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L'ART.36 COST. E LO SVUOTAMENTO UEM DEL "SALARIO MINIMO"- PARTE 1

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Dall'amabile Sofia riceviamo e volentieri pubblichiamo questo interessantissimo studio, vasto e documentato, che, con ricchezza di illustrazione di problemi giuridico-costituzionali e economici, ci fa il punto della situazione non tanto del mercato del lavoro - certamente principale oggetto dello studio stesso- quanto dello "stato della democrazia costituzionale" italiana.
Lo studio viene pubblicato in due distinte parti, prima ricostruendosi "l'ascesa e la caduta" della tutela sindacale e poi, preso atto della "disattivazione costituzionale" in corso, "scavandosi" nel vero significato attuale del "salario minimo", stabilito d'imperio da diktat europei e magari contrabbandato, con la copertura cosmetica dell'inutile parlamento UE, come "conquista" a favore dei lavoratori.

Una notazione importante: i blocchi alle assunzioni nel settore pubblico, e ancor più le riduzioni di organico, hanno effetti immediati sul mercato del lavoro privato.
Questo diviene automaticamente l'unico sbocco della domanda di lavoro e quest'ultima in crescente condizione di "eccesso", premessa implicita della voluta svalutazione. A sua volta, poichè per sue dinamiche intrinseche, la retribuzione del lavoro pubblico tende, con una alta elasticità ad adeguarsi a quella del settore privato "corrispondente", la stessa disoccupazione crescente e deflazione salariale private, rendono più semplice riassorbire questa voce della spesa pubblica (e di ciò i nostri governanti, sono perfettamente consapevoli).
Provvedono poi i vincoli all'indebitamento pubblico di origine UEM a far sìche quel livello di spesa pubblica, "tagliato", non sia recuperato in eventuale funzionedi investimenti pubblici. Sicchè, sterilizzato il sostegno pubblico, l'intero mercato del lavoro può complessivamente scendere in "caduta libera" e realizzarsi il "sogno europeo" della competitività di prezzo.
Ma così può anche legittimarsi la lamentela luogocomunista della inefficienza della p.a.: che porta a ulteriori tagli del lavoro pubblico, reputato un peso inutile (come conseguenza proprio di questa politica riduttiva della spesa, dissimulante l'espediente deflattivo suddetto). Il che condurrà a nuova sovradomanda di lavoro e a nuova svalutazione dei salari e così via: fino al "modello" Grecia (da cui questa logica dice di aversi salvato!), o, nella migliore (?) delle ipotesi, al  "modello" Irlanda. Naturalmente coronato dal controllo straniero sul sistema industriale residuo.
Questo per chi avesse dei dubbi sulla funzione della crociata su "spesapubblicaimproduttivabruttapubblicidipendentiparassiti".

Un grazie a Sofia che, nel compiere questo excursus, tratta per noi una grande varietà di temi caratteristici di questo blog, ma lo fa, per vostra fortuna, con una chiarezza divulgativa di molto superiore alla mia (...che sono attratto dal "lato oscuro" della Forza, ma sempre per la democrazia e la libertà :-))
Buona lettura della Parte 1a.


Le politiche nazionali e comunitarie sulla retribuzione sufficiente ad assicurare una esistenza libera e dignitosa secondo i canoni costituzionali (art. 36) e le implicazioni  in termini di minimo salariale.


1- In uno scritto che risale al 1900, Francesco Coletti (economista e statistico italiano) manifestava la convinzione dell’economia come scienza che avrebbe necessariamente sovvertito gli equilibri anche politici delle realtà cui veniva applicata, e la concezione del libero scambio, strettamente legata agli ideali “liberali e patriottici”, avrebbe sancito l'idea che la costituzione di un mercato nazionale avrebbe rappresentato un importante strumento di unificazione politica.
