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  • Title: Orizzonte48
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  • Language: Italian
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  • Description: Le Istituzioni riflettono la società o esse "conformano" la società e ne inducono la struttura?...
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LA STRATEGIA DEL MITO DELLA PUREZZA: LA SUPER-COSTITUZIONE OCCULTA DI UNO STATO INESISTENTE- 3

December 18, 2016, 1:40 am
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http://images.slideplayer.it/24/7755262/slides/slide_31.jpg
E si arriva a porsi domande come questa:

http://images.slideplayer.it/12/3667325/slides/slide_27.jpg
Questa parte conclusiva dello Studio di Arturo ci fa comprendere come il "sogno"€uropeo sia un modo di smantellare lo Stato di diritto dei singoli ordinamenti democratici degli Stati coinvolti, concepito in modo tale da non dover mai essere sottoposto ad alcuna approvazione o consultazione popolare, consapevolmente adottata in conformità alle regole costituzionali dei singoli paesi. 
Quand'anche vi sia una forma di approvazione - parlamentare e/o referendaria- dei trattati in sé considerati, a prescindere dalla funzione coessenzialmente limitata degli strumenti di "ratifica" (come vedremo evidenziato persino da Amato!), i trattati affermano (per implicito e progressivamente) un programmatico contenuto inespresso, che impatta sulle rispettive clausole fondamentali delle Costituzioni democratiche.

Questo contenuto si amplia inevitabilmente tramite una sorta di consuetudine applicativa, il cui valore di supremazia e di sottrazione delle sovranità nazionali, viene costruito sul "fatto compiuto" e, come emerge nelle vicende storiche €uropee, su uno "stato di eccezione permanente" che, viene inevitabilmente avallato dalla Corte di giustizia europea, fondandosi su una situazione di diritto (per lo più sanzionatorio e comunque fortemente pervasivo) che prescinde da ogni comune patrimonio di mores e di valori. 
Questo diritto è infatti "dichiarato", al di fuori di una vera legittimazione nell'accordo formale tra Stati, facendo esclusivo riferimento alla "naturalistica" preminenza di regole direttamente derivanti da concezioni del mercato e ritenute (apoditticamente!) avere capacità "ordinativa"; la "base" di queste regole di rifermento, per di più, è espressa in forma sparsa e dissimulata all'interno dei trattati. Naturalmente, sono espresse così affinchè i cittadini dei singoli Stati vedano le rispettive norme costituzionali sopravanzate e disapplicate come effetto di una "vis maior cui resisti non potest".

Ciò spiega anche come, da un lato, sia stata possibile la sospensione extraordinem(cioè estranea a qualsiasi conformità a regole della nostra Costituzione, in particolare) dei principi fondamentali della nostra Costituzione; dall'altro, come e perché, proprio in stretta coincidenza con l'avvento della teoria del "vincolo esterno" inizi la mai rinunciata stagione delle "riforme costituzionali": in definitiva un realismo più realista del "re" (mercati sovranazionali) che caratterizza proprio la nostra classe dirigente.
Ho aggiunto alcune mie note personali [NdQ], per sottolineare quei passaggi che, pur ostici ai non specialisti, esigono una particolare attenzione. In termini straordinariamente attuali... 

TERZA PARTE

Ci avviamo alla conclusione con quest’ultima parte de il "Manifesto" dei laburisti inglesi, del 1950, (ho alterato leggermente l’ordine degli argomenti per esigenze espositive mie), che ci consente di riagganciarci all’argomento principale. 
[NdQ.1]: che è quello della consapevolezza originaria (da parte dei "padri" dell'€uropa) dell'impatto automaticamente modificativo delle Costituzioni dei singoli paesi aderenti alla costruzione "europa", e la simultanea esigenza di arrivare a questo effetto in via di fatto.
Il metodo è dunque quello di bypassare in modo "inavvertito" (per le democrazie coinvolte), ma consapevole (per gli ideatori del disegno), le procedure di revisione delle Costituzioni e ogni espressione del consenso popolare ad esse inevitabilmente connessa. 

[NdQ.2] In altri termini, il fine della costruzione europea (l'instaurazione dell'ordine sovranazionale dei mercati) si separa geneticamente dalla democraticità dei mezzi e, come vedremo, dalla stessa Rule of Law(espressione equivalente a quella di "Stato di diritto", che è quello in cui gli organi di governo sono sottoposti anch'essi a regole precostituite, la cui violazione è deducibile dinanzi a un giudice): questo perché la sfera di attribuzioni delle nascenti istituzioni europee è programmata, mediante tale metodologia, per andare ben oltre le previsioni espresse di ogni "generazione" di trattati (persino dei più recenti):

“I popoli devono essere interpellati (...?)

Tutte le forme di unione finora discusse comportano un trasferimento di poteri dai popoli dei singoli Stati europei a una qualche nuova organizzazione. Ciò comporterebbe una significativa modifica costituzionale in ogni paese. Una tale modifica può essere realizzata solo se il popolo di ogni paese lo decide dopo una matura riflessione in cui tutte le implicazioni del cambiamento siano state presentate. È dunque dovere di ogni gruppo che desidera tali cambiamenti guadagnare il popolo di ogni paese alle proprie convinzioni. In particolare, ogni partiti politico che sostiene il cambiamento è chiaramente obbligato a inserire una proposta di questa portata nel proprio programma elettorale.

Si sono già creati pericolosi equivoci. In ambienti in cui queste idee sono popolari, importanti politici si sono vagamente espressi sulla loro disponibilità a nuove forme costituzionali. Eppure gli stessi politici hanno chiaramente evitato di presentare queste proposte al giudizio dei loro elettori.
[…]
Cambiamenti costituzionali che limitino o modifichino il potere democratico dei popoli sovrani dell’Europa occidentale dev’essere sottoposto al giudizio di questi popoli. Nessun politico ha il diritto di sostenere tali cambiamenti senza avere la sincerità e il coraggio di sottoporli al verdetto del suo elettorato.”
Quanto alle difficoltà della cooperazione tramite negoziati: “Laddove i progressi sono stati deludenti, la causa non risiede in una qualche inadeguatezza delle istituzioni esistenti, ma in reali conflitti di interessi che non possono semplicemente essere ignorati o soppressi, ma devono essere pazientemente superati attraverso reciproche libere concessioni.

5. Ultimo periodo a parte (che restituisce alla politica lo spazio che le è proprio), vale la pena riflettere sul denunciato affacciarsi di un “costituzionalismo” europeo, certo in teoria facilmente praticabile per un paese privo di costituzione rigida.
A ben guardare, sul piano storico, di là di concessioni retoriche, impegni “costituzionali” i politici nazionali non hanno mai inteso sottoscriverne:posto che avessero il potere di assumerne. Quelli italiani ovviamente ne erano privi, a meno di passare dal procedimento di revisione, coi suoi relativi limiti.

Karen Alter, per un libro importante di cui ci sarà occasione di riparlare, ha compiuto parecchie interviste (anonime…) ai protagonisti dei negoziati europei. Gli intervistati le hanno riferito quanto segue: 
“L’idea che le corti nazionali applicassero il diritto comunitario contro il diritto nazionale o lo disapplicassero non fu mai discussa dagli esperti legali nei negoziati del Trattato di Roma, tantomeno dai politici” (K. Alter, Establishing the Supremacy of European Law, Oxford University Press, N.Y., 2001, pag. 9).

5.1. Nel caso italiano, almeno per quel che riguarda i politici, di dubbi non dovrebbero essercene. 
Vi riporto https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg17/file/lav_preparatori_n_3.pdf">un documento, poco noto ma che merita di essere conosciuto: si tratta delle conclusioni di uno dei relatori della Commissione Speciale istituita in occasione della ratifica del Trattato di Roma(Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, 2107-A, pag. 51), il senatore Santero:
“Onorevoli senatori, dal punto di vista istituzionale si può concludere:
[…]
3) che i Trattati non contengono che un minimo di sopranazionalità e nessun pericolo di sorpresa può esistere per gli Stati contraenti, in quanto niente di sostanziale può sfuggire al controllo dei Parlamenti nazionali.
L’Euratom e il Mercato comune non vivranno per la lettera dei Trattati ma per la fede e la buona volontà degli uomini che avranno la responsabilità di metterli in opera, di gestirli, di controllarli. È soprattutto necessario che lo stesso spirito europeo, la stessa volontà politica che ha animato i governi nel lungo negoziato continuino a ispirarli nella messa in esecuzione dei Trattati.
Si deve aver sempre presente che per ciascuno Stato contraente, ma specie per l’Italia, che è tra tutti lo Stato economicamente più debole, il pericolo più serio è di ordine politico, il rischio maggiore è rappresentato dall’isolamento in un mondo che si organizza alle dimensioni continentali”.

Argomento del grande pennello a parte (di cui potete così tutti apprezzare la freschezza e originalità), quest’impostazione è esattamente quella che a sette anni di distanza la Corte di Giustizia ritenne di poter rovesciare nell’interpretazione di quel medesimo Trattato, al punto che, a partire dalla sentenza “Les Vertes”, ha iniziato addirittura a parlare del Trattato di Roma come “carta costituzionale di base” della Comunità. 

6. Per ricapitolare e chiarire il paradosso che ci troviamo davanti: uno degli argomenti dei sostenitori dell’esistenza di una “costituzione” europea (per esempio Pernice) è che “tale presunta costituzione sia stata già legittimata dai cittadini europei. Il miracolo sarebbe avvenuto grazie al fatto che i Trattati sono stati immessi negli ordinamenti degli Stati membri grazie a leggi, nelle quali si sarebbe manifestata la volontà democratica dei cittadini”. (M. Luciani, "Legalità e legittimità nel processo di integrazione europeo" in AAVV, Una Costituzione senza Stato, Il Mulino, Bologna, 2001, pag. 85).

6.1. Anzitutto va segnalata l’evidente inidoneità funzionale del procedimento di ratifica a fornire una qualsiasi parvenza di copertura in termini di “costituzionalità” ai Trattati europei.
Cito in argomento un autore insospettabile di antieuropeismo come Giuliano Amato (Costituzione europea e parlamenti, Nomos, 2002, 1, pag. 15): 
“Quando si ratificano i trattati internazionali, in genere si ratificano quelli che disciplinano le relazioni esterne. Quando si ratifica una modifica dei trattati comunitari non si ratifica una decisione che attiene alle relazioni esterne, ma una decisione che attiene al governo degli affari interni. 
Il processo di ratifica così com'è è congegnato è allora del tutto inadatto ad assicurare ai parlamenti il ruolo che ad essi spetta rispetto agli affari interni. 
Il procedimento di ratifica è tarato sull’essere ed il poter essere un potere intrinsecamente dei governi esercitato sotto il controllo dei parlamenti. Tant’è vero che la legge di ratifica è una legge di approvazione e non è una legge in senso formale.”
Ma il vero clou del paradosso, dicevo, consiste nel fatto che “la politica dei piccoli passi nel processo di integrazione comunitaria ha fatto sì che mai nessuno abbia detto espressamente che, con i Trattati che si andavano stipulando, si stava costruendo una nuova costituzione.” (Luciani, op. cit., pagg. 85-6).

6.2. Non basta. Dopo il fallimento del progetto di costituzione europea a seguito dei due referendum francese e olandese, il 22 giugno del 2007 la Presidenza del Consiglio Europeose n’è uscito con questa solenne dichiarazione
:
“L’approccio costituzionale, che consiste nell’abrogare tutti i Trattati e rimpiazzarli con un singolo testo definito “Costituzione” è abbandonato. […] Il TUE e il TFUE non avranno un carattere costituzionale. 
La terminologia usata nei Trattati rifletterà questo cambiamento: il termine “costituzione” non verrà usato […]. Con riguardo alla supremazia del diritto comunitario, la conferenza intergovernativa adotterà una dichiarazione ricordando l’attuale giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea”.

Tale dichiarazione è diventata la numero 17 allegata all’atto finale della conferenza intergovernativa che ha approvato il Trattato di Lisbona firmato il 13 dicembre 2007, ossia: 
“La conferenza ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell'Unione europea, i trattati e il diritto adottato dall'Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza.
Inoltre, la conferenza ha deciso di allegare al presente atto finale il parere del Servizio giuridico del Consiglio sul primato, riportato nel documento 11197/07 (JUR 260):

«Parere del Servizio giuridico del Consiglio
del 22 giugno 2007
Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia si evince che la preminenza del diritto comunitario è un principio fondamentale del diritto comunitario stesso. Secondo la Corte, tale principio è insito nella natura specifica della Comunità europea. All'epoca della prima sentenza di questa giurisprudenza consolidata (Costa contro ENEL, 15 luglio 1964, causa 6/64 […] non esisteva alcuna menzione di preminenza nel trattato. La situazione è a tutt'oggi immutata. Il fatto che il principio della preminenza non sarà incluso nel futuro trattato non altera in alcun modo l'esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia.”

[NdQ.3] Col che ne emerge un non sequitur piuttosto clamoroso e, al tempo stesso, una stranezza, sicuramente antitetica allo Stato di diritto democratico.
Il diritto, - per di più posto al vertice di una gerarchia delle fonti (volutamente) non precisata da alcuna clausola scritta-, sorge da una corte che non è vincolata da norme preesistenti che ne stabiliscano seriamente non solo l'indipendenza e l'imparzialità (rispetto ad un Esecutivo particolaramente privo di legittimazione democratica come quello €uropeo),  ma anche la "soggezione alla legge": cioè il valore e i limiti delle sue decisioni in un quadro legale predeterminato delle norme applicabili (europee) posto, com'è teoricamente dovuto (in base alla stessa lettera dei trattati!), in rapporto al rispetto di quelle costituzionali dei paesi-membri che, pure, ne costituiscono la vera fonte legittimante e il limite (secondo gli stessi enunciati espressi dei trattati: ma non di quelli "impliciti" e non approvati dagli Stati!). 

6.3. Il “miracolo” di cui parla Luciani consisterebbe quindi in una “non costituzione” composta da un insieme di trattati internazionali a cui nessuno, in sede politica – posto avesse i poteri per farlo -, ha mai attribuito un carattere costituzionale, rifiutato peraltro esplicitamente dagli stessi vertici istituzionali europei, ma che, appunto, “miracolosamente” prevale su ogni costituzione degli Stati brutti e cattivi grazie a un “principio di preminenza” “scoperto”, vedremo come, dalla Corte di Giustizia, e che peraltro quasi nessuna giurisprudenza costituzionale dei paesi membri ha accettato, almeno non con l’assolutezza pretesa dai giudici europei.
A questa follia collettiva siamo arrivati oggi in Europa. 

