

1. Mi sono imbattuto in questo scritto di Piero Roggi, uno storico dell'economia, che risulta interessante per la ricostruzione del pensiero di Federico Caffè.
Senza volerne fare una critica stringente, alla riproduzione di alcuni brani salienti, aggiungerò alcune osservazioni preliminari:
a) la ricostruzione non entra nella questione europea. Se, da un lato, Caffè non poté assistere alla vicenda di Maastricht e dell'euro, nondimeno, noi abbiamo vistoampie tracce del suo pensiero sullo SME e sulla influenza della costruzione europea sulle politiche economiche italiane.
Di queste forti prese di posizione, talmente forti che non pare ragionevole liquidarle come irrilevanti nella visione politico-economica di Caffè, non vi è riscontro nello scritto in questione;anche considerando che le stesse si coordinano con il ruolo di Caffè quale propositore di politica economica, raccordata esplicitamente al disegno della Costituzione del '48 e alla sua visione del ruolo dello Stato;
b) neppure risulta presa in esame la questione delle "funzioni e dei compiti" dello Stato, nell'ambito economico che, nell'impostazione di Caffè, ne caratterizzano la forma di governo democratica, e proprio in relazione al problema fondamentale dei conti con l'estero, cui pure dedica importanti riflessioni in ordine alla scelta fondamentale, proposta e risolta dal sistema della Costituzione economica: che è quella relativa a "ciò che dovrà essere prodotto nel Paese e ciò che dovrà essere ottenuto in cambio dall'estero", problema che egli tende a contrapporre all'atteggiamento degli "esaltatori acritici dello sviluppo degli scambi internazionali";
c) in conseguenza di questa "rimozione" della visione di Caffè relativa al "problema europeo" e - almeno in parte, quanto agli aspetti del "vincolo monetario"-, ai conti con l'estero e all'apertura indiscriminata dell'economia, gli interessanti spunti della ricostruzione che (in parte) vi riporto, esigono a mio parere un'integrazione tra diversi momenti storici e diverse sedi in cui Caffè stesso esprime un pensiero che, sul piano ricostruttivo, non può essere scisso isolando questo o quel momento espressivo.
Questa visione da integrare, risulta ben espressa allorquando Caffè afferma che nel "seguire programmaticamente il ricatto dell'appello allo straniero"..."ci si propongono come modelli di efficienza paesi che scaricano le difficoltà cicliche sui lavoratori stranieri, o associano le virtù tecnocratiche alla più elevata maldistribuzione del reddito";
d) infine, la parte finale del brano estratto tratta, in qualche modo, del rapporto tra Marx e Keynes. Questo aspetto è risolto in un modo che potremmo definire "classico", nella riportata prospettiva di Caffè (che forse ha avuto anche altre intuizioni sull'argomento; certamente le ebbe Lelio Basso): rammentiamo peraltro che la questione è suscettibile di interessanti risvolti, ipotizzati da Bazaar e supportati da Arturo. Il tema, scientificamente affascinante, merita, un approfondimento...
d) infine, la parte finale del brano estratto tratta, in qualche modo, del rapporto tra Marx e Keynes. Questo aspetto è risolto in un modo che potremmo definire "classico", nella riportata prospettiva di Caffè (che forse ha avuto anche altre intuizioni sull'argomento; certamente le ebbe Lelio Basso): rammentiamo peraltro che la questione è suscettibile di interessanti risvolti, ipotizzati da Bazaar e supportati da Arturo. Il tema, scientificamente affascinante, merita, un approfondimento...
2. Rimanendo aperto alle vostre osservazioni e alle vostre capacità "filologiche", per integrare e approfondire queste brevi osservazioni preliminari, segnalo che l'interesse della ricostruzione, nell'estratto prescelto, risulta anche in una sintesi approfondita della critica di Caffè a Einaudi (per quanto retrospettiva e fondata, come tutto lo scritto, essenzialmente su fonti risalenti agli anni '40 e '50, con limitate citazioni di scritti più recenti).
Tale ricostruzione critica risulta particolarmente attuale, dato che il (ricorrente, in termini storico-economici) desiderio di restaurazione (neo)liberista, dettato dall'€uropa (proprio ieri il FMI è tornato alla carica seguendo i canoni classici delle "riforme"), pone aspetti critici che, peraltro, appaiono proprio oggi ignorati, pur di fronte a una diffusa "commemorazione" di Caffè...da parte degli stessi che ne contraddicono le pur chiare indicazioni.