Il tempo gli ha dato ragione quanto all’intervento incisivo dell’economia nella politica, ma specie la situazione venutasi a creare in Europa dopo Mastricht (e ancor di più dopo il Trattato di Lisbona), non depone affatto in favore dell’unificazione politica.
E questa premessa solo per dire che le pseudo politiche sul mercato unico (apertura dei mercati, la libera circolazione delle merci, dei capitali e dei lavoratori, la soppressione delle barriere doganali), oltre ad averlo reso sempre più instabile,  hanno comportato anche il totale asservimento dei paesi del sud a quelli del nord,  con l’evidente  fallimento degli scopi che (oltre a non avere mai avuto un avallo democratico) erano stati sbandierati come il grande sogno europeo, in totale contrasto con le politiche di cooperazione tra Stati che l’UE avrebbe richiesto.
L’altra premessa è che  se pure l’art. 11 della nostra Costituzione acconsente a limitazioni della sovranità dello Stato, i Trattati non possono in ogni caso  violare quelle norme costituzionali individuatrici di diritti fondamentali ma, a parere dell’autorevole Mortati,  neppure quelle che identificano principi programmatici   e di organizzazione.
Ed è proprio su un principio che rientra tra quelli programmatici, l’art. 36, che si vuole fare qualche riflessione alla luce degli interventi legislativi in Italia degli ultimi anni (e da ultimo le disposizioni c.d. sulla spending review) avvenuti sulla spinta di imposizioni comunitarie quanto al riordino dei conti pubblici, agli obiettivi di pareggio di bilancio, al contenimento dell’inflazione e alla stabilità dei prezzi, nonché di adeguamento della normativa interna ad una serie di parametri comunitari, tra cui quelli che attengono al mondo del lavoro.
2- L’art. 36 della Costituzione, al comma 1,  stabilisce: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia una esistenza libera e dignitosa.
Nella sua chiarezza letterale, quindi, questa norma accoglie due principi fondamentali:
a)   Il principio della proporzione fra retribuzione e qualità e quantità del lavoro svolto (principio della retribuzione proporzionata);
b)  il principio secondo cui la retribuzione deve essere in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa(principio della retribuzione sufficiente o della retribuzione familiare).
Quella dell’art. 36 non è una previsione isolata né tanto meno originale,tanto che è evocata, allo stesso modo, in molte Costituzioni di Stati europei: art. 35 Cost. spagnola; art. 59 Cost. portoghese; art. 22 Cost. greca; Preambolo alla Cost. francese del 1946 e art. 75 della Cost. danese; invece, l’art. 9, par. III della Cost. tedesca lo riconduce al “diritto di formare associazioni per la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni economiche e del lavoro [...] garantito ad ognuno e ad ogni professione”.
Disposizioni costituzionali, quelle ora viste, che trovano un comune punto di riferimento nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 che,  all’art. 23, par. 3, sancisce che “ogni individuo ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia  una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario,  da altri mezzi di protezione sociale”, mentre non si rinviene una previsione siffatta nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove invece troviamo disposizioni più generiche che attengono: (art. 27) al Diritto dei lavoratori all'informazione e alla consultazione nell'ambito dell'impresa; (Articolo 28) al Diritto di negoziazione e di azioni collettive; (Articolo 30)  alla Tutela in caso di licenziamento ingiustificato; (Articolo 31) alle Condizioni di lavoro giuste ed eque in base al quale “1. Ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose.2. Ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite; (Articolo 32) al divieto del lavoro minorile e protezione dei giovani sul luogo di lavoro.
3- Anche la Convenzione Oil (Convenzione n. 26 del 1928) contiene riferimenti al salario minimo stabilendo che: “l’equo salario minimo è quello fissato dagli accordi collettivi. Una dichiarazione, questa, che  evidenzia la preminenza accordata alla determinazione negoziale della retribuzione, nell’ambito della quale il contratto collettivo riceve una considerazione preferenziale nella scala di efficacia e, conseguentemente, il ruolo di subalternità attribuito all’intervento statale nella fissazione dei trattamenti retributivi dei lavoratori, poiché si sostiene che tale intervento non incida positivamente sulla crescita stabile delle retribuzioni.
