ETTEPAREVA...

AVVERTENZA: CHI TROVASSE FATICOSO SEGUIRE LA LETTURA DELL'INTERO POST, PUO' ANDARE DIRETTAMENTE AL PUNTO 5 E SERVIRSI DELLE PREMESSE SOLO PER VERIFICARE ALCUNI PASSAGGI DELLE CONCLUSIONI.
1. Abbiamo più volte parlato del problema demografico che, come ognun ormai saprà, si collega a quello dell'emigrazione: noi come italiani siamo nel "nord" del mondo, si dice, perciò vecchi-vecchi e incapaci di darci da fare, sicché, abituandoci nuovamente alla durezza del vivere, avremo, si deve supporre, i mezzi culturali e, specialmente, politici per uscire dall'irreversibile declino.
Per capire i rationalia di questo ragionamento, - che ovviamente non coinvolge solo l'Italia, ma che agli italiani viene proposto con dovizia di particolari sostanzialmente colpevolizzanti e con prospettive di salvifica inevitabilità- basti leggere questo lungo studio.
2. Ne traggo un paio di passaggi a titolo esemplificativo delle conclusioni:
"Dagli anni ’90 del Novecento è iniziata nel Nord del mondo quella che alcuni demografi definiscono una “seconda transizione demografica” (ben diversa dalla seconda fase della prima transizione, descritta sopra), che caratterizzerà il XXI secolo. Essa consiste in un ulteriore declino sia della mortalità sia, soprattutto, della fecondità e della natalità, che dovrebbe avere come conseguenze, nei prossimi decenni:
a) un calo della popolazione, più o meno intenso e rapido nei diversi paesi del Nord; b) un intenso e “devastante” mutamento della loro struttura per età, con un forte invecchiamento della popolazione.
Ciò accade perché nel Nord del mondo, che aveva completato negli anni ’70 del Novecento la prima transizione demografica, il tasso di fecondità (e di conseguenza la natalità) ha proseguito a calare, ben al di sotto della media di due figli per donna che assicura il ricambio generazionale (cioè appunto la “crescita 0”, la stabilità della popolazione). Questo fenomeno, che non ha precedenti nella storia, iniziò in alcuni paesi come l’Italia e il Giappone, che sono infatti i paesi più “vecchi” del mondo, con un numero medio di figli per donna compreso tra 1,2 e 1,3; ma si è poi esteso alla maggior parte dei paesi sviluppati.
Nel Sud del mondo, sempre dagli anni ‘90, è emersa una differenza rilevante tra due situazioni (vedi tab.2):
– il tasso di fecondità è calato sensibilmente, e continua ad abbassarsi verso o sotto i due figli per donna, nei cosiddetti “paesi emergenti”: la Cina, il resto dell’Asia orientale e l’America Latina;
– il tasso di fecondità rimane molto alto, e cala più lentamente, in un altro gruppo di paesi localizzati nell’Asia sud-occidentale e, soprattutto, nell’Africa subsahariana: i cosiddetti “paesi “a sviluppo minimo”.
a) un calo della popolazione, più o meno intenso e rapido nei diversi paesi del Nord; b) un intenso e “devastante” mutamento della loro struttura per età, con un forte invecchiamento della popolazione.
Ciò accade perché nel Nord del mondo, che aveva completato negli anni ’70 del Novecento la prima transizione demografica, il tasso di fecondità (e di conseguenza la natalità) ha proseguito a calare, ben al di sotto della media di due figli per donna che assicura il ricambio generazionale (cioè appunto la “crescita 0”, la stabilità della popolazione). Questo fenomeno, che non ha precedenti nella storia, iniziò in alcuni paesi come l’Italia e il Giappone, che sono infatti i paesi più “vecchi” del mondo, con un numero medio di figli per donna compreso tra 1,2 e 1,3; ma si è poi esteso alla maggior parte dei paesi sviluppati.
Nel Sud del mondo, sempre dagli anni ‘90, è emersa una differenza rilevante tra due situazioni (vedi tab.2):
– il tasso di fecondità è calato sensibilmente, e continua ad abbassarsi verso o sotto i due figli per donna, nei cosiddetti “paesi emergenti”: la Cina, il resto dell’Asia orientale e l’America Latina;
– il tasso di fecondità rimane molto alto, e cala più lentamente, in un altro gruppo di paesi localizzati nell’Asia sud-occidentale e, soprattutto, nell’Africa subsahariana: i cosiddetti “paesi “a sviluppo minimo”.