3. Alla luce di queste "meditazioni" introduttive, vi auguro buona lettura (riporto per esteso alcune note significative al testo, con modeste aggiunte, in corsivo, relative alla corrispondenza delle note rispetto all'analisi che vi rinvia):
"...Veniamo ora al nostro terzo punto; come applicò Caffè il criterio classificatorio alle sue narrazioni?
Si potrebbe dire che la politica economica è come le Tavole della Legge. Non una regola religiosa, ovviamente, ma soltanto economica. Eppure, come il decalogo mosaico, mentre prescrive, implicitamente condanna...
Ecco perché la sistematica prescrittiva di Caffè è strutturalmente binaria: la politica giusta da una parte, la politica sbagliata dall‟altra.
Ecco qui le politiche giuste: il welfare state; la politica del debito pubblico (da non in-tendersi come figlia del lassismo amministrativo, ma come l‟emolliente ideato da Keynes per stemperare l‟ira dei poveri); la politica salariale in salsa radicale (la riqualificazione mansionaria) e in salsa sintomatica (la moderazione salariale ricompensata, inserita come clausola dentro un patto sociale col governo, la nostra concertazione); infine la politica della bilancia commerciale: politiche tutte, appartenenti alla grande famiglia dell‟economia del benessere.
Ecco, invece, le politiche da punire.
Cominciamo dal “monetarismo deflazionistico”, voluto da Einaudi(1947): alla fine, sì solo alla fine, il sistema economico ritroverà naturalmente l‟equilibrio perduto.
Ma a quale prezzo? Se la massa monetaria sarà decurtata; se i salari, flessibili solo in teoria, scemeranno; se la produttività del capitale rialzerà la testa; se, infine (senza inflazione), pure il saggio d'interesse fletterà; allora e non prima di allora, sottolinea Caffè, cioè con un ritardo insopportabile, gli investimenti saranno finalmente sospinti in alto e il sistema economico ritroverà il suo equilibrio naturale senza interventi esterni.
E tutto in nome del rigore, un rigore che assomiglia molto a un rigor mortis.
Una politica economica del genere accumulerà certamente oro e riserve valutarie. Ma sarà l'avara politica del salvadanaio (la chiamerà così Caffè).
Come dire che i pensieri dell'‟avaro" Einaudi furono pesanti e lividi come il metallo che volle accumulare.
La stessa politica di Einaudi, oltretutto, rivalutò inaspettatamente il cambio della lira sul dollaro: non lo fece per convenienza economica, ma per riaffermare il prestigio nazionale (28: Si è «preferita la via che ha portato alla sterile accumulazione delle riserve in dollari […] a sostegno di una quotazione di prestigio della nostra moneta» (F. CAFFÈ, Bilancio di una politica (II), 1949, in Federico Caffè. Un economista per gli uomini comuni, cit., p. 283)..
Einaudi, poi, volle che la sua politica si imperniasse nella sovrana figura del consumatore, circondata da tanti produttori pensati come sudditi genuflessi,(29: «La sua descrizione del mercato è piuttosto remota dalla realtà contemporanea […]. Oggi, la logica di Einaudi di un mercato come “servo ubbidiente della domanda” risulta sovvertita» (F. CAFFÈ, Nota in-troduttiva, in L. EINAUDI, Lezioni di politica sociale, IV ed., Torino, Einaudi, 1972)...
...una politica tendenzialmente anarchica, finalmente liberata dai proverbiali “lacci e lacciuoli” tesi dai potentati di turno. Come dire che in questo modello economico il solo sovrano sarebbe il consumatore. Peccato che le cose non stiano esattamente così.
In altra occasione Caffè concede a Einaudi l'‟onore delle armi con una dichiarazione che ricorda vagamente l‟elogio di Pasquale Villari rivolto alla filosofia “essenzialista” di Bacone, definita, per non infierire, come ottima palestra intellettuale.
In altra occasione Caffè concede a Einaudi l'‟onore delle armi con una dichiarazione che ricorda vagamente l‟elogio di Pasquale Villari rivolto alla filosofia “essenzialista” di Bacone, definita, per non infierire, come ottima palestra intellettuale.