Perché sia stato praticato un simile stravolgimento di consolidate categorie giuridiche, mi pare abbastanza ovvio: visto che la costituzionalizzazione dell’ordine internazionale dei mercati da una qualsiasi assemblea costituente eletta a suffragio universale non c’era verso di farla saltar fuori, figuriamoci da quelle di tutti i paesi europei contemporaneamente, non restava altra via che aggirare la legittimazione democratica senza poterlo confessare apertamente.

6.4. Sul piano ideologico, pare difficile considerare casuale l’evidente consonanza col favore per il diritto di matrice giurisprudenziale teorizzato dalla scuola austriaca, cioè per il frutto di un ordinamento costruito a partire dalle “intuizioni” del giudice.
Come scrive Maria Chiara Pievatolo ("Rule of law e ordine spontaneo. La critica dello Stato di diritto eurocontinentale", in "Bruno Leoni e Friedrich von Hayek in Costa, Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto", Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 474 e 476): “L'appello di Hayek all’intuizione del giudice, la tesi che è impossibile o deleterio vedere il diritto come un complesso sistematico comprensibile da mente umana e la precaria delimitazione del confine fra diritto e morale fanno capire che questa concezione del rule of law può funzionare, cioè riempirsi di contenuto, solo grazie all’apporto surrettizio, e perciò criticamente incontrollabile, del governo degli uomini.” 
“E perciò allontanare il diritto dallo Stato può allontanarlo solo dal problema dello Stato, ma non dal generale problema del potere e della sua controllabilità, che anzi si ripresenta tanto più drammaticamente quanto meno è reso pubblico e formale, a meno che non si facciano assunzioni naturalistiche sull'armonia della società e sull'omogeneità degli interessi dei singoli.”

[NdQ4] E se c'è un ordinamento che non si preoccupa della "omogeneità degli interessi", ma anzi ne accentua la disomogeneità, attraverso il diktat della stabilità monetaria e della "economia sociale di mercato fortemente competitiva", è quello €uropeo: la "armonia della società", poi, in sede €uropea, è addirittura un disvalore, laddove, senza che si comprenda su quali basi normative ciò avvenga, si predicano continue "riforme strutturali" che si riducono alla permanente precarizzazione e flessibilizzazione del mercato del lavoro e allo smantellamento "inevitabile" del welfare di cui Prodi ci ha detto con estrema chiarezza.

Per chi dunque non ritiene plausibili assunzioni naturalistiche sull’armonia della società, e tantomeno sulla capacità degli assetti giuridici europei a conseguirla, - il che, vista la, come si dice, rapida evoluzione (pragmaticamente autorevisionista) del mainstream , non pare una tesi particolarmente azzardata-, il controllo critico di quell’apporto surrettizio diventa compito ineludibile per verificare quanto sia nudo il re: ossia quanto la “primauté” del diritto comunitario sia frutto di un’illusione collettiva, una bolla, che aspetta solo di scoppiare.
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LA GEOSTRATEGIA DELLA TENSIONE E LA TEMP€STOSA "INSISTENZA" DELLA MERKEL (ITALBANK-BLITZKRIEG?)

December 20, 2016, 4:43 am
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https://socioecohistory.files.wordpress.com/2015/07/eurozone_collapse_dominoes_greece_trigger.jpg?w=433&h=285

http://blogs.ft.com/brusselsblog/files/2013/12/Schauble-Dijsselbloem.jpg

1. Oggi avrei voluto parlarvi di altro. 
In particolare di come l'esito del referendum costituzionale stia divenendo il centro di un'operazione politico-mediatica di sterilizzazione e di rimozione.
In parole povere, tale esito si sta trasformando in uno pseudo-dibattito condotto, dai media, in modo tale che le ragioni effettive del voto popolare siano rapidamente liquidate in base ad "ammissioni" del tutto generiche e prive di qualsiasi proiezione operativa: cioè non destinate a tradursi in misure legislative di politica economia e fiscale che affrontino veramente il problema della disoccupazione e della svalutazione salariale interna, ma che, anzi, proseguano nel solco dell'attuazione autoritaria (cioè dichiaratemente scissa da qualsiasi verifica della volontà elettorale), del modello ordoliberista derivante dalla, altrettanto dichiarata, priorità dell'osservanza degli "impegni presi nella sede €uropea".

2. Ma prima di approfondire questo discorso, che assumerà lineamenti clamorosi nelle prossime settimane, mi pare opportuno soffermarsi sui due fatti che ieri hanno scosso lo scenario della politica internazionale. L'omicidio a Istanbul dell'ambasciatore russo e l'attentato di Natale al "mercatino" di Berlino.

2.1. Sul primo evento vi riporto anzitutto la selezione delle news che, allo stato, risultano più recenti.
La prima va presa con le pinze, quanto alle ipotesi investigative turche, e per ovvii motivi, ma risulta clamorosa circa quello che lascia trasparire sulla regia che può aver mosso il "killer":
"Ambasciatore russo ad Ankara ucciso da un poliziotto turco...
 Se la matrice terroristica dell'omicidio sembra data per scontata, di non secondaria importanza sarà l'indagine sulla dinamica, sulla preparazione del delitto, sul killer e su come questo sia stato scelto per garantire, in teoria, la sicurezza del diplomatico all'inaugurazione di una mostra fotografica, ritrovandosi in una situazione perfetta per compiere l'attacco. 
Le immagini diffuse da Ankara, ieri, mostrano il giovane - poi il ministero dell'Interno turco ha riferito che si trattava di un agente di polizia, identificato come Mevlüt Mert Altintas, 22 anni - che tiene in mano la pistola con cui ha appena sparato all'ambasciatore russo, ferendolo a morte e che tiene un braccio sollevato, un dito puntato verso il soffitto, mentre urla, agitandosi sulla scena del delitto. 
L'agente avrebbe inveito contro il ruolo della Russia nella crisi umanitaria ad Aleppo, in Siria...il killer dell'ambasciatore Russo cantava inno Al Nusra.
Putin: una provocazione "Dobbiamo sapere chi ha guidato la mano dell'assassino", ha affermato Putin e ha annunciato un rafforzamento della lotta al terrorismo. "I banditi se ne accorgeranno", ha detto il presidente russo citato dall'Interfax. 
Il leader del Cremlino ha denunciato l'attacco come una "provocazione", così come ha fatto Erdogan.
Il Killer era un poliziotto della scorta di Erdogan: Mevlut Mert Altintas, questo il nome dell'assassino, era un poliziotto dei reparti antisommossa e aveva prestato servizio per la scorta del presidente Recep Tayyip Erdogan in due diverse occasioni. 
Sia il presidente turco che altri quadri del partito di governo Akp, infatti, hanno espresso il sospetto che l'omicidio dell'ambasciatore Andrey Karlov possa essere stato ordito dal magnate e imam Gulen, ritenuto la mente del golpe dello scorso 15 luglio, per rovinare le relazioni tra Ankara e Mosca. 
A rendere quest'ipotesi meno plausibile il fatto che Altintas in due diverse occasioni precedenti di fallito golpe ha prestato servizio nella scorta del presidente. Sia a Konya nel 2014 che a Bursa nel febbraio 2015, infatti, Altintas e' stato uno degli addetti alla sicurezza di Erdogan. La polizia sta attualmente indagando nel percorso educativo dell'assassino, per verificare che non abbia frequestato scuole appartenenti a Fetullah Gulen". 

3. Nessuno, dall'esterno e senza disporre di accurate informazioni di intelligence, può dire se Gulen possa essere o meno implicato: tuttavia dall'EIR -Strategic Alert, edizione italiana, n.51-52, cogliamo una notizia-analisi che non può essere ignorata, dato che si propone come antecedente temporale e "intenzionale" straordinariamente prossimo, e obiettivamente correlato, al "clima" dell'evento:
"Il 16 dicembre Obama emetteva quella che LaRouche ha immediatamente definito una minaccia di morte mirata. "Non c'è dubbio che quando un governo straniero cerca di impattare l'integrità delle nostre elezioni, c'è bisogno che intraprendiamo qualche azione. E lo faremo, a tempo e luogo di nostra scelta. Qualcuna sarà esplicita e pubblicizzata; qualcun'altra potrà non esserlo", ha dichiarato Obama.
Quello stesso giorno, durante la webcast del venerdì, Lyndon LaRouche ha commentato: "Quelle parole nella sua bocca sono (.) una minaccia di assassinio contro personalità importanti. Perché questo è ciò che a Obama ha insegnato il suo patrigno ed è il modo in cui Obama ha operato ogni martedi uccidendo persone durante quel periodo" (LaRouche si riferisce alle liste di bersagli umani dei droni, scelta personalmente da Obama).
"Perciò, il punto è che quella è una minaccia di morte e la cosa migliore da fare è dire pubblicamente che le nazioni del pianeta sono ora minacciate dal piano di Obama di uccidere in massa".
La scelta dell'ambasciatore Sergei Karlov non è stata casuale. Il diplomatico russo aveva svolto un ruolo chiave nella normalizzazione delle relazioni tra la Turchia e la Russia che hanno permesso una rapida evoluzione delle operazioni militari in Siria e la liberazione di Aleppo. In una recente conferenza internazionale ad Ankara, intitolata "Approfondire le relazioni Turchia-Russia, Karlov aveva annunciato che "la crisi apertasi dopo l'abbattimento del nostro aereo è stata superata. Siamo tornati a relazioni normali." Il presidente russo Putin, aveva riferito, "non ha mai parlato tanto con qualcuno quanto con Erdogan al telefono".

4. Ora la dichiarazione di Obama, quale che ne sia risultata la conseguenza operativa, muove da una premessa"Non c'è dubbio che quando un governo straniero cerca di impattare l'integrità delle nostre elezioni": il problema è che il dubbio era invece più che lecito e che questa dichiarazione risulti, sul piano delle relazioni internazionali, una delle più accese e clamorose della storia politica degli ultimi decenni.
Sulla "interferenza" russa relativa alle elezioni presidenziali USA, infatti, la stessa fonte EIR appena citata, ci fornisce un quadro riassuntivo delle prevalenti valutazioni degli esperti USA di intelligence che Obama avrebbe oggettivamente bypassato senza esitazioni (tanto più dovute, quanto più la sua investitura come Presidente era al limite temporale estremo che ne poteva giustificare una presa di posizione così impegnativa):   
"VIPS: i segnali indicano "una fuga di notizie, non attacchi di hackerattribuibili"
Le affermazioni della CIA secondo cui "i russi" e il Presidente Putin sarebbero responsabili di attacchi di hacker contro le elezioni americane, sono così assurde che perfino altri enti di intelligence hanno dovuto esprimere le loro riserve. 
Il direttore della National Intelligence James Clapper ha dichiarato che non ci sono prove conclusive del coinvolgimento russo per aiutare Donald Trump, mentre Mike Rogers, direttore della NSA, ritiene che le e-mail divulgate non abbiano avuto effetto sul risultato elettorale, e il direttore della Homeland Security, Jeh Johnson, non ha trovato alcuna prova di sabotaggio informatico delle elezioni stesse.
La più solida confutazione delle accuse della CIA proviene dagli ex professionisti di intelligence, raccolti nell'associazione Veteran Intelligence Professionals for Sanity (VIPS), che ha pubblicato un promemoria il 13 dicembre. Per questi esperti, tutti con grande esperienza in attacchi di cyber-intelligence e questioni di sicurezza, è "un gioco da ragazzi" sfatare le accuse della CIA. Ecco la differenza tra fuga di notizie e hackeraggio:
"Fuga di notizie: quando qualcuno si appropria fisicamente dei dati di un'organizzazione e li dà a un'altra persona o organizzazione, come fecero Edward Snowden e Chelsea Manning".
"Hackeraggio: quando qualcuno in una località elettronicamente lontana penetra sistemi operativi, firewall, o altri sistemi di ciber-protezione ed estrae dei dati".
"Tutte le indicazioni puntano a una fuga di notizie, non ad un hackeraggio. Se ci fosse stato hackeraggio, la National Security Agency lo saprebbe, e lo saprebbero sia il mittente sia il destinatario". 
La "estesa rete di raccolta di dati della NSA"è tale da poter raccogliere tutti i dati dai server del DNC (la direzione del Partito Democratico americano) o di Hillary Clinton. Gli autori poi dànno spiegazioni tecniche sul perché tracce sui trasferimenti dei dati siano disponibili a livello internazionale".
I VIPS aggiungono che le dichiarazioni dei vari portavoce anonimi di enti di intelligence sono "equivoche", in quanto dicono cose come "la nostra migliore ipotesi" o "la nostra opinione" e via dicendo, il che dimostra che non sono in grado di rintracciare la fonte delle e-mail in rete, altrimenti fornirebbero prove "senza alcun pericolo per le fonti e i metodi. Siamo quindi giunti alla conclusione che le e-mail siano state fatte trapelare da qualcuno all'interno".
Il memorandum è firmato dai membri del direttivo dei VIPS William Binney, Mike Gravel, Larry Johnson, Ray McGovern, Elizabeth Murray, e Kirk Wiebe (vedi).
Uno di loro, Mike Gravel, ex senatore dell'Alaska, ha concesso un'intervista al LaRouchePAC il 15 dicembre, nella quale spiega meglio la questione, respingendo le accuse come "ridicole" e "fantasiose". 
Quanto alle rappresaglie contro la Russia minacciate da Obama, Gravel fa notare che il governo americano senza dubbio "compie molte più attività di chiunque altro nel ciber-mondo". La Russia potrebbe essere seconda a distanza, "ma nessuno può starci alla pari in termini di ciò che possiamo fare".

5. Tirare dentro potenze straniere è dunque una conclusione azzardata, quantomeno sul piano delle prove disponibili per l'intelligence (o che questa lascia trapelare).
A meno che non si vogliano accusare i russi di essere in grado di reclutare e pagare una talpa nel DNC e fargli divulgare dati capaci di condizionare in modo decisivo la campagna elettorale: ma nessuno ha reclamato di avere prove di ciò e neppure, allo stato, lo ha ipotizzato. 
Ma la cosa su cui ci si dovrebbe interrogare è questa: gli elettori USA avevano o meno diritto ad avere contezza della rete di relazioni e finanziamenti della Clinton (v. in specie p.3) e delle conseguenti interferenze (lo "special access" a "foreign officials and governments") tra questi finanziamenti e i suoi atti di governo passati e, potenzialmente, futuri? 
E se la risposta fosse positiva, come appare naturale in una democrazia, ancorché "liberale", non sarebbe logico e prudente occuparsi dell'identificazione della "talpa" senza però trasformare, in modo del tutto prematuro, tale evidenza in una valutazione di politica estera così forte e impegnativa?