Tale preferenza per la contrattazione collettiva si trova esplicitata anche all’art.10 della successiva Convenzione n. 117/1962 e nella Convenzione Oil n. 95 del 1970. Infine, la Convenzione Oil n. 26 del 1928, all’art. 3, enuncia anche l’importante principio dell’inderogabilità in peius dei trattamenti retributivi minimi fissati attraverso gli strumenti della contrattazione collettiva o della legge, previsti dai singoli Stati nazionali.
Anche l’art. 4 della Carta sociale europea del 1989 individua la connessione tra il diritto alla retribuzione sufficiente e l’attuazione di tale garanzia affidata alle convenzioni collettive liberamente concluse;oppure l’art. 11 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori stabilisce che il diritto alla retribuzione sufficiente deve essere determinato negozialmente in base alle modalità proprie di ciascun paese, conferendo un ruolo di primo piano ai soggetti sindacali e all’esercizio dell’azione collettiva.
4- In definitiva, può dedursi, dall’analisi delle più rilevanti fonti internazionali e comunitarie in materia retributiva, la preferenza accordata da quest’ultime allo strumento della contrattazione collettiva per il processo di determinazione del salario sufficiente.
Il nesso tra giusta retribuzione e autonomia collettiva risulta essere presente anche nell’impostazione costituzionale, propria del nostro ordinamento, segno che la tendenza del Legislatore nazionale e sovranazionale sia stata quella di dare piena fiducia all’azione dei soggetti sindacali nella regolazione collettiva dei trattamenti retributivi, ritenuti più di altri idonei garanti di un’effettiva applicazione di tale principio. Infatti il connubio tra il diritto alla giusta retribuzione e i poteri determinativi della contrattazione collettiva emerge dalla lettura combinata degli artt. 36 e 39 Cost., sia pure tenendo nel debito conto alcune specificità proprie del sistema italiano.
Eppure, nonostante la centralità del potere attribuito alla contrattazione collettiva, come si dirà specificatamente nel prosieguo, si è assistito negli ultimi anni a politiche deflattive e a scelte finalizzate ad abbassare complessivamente in tutta l’area euro le tutele e le garanzie occupazionali, mal celate dietro la dichiarata esigenza di ridurre la disoccupazione attraverso l’aumento della flessibilità del lavoro.
Al solo fine di adeguarsi al "mercato europeo" (che è poi un modo di dire "adeguare tutta l'Europa al mercantilismo tedesco ndr.) è stata incentivata ogni forma di lavoro precario che, pur avendo tutte le caratteristiche del lavoro dipendente, si presenta sotto le mentite spoglie del lavoro autonomo con una duplice grave conseguenza: da un lato si riesce a svincolare il lavoratore dalla tutela collettiva, da sempre vista come ostacolo principale alla elasticità verso il basso delle retribuzioni; dall’altro si ha l’assoggettamento ad IVA dei corrispettivi che in realtà sono "stipendi" (con una ulteriore decurtazione del potere di acquisto dei lavoratori).
Tutto ciò in spregio previsione dell’art. 36 che, oltretutto, non dovrebbe mai  essere valutata in maniera isolata, ma unitamente ad altre previsioni di pari, se non superiore, valore fondamentale.
La retribuzione proporzionata, infatti è indissolubilmente collegata al diritto al lavoro di cui all’art. 4 (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”)  che obbliga le istituzioni a “promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Il lavoro, quindi, è posto dalla nostra Costituzione come principale forma di affermazione e di realizzazione della persona (art. 2 Cost.), è concepito come strumento su cu si basa il valore fondante dello Stato (art. 1 Cost. – “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”), che introduce, quale compito fondamentale delle istituzioni quello di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” alla sua realizzazione  e che sono di impedimento alla effettiva “partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 Cost.).