Tab.2 I tassi di fecondità, presenti e futuri, nelle diverse aree del mondo
[da A.Golini, 2011, p. 52]
[da A.Golini, 2011, p. 52]
Numero medio di figli per donna nel quinquennio 2000-05 | Numero medio di figli per donna previsti nel 2045-50 |
1,6 nei paesi sviluppati (di cui: Giappone 1,3; Europa occ. 1,4; Russia, Europa or. e balcanica, Canada, Oceania 1,6; Usa 2); 2,9 nei paesi in via di sviluppo (di cui: Cina; 1,7; resto dell’Asia orientale 1,9; America Latina 2,5; Asia meridionale 3,2; Asia occidentale 3,5; Africa 5,0) | 1,8 in tutti i paesi sviluppati, con oscillazioni minime (0,1) tra di essi; 2,1 nell’insieme dei paesi in via di sviluppo, ma con rilevanti differenze: America Latina, Asia orientale e meridionale 1,9; Asia occidentale 2,0; Africa 2,5. |
Questa evoluzione induce i demografi a sostituire alla distinzione Nord-Sud del mondo una tripartizione fra:
A. paesi economicamente sviluppati, che si trovano ormai nella seconda transizione demografica;
B. paesi “emergenti”, che sono nella seconda fase della prima transizione demografica;
C. paesi “a sviluppo minimo”, quasi tutti nell’Africa subsahariana, che sono ancora nella prima fase della prima transizione demografica, con alti tassi di fecondità e perciò un forte aumento della popolazione.
Nella prima metà del Duemila, questi tre gruppi di paesi hanno problemi demografici molto diversi, a causa delle grandi differenze nella composizione della popolazione per fasce di età tra giovani (sotto i 15 anni), adulti in età lavorativa (15-65 anni), e anziani (oltre i 65 anni), come si vede nella tabella 3.
A. paesi economicamente sviluppati, che si trovano ormai nella seconda transizione demografica;
B. paesi “emergenti”, che sono nella seconda fase della prima transizione demografica;
C. paesi “a sviluppo minimo”, quasi tutti nell’Africa subsahariana, che sono ancora nella prima fase della prima transizione demografica, con alti tassi di fecondità e perciò un forte aumento della popolazione.
Nella prima metà del Duemila, questi tre gruppi di paesi hanno problemi demografici molto diversi, a causa delle grandi differenze nella composizione della popolazione per fasce di età tra giovani (sotto i 15 anni), adulti in età lavorativa (15-65 anni), e anziani (oltre i 65 anni), come si vede nella tabella 3.
Tab. 3 Popolazione mondiale nel 2005 e nel 2050(in milioni e in %)per fasce d’età e per aree
[da A.Golini 2011 su dati Onu 2007]
[da A.Golini 2011 su dati Onu 2007]
aree | paesi “sviluppati” | paesi “emergenti” | paesi “a sviluppo minimo” | Mondo | ||||||
fasce età | < 15 | 15-65 | > 65 | < 15 | 15-65 | > 65 | < 15 | 15-65 | > 65 | totale: |
Nel 2005 | 207 | 823 | 186 | 1323 | 2941 | 267 | 318 | 423 | 25 | 6516 |
Nel 2050 | 189 | 731 | 325 | 1147 | 4008 | 1048 | 491 | 1131 | 120 | 9191 (¹) |
Incremento | -18 | – 92 | +139 | -176 | +1067 | +781 | 173 | +708 | +95 | +2675 |
Increm.% | -0,8 | -11 | +75 | – 13 | +36 | +290 | +54 | +167 | +380 | +40 |
2005/tot.(²) | 17% | 31% | 15% | 29% | 65% | 6% | 41% | 55% | 3% | |
2050/tot.(²) | 15% | 21% | 26% | 18% | 64% | 17% | 28% | 65% | 7% |
...
Per effetto di questi mutamenti, si prevede che nella prima parte del XXI secolo:
a) la popolazione giovane (sotto i 15 anni) calerà nel mondo di circa 15 milioni, come esito combinato di: un leggero calo nei paesi progrediti (nei quali è già calata moltissimo); un forte calo (176 milioni= -13%) nei paesi emergenti; un forte aumento (173 milioni= +54%) nei paesi a sviluppo minimo.
b) la popolazione in età lavorativa aumenterà di quasi 1,7 miliardi, con fortissime differenze nelle tre aree: -92 milioni nei paesi progrediti; +1067 milioni nei paesi emergenti; +708 milioni nei paesi a sviluppo minimo: si pensi che per impiegare il 70% di questi 1,7 miliardi di lavoratori, servirebbero 1250 milioni di nuovi posti di lavoro!
c) la popolazione anziana (oltre i 65 anni) crescerà nel mondo di 1 miliardo: 140 milioni nei paesi avanzati, nei quali rappresenteranno ben il 26% del totale della popolazione; 877 milioni nei paesi degli altri due gruppi presi insieme, ove costituiranno solo il 15% della popolazione, ma con un incremento del 300%.
