
1. Oggi, 2 giugno, festa della Repubblica italiana.
"Il 2 giugno 1946, con il referendum istituzionale, prima espressione di voto a suffragio universale di carattere nazionale, le italiane e gli italiani scelsero la Repubblica, eleggendo contemporaneamente l'Assemblea costituente, che, l'anno successivo, avrebbe approvato la carta costituzionale, ispirazione e guida lungimirante della rinascita e, da allora, fondamento della democrazia italiana". Il presidente della Repubblica aggiunge che "i valori di libertà, giustizia, uguaglianza fra gli uomini e rispetto dei diritti di ognuno e dei popoli sono, ancora oggi, il fondamento della coesione della nostra società ed i pilastri su cui poggia la costruzione dell'europa. Dalla condivisione di essi nasce il contributo che il nostro paese offre con slancio, convinzione e generosità alla convivenza pacifica tra i popoli ed allo sviluppo della comunità internazionale".
A questo messaggio, si può rivolgere un'obiezione essenziale: dopo alcuni decenni di studio del diritto e dell'economia, personalmente mi sfugge come sia ragionevolmente collegabile il fondamento della coesione della nostra società, - basato sui valori di libertà, giustizia e uguaglianza nei modi concreti stabiliti nella nostra Costituzione-, con i "pilastri su cui poggia la costruzione dell'europa", e come si possa affermare che questi pilastri siano eretti sugli stessi principi affermati dalla nostra Carta costituzionale.
Era indispensabile compiere un'affermazione così recisa su un tema così controverso? Non si poteva soltanto ricordare il senso storico del referendum, dell'elezione dell'Assemblea costituente e dell'approvazione della Costituzione democratica, almeno nella giornata del 2 giugno?
2. Perchè il problema sta in questo: è vero o non è vero che la Costituzione del 1948 e il trattato europeo ordoliberista siano ispirati agli stessi principi?
Solo una risposta positiva a questa domanda renderebbe ragionevole e opportuno l'accostamento equiparante che ci viene oggi proposto dal messaggio presidenziale.
Che i trattati europei siano ispirati all'ordoliberalismo ci viene altresì confermato dalla Commissione delle Conferenze episcopali della Comunità europea (COMECE) la quale, come abbiamo più volte fatto in questo blog, trae argomento decisivo dall'art.3, par.3, del TUE:
La formula "economia sociale di mercato fortemente competitiva" viene dall'art. 3.3 del Trattato sull'Unione Europea: «L'Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico».
L'espressione "economia sociale di mercato"è stata elaborata nei Paesi di lingua tedesca, ma è entrata anche nella tradizione costituzionale di altre nazioni europee. Nasce dalla riflessione di economisti e giuristi della scuola ordoliberale di Friburgo (1930-1950) e trova applicazione politica nella Germania occidentale del dopoguerra durante il cancellierato (1949-1963) di Konrad Adenauer, grazie a Ludwig Erhard, ministro dell'Economia, e ad Alfred Müller-Armack, direttore del Dipartimento delle politiche economiche del Ministero. Artefici della ripresa tedesca, contribuirono a porre le basi economiche, culturali e istituzionali dell'UE lavorando con Alcide De Gasperi e Robert Schuman. La scuola di Friburgo afferma la centralità del mercato, senza però farne un assoluto. A riguardo l'economista Walter Eucken (1891-1950), padre dell'ordoliberalismo, scrive: «L'economia deve servire agli uomini viventi e a quelli futuri e deve aiutarli per l'attuazione delle loro più importati determinazioni. [...] Essa ha bisogno di un ordine giuridico garantito e di una solida base morale». Nel 1958, Wilhelm Röpke (1899-1966), un altro esponente della scuola di Friburgo, affermava: «l'economia di mercato non è tutto; essa deve essere sorretta da un ordinamento generale, che non solo corregga con le leggi le imperfezioni e le asprezze della libertà economica, ma assicuri all'uomo un'esistenza consona alla sua natura» (RÖPKE W., Al di là dell'offerta e della domanda. Verso un'economia umana, Edizioni di "Via aperta", Varese 1965, 17).