5.1. Naturalmente, tra i messaggi di condanna dell'assassinio dell'ambasciatore russo pervenuti "da tutto il mondo", c'è anche una nota della Casa Bianca (e ci mancherebbe che fosse mancata): 
"Gli Usa condannano fortemente l'uccisione ad Ankara dell'ambasciatore russo in Turchia, Andrey Karlov, che avrebbe lasciato ferite anche altre persone": lo si legge in una nota della Casa Bianca. "Questo odioso attacco ad un membro del corpo diplomatico è inaccettabile, e noi stiamo con la Russia e con la Turchia nella nostra determinazione di fronteggiare il terrorismo in tutte le sue forme", prosegue la nota, che esprime anche le condoglianze ai famigliari dell'ambasciatore, al popolo e al governo russi".

6. Detto questo, sugli eventi di Berlino, ci pare giusto riportare la più recente dichiarazione rilasciata dalla Merkel, che sembra improntata ad una linea di "insistenza" che, dal punto di vista elettorale, potrà essere bilanciata solo da un atteggiamento sempre più intransigente verso i "paesi debitori", e come tali "impuri", (intransigenza, auto-salvifica e preelettorale, che già si evidenzia nelle dichiarazioni di Schauble sul "Natale che meritano i pensionati greci" e sulla questione bancaria italiana): 
"Sappiamo che la persona che ha compiuto questo attacco aveva chiesto asilo in Germania. Continueremo a dare sostegno alle persone che chiedono di integrarsi". 
Per l'appunto, la Germania (governo-elite e relativa €uro-propaganda) non ha altra scelta che nascondersi dietro la presunta scelta dell'integrazione della manodopera immigrata "industriale di riserva", turbo-deflattiva, e acuire la vulgata anti-PIGS, perché dovendosi scegliere un nemico, è meglio scegliersi quello, vicino e già ben dipinto alle proprie masse urlanti, che dunque "capitalizza" decenni di propaganda, piuttosto che quello che evidenzia tangibilmente all'elettorato le contraddizioni legate alle proprie vere "strategie".

7. Su tale aspetto della questione (cioè un immigrato terrorista non è detto che non serva, mentre...l'asservimento dei pigri e fannulloni mediterranei è sempre un buon bottino da rimpolpare e da offrire al livoroso medio tedesco per rafforzare un consenso pencolante), ribadiamo quanto, mutatis mutandis (di poco) valeva per l'analogo attentato di Nizza:
"...la logica della "accoglienza" indiscriminata (ormai understated in modo strisciante), verrà contraddittoriamente mantenuta proprio per produrre i presupposti :
a) di un mercato del lavoro e di un sistema sociale "equalizzati" rispetto ai paesi di provenienza, considerato indispensabile per la competitività mercantile del sistema che adotta la moneta unica;
b) per un continuo riprodursi, - nel tempo del consolidarsi generazionale di questa presenza di immigrati accompagnata da assenza di mobilità sociale e scontato scontro con gli strati più poveri delle popolazioni locali-,  di nuove leve di giovani esasperati da rifiuto e emarginazione economico-sociale, che determinino, in un calcolo cinico, proprio quei problemi di sicurezza pubblica che, divengono una sorta di guerra civile permanente. 
ADDENDUM: una guerra civile strisciante e a tempo indeterminato cristallizza, al più alto livello di efficacia, il sub-conflitto sezionale che consente la stabile realizzazione del progetto delle elites globalizzatrici (come ben focalizza Rodrik, p.4: Inoltre, le elites possono ben preferire - e ne hanno l'attitudine- di dividere e comandare...giocando a porre un segmento di non elite contro l'altro);
c) per portare a livello di stabilità istituzionalizzata lo stato di eccezione che consegue a tale guerra civile permanente, in modo che, analogamente a quanto avvenne in Italia ai tempi della strategia della tensione, sia resa incontestabile la prosecuzione delle politiche economico-sociale attuali; l'idea della "israelizzazione" delle ex-democrazie sociali sottintende di raccogliere il consenso intorno a una "Autorità" salvifica e "protettiva", che possa rivendicare la sua legittimazione in termini polizieschi e di militarizzazione, anche esterna e in funzione di spesa "keynesiana", di ogni residua funzione dello Stato. O del super-Stato €uropeo...

8. Rimane,  salvo un doveroso esame più accurato, lo sfondo del piano di salvataggio bancario annunciato da Padoan:
"Il cdm ha approvato la relazione al parlamento che autorizza il governo a ricorrere ad un "indebitamento" per 20 miliardi. Così il premier Paolo Gentiloni precisando che si tratta di una misura precauzionale. "Consideriamo nostro dovere varare questo intervento salvarisparmio. Mi auguro che questa responsabilità venga condivisa da tutte le forze in Parlamento a partire da domani. Il Governo si è mosso in questa direzione. Mi auguro che ci sia la convergenza più ampia possibile in Parlamento".
"Ove attivata - ha aggiunto Padoan - questa azione salvarisparmio ha un impatto sul debito. Questo impatto va considerato una misura di natura temporanea, che non impatta sulla grandezza di natura strutturale. Ove attivate queste risorse, le modalità di rientro del debito verrebbero dettagliate e certificate nel Documento di Economia e Finanza relativo al periodo in questione. Queste risorse avrebbero un impatto nel 2017".
Sulla posizione della Germania che deplora l'eventuale aiuto pubblico, Padoan ha replicato: "Non si possono commentare atti ipotetici". "In generale il criterio di ricapitalizzazione a scopo precauzionale va sostenuto da interventi che rispettino la normativa Ue, ma andrà verificato caso per caso".

8.1. L'insieme di queste dichiarazioni porterebbe ad un'analisi su una pluralità di questioni, alcune di evidenza assoluta, che verrà opportunamente svolta in un'altra sede; per problemi di spazio.

Magari, anche, per riprendere la connessione di questa "svolta", effettivamente un po' pesantuccia, con la rottura, più rapida di ogni possibile previsione, della tregua di (apparente) understatement filo-€uropeista che pareva contrassegnare l'atmosfera prenatalizia del post referendum.
Per ora, mi limito a riportarvi due commenti arguti che evidenziano il risvolto germanico di tale ritorno brutale alla realtà (fiscale, cioè alla "copertura" in pareggio di bilancio) di questa iniziativa di governo:

Padoan ha appena twittato che devo garantire con i miei soldi le banche che non mi volevano dare il mutuo per non rischiare i loro soldi. Ok
— massimo mantellini (@mante) 19 dicembre 2016



Hai capito?! Gli economisti tedeschi...#cheriderehttps://t.co/3UJQouPJEk
— Wendell Gee (@WendellGee1985) 19 dicembre 2016
Cioè

Economisti tedeschi contrari a #Italia fuori da #Eurozona: da sondaggio Faz-Ifo largo margine (61%) contro uscita Roma #Germaniapic.twitter.com/Cyqn1MNpvI
— Class CNBC (@classcnbc) 19 dicembre 2016

Non so perché, ma si punta ad esagerare contro ogni logica (dettata dal segnale dato dal referendum), facendo solo leva sulla copertura mediatica, filo€uropeista e sprezzante di ogni evidenza fattuale, che dà per scontata l'incapacità collettiva di tutti gli italiani di comprendere le conseguenze - se non altro per le proprie tasche già piuttosto svuotate- dell'ostinazione politica a sottomettersi a ogni assurdità, contraria all'interesse "della Nazione", che ci impone l'adesione alla moneta unica.
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PROFILI DI NULLITA' DELL'AUTORIZZAZIONE ALL'OMBRELLO PRECAUZIONALE "BANCARIO". ATTRIBUZIONI DELLA COMMISSIONE O RIVENDICAZIONE DI SOVRANITA'?

December 22, 2016, 5:26 am
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1. Vi riporto il testo dell'art.6 della legge 24 dicembre 2012, in base al quale è stata ieri approvata, dal parlamento, la relazione del governo relativa alla "autorizzazione" allo scostamento "temporaneo" del saldo strutturale (id est; deficit strutturale) dall'obiettivo programmatico: uno scostamento giustificato come intervento di sostegno precauzionaleper la stabilità finanziaria e per il rafforzamento patrimoniale del sistema bancario nazionale, con la prospettiva di possibili interventi sia di garanzia dello Stato delle passività delle banche italiane sia di ricapitalizzazione pubblica delle medesime (secondo l'espressa dizione schematizzata nella sezione ("finalità del provvedimento e piano di rientro").

1.1. Ho aggiunto in neretto l'enfasi sulle previsioni più acutamente problematiche dell'autorizzazione ormai, a quanto pare, rilasciata:
Art. 6
Eventi eccezionali e scostamenti dall'obiettivo programmatico strutturale.
In vigore dal 30 gennaio 2013.

1. Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 8, scostamenti temporanei del saldo strutturale dall'obiettivo programmatico sono consentiti esclusivamente in caso di eventi eccezionali.
2. Ai fini della presente legge, per eventi eccezionali, da individuare in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, si intendono:
a) periodi di grave recessione economica relativi anche all'area dell'euro o all'intera Unione europea;
b) eventi straordinari, al di fuori del controllo dello Stato, ivi incluse le gravi crisi finanziarie nonché le gravi calamità naturali, con rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria generale del Paese.
3. Il Governo, qualora, al fine di fronteggiare gli eventi di cui al comma 2, ritenga indispensabile discostarsi temporaneamente dall'obiettivo programmatico, sentita la Commissione europea, presenta alle Camere, per le conseguenti deliberazioni parlamentari, una relazione con cui aggiorna gli obiettivi programmatici di finanza pubblica, nonché una specifica richiesta di autorizzazioneche indichi la misura e la durata dello scostamento, stabilisca le finalità alle quali destinare le risorse disponibili in conseguenza dello stesso e definisca il piano di rientroverso l'obiettivo programmatico, commisurandone la durata alla gravità degli eventi di cui al comma 2.Il piano di rientro è attuato a decorrere dall'esercizio successivo a quelli per i quali è autorizzato lo scostamento per gli eventi di cui al comma 2, tenendo conto dell'andamento del ciclo economico. La deliberazionecon la quale ciascuna Camera autorizza lo scostamento e approva il piano di rientro è adottata a maggioranza assolutadei rispettivi componenti.
4. Le risorse eventualmente reperite sul mercato ai sensi del comma 3 possono essere
utilizzate esclusivamente per le finalità indicate nella richiesta di cui al medesimo comma.
5. Il piano di rientro può essere aggiornato con le modalità di cui al comma 3 al verificarsi di ulteriori eventi eccezionali ovvero qualora, in relazione all'andamento del ciclo economico, il Governo intenda apportarvi modifiche.
6. Le procedure di cui al comma 3 si applicano altresì qualora il Governo intenda ricorrere all'indebitamentoper realizzare operazioni relative alle partite finanziarie al fine di fronteggiare gli eventi straordinari di cui al comma 2, lettera b).

2. Il testo della "relazione" governativa con richiesta di autorizzazione è, per esteso, rinvenibile a questo link della camera dei deputati. 
La "cronaca" di ciò che è avvenuto in sede di approvazione della relazione, fatta proprio dalla maggioranza parlamentare con l'aggiunta del gruppo di Forza Italia e "Ala", è riportata qui (tratta, a titolo paradigmatico, dal FQ). 
Si noti che il mercoledì, giorno delle votazioni separate ma consecutive di entrambe le camere, in barba alla mancata riforma costituzionale monocameralista (dichiaratamente) "imperfetta", sì è registrata la consueta eccezionale rapidità di ratifica delle decisioni assunte dal governo: secondo quella formula che viene definita "governabilità" e che chiude in partenza, nella sede parlamentare, ogni minimo dibattito approfondito sul "merito" dei provvedimenti proposti. 
Così come, s'è visto, avviene regolarmente, da decenni, per le leggi di ratifica dei trattati europei, com'è avvenuto per il pareggio di bilancio, votato con maggioranza dei 2/3 ai fini della revisione costituzionale (v. p.2) prima ancora della formale ratifica del trattato intergovernativo relativo al "fiscal compact"!

3. Si vota "a scatola chiusa" ( e persino si dichiara, nel farlo, "senso di responsabilità") e poi, semmai, di fronte agli effetti dei provvedimenti deliberati in fretta e in furia, - mediaticamente sbandierati come efficienti, sempre corrispondenti a "stati di eccezione", continui e incontestabili, invariabilmente collegati "a monte" a qualche disciplina vincolante di fonte €uropea-, si fanno, negli anni successivi, delle contraddittorie e parziali "prese di distanza"...
E questo sebbene, - o meglio: in perfetta coerenza con tale trend della governance economico-fiscale italiana, ormai delimitata ad applicare regole strettamente predeterminate dalle fonti UEM-, il voto sia stato preceduto, alla Camera, "dalle replichedel ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan in merito alla relazione di martedì, che sono state rivolte a un’aula semideserta, vista la presenza di solo una quarantina di deputati".

4. Non dovrebbe quindi sfuggire, all'elettore italiano che ha subito l'impoverimento sistematico determinato dallo stato di eccezione, €urodichiarato a partire (almeno) dal 2007, - quando Padoa-Schioppa già dichiarava l'obiettivo di raggiungere entro un biennio il pareggio di bilancio, considerando tale obiettivo come "un'ipotesi espansiva"(!)-, quanto ciò possa valere, in termini di cosciente deliberazione del parlamento, per di più adottata a "maggioranza assoluta dei rispettivi componenti". 
Una maggioranza rafforzata richiesta, da una legge specificativa di un obbligo derivante dal fiscal compact, per il rilascio dell'autorizzazione a operazioni finanziarie pubbliche che determinano un maggior fabbisogno, cioè lo sforamento del tetto programmatico del deficit, e l'aumento del debito pubblico.
E dunque si tratta di un provvedimento ("autorizzazione") dall'enorme impatto sulle politiche e manovre fiscali dei prossimi anni.