Per motivi diversi, perciò, saranno messi a dura prova i sistemi pensionistici e sanitari (è da ricordare che la spesa sanitaria in Italia riguarda per l’80% la popolazione di questa fascia di età): nel Nord per l’altissimo numero di anziani; nel Sud per la debolezza (o quasi assenza) di tali sistemi.
a) la popolazione giovane (sotto i 15 anni) calerà nel mondo di circa 15 milioni, come esito combinato di: un leggero calo nei paesi progrediti (nei quali è già calata moltissimo); un forte calo (176 milioni= -13%) nei paesi emergenti; un forte aumento (173 milioni= +54%) nei paesi a sviluppo minimo.
b) la popolazione in età lavorativa aumenterà di quasi 1,7 miliardi, con fortissime differenze nelle tre aree: -92 milioni nei paesi progrediti; +1067 milioni nei paesi emergenti; +708 milioni nei paesi a sviluppo minimo: si pensi che per impiegare il 70% di questi 1,7 miliardi di lavoratori, servirebbero 1250 milioni di nuovi posti di lavoro!
c) la popolazione anziana (oltre i 65 anni) crescerà nel mondo di 1 miliardo: 140 milioni nei paesi avanzati, nei quali rappresenteranno ben il 26% del totale della popolazione; 877 milioni nei paesi degli altri due gruppi presi insieme, ove costituiranno solo il 15% della popolazione, ma con un incremento del 300%.
Per motivi diversi, perciò, saranno messi a dura prova i sistemi pensionistici e sanitari (è da ricordare che la spesa sanitaria in Italia riguarda per l’80% la popolazione di questa fascia di età): nel Nord per l’altissimo numero di anziani; nel Sud per la debolezza (o quasi assenza) di tali sistemi.

3. Dunque illustrazione "ONU-standard del problema", come riassunto in apertura, con la conclusione che dovremo mettere una pietra sopra ai sistemi pensionistici e sanitari (di cui non si dice se siano pubblici o meno, naturalmente: la differenza non è poca, in termini di correlazione tra le aspettative di vita e andamento demografico, come ci insegna la comparazione tra USA e Europa: almeno prima che sia completata la transizione verso l'€uropa del TTIP o altra analoga "soluzione finale").
Da qui il secondo passaggio "significativo" che vi riporto (sempre invitando all'integrale, per quanto faticosa, lettura):
Da qui il secondo passaggio "significativo" che vi riporto (sempre invitando all'integrale, per quanto faticosa, lettura):
"Una globalizzazione parziale, e i paradossi delle migrazioni attuali
Pertanto, a differenza della mondializzazione ottocentesca, l’attuale globalizzazione è parziale, nel senso che favorisce molto di più gli spostamenti di merci, capitali e informazioni, ma non quelli di persone. Mentre l’Europa d’inizio Novecento poté scaricare verso le Americhe il 20% del proprio surplus demografico, l’emigrazione dal Sud di fine Novecento e inizio Duemila è molto più contenuta, per effetto delle politiche restrittive dei paesi del Nord: consiste di circa 3 milioni di emigranti l’anno, cioè solo il 3% del surplus demografico del Sud. L’Europa occidentale aveva “esportato” tra il 1870 e il 1913 circa 15 milioni di persone: è lo stesso numero di immigrati che essa ha assorbito dal 1960 al 2000, ma con una popolazione europea più che raddoppiata. Il Nord America accoglieva un milione di immigrati all’anno nel decennio precedente la Prima guerra mondiale, e ne accoglie lo stesso numero oggi, benché la popolazione americana sia triplicata.
Nonostante la percezione comune, secondo cui l’Occidente sta per essere travolto da un’ondata migratoria, l’immigrazione recente e attuale è dunque relativamente modesta. Essa è destinata ad aumentare a causa dei due fenomeni che abbiamo visto, entrambi senza precedenti nella storia mondiale: la forte crescita della popolazione nel Sud del mondo (in particolare dell’Africa) e – soprattutto – il declino demografico del Nord del mondo, in particolare dell’Europa, dove la bassa fecondità rende inevitabili le immigrazioni, quasi come “adozioni a distanza ritardate”, secondo un’ ironica definizione del demografo Livi Bacci.