Concentrerò ora la mia attenzione sulla politica sindacale che nientemeno riposa su un vizio morale: l'intemperanza.
Ecco il sillogismo caffeiano: se i suoi frutti sono la disuguaglianza crescente fra i poveri, ovvero gli iscritti da una parte e i sottoccupati non tute-lati dall‟altra" (ma è esagerato chiedere – pare sfogarsi Caffè – che almeno l‟ingiustizia sia uguale per tutti i poveri"?), se questa stessa politica fa leva sulla tendenza del sindacato al prestigio e a far cassa (tutelando le categorie impiegatizie e trascurando quelle operaie); se mostra la sua riluttanza a smantellare la scala mobile, irrobustendo la disuguaglianza fra poveri; se la cecità gli impedisce di vedere la contromossa governativa in agguato, la trappola nascosta pronta a scattare (il monetarismo deflazionista); allora il vizio morale su cui riposa – l‟intemperanza salariale – mostrerà presto tutti i suoi effetti perversi: disoccupazione, sottoccupazione e, secondo le parole di Beveridge, odio sociale.
(33: «Il male maggiore della disoccupazione non è la perdita di quella ricchezza materiale che potremmo avere in più in regime di piena occupazione. Vi sono due mali maggiori: il primo, che la disoccupazione fa sembrare agli uomini di essere inutili, indesiderabili, senza patria; il secondo, chela disoccupazione fa vivere gli uomini nel timore e che dal timore scaturisce l‟odio» (F. CAFFÈ, Beveridge, William H., 1948, in Fe-derico Caffè. Un economista per gli uomini comuni, cit., p. 422).
Ecco ora la politica sindacale intelligente.
Essa non è monocorde, ma possiede almeno due chiavi musicali. La prima ha a che fare con la riqualificazione delle mansioni, con lo scopo di recuperare i sottoccupati non iscritti (il sindacato che trascura gli ultimi è come lo scrittore che trascura la punteggiatura: sarà difficile, poi, farsi capire dalla povera gente!); una politica, questa, che si fonda sulla teoria economica di Tinbergen (i differenziali salariali dipendono dalle tensioni nelle mansioni).
La seconda politica sindacale “intelligente” è invece quella della moderazione: non la politica dei redditi nuda e cruda, ma la politica di moderazione salariale ricompensata dal governo con un patto sociale che preveda la detassazione e gli incentivi in busta paga, fino al “reddito di cittadinanza” (35: Ndr, come vedremo dalla riportata nota Caffè non parla di reddito di cittadinanza ma di "sussidi", che, nel contesto, appaiono legati alla condizione di disoccupazione; in un mercato del lavoro non ancora riplasmato dall'adesione all'euro e, comunque, di gran lunga anteriore, siamo infatti nel 1957, all'introduzione dello Statuto dei lavoratori e dei meccanismi di integrazione salariale e di altri "stabilizzatori automatici" oggi vigenti: «Si renderebbe invece necessaria un'intesa per una stabilizzazione salariale. In definitiva un patto sociale […] per il quale le autorità governative garantirebbero ai lavoratori una riduzione annuale delle imposte dirette […] o il pagamento di sussidi […]. Di qui l‟esigenza di una politica salariale coordinata su base nazionale, (ndr; l'esatto opposto di ciò che oggi ci "prescrive" il FMI, sopra citato) che consentisse un realistico mercanteggiamento delle opportune rinunce e delle giustificate contro partite». (F. CAFFÈ, Istanze salariali e stabilità monetaria, 1957, in Federico Caffè. Un economista per gli uo-mini comuni, cit., p. 163)..
Come dire che la sapienza sindacale si riassume tutta nella moderazione, che il diritto spinto all'‟eccesso diventa torto" e che l‟arancia troppo spremuta sprizza l'amaro in bocca". Le politiche suggerite da Caffè esprimono, insomma, l'assunto base della politica pigouviana del benessere: se gli iscritti al sindacato non ci rimettono e se i non iscritti sottoccupati ne traggono un qualche beneficio, allora il benessere totale della povera gente crescerà.
...sugli sforzi compiuti da Caffè e dai suoi collaboratori per capovolgere la politica sindacale della CGIL.