3. La fonte episcopale, così concorde ed autorevole, dovrebbe risultare credibile agli occhi di qualsiasi rappresentante istituzionale italiano di fede cattolica.
E, dunque, non dovrebbe dubitarsi che, in questa concezione della priorità della "forte competizione" e della "economia di mercato", il temperamento in senso solidale, sia affidato alla "buona volontà" degli operatori economici e non all'intervento dello Stato, come previsto dalla nostra Costituzione. Questo intervento dello Stato avrebbe infatti portato a "eccessi" che, secondo gli stessi vescovi, sottraggono allo Stato la stessa legittimazione esclusiva a proseguire politiche di realizzazione effettiva dei diritti sociali e dei livelli di welfare. Lo Stato, in questa visione, non dovrebbe essere del tutto escluso, ma deve conciliare la sua azione e la sua sovranità (fiscale e monetaria) con le istanze volontaristiche solidali provenienti dal settore economico privato.
I vescovi sul punto sono molto chiari:
"La prima fondamentale innovazione riguarda la riappropriazione del corretto rapporto sinergico fra Stato e privato, entrambi indispensabili, entrambi, da soli, insufficienti: «Lo Stato è una precondizione di una comunità ordinata, senza la quale lo sviluppo umano integrale è irraggiungibile. I dispositivi di istituzionalizzazione della solidarietà attraverso tasse e contributi sociali furono introdotti perché le iniziative private da sole non erano sufficienti. La forma di solidarietà organizzata dallo Stato è affidabile e stabile, e perciò necessaria. Ma non è abbastanza, in particolare perché manca dell'aspetto della volontarietà» (n. 5). Per questo - prosegue il testo - le forme istituzionali di solidarietà gratuita devono essere preferite a quelle organizzate dallo Stato o affidate al mercato ogni qual volta esse dimostrano uguale efficacia ed efficienza: è questo il significato autentico della sussidiarietà, che non coincide con la tendenza al disimpegno progressivo del "pubblico" e alla privatizzazione del welfare allo scopo di abbattere i costi".
4. E' anche da dire che gli stessi vescovi, criticano in qualche modo l'ideologia del semplice disimpegno del "pubblico" e la tendenza (unidirezionale) alla "privatizzazione" del welfare, ma lo fanno, evidentemente, sul presupposto che questa realtà criticata sia ciò che effettivamente si è finora realizzato in applicazione della costruzione dell'Europa richiamata dal nostro Presidente della Repubblica.
I vescovi, cioè, pur sostenendo che la solidarietà affidata allo Stato "non è abbastanza", e riaffermando l'aspetto della "volontarietà", cioè della "buona volontà", spontaneamente mostrata dagli operatori di mercato, - cioè da coloro che ne controllano le dinamiche in una situazione che, in UE, è di finanziarizzazione e struttura oligopolistica, cioè di accentramento dell'attività economica di "mercato" in conglomerati economici sempre più grandi e influenti e sempre più intrecciati al sistema bancario-finanziario -, propongono una soluzione che superi l'attuale realtà vivente della costruzione europea.
Certo lo fanno cercando una conciliazione, tra principio della "buona volontà"/sussidiarietà e azione sociale dello Stato, un po' vaga e non del tutto nuova rispetto agli assunti originari dell'ordoliberismo, che, tuttavia, hanno finora condotto proprio agli esiti di eccesso di privatizzazione del welfare "per abbattere i costi", e di disimpegno progressivo del "pubblico".
4.1. Soprattutto, i vescovi non sanno spiegare come, quando e perché, quella insufficienza della solidarietà puramente volontatistica e caritatevole dell'economia di mercato, e che giustificava e in parte giustificherebbe tutt'ora la presenza dell'intervento statale sociale (a tutela delle parti più deboli della società), sia stata superata: perché ora, nonostante gli sviluppi negativi criticati, le istituzioni e le forze del mercato, internazionalizzate con l'UE, sarebbero divenute sufficienti e avrebbero espresso una loro maggiore e più intensa volontà caritatevole e spontaneamente redistributiva, verso i sempre più vasti settori esclusi dalle dinamiche allocative ed efficienti del mercato?