Ne discende una duplice conseguenza, molto dura da accettare e paradossale per il senso comune:
1) le emigrazioni, oggi e nel prossimo futuro, non possono in alcun modo risolvere i problemi demografici del Sud del mondo, perché la loro entità è trascurabile, rispetto all’aumento naturale delle popolazioni (a differenza di quanto accadde all’Europa nel “lungo Ottocento”);
2) le immigrazioni sono, viceversa, necessarie – e in misura ben più consistente dei loro ritmi attuali – per gran parte dei paesi del Nord, in primo luogo per quelli dell’Europa mediterranea, Italia in testa."
Pertanto, a differenza della mondializzazione ottocentesca, l’attuale globalizzazione è parziale, nel senso che favorisce molto di più gli spostamenti di merci, capitali e informazioni, ma non quelli di persone. Mentre l’Europa d’inizio Novecento poté scaricare verso le Americhe il 20% del proprio surplus demografico, l’emigrazione dal Sud di fine Novecento e inizio Duemila è molto più contenuta, per effetto delle politiche restrittive dei paesi del Nord: consiste di circa 3 milioni di emigranti l’anno, cioè solo il 3% del surplus demografico del Sud. L’Europa occidentale aveva “esportato” tra il 1870 e il 1913 circa 15 milioni di persone: è lo stesso numero di immigrati che essa ha assorbito dal 1960 al 2000, ma con una popolazione europea più che raddoppiata. Il Nord America accoglieva un milione di immigrati all’anno nel decennio precedente la Prima guerra mondiale, e ne accoglie lo stesso numero oggi, benché la popolazione americana sia triplicata.
Nonostante la percezione comune, secondo cui l’Occidente sta per essere travolto da un’ondata migratoria, l’immigrazione recente e attuale è dunque relativamente modesta. Essa è destinata ad aumentare a causa dei due fenomeni che abbiamo visto, entrambi senza precedenti nella storia mondiale: la forte crescita della popolazione nel Sud del mondo (in particolare dell’Africa) e – soprattutto – il declino demografico del Nord del mondo, in particolare dell’Europa, dove la bassa fecondità rende inevitabili le immigrazioni, quasi come “adozioni a distanza ritardate”, secondo un’ ironica definizione del demografo Livi Bacci.
Ne discende una duplice conseguenza, molto dura da accettare e paradossale per il senso comune:
1) le emigrazioni, oggi e nel prossimo futuro, non possono in alcun modo risolvere i problemi demografici del Sud del mondo, perché la loro entità è trascurabile, rispetto all’aumento naturale delle popolazioni (a differenza di quanto accadde all’Europa nel “lungo Ottocento”);
2) le immigrazioni sono, viceversa, necessarie – e in misura ben più consistente dei loro ritmi attuali – per gran parte dei paesi del Nord, in primo luogo per quelli dell’Europa mediterranea, Italia in testa."
4. Rassegnatevi: è per il vostro bene. Non basta che, chissa poi perché, molti italiani emigrino per risolvere il problema demografico e di mantenimento del benessere; ci vogliono proprio più emigrati, sempre di più e proprio nel Mediterraneo, anzi "Italia in testa". E' scienza, mica si può contestare.
Un altra voce scientifica ci dice che "Il catastrofismo è un problema mal posto" e ci spiega perché, ricorrendo (anch'egli) a qualche citazione di Malthus...temperata:
"Per Malthus (1766-1834), che, oltre che economista, era anche un parroco della Chiesa d’Inghilterra, la conseguenza di questa contraddizione, oltre a dover essere affrontata sul piano di un concezione morigerata dei costumi e dei consumi, si sarebbe risolta attraverso l’alternarsi di condizioni di penuria, e quindi di privazioni e pestilenze – per non parlare delle guerre – che avrebbero rallentato gli sviluppi demografici. La tesi di Malthus era stata espressa anche da altri, in precedenza e in termini consimili.