In un’ottica più ampia, quindi, la retribuzione del lavoratore, oltre che parametro vitale, perché necessario al soddisfacimento dei suoi bisogni essenziali di vita, diventa strumento di elevazione personale, sociale e culturale dello stesso, attraverso l’elemento lavoro, che assurge a perno centrale della struttura economica e sociale dello Stato.
5- Dai lavori preparatori alla Costituzione stessa, emerge che l’attuale disposto costituzionale è stato il frutto di un enorme compromesso fra forze progressiste e forze cattoliche presenti in Assemblea Costituente ed ha rappresentato anche una delle più significative espressioni della idea politico-culturale del lavoro dipendente - e non di altre condizioni socio-economiche vantaggiose "di partenza"-quale fonte esclusiva di sostentamento della stragrande maggioranza della popolazione.
In sede Costituente furono rifiutate forme di  contaminazione mercatistica, tanto che venne bocciato l’emendamento proposto da Colitto, che mirava ad adeguare il diritto alla retribuzione alle “possibilità dell’economia nazionale” in modo da non porre le basi di una economia ab initio tarata, con grave danno degli stessi lavoratori (Maastricht e la sua supina accettazione da parte dei governi italiani, hanno comportato peraltro la rivincita di Colitto, perchè il suo emendamento è divenuto revisione costituzionale di fatto, contra art.139 Cost., dell'art.36, "teoricamente" ancora vigente e vincolante, ndr.).
Nonostante questa inequivocabile volontà "fondante" espressa dai costituenti, però, il problema si è riproposto, se pure in veste diversa. Infatti, il diritto alla retribuzione (proporzionato o sufficiente) subisce fortissimi condizionamenti in conseguenza delle istanze comunitarie e, per l’effetto, delle possibilità dell’economia nazionale.
6- Prima di arrivare a parlare di tali condizionamenti e degli effetti prodotti sulle retribuzioni e quindi sull’intera economia nazionale, sembra opportuno analizzare brevemente le modalità applicative (le cui problematiche erano state da subito evidenziate sia da Mortati che da Giannini) della disposizione costituzionale in oggetto per comprendere quale fosse lo stato evolutivo di tale concetto all’affacciarsi dell’ultima crisi economico-finanziaria.
Sinteticamente possiamo dire che si è passati da una prima fase (Cassazione 21 febbraio 1952, n. 461) in cui viene data preminenza al processo di determinazione della retribuzione in senso proporzionalistico che viene affidato alla contrattazione collettiva, ad una fase in cui si privilegia quello della sufficienza (diventa rilevante la situazione in cui versa il lavoratore e le esigenze personali e patrimoniali dello stesso). Ovviamente ciò avviene in concomitanza a tendenze politiche  al ribasso dei salari ed in corrispondenza di periodi di crisi economiche (anni ’80).  
Il fenomeno si acuisce fino al diffondersi di una pratica giudiziale che porta a  discostarsi dai parametri definiti dal Ccnl e lasciando al  giudice il potere ex art. 2099 c.c. di determinare la retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost.
Verso la fine degli anni’80 vengono riconosciuti margini per gli aumenti salariali ma questi sono strettamente collegati all’aumento di produttività. Fino ad arrivare, negli anni 90 dove, la mancata attuazione dell’art. 39, co. 4, Cost. e, dunque, l’inapplicabilità erga omnes del trattamento economico stabilito dal contratto collettivo di riferimento ha indotto la giurisprudenza ad elaborare soluzioni alternative molto spesso divergenti tra loro. Nel 1992 si ha il definitivo abbandono della c.d. scala mobile (anche per il "pubblico" e la sospensione di incrementi retributivi.