5. Sta di fatto che la presa di posizione dei vescovi europei già dovrebbe condurre a una certa perplessa prudenza sulla piena equiparabilità tra modello solidale esplicito di intervento statale insito nella nostra Costituzione, incentrato sull'eguaglianza sostanziale del fondamentalissimo art.3, comma 2 della Costituzione, e principi ispiratori della costruzione europea, quali registrabili in imponenti effetti che neppure i vescovi, inclini ad abbracciare la versione temperata e solidaristica dell'economia sociale di mercato, ritengono di ignorare.
La "proposta" dei vescovi (abbiamo visto vagamente affidata alla fede in un futuro solidarismo spontaneistico del capitalismo finanziario), era del 2012.
Il loro auspicio non è stato seguito in nessun modo dai fatti.
La situazione della Grecia, da allora, si è evoluta in un modo che non può non essere connesso all'inasprimento, neppure minimamente nascosto dai suoi propugnatori, delle logiche finanziarie del neo-liberismo che governa l'€-zona. Che vedono all'acme della mancanza di ogni minima traccia di solidarismo intraeuropeo, proprio la Germania, patria di origine ed espressione "reale", cioè istituzionalmente realizzata in conformità ai trattati, dello stesso ordoliberismo (ormai esteso a condizionare l'intera UEM).

6. Ma gli stessi dati relativi a importanti indicatori dell'andamento della situazione socio-economica italiana smentiscono, clamorosamente, l'auspicio dei vescovi affidato fideisticamente al manifestarsi di una solidarietà "di mercato" extrastatuale.
Lo possiamo dire perché il Presidente della Repubblica può agevolmente attingere a questi dati, ufficialmente riportati da fonti governative.
La povertà, assoluta e relativa, in Italia, (persino) dal 2012, si è gravemente acutizzata. Nel Mezzogiorno la situazione è di assoluto livello di guardia:


7. Il reddito pro-capite, come naturale implicazione di ciò, è diminuito, e ne è aumentata la redistribuzione verso l'alto, cioè nella direzione esattamente opposta a quella predicata dalla nostra Costituzione (se il reddito pro-capite diminuisce e aumentano ancor più intensamente i poveri, questa conclusione è aritmeticamente evidente):

7.1. Le politiche fiscali obbligatoriamente perseguite nei paesi dell'eurozona, cioè in applicazione più "completa" della costruzione prevista dai Trattati, (ripetiamo quella che oggi, 2 giugno, viene richiamata come pienamente assimilabile, nei principi ispiratori, alla nostra Costituzione del 1948), hanno determinato dunque una vistosa crescita della povertà.
Ma le prestazioni sociali sono cresciute, com'era ovvio in una situazione di crisi - si tratta dei c.d. stabilizzatori automatici e di trattamenti previdenziali a decrescente copertura rispetto al reddito lavorativo-, in maniera non proporzionale: a livello pro-capite siamo il fanalino di coda dell'UE, eccettuata la Spagna.

8. Quel che conta, in termini di neutralizzazione del ruolo solidaristico dello Stato successivo alla corsa verso l'euro, non compensato da alcuna spinta volontaristica caritatevole "privata" (come attesta l'innalzamento inarrestabile delle quote di povertà), è il progressivo e inesorabile peggioramento rispetto alla media europea:
"Anche in Italia si è verificata la stessa illusione statistica; attualmente la spesa sociale è pari al 28,4% del Pil, in linea con i valori medi europei.Tuttavia, se confrontiamo il valore pro capite, il nostro paese registra un forte e crescente divario negativo: fatto pari a 100 il valore medio dell’Unione a 15 nel 1995, quell’anno il dato italiano era 84,1, ma da allora è calato fino a 75,8 del 2011".