In effetti “soluzioni” del genere, anche se non a livelli globali ma certamente in ambiti geopolitici specifici, si sono verificate e si verificano tuttora, come del resto è ampiamente noto. Queste “soluzioni” non sono state sufficienti per eliminare alla radice la contraddizione individuata da Malthus e solo la crescente produttività dell’attività agroalimentare e le rivoluzioni agricole che si sono verificate, ad esempio a meta dell’800 con le prassi dell’utilizzo dei fertilizzanti, ha consentito di evitare soluzioni più drastiche di quanto in realtà si sia comunque verificato. Tuttavia anche queste innovazioni non sono state tali da eliminare l’origine della questione; anche perché secondo altri economisti quella questione era connessa a un altro processo e in particolare al fatto che le retribuzioni del lavoro erano tenute ai livelli di sussistenza, per cui appena venivano conquistati livelli retributivi migliori si accresceva la domanda alimentare con conseguente crescita dei prezzi e riduzione delle disponibilità. (...!!!)
La questione della contraddizione demografica solleva tuttora preoccupazioni e induce anche atteggiamenti e attese drammatiche, trovando inoltre appoggio negli atteggiamenti di critica verso il consumismo e gli sprechi, sino agli scenari e alle ipotesi della “decrescita felice”, una definizione che sembra promettere romantiche condizioni di beata soluzione finale.
Non c’è dubbio che se gli andamenti demografici fossero sempre quelli che allarmarono Malthus, anche supponendo aumenti della produttività agroalimentare eccezionali, la contraddizione prima o poi scoppierebbe e, quindi, le varie considerazione connesse a questa ipotesi dovrebbero essere attentamente valutate ai livelli della più alta responsabilità.
Sembra tuttavia che ci sia ormai in queste posizioni variamente allarmate, o una componente di tipo masochista o anche di tipo metafisico-idealistico, o anche solo consolatorie rispetto al fallimento di altre ipotesi di crisi del sistema economico, sino a posizioni reazionario e classiste. Questo perché è da alcuni decenni che gli studi e le rilevazioni in materia di andamenti attuali della popolazione mondiale indicano non più curve esponenziali ma un andamento asintotico verso valori di equilibrio intorno ai nove-dieci miliardi di persone (vedi grafico 1)

con andamenti della variazione percentuale annua che tende verso lo zero o anche oltre (vedi grafico 2)

e con la possibilità, quindi, di una riduzione dei valori assoluti oggi previsti.
Naturalmente tutto questo senza ipotizzare stragi o epidemie, ma anzi, prendendo atto che, in parallelo, l’aumento della produttività anche in campo agroalimentare assicurato dallo sviluppo delle varie tecnologie, compreso l’eliminazione di vari errori connessi in questo campo, ha garantito una potenzialità produttiva di prodotti alimentari in grado di soddisfare la domanda globale. Se di fatto si assiste ancora a situazioni di gravi carenze alimentari la causa va ricercata nella cattiva distribuzione delle risorse, non nella loro scarsità.
...
Uno scenario demografico di equilibrio non è solo una novità di evidente rilievo ma pone questioni non tutte facilmente individuabili, prevedibili o valutabili. Anche perché questa “novità” si inserisce in un contesto storico e politico dove si muovono anche altre “novità”. Basti pensare al processo della globalizzazione nella sua attuale versione planetaria; o al forte allungamento della durata media della vita, con la prospettiva di un welfare che dovrebbe, alle condizioni attuali, prevedere alcuni decenni di attesa inerte, poco confacenti con un qualche criterio, appunto, di welfare; o alle capacità del sistema delle biotecnologie e delle tecnologie agroalimentari di essere uno dei grandi attori dell’attuale processo di sviluppo; o alle rivoluzioni tecnologiche che possono prevedere la possibilità di produrre con la metà o un terzo del fattore lavoro attuale quanto necessario per soddisfare una domanda a sua volta tutta da ricomporre in base ad altre trasformazioni sociali, ambientali e culturali..."
5. Insomma, riassumendo: la tecnologia ci salverà, grazie alla globalizzazione. Ma anche la redistribuzione planetaria della popolazione, sia pure ad andamento asintotico, cioè tendente ad aumentare in modo decrescente fino a un punto di tendenziale stabilizzazione, e quindi una benvenuta e ragionevole, immigrazione sud-nord, ci salverà: grazie, sempre, alla globalizzazione.
Siccome le contraddizioni di queste varie versioni sono evidenti, almeno sotto il profilo della vaghezza delle effettive e concrete soluzioni proposte (sì, ci dicono che la soluzione complessiva di tutti i problemi concomitanti è difficile, ma pure che l'immigrazione è inevitabile e bella: TINA. Punto), provo a riempire un po' i vuoti relativi. Ma in (relativa) sintesi.