Scopo del legislatore è quello di condizionare la misura del salario minimo costituzionale agli andamenti dei cicli economici, così affidando alla dinamica contrattuale il compito di garantire gli incrementi del salario nominale, attraverso gli adeguamenti al costo della vita e gli incrementi reali basati sulla produttività. A partire dal ’93 si sposta l’attenzione sempre più verso la contrattazione aziendale, di secondo livello, attraverso il meccanismo del collegamento tra produttività aziendale e retribuzione ed  incentivando la partecipazione aziendale nella fissazione complessiva dei trattamenti retributivi.
Non può non evidenziarsi, inoltre, che al punto 2,co. 2, dell’Accordo del 1993, veniva specificato che in sede di rinnovo biennale dei minimi contrattuali, ulteriori punti di riferimento del negoziato saranno costituiti dalla comparazione tra l’inflazione programmata e quella effettiva intervenuta nel precedente biennio, in tal modo ancorando la dinamica retributiva ai tassi di inflazione programmata e realmente intervenuta. (E qui si sente fortemente l'irrompere nelle dinamiche salariali delle teorie deflattive neoclassiche, fondate sulle "aspettative razionali" di inflazione, che avrebbero dovuto indurre gli "operatori" a una maggior propensione all'investimento...cosa puntualmente smentita dai fatti, che videro aumentare l'investimento, ma finanziario, e ridurre quello produttivo, dato che si procedette simultaneamente a smantellare ogni forma di stimolo pubblico in tal senso, ndr.)
7- Gli accordi successivi a quello del 1993 presentano un contenuto sostanzialmente ritualistico e ripetitivo. A partire dal 2001 si evidenzia una tendenza del governo a prendere iniziative legislative volte ancor più a flessibilizzare il mercato del lavoro, non condivise da tutte le organizzazioni sindacali. Prova ne sono i ritardi nei rinnovi contrattuali negli anni 2001-2005, soprattutto della parte economica dei contratti collettivi di categoria, che influiscono negativamente sul recupero del potere d’acquisto dei salari.
Certo è che negli ultimi anni, in concomitanza alla crisi economico-finanziaria, il fenomeno di contenimento salariale si è accentuato maggiormente, e l’attenzione nei confronti del minimo salariale legato alla contrattazione collettivaè calata ulteriormente, proprio in contemporanea ai problemi di crescita della disoccupazione e di aumento dei tassi di povertà.
Lo confermano i dati dell’ultimo Rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro sulle“Politiche salariali ai tempi della crisi” il quale segnala che, nella prima fase della crisi (2008-2009), si è avuto un consistente calo dei salari reali nei paesi europei più sviluppati e un vero e proprio crollo nei paesi dell’Europa orientale, a fronte di una complessiva tenuta nei paesi ad economia emergente.
8- Ma la tendenza recessiva delle retribuzioni non è semplicemente legata alle dinamiche di mercato. Le autorità monetarie e finanziarie sovranazionali (la c.d. trojka Ue, Bce  e  Fmi), con una mossa che per l’Unione europea appare senza precedenti, hanno infatti ingiunto, ai paesi maggiormente in difficoltà, il congelamento – se non addirittura il taglio “secco” – delle retribuzioni dei dipendenti pubblici; suggerendo, in riferimento ai lavoratori del settore privato, misure finalizzate ad iniettare nel sistema forti dosi di flessibilità, che vanno dall’abolizione delle normative sui minimi salariali "contrattuali", alla ristrutturazione del modello di contrattazione collettiva, con un consistente spostamento dei suoi equilibri sul versante della contrattazione d’impresa.
Alcuni  paesi si sono  adeguati subito a siffatte prescrizioni. Particolarmente draconiane le misure adottate dall’ Irlanda, con un mix di riduzioni stipendiali per i dipendenti pubblici e abbattimento (di quasi il 25%) del salario minimo orario per i lavoratori privati.