5. Ma il problema (democratico e di "merito") dell'assenza di un qualsiasi serio dibattito parlamentare scaturisce dal raffronto tra la norma applicata e il contenuto della relazione in base a cui s'è rilasciata l'autorizzazione.
Svolgiamo alcune sintetiche osservazioni sui punti più eclatanti (che si assommano all'aula semideserta in sede di pseudo-dibattito preliminare):

5a) presupposto legale dell'autorizzazione era il presentarsi di "eventi eccezionali". 
Per "evento" si intende, secondo elementari principi giuridici, un fatto-effetto finale, già manifestatosi nella realtà materiale, come conseguenza di una serie di antefatti, altrettanto evidenti e connotati da una oggettiva gravità, manifesta a qualunque soggetto, in base alla normale conoscenza della realtà (c.d. fatto notorio, come oggetto di una "scienza" del fatto non tecnica ma improntata al "senso comune").
Ma il governo, nella sua relazione, esclude che si sia in presenza di un tale fatto-evento.Viene invece espressamente affermata una cosa diversa: le perdite del sistema bancario sono dette "solo ipotetiche" e si propone una interpretazione "curiosa" del concetto legale di "eventi straordinari, al di fuori del controllo dello Stato, ivi incluse le gravi crisi finanziarie..."(art.6, cit, comma 2, lettera b)). 
Si dice infatti, nella Relazione, che possa anche trattarsi di 
"casi che si riferiscono a una situazione non già materializzata, ma a una previsione dell'impatto sulla banca di uno scenario in cui si verifichino determinate condizioni macroeconomiche".
"Condizioni macroeconomiche"? Proposte come "previsioni"ipotetiche e future e, dunque, non relative a "eventi straordinari" in corso come richiesto dalla norma? 
E poi: quali "specifiche" condizioni macroeconomiche? E, soprattutto, in conseguenza di quali meccanismi (che non siano la mera applicazione delle regole dell'Unione bancaria innestata sulle politiche economico-fiscali dettate dallo stesso fiscal compact, poste sinergicamente alla base delle insolvenze diffuse nell'economia reale)?  
Curiosamente, non una parola viene detta in parlamento sulla evidente contraddizione di questa interpretazione rispetto alla lettera ed alla ratio della norma.

5b)  Ed infatti, l'assenza di queste indicazioni nella relazione, conduce ad una seconda evidente violazione dell'art.6 e della disciplina del procedimento di "autorizzazione": non solo vengono, già in prospettazione, esclusi degli "eventi straordinari""già materializzati",ma la relazione avrebbe dovuto essere "specifica", cioè giustificare e dettagliare questi NON ipotetici eventi: lo dice chiaramente il comma 3 dell'art.6 sopra riportato;

5c) la Relazione, (e la conseguente approvazione parlamentare), poi, difetta di un presupposto che non può che considerarsi essenziale: gli "eventi", non ipotetici, sono fronteggiabili con questo strumento di eccezionale "sforamento" del fabbisogno-deficit "sentita la Commissione europea": in altri termini, occorre il suo PREVIO, e non successivo parere; da considerarsi vincolante, poichè si tratta di operare uno "scostamento "temporaneo" del saldo strutturale (id est; deficit strutturale) dall'obiettivo programmatico" che, a sua volta, deve essere già oggetto di un'approvazione della Commissione stessa. 
E tutto questo, in base alle regole del c.d. two-pack (recentemente persino rese più stringenti, con lo European Fiscal Board, in termini di potere approvativo della Commissione UE in sede di sorveglianza di bilancio sui singoli Stati dell'eurozona).
La Commissione, dunque, non pare essere stata previamente sentita; altrimenti la Relazione avrebbe menzionato uno specifico atto di assenso o di approvazione, e, logicamente, tale atto della Commissione avrebbe  dovuto essere allegato alla Relazione governativa, per una corretta approvazione parlamentare.

5d) Quanto appena detto non è affatto un particolare secondario: esso si collega con un altro requisito che deve, per l'art.6, caratterizzare la obbligatoria "specificità" della richiesta di autorizzazione al Parlamento: la definizione di un "piano di rientro". 
Questa "definizione" deve essere logicamente contestuale all'approvazione, altrimenti la deliberazione delle camere sarebbe priva di una completa conoscenza dei presupposti e degli effetti della propria "autorizzazione" che perde, in tal modo, ogni valore di completa e cosciente formazione della volontà deliberativa. 
La stessa "consultazione" preventiva della Commissione, a sua volta, non potrebbe avere il suo dovuto oggetto specifico, (e cioè legalmente determinato, nelle forme dettate dalla legge nazionale e dalla disciplina UEM sulla sorveglianza di bilancio), in assenza della chiara delineazione di un piano di rientro, delle sue misure fiscali e dei tempi della loro realizzazione.

5e) D'altra parte, venuta a mancare la "già" avvenuta verificazione di eventi straordinari con carattere di attualità, posto che la Relazione espliticamente parla di "eventi ipotetici" e di ipotesi che (forse) si verifichino determinate (ma assolutamente imprecisate) "condizioni macroeconomiche", non era possibile sottoporre al Parlamento e né, ancor prima, alla Commissione UE, un piano di rientro la cui "durata" fosse "commisurata" alla "gravità degli eventi" (prospettati come ipotetici e di cui, perciò, non è proprio possibile valutare in ipotesi, secondo la Relazione, la stessa "gravità").

6. L'insieme di queste violazioni della legge invocata, cioè la mancanza di atti presupposti e di contenuti minimi essenziali, possono far ritenere che l'autorizzazione rilasciata dalla camera sia affetta dal vizio della "nullità", cioè dalla carenza di elementi essenziali della procedura e dell'atto finale, tali che esso non potrebbe produrre l'effetto tipico per cui è dalla stessa legge predisposto.
Siamo infatti di fronte a un'atipica competenza delle due Camere: questa "autorizzazione" ha natura non di voto su una proposta o un disegno di legge e non porta all'emanazione di norme c.d. primarie (cioè fonti legislative). 
Si tratta di un effetto abilitativo delle future potestà di proposta normativa del governo, presumibilmente attivate con un decreto-legge (anche su questa prospettiva la Relazione tace), che a sua volta dovrà indicare le proprie fonti di copertura finanziaria; che però dovrebbero essere conseguenziali al quadro delineato dal "piano di rientro" oggetto dell'autorizzazione parlamentare presupposto di tale futura attività normativa.

7. Insomma, in termini giuridici, si tratta di una funzione amministrativa, autorizzatoria, spostata, in ragione del suo oggetto (scostamento dagli obiettivi programmati di fabbisogno-deficit, e resi impegnativi verso l'UEM con la loro approvazione da parte della Commissione, non previamente "sentita"), al livello di organi legislativi e di indirizzo politico.
Ma anche per tale "funzione amministrativa", accuratamente procedimentalizzata, sia pure atipica circa il livello del soggetto decidente, vale il principio generale posto dall'art.21 septies della legge sul procedimento n.241/1990: 
"Art. 21 -septies. (Nullità del provvedimento) 1. È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge".

7.1. Tale disposizione non è ad applicazione delimitabile ai soli procedimenti amministrativi strettamente ascrivibili alla sfera dell'apparato esecutivo-amministrativo: essa è essenzialmente ricognitiva di un pacifico principio generale del diritto nazionale. 
A meno che non si considerino:
a) l'espressa esclusione di un'oggettiva ricognizione del presupposto (attuale) di un "evento straordinario";
b) la mancata "audizione"della Commissione UE (in funzione autorizzatoria preventiva, in base all'ovvio principio del contrarius actus o comunque della unitarietà del suo potere autorizzativo, ordinario e derogatorio);
c) l'indeterminatezza assoluta dell'oggetto autorizzato per conseguente assenza della precisazione di un "piano di rientro" (e della sua durata e modalità);
d) la non "specificità" della richiesta governativa;
delle mere carenze "non vizianti" della fattispecie autorizzatoria e non il difetto dei suoi elementi essenziali (che non si capirebbe quali allora possano essere, in base alla previsione normativa).

E, inoltre, a meno che non si consideri che il ruolo presupposto della Commissione, dettato dalla sua chiara attribuzione legale (per trattato e per previsione dello stesso art.6), alla vigilanza approvativa del quadro di bilancio fiscale degli stati appartenenti all'eurozona, sia indifferente rispetto alla stessa attualità e operatività dell'attribuzione (a chiedere l'autorizzazione) propria del governo.
Si potrebbe cioè dubitare che l'attribuzione stessa sia giuridicamente attuale e operativa, configurandosi un'ulteriore ipotesi di nullità dell'autorizzazione parlamentare.

8. Ma, in conclusione, volendo deragliare da questo quadro di legalità, europea e nazionale, la richiesta del governo e l'autorizzazione delle camere, potrebbero essere assunte come una rivendicazione di sovranità nazionale, legittimamente richiamabile a condizione che si invocasse la fonte costituzionale della stessa, come prevalente sul diritto "europeo" (in particolare l'art.47 Cost.), che si intende applicare e che viene richiamato dalla stessa relazione.

8.1. Ed allora è contraddittorio, se non addirittura "ossimorico", procedere, senza aver sentito la Commissione (!), richiedere l'autorizzazione "autocertificando", - cioè al di fuori di un pronunciamento di competenza della Commissione-, che la richiesta sia "in linea con quanto previsto dalla direttiva 2014/59/UE e dalla Comunicazione della Commissione europea relativa all'applicazione dal 1° gennaio 2013 delle norme in materia di aiuti di Stato alle misure di sostegno alle banche nel contesto della crisi finanziaria (c.d. Banking Communication)".
Come abbiamo visto, non solo questo "essere in linea"è altamente problematico, alla luce delle posizioni già manifestate dalla Corte UE e dalla Commissaria alla concorrenza Vestager, ma, (con assoluta certezza in ordine alle "attribuzioni"), fare una simile valutazione di osservanza del diritto europeo spetta solo a tali organi e istituzioni UE-M.

8.2. Tutto questo risulta certamente atipico e oggettivamente "improcedurale", e c'è da temere fortemente che la Commissione possa intervenire a sanzionare i provvedimenti assunti in attuazione di tale "autorizzazione".
E questo in aggiunta alla correzione dei conti pubblici, e quindi dello stesso fabbisogno strutturale programmato, che, come abbiamo visto, la Commissione ritiene già non rispettato quanto al saldo ed alla sua idonea copertura, per il 2017, (quindi a prescindere da questo ulteriore intervento di "sforamento"), e in conseguenza del quale, sempre autonomamente dalla crisi bancaria, la Commissione stessa si accinge (qui. p.4) a chiedere, entro la fine di marzo, "misure" correttive per circa 15-16 miliardi di euro.
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IL GELIDO NATALE DELLA SOVRANITA'

December 24, 2016, 7:40 am
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Il gelido inverno e le rivoluzioni...e Parigi nel suo Natale ghiacciato
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1. Siamo alla vigilia di Natale. 
Per la forza dei ricordi che (prevalentemente, non sempre), accumuliamo da bambini, ciò dovrebbe portarci a un momento di ricerca di serenità che, un po' episodicamente (a dirla tutta), si raggingerebbe nel cercare di far (un po') felici le persone più vicine e, volendo abbondare, il nostro prossimo.
Date queste circostanze, quindi, eviterò, almeno oggi, di approfondire il "groviglio" economico-finanziario e istituzionale che sta nascendo, non a caso, e comunque in modo paradigmatico (di un modus procedendi "sistemico"), intorno alla questione della ricapitalizzazione di Stato di MPS.

1.1. Quello che posso anticipare, - e qui mi fermo- è che la questione MPS vede l'intreccio di tre aspetti di simultanea e concomitante de-sovranizzazione del nostro Paese:
a) quello relativo all'aspetto fiscale, per cui si intrecceranno, nel corso del 2017, la questione della "correzione dei conti" relativa ai saldi strutturali del pubblico bilancio della nostra ultima legge di "stabilità", non approvati allo stato dalla Commissione UE, (onde, mai come quest'anno, in chiave €uropeista, la legge di stabilità risulta piuttosto "instabile") e il "piano di rientro" conseguente al concreto sforamento del fabbisogno (deficit) autorizzato con la strna procedura di cui abbiamo parlato nel precedente post;
b) quello relativo alla praticabilità, secondo la disciplina €uropea, di un intervento statale di ricapitalizzazione e, sottolineiamolo, di sostanziale "nazionalizzazione" con conseguente gestione pubblica del problema, ineludibile, dei "non performing loans" (prospettiva che, anch'essa, si preannuncia potenzialmente paradigmatica e sistemica);
c) quello, infine, relativo all'intrecciata questione della legittimità degli "aiuti di Stato", e quindi sotto il (paradossale) profilo della concorrenza, dello stesso pubblico intervento.

2. Come, da un tale intreccio asfissiante, ne uscirà la facciata residua della nostra sovranità, è l'interrogativo dominante che pone il 2017; frattalico alquanto, si può dire. 
Rammentiamo che, secondo una lettura della nostra Costituzione rapportata alla più autorevole dottrina:
"il concetto di sovranità viene a designare il modo di essere proprio del potere statale e, se si tiene conto della duplice direzione verso cui esso assume rilievo, risulta contrassegnato, sotto un aspetto, dalla indipendenza dello Stato di fronte ad altri ordinamenti esterni al suo territorio, e, sotto un altro, dalla supremazia che ad esso compete di fronte ai singoli e alle comunità esistenti all'interno del territorio stesso".
Dunque:
"La potestà sovrana, necessaria a qualunque ente politico per il conseguimento del fine suo proprio di assicurare la pacifica coesistenza degli interessi vari, ed a volte contrastanti fra loro, che siano considerati bisognevoli di tutela, si estrinseca in con diversa intensità ed estensione...
Qualsiasi ente che si proclami sovrano riesce ad esserlo nei limiti che, da una parte, risultano imposti dalle situazioni di fatto, e, dall'altra, appaiono richiesti dalla stessa ragion d'essere del potere sovrano, che, mirando a realizzare un ordine in una società, non può non organizzarsi ed operare in modo ordinato, sottoporsi cioè ad una disciplina che...non cessa di essere giuridica pel fatto che provenga dallo stesso potere che vi si assoggetta". 
E tutto questo, nei termini della nostra Costituzione, ci porta a rammentare che:
"Laddove, quindi, si afferma il principio di eguaglianza sostanziale, lo Stato, e lo strumento della sovranità, assumono altri fini e altre funzioni, che ne implicano un intervento attivo a favore di tutti i gruppi e le classi sociali; la sovranità è così volta, nella sua accezione interna, alla risoluzione effettiva del conflitto sociale, ammettendosene normativamente, al massimo livello giuridico, l'esistenza e la priorità rispetto al fine di "assicurare la pacifica coesistenza" di un numero il più possibile allargato di "interessi
Questa mutevole "ragion d'essere"(o causa) del potere sovrano, fa sì che anche nei rapporti esterni propri della sovranità, instaurati con qualsiasi altra "entità", il suo contenuto e i suoi fini caratterizzino diverse modalità dei rapporti (di diritto internazionale). 
Perciò, i fini e le funzioni costituzionali (la concreta "ragion d'essere") di ciascun Stato, assumono una rilevanza tale che, in ragione di essi, quando si parla di riaffermazione della sovranità"esterna" (in tutti i casi "originaria" e "superiorem non recognoscens"), non si implica necessariamente di avere gli stessi obiettivi e gli stessi valori di riferimento rispetto a paesi che, nelle rispettive Costituzioni, abbiano strumentalizzato la sovranità ad una diversa e più ampia sfera di interessi da tutelare". 