6. Dunque:
a) di qui al 2050 ci sarà l'immigrazione di massa specialmente dalle aree a più alta natalità verso l'€uropa: ma non perché lì, secondo le tendenze rilevabili, ci sia un "eccesso di nascite" (come abbiamo visto): no, piuttosto perché da noi, chissà perché (a parte, la pseudo-spiegazionec'è tanta "grisi" economica, dovuta agli eccessi pensionistici e del debito pubblico, v. parte finale in crescendo) i gggiovani, disoccupati ma anche un po'"fannulloni" non escono di casa, specialmente in Italia, e non mettono su famiglia. Anzi emigrano, ma-non-è-una-soluzione; v. sempre prima fonte linkata dove in apposito box, number 5, ci viene rimproverata la chiusura in noi stessi e di viene additata la Germania come modello ideale di soluzione, così, senza esitazioni: "E l’altra “grande anziana” d’Europa, la Germania? Sta da anni rimediando al problema con il ritorno a politiche tese a favorire l’immigrazione qualificata, tanto da essere diventata oggi il secondo paese al mondo, dopo gli Stati Uniti, per numero di immigrati".
b) Non solo, dunque gli immigrati non vengono a causa delle"troppe" nascite ma, sempre, per farci un piacere, vengono semmai per accettare, volenterosi, i nostri lavori meno qualificati; e questo nonostante che risulti, uno"stereotipo (illusorio o strumentale che sia, poco importa) quello secondo cui “gli immigrati arrivano a causa della povertà e del sottosviluppo dei loro paesi, perciò per aiutarli a non avere bisogno di emigrare il rimedio è di favorire lo sviluppo interno dei paesi del Sud”. (infatti v. box 2: "Si possono individuare stadi diversi nella propensione a emigrare. I paesi molto poveri, e in qualche modo esclusi dai processi di globalizzazione, hanno scarse possibilità e propensione all’emigrazione, benché i benefici attesi possano essere molto considerevoli; infatti il “costo di entrata” nelle correnti migratorie è elevato, perché mancano la conoscenza e le risorse per competere con correnti già esistenti, preferite dai paesi di destinazione. Potrebbe così spiegarsi il caso dei paesi subsahariani che, nonostante la povertà estrema, hanno tardato a sviluppare consistenti flussi di emigrazione verso i paesi ricchi. Poi, quando lo sviluppo si mette in moto, il costo relativo di “entrata” nei flussi migratori relativamente ai benefici diminuisce (maggiore istruzione, capacità di affrontare il costo di spostamento ecc.). Così si spiega il paradosso dell’Asia, dove i paesi più poveri (Afghanistan, Laos, Vietnam, Cambogia) sono rimasti esclusi dalle correnti internazionali, mentre paesi in forte sviluppo (Indonesia, Malesia, Corea del Sud, Thailandia) hanno contribuito ai grandi flussi migratori verso i paesi asiatici occidentali produttori di petrolio. In uno stadio successivo, durante il quale si raggiungono più alti livelli di istruzione, moderati livelli di benessere, aspettative di ulteriore crescita, il costo relativo di abbandono del proprio paese comincia ad aumentare per cui la propensione a migrare decresce. Si spiegano così, in larga parte, l’esaurirsi dei flussi dall’Europa mediterranea verso l’Europa più ricca durante gli anni ’70 (....? E allora come mai sono ripresi? ndr.); il mancato avverarsi delle previsioni di esodo verso occidente delle popolazioni coinvolte nel crollo dell’Urss (ndr; ma davvero rumeni non vengono in Italia, polacchi non vanno in Germania e in UK e...poi: gli ungheresi non dovrebbero stare in fuga di massa dalla dittatura antieuropea di Orban?); la debole mobilità interna all’Unione Europea nonostante il permanere di forti sperequazioni di reddito". Ndr.: "Debole" mobilità interna? Chiedere a greci, portoghesi e spagnoli e magari pure ai "baltici", p.4: dove li hanno presi i dati e come stimano tale debolezza in rapporto alla percezione sociale e culturale degli interessati?);
c) nonostante le rassicurazioni, del "non" ricorso di eventi malthusiani (guerre, carestie e epidemie), tuttavia ci raccontano ogni giorno a reti unificate che i "migranti" (come gli uccelli e gli zebù, non come "persone") vengono dalla povertà e dalla disperazione. Che possano mai mentirci? Naaa...
