoro “vero”, od essere obbligato a farlo per evitare future penalizzazioni, previste dalla legge. Come già spiegato in dettaglio su Orizzonte48:
Il reddito di cittadinanza si accompagna alla regola giuridica che chi, comunque, supera una certa soglia di reddito perde il beneficio pubblico; ciò in tutto o in parte, a seconda dell'ammontare della soglia e della possibile considerazione di elementi di status familiare.
Tale regola è completata da un'altra, altrettanto coessenziale al sistema: cioè che, per non perdere il beneficio, occorra dimostrare di essere attivamente alla ricerca di lavoro, NON rifiutando offerte di lavoro che risultino attestate – secondo scarti anche percentualmente inferiori, fissabili dall'autorità della legge – intorno al livello dello stesso reddito di cittadinanza (o anche rapportate al salario minimo).
E' evidente come il sole che, in presenza di un alto livello di disoccupazione, il reddito di cittadinanza diventerà la soglia massima "diffusa" di reddito che i datori di lavoro saranno disposti a dare ai nuovi occupati e a numerosi disoccupati in cerca di lavoro.
Inoltre, come commenta un lettore sul sito del Times, queste finte aziende possono tornare utili anche ad alterare le statistiche sulla disoccupazione, perché chi “lavora” lì può essere scorporato dal numero dei disoccupati.
Verrebbe da chiedersi come mai, invece di tenere su questa rete di stage non retribuiti in aziende finte, con uno sforzo organizzativo simile non si riesca ad offrire vero lavoro, pagato, a chi non ce l’ha. Ma questo richiederebbe impegno da parte dello Stato: un intervento vero e proprio nell'economia (di politica industriale ovvero di investimento produttivo) e non solo una sorta di bizzarro "ammortizzatore sociale".