3. Abbiamo parlato di assicurazione della pacifica coesistenza degli interessi compositi dell'intera società (fine e giustificazione della sovranità di uno Stato democratico sociale e non "liberale", qual è il nostro) e ci riallacciamo al Natale-inverno che precedette la rivoluzione francese. 
Siamo dunque nell'inverno nel periodo natalizio tra il 1788 e il 1789 (traggo dall'ottimo libro di Hillary Mantel "La storia segreta della rivoluzione", pag.219 e ss.). Da taluni definito il "più crudo del secolo" e considerato come una delle concause della successiva rivoluzione.
Sentite quanto certi meccanismi, come conseguenza della privazione della sovranità monetaria e fiscale dello Stato nonchè della ricerca del "pareggio di bilancio" ad ogni costo, - e sottolineo come conseguenza di questi "virtuosi" principi vincolanti- tendano a ripresentarsi nella Storia. 
L'antefatto è quello del (tentato) risanamento delle casse dello Stato francese, provate dall'appoggio dato alla rivoluzione americana finanziando, in regime di gold standard, un conflitto globale, con truppe e flotta dispiegati in vari continenti.

4. E dunque, già nell'estate del 1788 (pag. 212, op. cit.): 
"Necker, appena insediato, iniziò a negoziare un prestito all'estero. Il prezzo del pane aumenterà di 2 lire tornesi...", e iniziano le prime rivolte a Parigi:
"Anno nuovo. Uscendo per strada si pensa ecco, ci siamo, siamo alla bancarotta, al crollo, alla fine del mondo...
I diseredati [sostanzialmente immigrati affluiti in massa dalle campagne, ndQ.] sono coloro che hanno lasciato le grotte, che hanno abbandonato i campi pietrosi ricoperti di neve dove non credono che crescerà più niente...
Quelli che raggiungono Parigi [da vivi, dopo un cammino di gelide sofferenze, che eliminano fisicamente donne anziane e bambini, ndQ.] ancora in forze si mettono a cercare lavoro.
"Lasciano a casa i nostri operai" viene detto loro, "la nostra gente"; per quelli di fuori non c'è niente da fare....
I nuovi venuti si radunano in luoghi riparati ma non discutono la situazione perché non c'è nulla da discutere. All'inizio di aggirano intorno ai mercati nel tardo pomeriggio; alla chiusura, quando il pane rimasto viene venduto a poco prezzo o dato via; le prime ad arrivare sono le ruvide mogli parigine. Qualche tempo dopo il pane finisce appena passato mezzogiorno. Ai nuovi arrivati viene detto che il buon duca di Orleans regala mille pagnotte a chi è senza un soldo. I mendicanti di Parigi, però, li lasciano un'altra volta a bocca asciutta: pelli indurite e gomiti acuminati, sono disposti a dar loro informazioni false e a calpestare quelli che rimangono a terra...
Perfino i ricchi restano turbati: dare l'elemosina non sembra abbastanza; sulle vie alla moda giacciono dei cadaveri congelati. Quando scendono dalle carrozze, si tirano il mantello sul viso per riparare le gote dal freddo pungente e gli occhi dal miserabile spettacolo".
5. Ma c'è un aspetto ulteriore che va considerato: l'atteggiamento della classe intellettuale, in gran parte appartenente alla media borghesia dedita alle professioni liberali ("Il Terzo Stato"), e con l'aggiunta di vari esponenti più "impoveriti" della nobiltà (o colpiti da censura per vari intrighi politici di corte). C'è qualcosa di intensamente ambiguo e contraddittorio nelle pulsioni che contraddistinguono questo versante del malcontento (ce si rivelerà successivamente decisivo).
Louis Marie Stanislas Fréron, - un giornalista che si rivelerà un acuto rivoluzionario, ma anche un successivo fiero oppositore di Robespierre-, in un "salotto" tenuto a casa di D'Anton, fa questa analisi (pagg.199-200, op.cit.):
"Le idee che vent'anni fa erano considerate pericolose adesso sono luoghi comuni del dibattito istituzionale - ma ciononostante ogni inverno c'è gente che muore di fame. E noi, a nostra volta, militiamo contro l'ordine esistente soltanto perché non siamo riusciti a fare la scalata sui suoi sordidi pioli. Se Fabre [Fabre d'Églantine, commediografo e  romanziere, piuttosto incline a fare della rivoluzione una vicenda di affarismo personale, fino alla...ghigliottina comminatagli, insieme allo stesso D'Anton, durante il "terrore" robespierrano, ndQ.], ad esempio, venisse eletto, domani, all'Accademia, vedreste in quattro e quattr'otto la sua brama rivoluzionaria trasformarsi nel conformismo più zuccheroso e disinvolto".
Questo era il "sentimento" diffuso nei vari strati sociali nel Natale del 1788.
Tanti dettagli che ci ricordano il presente: certo, mutatis mutandis, e frattalicamente, beninteso.

Un caro augurio di Buon Natale a tutti i lettori! 
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MPS: CRONACA DEL SUICIDIO €URO-ANNUNCIATO DEL SISTEMA BANCARIO ED ECONOMICO ITALIANO (supply side pro-investitori esteri).

December 26, 2016, 7:42 am
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https://pbs.twimg.com/media/C0opcnGWQAA7eeC.jpg:large

1. Dopo l'approvazione della (problematica) "Relazione" sull'autorizzazione parlamentare al governo a creare un fondo "precauzionale" di intervento dello Stato, per la ricapitalizzazione nonché, in varie altre forme, per il salvataggio dei sistema bancario, arriva il primo di una potenziale serie (implicitamente annunciata dall'approvazione del "fondo" che è stato quantificato "rebus sic" ipotizzate "prudenzialmente") di decreti-legge salva banche. 
Tale decreto, già firmato dal Presidente della Repubblica, avrà questi contenuti di massima:

"Decreto salva banche: ecco come il governo salverà Mps e le altre banche 

Ma quali sono le misure contenute nel decreto salva banche? In buona sostanza il governo intende stanziare 17-18 miliardi per le ricapitalizzazioni precauzionali delle banche in difficoltà. 

Tale ricapitalizzazione potrebbe far scattare la conversione forzata delle obbligazioni subordinate in azioni, le quali si vedrebbero però riconoscere un valore inferiore. Inoltre il Salvarisparmio potrebbe contenere delle forme di “ristoro” per quei piccoli risparmiatori che hanno acquistato questi titoli senza un adeguato profilo di rischio.

I restanti 2 miliardi servirebbero infine per coprire le garanzie sulle emissioni di liquidità per 80 miliardi già autorizzate dalla Commissione europea.
Il decreto contiene anche altri interventi, come il correttivo sulle Dta (ndr; ai sensi del p.47 della Comunicazione di cui infra, cioè relativo alla preventiva delimitazione di cash-flow dalla banca "aiutata", in forma di emolumenti agli amministratori, dividendi, cedole sulle "privilegiate, o operazioni "call" sulle stesse, o aumenti gratuiti di capitale o riacquisto delle proprie azioni), le regole per la contribuzione al Fondo di risoluzione da parte delle banche (ndr; con la previsione di agevolazioni fiscali agli istituti bancari contribuenti) e una soluzione temporanea per la riforma delle popolari dopo lo stop del Consiglio di Stato".

2. La cornice "teorica" delle disciplina che il decreto deve obbligatoriamente rispettare è quella prevista dai seguenti punti della Comunicazione del 2013, Communication from the Commission on the application, from 1 August 2013, of State aid rules to support measures in favour of banks in the context of the financial crisis (‘Banking Communication’ (la traduzione è, o dovrebbe essere, intuitiva, per chi, come la maggior parte dei risparmiatori italiani, ha dovuto familiarizzare in via mediatica con la relativa terminologia; ho enfatizzato in neretto le parti più "incerte" nell'applicazione fattane dal decreto in commento):
3.1.2.   Burden-sharing by the shareholders and the subordinated creditors
40.
State support can create moral hazard and undermine market discipline. To reduce moral hazard, aid should only be granted on terms which involve adequate burden-sharing by existing investors.
41.
Adequate burden-sharing will normally entail, after losses are first absorbed by equity, contributions by hybrid capital holders and subordinated debt holders. Hybrid capital and subordinated debt holders must contribute to reducing the capital shortfall to the maximum extent. Such contributions can take the form of either a conversion into Common Equity Tier 1 (16) or a write-down of the principal of the instruments. In any case, cash outflows from the beneficiary to the holders of such securities must be prevented to the extent legally possible.
42.
The Commission will not require contribution from senior debt holders (in particular from insured deposits, uninsured deposits, bonds and all other senior debt) as a mandatory component of burden-sharing under State aid rules whether by conversion into capital or by write-down of the instruments.
43.
Where the capital ratio of the bank that has the identified capital shortfall remains above the EU regulatory minimum, the bank should normally be able to restore the capital position on its own, in particular through capital raising measures as set out in point 35. If there are no otherpossibilities, including any other supervisory action such as early intervention measures or other remedial actions to overcome the shortfall as confirmed by the competent supervisory or resolution authority, then subordinated debt must be converted into equity, in principle beforeState aid is granted.
44.
In cases where the bank no longer meets the minimum regulatory capital requirements, subordinated debt must be converted or written down, in principle before State aid is granted. State aid must not be granted before equity, hybrid capital and subordinated debt have fully contributed to offset any losses.
45.
An exception to the requirements in points 43 and 44 can be made where implementing such measures would endanger financial stability or lead to disproportionate results. This exception could cover cases where the aid amount to be received is small in comparison to the bank's risk weighted assets and the capital shortfall has been reduced significantly in particular through capital raising measures as set out in point 35. Disproportionate results or a risk to financial stability could also be addressed by reconsidering the sequencing of measures to address the capital shortfall.
46.
In the context of implementing points 43 and 44, the ‘no creditor worse off principle’ (17) should be adhered to. Thus, subordinated creditors should not receive less in economic terms than what their instrument would have been worth if no State aid were to be granted.

3. La sintesi, per chi non riuscisse a venirne a capo nella versione in inglese, è che lo Stato possa intervenire, se la "ratio" di capitale (nel caso MPS riconducibile al p.44, cioè andata sotto il minimo regolatorio €uropeo dei requisiti di capitalizzazione) sia il problema "essenziale" emergente, secondo gli stress test e/o le istruttorie mirate dell'autorità bancaria €uropea, e quindi, in quanto, come prospettato dalle autorità italiane (sicuramente in sede di richiesta di autorizzazione parlamentare), non ci sia un problema di "solvibilità" così ampio da portare a un'insolvenza irrisolvibile e irreversibile, la cui risoluzione è affidata invece al meccanismo "finale" del bail-in.
ADDENDUM: è peraltro da aggiungere che, allo stato attuale, la BCE rinvenirebbe l'ipotesi di shortfall di capitale sotto i requisiti minimi di capitalizzazione "solo nello scenario avverso", risultando altrimenti la banca "solvente" (...), e, peraltro, quantificando l'esigenza/fabbisogno di ricapitalizzazione in 8,8 miliardi. Insomma, una sorta di via intermedia tra quella del punto 43 e del punto 44 della "Comunicazione" (una valutazione, per la verità poco  incomprensibile, dati i dati complessivi forniti dalle due lettere della stessa BCE). Questo almeno stando al comunicato dello stesso MPS (il cui testo completo è nell'immagine a introduzione del post):

 

3.1. In ogni caso, lo Stato può ricorrere a questa tipologia di intervento a condizione di aver prima coinvolto nella riduzione delle passività gli azionisti (che sono comunque assimilabili a creditori, dato che il capitale costituisce una passività patrimoniale), ed i creditori di obbligazioni subordinate, con l'assorbimento (estinzione) dei relativi valori di credito e, dunque, espungendoli dal passivo. 
Non è dunque prevista, in questa soluzione, per così dire, intermedia (tra l'intervento statale globale in base al punto 45 sopra riportato e la liquidazione finale e totalitaria del "bail-in"), la compartecipazione, alle perdite da coprire, né di depositi assicurati e "non" (questi ultimi, cioè, per l'ammontare superiore ai 100.000 euro), né degli obbligazionisti (senior) e degli altri "creditori senior". 

4. Ed infatti, per cercare una ricostruzione normativa che sia coerente con l'insieme delle complesse ed ambigue norme €uropee, un'eccezione a questo burden sharing posto a carico di tali specifici creditori, non è prevista se non in casi eccezionalissimi, precisati al suddetto punto 45, di cui abbiamo già illustrato la quasi impossibile ricorrenza, almeno secondo i criteri assolutamente discrezionali precisati dalla Corte GUE e ribaditi dalla Commissaria Vestager.
Tuttavia, il punto 46 ci dice che i creditori subordinati, nella normale ipotesi "intermedia" (quella non eccettuata dal p.45), non dovrebbero ricevere di meno, in termini economici, di quanto i loro "strumenti" sarebbero valsi se non fosse stato accordato alcun aiuto di Stato. 
In altri termini, il valore-corso di mercato delle obbligazioni subordinate, nelle condizioni precedenti all'intervento statale, è il tasso minimo di conversione in corrispondenti azioni (in termini di pregresse negoziazioni di "mercato"; nel caso MPS, stiamo parlando di valori vicini comunque a zero). 