Si mettano d'accordo a livello scientifico: magari non cambieranno i numeri, che sono in crescita e non si stanno rivelando, come "lamentato", affatto modesti, in rapporto alla disoccupazione strutturale dell'eurozona e, certamente italiana. E neppure cambierà le qualificazioni lavorative di chi arriva che non risultano essere eccelse (almeno considerando che la maggioranza degli "accolti" sosta, sussidiato a carico dell'odiata spesa pubblica, per anni in alberghi riadattati e non sente questa ineludibile esigenza di applicare queste professionalità) e che, per di più, data l'affermata povertà e disperazione, neppure si riscontra che NON si tratti di persone che arrivano da aree "escluse dai processi di globalizzazione" (infatti, arrivano dalla Libia, ma il loro viaggio non parte dalla Libia, cioè non si tratta di libici, ma di popolazioni sub-sahariane e dell'Africa equatoriale...);
d) risulta peraltro alquanto elusivo il concetto di "aree escluse dai processi di globalizzazione" per un'Africa e un Medioriente che risultano ben avvinti tra politiche economiche imposte da FMI e da World Bank, con apposite classifiche "mondializzate" delle riforme, e guerre generate da squilibri innescati da interferenze alquanto internazionalistiche: esportazioni di democrazia e "primavere" varie, che, guarda caso, hanno condotto proprio allo smantellamento dei precedenti Stati, che, pure, erano dotati di ampi sistemi di welfare e di intervento pubblico, accuratamente sconsigliati dalle autorità sovranazionali ai nuovi governanti..."neo-democratici" (cfr; p.4);

e) ma torniamo al mercato del lavoro imposto in €uropa con le riforme incessanti: infatti, da noi, ad es; manca ancora la prevalenza della contrattazione aziendale e la sterilizzazione di quella collettiva nazionale, come va ripetendo la Commissione UE (qui, p.16) e come ci consiglia, imperterrito, anche il FMI. Dunque, tutte le teorie che precedono accolgono l'idea che:
e1) l'arrivo di nuova forza lavoro, necessariamente dequalificata, non nuoccia al mercato del lavoro italiano e ai suoi crescenti livelli di disoccupazione e sotto-occupazione precaria. Attestati, anche dall'ultimo rapporto INPS, come in acutizzazione;
e2) che tra il protrarsi di questa ultradecennale situazione di precarizzazione, che mostra evidenti limiti sistemici sul livello decrescente di popolazione attiva e sulle rilevazioni dell'effettiva disoccupazione, non abbia alcuna influenza sul calo demografico "autoctono"(a parte la spiegazioni dell'eccessivo peso pensionistico e del debito pubblico brutto-che-fren-la-crescita); un calo che, invece, si manifesta evidente non appena si attuano in Italia le politiche monetariste-deflazionistiche di cui parlava, oltre 30 anni fa, Federico Caffè. Ben confermato dall'andamento demografico italiano, guarda caso, successivo all'introduzione dello SME e del divorzio tesoro-bankitalia;

f) ne discende che chi non conosca il paradigma economico mondialista, - e lo dico così perché cerchiamo di fare una sintesi e per approfondire abbiamo messo a disposizione una gran mole di materiale e di dati- e cioè il combinato disposto della legge di Say e della teoria dei vantaggi comparati, semplicemente non è in grado di descrivere che dati estrinseci, cioè effetti slegati da qualsiasi diagnosi attendibile, e neppure di individuare le tendenze reali future, ignorando i decisivi elementi istituzionali dei fenomeni. Vale a dire, si ignora totalmente come trattati internazionali, dettati dal diritto internazionale privatizzato, in esecuzione di un disegno ben delineato da decenni, abbiano predisposto che un quadro vincolante in modo che le cose dovessero andare in questo modo, continuando a imporre agli Stati di legiferare, secondo dettagli curati in ogni minimo particolare per suscitare uno "stato di eccezione", sì da assecondare le tendenze a cui la pretesa "migrazione" indispensabile sarebbe di rimedio.
Non c'è alcun fenomeno inevitabile di tipo naturalistico e spontaneo nello sviluppo demografico e diseguale del mondo intero.
7. Alla fine concludiamo illustrando un semplice meccanismo: dai paesi di provenienza, per via autonoma sottoposti alle "riforme"indispensabilissime dettate da FMI, WB e rivoluzioni democratiche, arrivano persone umane, sradicate dalla loro comunità, per via del fatto che gli si prospetta, in base ad una propaganda in situ accuratamente finanziata, che avranno comunque migliori prospettive in €uropa, dove il welfare è un bengodi di cui potranno facilmente fruire; intanto, "stranamente", gli "autoctoni" vengono privati di questo stesso welfare...il che accelera il processo di denatalità e di sostituzione "inevitabile" e accorcia le aspettative di vita. Pensa un po'.