Essi sostennero tali sforzi richiamando il sindacato al Piano del Lavoro del 1949, piano d'impianto non marxista ma keynesiano, sollecitandolo a smantellare il mito marxiano di un capitalismo in procinto di crollare e invitandolo a un sindacalismo più intelligente, pronto a confrontarsi con un capitalismo lontano da quello primitivo e ormai capace a sopravvivere a se stesso.
Il sindacato non ascoltò il loro messaggio (ndr: siamo nel 1980) e non tenne conto nemmeno dell'ironia di quello scrittore che disse: «La lezione di questi ultimi decenni è l'indistruttibilità del capitalismo. L'aveva intuito lo stesso Marx quando evocò l'infelice metafora del vampiro che succhia il sangue dei lavoratori. I vampiri, avrebbe dovuto saperlo il tedesco Marx, sono creature che non muoiono mai».
Il sindacato, insomma, non ascoltò e lo sforzo di Caffè non dette risultati apprezzabili.
I martellanti inviti rivolti da Caffè e dai suoi collaboratori, dunque, non furono raccolti. Egli li riassunse in una famosa lezione tenuta presso la scuola di formazione CGIL di Ariccia.
I martellanti inviti rivolti da Caffè e dai suoi collaboratori, dunque, non furono raccolti. Egli li riassunse in una famosa lezione tenuta presso la scuola di formazione CGIL di Ariccia.
Non si trattò di una lezione tradizionale, ma una specie di sermone, o meglio di una Summa Teologica del suo criticismo sindacale.
Una lezione spesso interrotta, contestata, incompresa.
(38: «Non è che voglio vendere nessun prodotto, voglio dirvi perché esiste un certo orientamento di pensiero […] – non è che sto facendo propaganda – sto spiegandovi […]. A me pare che il grosso messaggio del sistema keynesiano, che rimane valido, sia soprattutto questo invito a darci da fare, a non essere inerti, a renderci conto che il capitalismo comunque l‟abbiamo fra i piedi, ci piaccia o no, e che ogni illu-sione che stia per crollare è un‟illusione eterna […]. Questa è la conclusione piuttosto sconfortante con la quale io finisco (F. CAFFÈ, Keynes, i keynesiani e lo stato Capitalistico moderno, lezione inedita alla scuola sinda-cale della CGIL di Ariccia, 1980, in Federico Caffè. Un economista per gli uomini comuni, cit., pp. 762-770).
Insomma una lezione mal digerita da chi riluttava a rimpiazzare mentalmente il busto del vecchio Marx con quello di Keynes. E non si trattava semplicemente di rimpiazzare una statua, ma di sostituire tutto il paradiso comunista col più realistico purgatorio di un'economia bisognosa di continui ritocchi e perseveranti riforme.
Ciò che il sindacato non accettò, in quell'occasione, fu il riformismo di Caffè. Il suo rammarico fu grande.
Ma ne uscì senza deprimersi; anzi, contrattaccando.
Pubblicò un saggio intorno ad un'ideale gerarchia di merito fra i vari operatori di politica economica. Non fu per narcisismo che lo pubblicò.
Si trattò piuttosto di un tentativo per distinguere il grano dal loglio. Nella posizione più bassa della classifica sistemò il politico intuitivo e incompetente; poco più sopra lo storico della politica economica, una figura con lo sguardo rivolto esclusivamente al passato; in cima lo scienziato della politica economica, cioè chi come lui esaminava gli effetti di politiche future alternative per sceglierne poi la migliore.
Una classificazione, la sua, apparentemente inoffensiva, ma velenosamente rivolta contro il sindacalista intuitivo e incompetente: un cieco! Un cieco che guida altri ciechi e che meriterebbe d'esser operato di cataratta."
4. Sappiamo poi quale esito, nel corso di pochi decenni, abbiano avuto questa ostinazione sindacale e l'incomprensione dell'esortazione di Caffè, di fronte all'irrompere della liberalizzazione dei capitali e all'affermarsi, come paradigma unico, del monetarismo deflazionista imposto dallo SME, prima e poi dall'euro. Quest'ultimo tutt'ora considerato, dagli stessi sindacalisti, succeduti ai predecessori che attendevano "la fine del capitalismo", un argomento intangibile.
Evidentemente, ancora attendono, fiduciosi nella "caduta" e...nell'euro.