5. Il decreto "salvarisparmio", tuttavia, seguendo altre regole cumulativamente applicabili, e relative ai profili di rischio dei sottoscrittori, che consentono di qualificare come legittima o meno la stessa originaria sottoscrizione dei bond subordinati (o meglio l'induzione da parte della banca a farlo), tenuto conto del quasi azzeramento del valore degli stessi (e del corrispondente valore praticamente simbolico, e incerto per il futuro, delle azioni attribuite in conversione), "potrebbe" appunto contenere delle forme di ristoro per i piccoli risparmiatori (non istituzionali, dunque); cioè, per quelli che erano stati indotti a sottoscrivere le subordinate senza che il prospetto li avesse adeguatamente preavvertiti del rischio, in relazione alle loro dichiarate propensioni alla sicurezza dell'impiego dei rispettivi risparmi. 
Quanto e come saranno ristorati, in questo caso, lo sapremo nei prossimi giorni (c'è da supporre, visti i precedenti "Etruria et altera" che verrà emanato, in base alla previsione del decreto-legge, un apposito regolamento: lo stanziamento relativo dovrebbe essere però già inserito, o ricompreso, nel decreto stesso. Anche l'offerta, da parte dello Stato, della sostituzione con obbligazioni senior delle azioni, "convertite" forzosamente, per i piccoli risparmiatoriex titolari delle obbligazioni subordinate, esige la precisa determinazione del prezzo di riacquisto, rispetto al valore nominale originario delle obbligazioni subordinate, nonché, a monte, del prezzo di conversione delle "subordinate" in azioni).

6. Da notare che il meccanismo "€uropeo", previsto dal sopra riportato paragrafo della "Comunicazione", presuppone che ogni altra misura preventiva, cioè gestita dalla banca coi meccanismi ordinari di ricapitalizzazione e ogni altro preavvertimento e istruzione forniti dall'autorità di vigilanza, quindi nell'ambito della gestione diretta della banca (definita "di mercato"), fossero risultati non utili e praticabili per ripristinare la carenza (shortfall) di capitale emersa dalla quantificazione indicata dalle autorità di vigilanza (in questo caso, ormai, €uropee).

6.1. Risulta perciò del tutto naturale, cioè conforme a questo quadro della disciplina applicativa dell'Unione bancaria, che Dijsselbloem faccia trapelare immediatamente che:
"prima che Monte dei Paschi riceva gli aiuti di Stato, ci deve essere un bail-in, secondo il portavoce del presidente dell'Eurogruppo Jeroean Dijsselbloem. "Le regole sono queste".
In realtà, infatti, la ricorrenza delle specifiche condizioni del c.d. burden sharing dovranno essere confermate da BCE e commissaria alla concorrenza: in sostanza, il burden sharing è una forma attenuata di bail-in, dai contorni assolutamente sfumati e alquanto sfuggenti, nella stessa disciplina della "Comunicazione" sopra riportata. In pratica, una volta che non si sia nell'ipotesi di carenza di capitale con simultaneto rispetto dei requisiti minimi regolatori di capitale, la distinzione rispetto ai presupposti del bail-in in senso stretto, non è affatto lineare e ben definita dalle regole €uropee.

7. Se non altro, allorquando l'esigenza di ricapitalizzazione, - come accade praticamente per la gran parte del sistema bancario italiano-, sia unita a quella di risolvere il problema delle sofferenze, attribuendo a queste un valore di cessione, ovvero di cartolarizzazione, che si colloca in diverse e ormai del tutto arbitrarie, forchette di valutazione ,la cartolarizzazione, ad esempio (che parrebbe la soluzione che si vuole percorrere per MPS), è una soluzione alternativa alla cessione.
Ed  infatti, la stessa cartolarizzazione, a date condizioni, consente di (sperare di) attenuare le svalutazioni patrimoniali a carico della banca emittente (i titolo cartolari), attribuendo agli NPL stime piuttosto basse (per renderli più immediatamente collocabili), ma, al contempo, aprendo la prospettiva, per la banca che rimane titolare del rapporto di credito "sottostante", di poter eventualmente acquisire all'attivo lo sperato maggior valore di concreto recupero del credito rispetto a quello fissato nella cartolarizzazione.
La stessa Banca d'Italia, nello studio qui linkato, par.3, opina che le stime emerse a seguito dei parametri di svalutazione dei crediti "deteriorati", considerati correnti dalle autorità €uropee sulla base  delle propensioni mostrate dagli "investitori"internazionali, siano eccessivamente basse, in rapporto quantomeno al valore delle garanzie che, in larga parte, li accompagnano.
Quindi Dijsselbloem ben può, in tal quadro di pressione degli investitori finanziari internazionali e di vaghezza (discrezionale) delle regole di risoluzione bancaria, definire"bail-in" (in senso categoriale) anche la soluzione intrapresa e richiamarsi all'effettivo rispetto delle regole.

8. Rimane, su questo aspetto, una pesantissima pregiudiziale tutta €uropea: il decollo delle sofferenze è una condizione dell'economia reale, nella sua assoluta prevalenza, e non il frutto esclusivo di "mala gestio" bancaria. 
Ergo, la stessa convenienza di una cartolarizzazione a prezzi di "saldo" (cioè contraendo sul mercato un debito che farebbe affluire fondi che la banca imputa a copertura della minusvalenza determinata dalla bassa valutazione operata nell'immediato), dipenderebbe, non paradossalmente, dal non seguire le stesse politiche economico-fiscali che hanno portato all'incremento impressionante delle stesse sofferenze in Italia. Ciò che invece, viene precluso da un'ortodossa osservanza della "governance" fiscale ed economica dell'eurozona.
E la conferma molto evidente quanto empirica, la si può vedere da questo grafico:

Gli effetti di Mario Monti. Sulle sofferenze delle banche (parola di Bankitalia) pic.twitter.com/boYCz0wKn2
— Fabio Dragoni (@fdragoni) 26 dicembre 2016

9. Ora la "palla" della gestione bancaria di MPS passa allo Stato, in una sostanziale operazione di nazionalizzazione che già si profila come transitoria, secondo le regole €uropee entro un massimo di 18 mesi, cioè con successiva cessione a privati, (sicuramente esteri); e questo dopo aver investito il denaro pubblico in una gestione di arduo salvataggio di medio periodo.
Ma, appunto, lo Stato azionista, che dunque si ritrova in conflitto con lo Stato che "governa"attraverso politiche economico-fiscali rigidamente vincolate dalle regole imposte dall'appartenenza alla moneta unica, ha fatto un buon affare?
Le due vesti simultanee che, dentro l'eurozona e la conseguente Unione bancaria, lo Stato di trova ad assumere, sono infatti in ineludibile conflitto di interesse.

9.1. Da un lato, se si rimane nell'eurozona, si deve raggiungere il pareggio strutturale di bilancio e alimentare, per via politico-fiscale "austera", la catena di creazione delle sofferenze (in nome del"lo vuole l'€uropa").
Dall'altro lato, per evitare di distruggere il risparmio diffuso (quello che in astratto l'art.47 Cost. impone di promuovere e tutelare con principi del tutto estranei alla disciplina dei trattati UE), occorre "pietire" che BCE e Commissione riconoscano le condizioni del burden sharing (o bail-in attenuato).

10. Ma avuta questa graziosa concessione, non avremo risolto comunque il problema della generazione sistematica di sofferenze.
Queste ultime, anzi, potrebbero registrareun'impennata proprio a seguito del "piano di rientro" dal maggior fabbisogno e debito pubblico...generato dalle misure di intervento dello Stato di salvataggio bancario (in ultima istanza, pro domo estera): cioè "lacrime e sangue fiscali" da aggiungersi a quanto comunque l'€uropa esige da noi in adesione al fiscal compact- !!!

Inoltre, una volta spesi i soldi pubblici (di tutti noi) per una simile azione di risanamento, - in ormai ben consapevole salita (determinata appunto dalle condizioni di austerità fiscale che condizionano ab aeterno l'economia reale) -, lo Stato deve supinamente accettare di cedere MPS a un mercato titubante, e che ha tutto l'interesse a non farsi avanti alla scadenza del termine di cessione obbligatoria, nonché anche, e specialmente, dopo tale scadenza; e così, fino a deprimere interessatamente i valori di acquisto, portandoli a un livello di acquisizione praticamente gratuita (di un asset così antico e importante), facendo persino la magnanima figura del "salvatore" (non certo dell'identità italiana del sistema bancario).

10. Sono infatti ipotizzabili almeno due ragioni"imponenti" e logicamente prevedibilissime per cui questa misura di nazionalizzazione temporanea, comunque destinata a risolversi una misura supply side di sostanziale sussidio pubblico, "certus an" ma solo "incertus quando", al settore bancario "non" nazionale (cioè al futuro investitore estero), si risolverà in una perdita di risorse estratte dalle esauste tasche dei contribuenti italiani:
a) la prima l'abbiamo già detta e attiene alle politiche fiscali ed economiche dettate dall'appartenenza all'UEM e al connesso perseguimento del fiscal compact (di cui avremmo esaurito, a sentire le autorità di vigilanza UE, praticamente tutti o quasi i ridicoli margini di flessibilità): la crisi della moneta unica, degenerata principalmente sul piano della solvibilità di imprese e famiglie italiane...per pervenire alla "competitività" deflattiva sui mercati esteri, "continua"; come la guerra dopo l'8 settembre 1943;
b) la seconda è che, con ogni probabilità, rimanendo noi dentro all'eurozona e all'Unione bancaria (della "pace e del benessere" dei popoli €uropei), saremo sottoposti alla ulteriore regolazione bancaria €uropea: il 23 novembre 2016, infatti, la Commissione UE ha approvato la "Proposal for a REGULATION OF THE EUROPEAN PARLIAMENT AND OF THE COUNCIL amending Regulation (EU) No 575/2013 as regards the leverage ratio, the net stable funding ratio, requirements for own funds and eligible liabilities, counterparty credit risk, market risk, exposures to central counterparties, exposures to collective investment undertakings, large exposures, reporting and disclosure requirements and amending".
Regulation (EU) No 648/2012.
Sotto questo altisonante titolo, si concretizzerà (probabilmente entro il 2017), - e con un timing che pare convergere proprio sulla scadenza della cessione sul mercato da parte dello Stato di MPS "risanata" (e di eventuali altre operazioni analoghe)-, l'approvazione, appunto ormai molto prevedibile, del "tetto" (cap) di detenzione dei titoli di Stato da parte delle rispettive banche nazionali, che saranno obbligate e cedere i titoli pubblici in eccedenza entro un periodo massimo di 18 mesi (allo stato), preceduto inevitabilmente da un rating dei titoli stessi, che ne sancirà pesanti svalutazioni, acuendo repentinamente e in modo esiziale i problemi di bilancio, e di indici di capitalizzazione, del residuo sistema bancario italiano.
Come avevamo preavvertito il 18 dicembre scorso (qui, p.6). 

11. Ed allora, ci vorrebbero ben altro che 20 miliardi per risanare queste perdite e per ottenere un "burden sharing" praticamente esteso agran parte del nostro settore bancario, e, perciò, altamente distruttivo del mercato obbligazionario, pubblico e privato, nazionale, e del risparmio privato. 
Questa prospettiva, mano a mano che ci concretizzerà, - unita alle dosi aggiuntive di "austerità" fiscale da "rientro" (del deficit seguito allo sforamento causato dall'intervento statale di salvataggio bancario)-, indurrà anche a fughe generalizzate dei depositanti e correntisti in una misura che farà impallidire la recente corsa al ritiro dei fondi da MPS (si è trattato di circa 20 miliardi nel solo 2016).
Un vero e proprio Armageddon che, naturalmente, sarà votato entusiasticamente dai governi pro-tempore italiani e dai suoi parlamentari europei.
Com'era già accaduto con l'Unione bancaria....
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IL QUARTO PARTITO? PARTITO: MA NON TROVA LA VIA DEL RITORNO

December 28, 2016, 7:48 am
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[Dal vocabolario Treccani]:  eṡiziale agg. [dal lat. exitialis, der. di exitium: v. esizio1]. – Rovinoso, che reca gravissimo danno: fu un errore e.; è stato un provvedimento e. per le nostre industrie; che reca grave danno alla salute, mortale: quel clima è e. per gli Europei; la minima emozione potrebbe essere e. al malato.

1. Dagli editoriali a reiterazione pluridecennale dei giornaloni, e dai frequenti interventi nei talk show di politologi & filosofi, nonché espertologi a vario titolo, dovremmo prendere atto che, ormai, siamo una "democrazia liberale". 
Nonostante la clamorosa smentita che, (solo) in astratto (da quel che pare), ha dato l'esito del referendum costituzionale, l'Italia sarebbe divenuta de facto una democrazia liberale, per dichiarata correlazione con la costruzione europea, come predicato dai più accessi sostenitori di questa tesi. 
La democrazia italiana si sarebbe trasformata extra ordinem in tale nuova forma - opposta a quella della "democrazia sociale",  che pure è stata disegnata nei principi fondamentali e immutabili della nostra Costituzione-,in virtù delle necessità e degli obblighi derivanti dall'appartenenza all'Unione politica e monetaria europea. 
Tali "sostenitori", culturalmente e accademicamente consolidatisi, sono divenuti maggioranza politica, mediante vari metodi elettorali e rivolgim€nti istituzionali, lungo una vicenda politico-internazionale di cui abbiamo più volte indagato le origini.

2. La definizione politico-teorica del "liberalismo" di questa democrazia "all'€uropea" oscilla tra varie formulazioni: tra esse campeggia il socialismo liberale, in cui le "liberalizzazioni" (e privatizzazioni) economiche portano il mercato al centro del "sociale", ma per il..."bene comune", trattandosi dunque di un modo retorico, e smentito dai suoi stessi teorici italo-tedeschi (pp.9-10), di denominare "l'economia sociale di mercato", formula chiarita dall'uso del termine "sociale" come "innocuo vezzo linguistico"..per tacitare gli "agitati sociali". 
Ma esistono formule più avanzate, e meglio adattate all'irreversibile "sfida del globalismo", come quella dellademocrazia post-liberale che comunque preserva il carattere "liberale" della ipotizzata "democrazia" nel transito dallo Stato-nazione all'Europa. 
D'altra parte, l'innocuo e strumentale vezzo linguistico, di cui sopra detto, campeggia al centro delle previsioni del principale trattato €uropeo e sta ad indicare che la democrazia liberale è quella che si fonda sull'economia di mercato tout-court e sulla tutela delle "mere" libertà negative della cittadinanza, assunta, quest'ultima, come riflesso della qualità di operatore del mercato, anche solo come consumatore (v.p.6).