Ma i migranti non rimarranno a bocca asciutta: al più potranno comunque fruire di un "welfare" di accoglienza,più o meno prolungato, e già in atto, che li ammorbidisca circa le future pretese lavorative e li renda comunque consapevoli che, seppure volessero tornare indietro, staranno pur sempre un po' meno peggio.
Ma questo solo in attesa che la loro situazione e specialmente quella dei loro figli nati all'estero, con l'applicazione delle politiche di pareggio di bilancio, diventi praticamente di indifferenza: ma nel frattempo, loro e i loro figli si saranno radicati e rassegnati, con qualche concessione legislativa di active action per l'accesso ai diritti politici. Naturalmente, diritti acquisiti in progressiva sostituzione dei calanti autoctoni destinati a estinzione: quest'ultima, peraltro, accelerata dal declinare delle aspettative di vita dovuto agli inevitabili tagli dei precedenti livelli delle prestazioni pensionistiche e sanitarie publiche (già abbondantemente in atto). Perfetta coordinazione: as simple as that. Non ci vuole un genio per capirlo.
8. Nel mezzo di questo piano di perfetta creazione di uno stato di equalizzazione di condizione civile tra paesi di provenienza e paesi di accoglienza, c'è ovviamente il grande guadagno di un aumento della produttività del lavoro, dovuto al suo progressivo minor costo costantemente realizzato.
Ma come, direte, anche in Italia dove a differenza che in Germania, non stiamo cercando di prendere i lavoratori effettivamente qualificati (magari dagli altri paesi europei, essendo anche noi, semmai, fra i cessionari - alla Germania et UK- di competenze e qualificazione)?
Beh, se si fa questa obiezione, ci si dimentica dell'effetto programmatico di lungo periodo dei "vantaggi comparati": in Italia devono rimanere:
- "fabbriche cacciavite" per manifatturiero a crescente intensità di impeigo di forza lavoro, passando in mani estere (con depredazione o chiusura) le filiere ad alto valore aggiunto=>; quindi, operai non particolarmente specializzati (con ampia utilizzabilità della forza lavoro immigrata);
- "turismo" in mani progressivamente di investitori altrettanto esteri (al più le nostre tasse, finchè saremo i n grado di sostenerle serviranno a finanziare le infrastrutture a favore di tali investitori esteri)=>; quindi, lavoranti stagionali con altrettanta impiegabilità di immigrati e, al massimo, degli italiani più fortunati e volenterosi, camerieri e bagnini per vocazione (secondo buona parte della nostra classe di espertoni commentatori);
- "agricoltura" per qualche coltivazione con impiego di manodopera intensiva a costo bassissimo o su culture particolari "di nicchia"; anch'esse, se ritenute sviluppabili, in chiave liberoscambista, in crescente controllo estero (vedi alla voce "vino", "dolciario" e, magari, tra un po', prosciutto e parmigiano)=>; quindi, senz'altro, manodopera di immigrazione che non si tira indietro di fronte ai paghe e orari in crescente peggioramento.
9. Nel corso di tutto questo bel processo TINA ci starebbe pure un certo pericolo di terrorismo e di inquietudine politico-sociale: ma, niente paura, per questo basta smettere, al momento opportuno, di finanziare i relativi "motori" ideologici e operativi, attualmente incentivati e sospinti perché facciano il loro compitino di destabilizzazione delle aree di provenienza e di creazione di "stato di eccezione" nei paesi di accoglienza. Niente che non si possa riassorbire al momento ritenuto di ultimazione della "grande opera", stando, nel frattempo, dentro a aree appositamente fortificate e presidiate.
Al massimo potranno essere in pericolo, al cessare di questi compiti così "delicati", i dipendenti delle ONLUS-ONG (espertoni e agit-prop del mondialismo e della neo-lingua della neo-democrazia): ma probabilmente verranno premiati in altro modo.
Lo Stato minimo mondialista, infatti, non avrà strutture burocratiche e tutto sarà privatizzato: cosa c'è di meglio di ONLUS-ONG "mondiali", riconvertite a funzioni privatizzate di gestione dei "beni comuni" (ma solo se sarete buoni e vi meriterete questa privatizzazione così...democraticamente partecipata)?