Anche la Grecia ha fortemente penalizzato le retribuzioni dei pubblici dipendenti, con riduzioni in una misura compresa fra il 20% e il 40%; il governo ellenico si è tuttavia opposto alla richiesta di abrogazione della normativa sui minimi salariali (attualmente fissati in misura di 877 euro mensili: cfr. Eurostat 2011).
Situazione simile in Spagna e in Portogallo, che hanno introdotto rilevanti tagli delle retribuzioni dei dipendenti pubblici, mentre, sul versante del lavoro privato, si registrano ulteriori  input legislativi verso il decentramento della contrattazione collettiva, con contestuale accrescimenti dei poteri derogatori, attraverso il congelamento o la revisione in peius degli standard salariali nazionali. In Ungheria, il diritto alla retribuzione equa, eredità della Costituzione socialista, è stato persino depennato dalla nuova Carta costituzionale (approvata il 25 aprile 2011).
In Italia si sono avuti un serie di interventi normativi che hanno finito per incidere su una situazione (quella delle retribuzioni) che – come abbiamo visto -  era già stata duramente segnata negli anni precedenti, tanto che i salari in Italia erano già tra i più bassi d’Europa.  
Il rapporto Ocse sulla tassazione dei salari, aggiornato al 2008 -prima dei più rilevanti interventi normativi che verranno di seguito riportati-, riporta che con il salario netto di 21.374 dollari, l'Italia si colloca al 23esimo posto della classifica dei 30 paesi dell'organizzazione di Parigi.
L’Ocse nel 2012 conferma che i salari italiani sono fra i più bassi d’Europa (sono ancora al 23esimo posto su 34, dietro a Spagna, Irlanda) con una retribuzione media di poco più di 25 mila dollari all’anno.
Quanto agli interventi normativi che hanno influito anche sui salari si sono avute  misure di decurtazione secca della retribuzione base. Si pensi all’art. 9, comma 2, d.l. n. 78 del 2010, conv. in l. n. 122 del 2010, che prevede riduzioni per i dipendenti pubblici del 5% o 10%.
Sul piano della "decurtazione in termini reali" (tra l'altro in presenza di inflazione "riscaldatasi"), l’art. 9, comma 1, d.l. n. 78 del 2010, conv. in l. n. 122 del 2010,  dispone il blocco per il triennio 2011-2013 del “trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti” pubblici; l’art. 16, comma 1, lett.  b), d.l. n. 98 del 2011, conv. in l. n. 111 del 2011, proroga fino al 31 dicembre 2014 le vigenti disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici”.
Con riferimento al settore privato, gli Accordi interconfederali del 2009 e del 2011 hanno introdotto misure indirizzate ad accrescere i poteri regolativi della contrattazione aziendale, anche in deroga ai contratti collettivi nazionali sulla base di parametri oggettivi quali, ad esempio, l’andamento del mercato del lavoro o le esigenze di specifici contesti produttivi. L’art. 8, d.l. n. 138 del 2011, attribuisce al contratto collettivo decentrato (aziendale o territoriale) funzioni di disciplina, anche in senso derogatorio peggiorativo, di alcune materie espressamente elencate nel comma 2.
9- Alla luce di tali interventi normativi e della drammatica crisi economico-finanziaria si è quindi tornati a parlare di salario minimo (nel senso di determinazione legale, "esterna", adottata d'autorità dalla maggioranza politica sovrapponendosi e neutralizzando la tutela sindacale, ndr.).
Ma proprio questo ingenera legittimi sospetti sulla bontà della volontà di introdurre il salario minimo, perché anche questa sembra l’ennesima risposta ad istanze comunitarie che perseguono politiche di contenimento salariale, limitandosi le tendenze inflazionistiche per perseguire la "competitività" di presso: un corollario della ideologia mercantilista che, estesa a tutta l'area UEM, conduce alla compressione prolungata della domanda interna, e quindi, come vedremo, a un "vagheggiato" attivo delle esportazioni  .

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