3. E dunque, nonostante le varie implicazioni della sovranazionalità dell'economia liberale di mercato che l'€uropa intende realizzare, assorbendo (sempre per il "bene comune" che, peraltro, coincide con l'esistenza stessa del superiore "ordine del mercato) la sovranità dei singoli Stati-membri, la democrazia liberale rimane pur sempre definibile nei termini illustrati da Costantino Mortati e così riassumibili, muovendo dal concetto specifico di sovranità che tale tipo di democrazia ammette (pp.11-11.2):
"...la funzione sostanziale del potere sovrano è quella di assicurare la pacifica coesistenza di interessi diversi e anche contrastanti tra loro; "come" questa essenza della sovranità sia concretamente attuata dipende da quali interessi, cioè da quali tipologie di gruppi sociali che ne sono portatori, siano considerati "bisognevoli di tutela".
...Così, se gli interessi considerati "meritevoli" e quindi da tutelare sono, in base al principio di eguaglianza formale, quelli di "tutti i cittadini" formalmente indistinti, al vedersi garantite delle libertà negative, cioè delle sfere soggettive di esclusione dello stesso potere di comando (altrimenti "incondizionato" dello Stato),  avrò la democrazia parlamentare "liberale" (in quanto ispirata a tale concetto di "libertà"): in essa soltanto il parlamento (eletto dai portatori degli interessi riconosciuti come titolari degli stessi), con le sue leggi, potrà stabilire dei limiti alle libertà (tipiche quelle personale, domiciliare, di espressione pubblica del pensiero e, soprattutto, di intrapresa dell'attività economica), ma non potrà comunque comprimerle oltre i limiti ammessi dai Bill of rights (o dalle costituzioni "liberali" che li ricalcano). Non a caso la Magna Carta, invocata come riferimento positivo della Costituzione britannica, è detta "libertatum".
...Dunque, in questo tipo di democrazia, "valori" (cioè le valutazioni storico-politiche che portano a considerare meritevoli certi, e non altri, interessi da tutelare mediante il potere sovrano) e fini (cioè gli obiettivi che, verso il "lato interno", potrà porsi l'esercizio della sovranità) sono obiettivamente funzionali all'economia di mercato, intesa come "free competition" e "free trade". In questo tipo di Stato (liberale), la sovranità stessa, come potere dotato di certi contenuti strumentali e dipendenti dagli interessi effettivamente tutelati, definisce un regime/"forma di Stato" che si disinteressa del conflitto sociale: cioè non conferisce rilievo giuridico supremo alla soluzione del contrasto tra interessi propri di tutti i gruppi, o meglio classi sociali, considerate ciascuna portatrice di interessi meritevoli di tutela. Ciò che noi sappiamo essere, invece, la caratteristica della nostra Costituzione e quindi del contenuto e della funzione della sovranità in esso assunta (la "Costituzione nella palude"è stato scritto proprio per riorganizzare la gran quantità di materiale che il blog aveva fornito al riguardo nel corso del tempo). Mortati precisa i rispettivi caratteri della "democrazia liberale" e della "democrazia sociale", ora sintetizzati, alle pagine 140-143 del Tomo I".
4. Ora, sulla scorta di tale premessa, (su cui mi sono dilungato per consentire un utile ripasso di un percorso già approfondito), la situazione politico-economica italiana, nel preciso frangente storico che stiamo vivendo, risulterebbe piuttosto "interessante", ove fosse vista da un osservatore esterno e non coinvolto nell'agone, molto contingente e confuso, della lotta per la supremazia politica.
Interessante perché mostra una "crisi" di tale democrazia liberale "de facto", tutta incentrata sulla leggerezza con cui è stato affrontato, pur in una visione ideologica "di mercato", il problema della perdita di sovranità nazionale e delle implicazioni di ciò sulla specifica "elite" liberale nazionale!
La "questione bancaria", determinata dalla perdita della sovranità monetaria unita alla perdita della sovranità fiscale, che ha condotto al presunto magico rimedio dell'Unione bancaria, e quindi alla perdita di sovranità anche nella vigilanza bancaria, pone infatti un grave problema di identità e addirittura di perdurante posizione di controllo politico-istituzionale, alla classe dirigente naturale, cioè a pretesa legittimazione scientifica, di una "democrazia liberale".

5. La sintesi di questo non trascurabile problema è che, desovranizzando e affidando la sovranità sottrattta all'odiato Stato (democratico e sociale, cioè costituzionale) all'ordine sovranazionale dei mercati instaurato dai trattati europei, non solo si perde il controllo dell'economia reale, cioè si deve cedere tutto il cedibile dell'industria nazionale, chiudendo il resto e deindustrializzando per sempre, ma, com'è inevitabile, si perde anche il controllo nazionale del sistema bancario; e, per di più, non prima di aver speso (pro-investitori esteri!) denaro pubblico, in situazione di soggiogamento ai mercati finanziari (simultaneamente interessati ad impadronisri dei nostri asset bancari!) per via della perdita della sovranità monetaria e fiscale.

6. Alberto Bagnai, ad ajuvandum di quanto qui esposto, esprime così la visione (politico)-macroeconomica di tale situazione:
"Ora che gli italiani hanno dato prova di essere meno stupidi di quanto certe aziende e certi organi di vigilanza pensavano che fossero, e pare quindi stiano evitando di immolarsi sull'altare della conversione "spintanea" delle loro obbligazioni in azioni, naturalmente interviene lo Stato.Il fatto che lo Stato intervenga ci dice una cosa ovvia: che può intervenire, e che quindi sarebbe potuto intervenire prima, evitando le massicce perdite del comparto bancario che avevamo in qualche modo delineato qui.
Resta poi una facile previsione: questo salvataggio non ci salverà.
Intanto, esso viene proposto e gestito all'interno della logica imposta dall'abbandono della sovranità monetaria: la logica della guerra fra poveri. Ci diranno che il contribuente ha salvato il risparmiatore. Già, proprio quello stesso contribuente al quale si chiede, anzi, si impone, di salvare uno stato che non ne ha bisogno, per il semplice motivo che è sufficientemente "austero", quello stesso contribuente che si vuole immolare sull'altare di un obiettivo la cui inutilità è chiaramente disvelata dal moralismo di cui si ammanta, diventa improvvisamente specie protetta, soggetto da tutelare, nel momento in cui si delinea il collasso (in questo caso vero) della finanza privata. 
Voi direte: bè, meno male! Invece no, non esattamente. 
Porre il problema in termini di antagonismo fra contribuente e risparmiatore, due soggetti che, fra l'altro, largamente coincidono, serve solo a fomentare un conflitto insensato per nascondere quello che fino a pochi anni fa era ovvio: il prestatore di ultima istanza del sistema bancario dovrebbe essere la banca centrale, la sua banca centrale, sua di lui, sua di quel sistema bancario. Siamo al sovvertimento totale della logica economica, così macroscopico da passare inosservato, quello che Claudio Borghi descrive così: siamo passati da un sistema in cui la Banca centrale garantiva il risparmio salvando le banche, a un sistema nel quale i cittadini salvano le banche coi loro risparmi, che sono sempre di meno perché la Banca centrale crea deflazione!
La guerra fasulla fra contribuente e risparmiatore è inutile, e la fomenta chi vuole farci dimenticare questa semplice verità.Se, come diceva un anno fa Barbagallo nell'audizione della quale il post linkato sopra riporta ampi stralci, dal 1936 in Italia non succedeva un disastro simile, è perché la Banca d'Italia, finché è stata la Banca d'Italia, fra mille inavvedutezze che la stanno rendendo un'istituzione poco credibile manteneva però la possibilità di emettere moneta per salvare gli istituti di credito. Nessun risparmiatore ha mai perso una lira, e nessun contribuente ha mai dovuto salvare nessun risparmiatore, finché la Banca centrale ha potuto svolgere questa sua funzione essenziale.Ma ora non può.Intervenendo tempestivamente, cosa che si può fare se si opera a livello nazionale, non se si dipende dalla sovrastruttura corrotta e inefficiente chiamata impropriamente Europa (in realtà, Unione Europea), si spende molto meno. 
Un anno fa sarebbero bastati tre miliardi (che erano stati stanziati, e che la Commissaria Vestager ci impedì di spendere per mantenere in piedi la finzione del "mercato" moralizzatore e disciplinatore, fustigatore del moral hazard...), un anno fa sarebbero bastati tre miliardi (che c'erano) per evitare il disastro delle quattro banche. Ora venti miliardi, da trovare nel bilanco pubblico (perché Bankitalia non è più liquida nella sua moneta), saranno appena sufficienti per dare un calcio al barattolo (come dicono gli anglofili), cioè per tirare a campare un altro po'.
Ma il problema non è risolto, il salvataggio non ci salverà, per un problema di struttura, che fra quattro anni tutti riconosceranno (perché tanti ce ne sono voluti a Giavazzi per riconoscere che il debito pubblico non c'entrava, e altrettanti glie ne occorreranno per riconoscere che invece l'euro c'entra)".
7. Dunque, ecco il problema "esiziale" (come si dice in termini "dotti"), di identità e di "controllo", per tale classe dirigente, che può riassumersi nella formula del "Quarto Partito". Abbiamo visto in cosa esso consista: essenzialmente nel plesso di potere istituzionale ed economico che fa capo a Banca d'Italia e a Confindustria, e del quale le parole di De Gasperi nel 1947 (qui, p.2) fornirono la sostanziale definizione, mentre Guido Carli ce ne ha ricostruito in dettaglio l'essenziale ruolo di "costituzione materiale" (qui, pp.6-8), da sempre contrapposto all'attuazione della Costituzione formale del 1948.
E il problema che si pone al Quarto Partito (che oggi più che mai potrebbe avere senso anche nella numerazione metaforicamente attribuitagli da De Gasperi), si manifesta ora in modo drammatico e, anzi, piuttosto brutale.

8. Alla base di ciò sta un gigantesco errore di calcolo a cui, però, non corrisponde una tangibile capacità di reazione all'altezza dell'urgenza e della drammaticità della situazione.
Prova ne è che questo plesso di potere economico-istituzionale, al di là del diretto coinvolgimento in questa crisi bancaria dagli incombenti contorni "e devastanti", non pare essere in grado di formulare una linea di reazione praticabile e veramente capace di tutelare, quantomeno, i propri interessi e, a monte di ciò, neppure un'analisi dei meccanismi causa/effetto che possa servire come base logica per trovare questa linea.
Basti vedere come Bankitalia, ancora nell'aprile 2016, nella "audizione del governatore Visco, in sede di "Indagine conoscitiva sulle condizioni del sistema bancario e finanziario italiano e la tutela del risparmio, anche con riferimento alla vigilanza, la risoluzione delle crisi e la garanzia dei depositi europee", eviti di interrogarsi sul legame, riconosciuto da tutti i più prestigiosi istituti economici mondiali, compreso ormai il FMI, tra recessione post 2011, moneta unica e politiche economico-fiscali imposte dal suo mantenimento in vita.

9. A sua volta, Confindustria, dopo aver paventato 4 punti di PIL in meno (in tre anni...), a seguito della mancata approvazione della riforma costituzionale (!?), si limita a prendere atto, sulla questione bancaria, del "fallimento del mercato", senza darsene una spiegazione nè scientifico-strutturale nè politico-morale:

E questo dopo aver, a giugno 2016, quantificato il costo della Brexit propendendo per spiegazioni della "debole crescita" italiana, tutte esogene e mai imperniate sulle condizioni socio-economiche, del mercato del lavoro, di propensione agli investimenti, di fiducia creditizia, connesse alla domanda e all'occupazione nazionali, stressate ogni oltre limite dalle politiche imposte dall'UEM. 

10. Ogni risposta, pur di fronte al precipitare degli eventi, è articolata continuando ad ignorare le cause strutturali degli squilibri interni all'area euro, della cui esistenza pure si accorge, ma senza porre mai in discussione la reale convenienza e la sostenibilità della moneta unica. 
Su questo punto, Confindustriaè ferma allo studio del CSC del 2014 in cui dichiara che uscire dall'euro sarebbe un "disastro". Ma non ha risposte, se non indicare, appunto, non persuasive cause esogene, sempre individuate nell'andamento dell'economia internazionale, per il disastro, molto reale e sempre più tangibile, che si sta verificando a causa della permanenza nella moneta unica.

Dunque, allo stato attuale delle prese di posizione, il Quarto Partito, nel senso storico-funzionale indicato da De Gasperi e Carli, non trova risposte e non pare essere in grado di fronteggiare la perdita della convenienza a sostenere la propria identità internazional-globalista e la conseguente deriva (in accelerazione) della perdita del controllo istituzionale, che si profila sul piano socio-politico.

11. Questa deriva la chiameranno, sicuramente, una "minaccia" alla democrazia "liberale" e daranno tutta la colpa ai "populismi".
Senza però pensare che, se anche questi populismi non ci fossero, ovvero fosse più opportuno trovare delle definizioni meno rudimentali del profondo malcontento del popolo italiano, (e non solo), e quindi, se anche tutto andasse, sul piano del consenso e del controllo istituzionale, nella direzione da loro auspicata e la più €uropeista possibile, la situazione di deterioramento degli attivi bancari, di dilagante insolvenza di famiglie e imprese, di destrutturazione industriale, di precarizzazione e disoccupazione diffusive di un livello un tempo inconcepibile di povertà, rimarrebbe persistente e irrisolvibile.
Irrisolvibile perché si persevera nell'errore di calcolo ignorando ogni evidenza che arriva prepotentemente dalla realtà:
«Se l'Italia esce dall'Euro la sua economia andrà meglio, per noi sarebbe un disastro».
Firmato: gli economisti di Angela Merkel. pic.twitter.com/JG27G333WW
— Alessandro Greco®🔵 (@GrecOfficial) 25 dicembre 2016

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CHIARIMENTI SULLA SENTENZA N.275 DEL 2016. PAREGGIO DI BILANCIO, DIRITTI FONDAMENTALI E VINCOLO ESTERNO "A CASCATA".