Fonte: Elaborazione su dati Eurostat
Figura 1: Spesa per protezione sociale (in % del Pil)

Figura 2: Spesa per protezione sociale in euro pro capite (prezzi costanti)

9. Ci sarebbe dunque da rammentare quale sia il senso della nostra Costituzione, oggi, per poter verificare se questa applicazione del paradigma ordoliberista europeo sia effettivamente ad essa pienamente assimilabile o meno.
Di certo, assistiamo al fallimento della "ipotesi volontaristica" di una solidarietà spontanea proveniente da operatori di mercato illuminati da una presunta "temperanza" rispetto alla competitività esasperata e alla ricerca del profitto.
La ragione dell'affidamento alla Repubblica democratica, nata dal referendum del 2 giugno 1946 e dall'esperienza della Costituente,del compito di perseguire attivamente i diritti sociali, lungi dall'aver costituito un eccesso di concessione di privilegi ingiustificati, ci viene ben specificata da Calamandrei.
Ed è una ragione di effettività della stessa democrazia popolare, un aspetto che, in base ai dati della realtà socio-economica, risulta clamorosamente divergente dai "pilastri" della "costruzione" dell'€uropa:
“Coi primi (diritti di libertà) si mira a salvaguardare la libertà del cittadino dalla oppressione politica; coi secondi (diritti sociali) si mira a salvaguardarla dalla oppressione economica. Il fine è lo stesso, cioè la difesa della libertà individuale…Il compito dello stato a difesa della libertà non si racchiude nella comoda inerzia del laissez faire, ma implica una presa di posizione nel campo economico ed una serie di prestazioni attive nella lotta contro la miseria e l’ignoranza ….” In quanto “un uomo che ha fame non è libero perché, fino a quando non si sfami, non può volgere ad altri i suoi pensieri…” (Calamandrei, Costruire la democrazia, premesse alla Costituente, Le Balze, 103-105).
E ancora: “se vera democrazia può aversi soltanto là dove ogni cittadino sia in grado di [...] poter contribuire effettivamente alla vita della comunità, non basta assicurargli teoricamente le libertà politiche, ma bisogna metterlo in condizione di potersene praticamente servire”, e per far ciò occorre garantire a tutti “quel minimo di benessere economico”, far sì che le libertà cessino di essere dei “vuoti schemi giuridici e si riempiano di sostanza economica”, ossia che “le libertà politiche siano integrate da quel minimo di giustizia sociale, che è condizione di esse, e la cui mancanza equivale per l’indigente alla loro soppressione politica”.“Ma il problema vero non è quello della enumerazione di questi diritti: il problema vero è quello di predisporre i mezzi pratici per soddisfarli, di trovare il sistema economico che permetta di soddisfarli. Questo è, in tanta miseria che ci attornia, l’interrogativo tragico della ricostruzione sociale e politica italiana", da "Costituente e questione sociale", p.152.
10. D'altra parte, se questo "presente"è definito in dati che attestano un impressionante degrado della condizione civile e di benessere dei cittadini italiani, e in un'inesorabile caduta della stessa speranza di riscatto delle fasce economicamente e culturalmente più deboli della società italiana, ricorre in pieno la ragione di un richiamo a quel"presente" che aveva dato luogo alla rivendicazione costituzionale di giustizia ed eguaglianza sostanziale che "le conseguenze economiche" dell'€uropa appaiono vistosamente negare.
E ricorriamo, a rammentare tutto questo, ancora alle parole di Calamandrei:
"Ma c’è una parte della nostra costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’art. 3 vi dice:
“E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani.
Ma non è una costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche dalla impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anche essa contribuire al progresso della società. Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente".
11. Decisamente, la nostra Costituzione e la "costruzione dell'europa" non paiono albergare nelle stesse radici e negli stessi valori umanistici.
Ricordiamo il nostro passato di riscatto della democrazia, iniziato nel 2 giugno di 70 anni fa, "illuminiamolo", come vollero i Costituenti, con un "raggio di fede", che si contrappone al "nero scetticismo" neo-liberista, e ordoliberista, sul ruolo di questa Repubblica fondata sul lavoro.
Viviamone la vera lezione: la verità (forse) ci renderà nuovamente liberi.