December 30, 2016, 12:26 am
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http://www.jolestefani.it/upload/immagini/originale/200-16-04-46-eccezione.jpg
e a non voler essere troppo pessimisti sul futuro,"qualche volta - non sempre però- l'eccezione forma una regola secondaria più estesa...":

http://www.dizy.com/img/d/vocgram/0089.gif

I. Una breve precisazione preliminare. 
Potete immaginare quante persone, via mail e sui social, mi segnalano il notorio passaggio della recente sentenza n.275 del 2016 della Corte costituzionale (in neretto i passaggi che "dimensionano" effettivamente quanto deciso dalla Corte):
"11. Non può nemmeno essere condiviso l’argomento secondo cui, ove la disposizione impugnata non contenesse il limite delle somme iscritte in bilancio, la norma violerebbe l’art. 81 Cost. per carenza di copertura finanziaria. A parte il fatto che, una volta normativamente identificato, il nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivo il diritto allo studio e all’educazione degli alunni disabili non può essere finanziariamente condizionato in termini assoluti e generali, è di tutta evidenza che la pretesa violazione dell’art. 81 Cost. è frutto di una visione non corretta del concetto di equilibrio del bilancio, sia con riguardo alla Regione che alla Provincia cofinanziatrice. È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione".
II. Rinvio alla lettura integrale della motivazione, che è ricca di ulteriori e interessanti spunti costruttivi, con riguardo al tema del difficile equilibrismo tra "austerità fiscale"(presuntamente, secondo i titoli accattivanti posti alle leggi recettive dell'euro-austerità...volta alla "crescita!!) e tutela effettiva di diritti costituzionalmente sanciti. 
Ma, per una migliore comprensione, vi segnalo questo altro passaggio (il punto 13), meno "invasivo" e più preservativo di una futura (e crescente) discrezionalità valutativa della Corte, tanto da giustificare la menzione di un precedente che risale, infatti, al 2016: 
13.− Nel caso in esame, il rapporto di causalità tra allocazione di bilancio e pregiudizio per la fruizione di diritti incomprimibili avviene attraverso la combinazione tra la norma impugnata e la genericità della posta finanziaria del bilancio di previsione, nella quale convivono in modo indifferenziato diverse tipologie di oneri, la cui copertura è rimessa al mero arbitrio del compilatore del bilancio e delle autorizzazioni in corso d’anno. In buona sostanza si ripete, sotto il profilo sostanziale, lo schema finanziario già censurato da questa Corte, secondo cui, in sede di redazione e gestione del bilancio, vengono determinate, anche attraverso i semplici dati numerici contenuti nelle leggi di bilancio e nei relativi allegati, scelte allocative di risorse «suscettibili di sindacato in quanto rientranti “nella tavola complessiva dei valori costituzionali, la cui commisurazione reciproca e la cui ragionevole valutazione sono lasciate al prudente apprezzamento di questa Corte (sentenza n. 260 del 1990)”» (sentenza n. 10 del 2016).
III. Ma ci pare opportuno anche richiamare il precedente punto 7, che, nella sostanza, già delimita il senso del punto 11, "incanalando" la effettiva portata delle successive statuizioni: 
7.− Si deve ritenere che l’indeterminata insufficienza del finanziamento condizioni, ed abbia già condizionato, l’effettiva esecuzione del servizio di assistenza e trasporto come conformato dal legislatore regionale, violando in tal modo il precetto contenuto nell’art. 38, terzo e quarto comma, Cost.
Tale effettività non può che derivare dalla certezza delle disponibilità finanziarieper il soddisfacimento del medesimo diritto, nel quadro dei compositi rapporti amministrativi e finanziari degli enti territoriali coinvolti. Difatti l’affidamento generato dalla previsione del contributo regionale condiziona la misura della disponibilità finanziaria della Provincia e degli altri enti coinvolti nell’assolvimento del servizio in questione.
Non può neppure essere condivisa in tale contesto la difesa formulata dalla Regione secondo cui ogni diritto, anche quelli incomprimibili della fattispecie in esame, debbano essere sempre e comunque assoggettati ad un vaglio di sostenibilità nel quadro complessivo delle risorse disponibili. Innanzitutto, la sostenibilità non può essere verificata all’interno di risorse promiscuamente stanziate attraverso complessivi riferimenti numerici. Se ciò può essere consentito in relazione a spese correnti di natura facoltativa, diverso è il caso di servizi che influiscono direttamente sulla condizione giuridica del disabile aspirante alla frequenza e al sostegno nella scuola.
In secondo luogo, è proprio la legge di cui fa parte la norma impugnata a conformare in concreto le situazioni soggettive oggetto di assistenza (senza poi farne conseguire il necessario finanziamento per effetto del richiamato inciso riduttivo). 
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che «in attuazione dell’art. 38, terzo comma, Cost., il diritto all’istruzione dei disabili e l’integrazione scolastica degli stessi sono previsti, in particolare, dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate)», la quale «attribuisce al disabile il diritto soggettivo all’educazione ed all’istruzione a partire dalla scuola materna fino all’università»; e che «la partecipazione del disabile “al processo educativo con insegnanti e compagni normodotati costituisce […] un rilevante fattore di socializzazione e può contribuire in modo decisivo a stimolare le potenzialità dello svantaggiato (sentenza n. 215 del 1987)”» (sentenza n. 80 del 2010).
IV. Il tema, ci auguriamo, dovrebbe essere ulteriormente approfondito da Francesco Maimone, quando naturalmente ne avrà modo.
Perciò, per adesso, mi limito a uno schema generale di inquadramento della questione.

In sintesi, quella che risulta compiuta dalla Corte al p.11, in un passaggio "confutativo" (di "accertamento" negativo di una eccezione ostativa all'accoglimento della prospettata illegittimità costituzionale), è una disapplicazione "invertita" del diritto UE  - per quanto assimilabile al Fiscal Compact- che, come sappiamo, e come ben sa la Corte, è la fonte alla base dell'art.81 Cost, nuova formulazione. 
In pratica, cioè, si dà una certa lettura costituzionalmente orientata onde non ritenere operante, nel caso concreto, un altro principio costituzionale (appunto il "pareggio di bilancio") che, diversamente inteso, legittimerebbe la norma esaminata dalla Corte (quantomeno sul piano della limitabilità della copertura finanziaria, sia pure determinatata e quantificata).
Da notare, poi, che il ragionamento di cui al p.11, è logicamente assorbito, cioè anticipatamente già reso non più rilevante ai fini del decidere, dal precedente rilievo del citato punto 7, (ribadito al punto 13): e questo,proprio in quanto si ritiene che l'illegittimità risieda anzitutto, e  autonomamente, nella "incertezza" e nella "indeterminatezza" del finanziamento (al trasporto scolastico per i disabili, aventi diritto all'accesso alla scuola con servizi didattici pianificati di sostegno), in quanto la legge censurata non ne precisa l'ammontare (un qualunque ammontare, attenzione) all'interno della "promiscua""posta finanziaria del bilancio di previsione".

IV.1. E dunque, la questione affrontata nel p.11, quella della incomprimibilità di taluni diritti costituzionali a fronte del principio del "pareggio di bilancio", oltre che mero argomento concorrente, ma non decisivo, cioèad adjuvandum di un distinto e preliminare profilo di illegittimità, appare quasi un obiter dictum.Ed infatti la struttura logica della decisione fa sì che, a parte l'effetto di reiezione della generica, e già assorbita (dal punto 7), "eccezione" difensiva della Regione, la questione affrontata al punto 11 in sè considerata, non conduca ad uno specifico e stringente effetto conformativo, per il legislatore regionale, derivante in modo univoco dal giudicato costituzionale: l'adeguamento alla sentenza della Corte, in buona sostanza, dovrebbe limitarsi a precisare l'ammontare dello stanziamento senza confondersi con altre possibile destinazioni di spesa e, in modo del tutto generico, a tenere conto del fatto che il diritto in questione non possa essere compresso oltre un certo limite (imprecisato dalla Corte e, peraltro, difficilmente precisabile, dato che si tratta di un rimborso,rispetto acui il normale criterio prudenziale risulta essere quello di attenersi alla spesa richiesta "a consuntivo"negli anni precedenti, magari adeguata alla variazione dei prezzi di volta in volta rilevata).
Un effetto conformativo di tal genere, comunque, avrebbe avuto stabile efficacia di tutela solo imponendolo al legislatore statale che, rispetto alla competenze di cura degli interessi sociali sul territorio, è il motore primo che innesca il meccanismo che investe regioni e comuni; e lo è in base ai vincoli dei trattati UE, culminanti nel"nuovo" art.81 Cost.
 
IV.2. In particolare, la decisione non affronta e non risolve il problema logico pregiudiziale che è inscidibilmente legato alla ratio ed alla giustificazione della norma censurata (che, appunto, non è certo casuale e frutto di una "malvagia" scelta politica della Regione Abruzzo). 
Vale a dire, il problema della "guerra" tra poveri ovvero del conflitto tra diversi diritti costituzionalmente fondati che deriverebbe dal mero garantirne uno, quale incomprimibile, all'interno di un finanziamento che, complessivamente e promiscuamente, è comunque non solo limitato ma progressivamente tagliato in omaggio al principio del pareggio di bilancio. 
Questo si esprime, ormai da anni (e, prima ancora, nell'ottica della riduzione del deficit al 3%, cioè da decenni)in decisioni finanziarie statali di bilancioadottate per adeguarvisi, e, nello specifico, notoriamente, mediante la riduzione dei trasferimenti da parte dello Stato alle regioni, tutt'al più da compensare con aumenti della imposizione "locale" nel quadro del c.d. "patto di stabilità interno". 
Ma questi meccanismi sono da sempre attuati, per vincolo c.d. "esterno", nel quadro della generale riduzione del fabbisogno statale verso il pareggio stesso, "voluto dall'Europa"e, dichiaratamente (da parte delle fonti europee), al fine prioritario di mantenere la nostra adesione alla moneta unica, e quindi al di fuori di qualsiasi (comprovato) vantaggio ponderabile con i costi sociali che emergono nelle sempre piùnumerose fattispecie all'esame della stessa Corte costituzionale. 

IV.3. La Corte, garantendo il pieno e non solo parziale rimborso (nel caso) delle spese sostenute per il trasporto scolastico dei disabili, ha tuttavia, in forza dell'inesorabile meccanismo dei saldi di bilancio, vincolati dal patto di stabilità interna,necessariamente inciso sulla (altrettanto "piena")erogabilità di altri servizi sociali finanziati in tutto o in parte, dalla regione, mediante lo stigmatizzato "indistinto" stanziamento: magari avrà determinato che una madre lavoratrice non avesse più posto nell'asilo nido per il bambino (venendone soppressa la stessa struttura); o che un anziano indigente e affetto da malattia cronica non potesse più vedersi assicurata l'assistenza domiciliare.
Non porsi il problema generale di come il pareggio di bilancio incida, in stretta connessione con la questione devoluta alla Corte, sui complessivi livelli di diritti tutti egualmente tutelati dalla Costituzione, porta a comprimerne, o a sopprimerne uno in luogo di un altro, generando un inammissibile conflitto tra posizioni tutelate.  
Un conflitto che, secondo un prudente apprezzamento della realtà notoria, non può essere risolto scindendo unarealtà sociale composta da elementi interdipendenti; tale realtà viene,nel suo complesso, sacrificata illimitatamente, in una progressione dimanovre finanziarie di riduzione, portate avanti pressocché annualmente, dall'applicazione del pareggio di bilancio e dalla graduale (o anche talora drastica) situazione di de-finanziamento che esso comporta.
La sua logica, propria dell'applicazione fattane agli enti territoriali, è infatti quella di una prioritaria allocazione delle risorse al risanamento del debito pregresso e dei suoi oneri finanziari.

IV.4. Non si tratta dunque di tutelare un "pochino" (meno) tutte queste posizioni costituzionalmente tutelate, comunque comprimendole tutte contemporaneamente, ma di un generale e inscindibile piano di "caduta" (in accelerazione), dovuto alla crisi economica indotta dalla euro-austerità fiscale,con la disoccupazione (effettiva) record che essa determina e, dunque, con l'oggettivo e notorio (e drammatico) ampliarsi della sfera dei cittadini aventi diritto alle prestazioni costituzionalmente garantite, cioè tutelandi (secondo la Costituzione).  
Il punto di caduta della legittima comprimibilità di tali diritti dei soggetti socialmente deboliè infatti già ben superato. 
La Corte, per parte sua, non sa, e, forse, ancora non pensa di indicarlo univocamente in via astratta e generale, come la Costituzione imporrebbe, in virtù della natura incondizionata delle sue previsioni. 
Dovrebbe essere notorio, infatti, che, di fronte alla massa della povertà dilagante, anche solo il mantenimento dei precedenti livelli di spesa assistenziale si rivela inadeguato e drammaticamente insufficiente. 
E tutto ciò, grazie all'applicazione del pareggio di bilancio (e prima ancora del limite del 3% al fabbisogno dello Stato, anche a costo di una sua funzione prociclica), pur quando formalmente "mediata" dalla flessibilità, del tutto simbolica, offerta dalla Commissione UE!
Si è arrivati ormai in una situazione di scelte dolorose obbligate, per cui o si effettua il trasporto scolastico dei disabili o si hanno decenti e sufficienti asili nidi o un adeguato numero di assistenti sociali (o analoghi operatori) per gli anziani.
E via dicendo...

IV.5. E la Corte avrebbe ben potuto porsi il problema, molto reale e necessariamente implicito nella questione ad essa devoluta, di questi effetti (inevitabili e programmatici) del pareggio di bilancio sulla interdipendente erogazione pubblica delle prestazioni corrispondenti ai più delicati diritti fondamentali costituzionalmente tutelati.
Questi "effetti", poi, si compongono, a monte, in un obiettivo dichiarato di deflazione competitiva a imposizione europea, che, oggettivamente (cioè per notorio "scientifico-economico" cfr; qui, pp.II-IV)), determina quella disoccupazione strutturale senza precedenti in Italia che è alla base del dilagare della povertà secondo i dati divulgati dall'Istat(e in continuo peggioramento). 
E' proprio il pareggio di bilancio, in particolare nella versione imposta agli enti territoriali, erogatori di servizi sociali, la causa del dover scegliere tra esso stesso e la tutela dei diritti fondamentali "sociali" della persona umana.

V. Ma, al di là degli aspetti appena evidenziati, proprio perchè posta entro tale meccanismo assimilabile ad una "disapplicazione invertita", da ritenere atipico nel diritto costituzionale nazionale, e che, soprattutto, lascia formalmente in vita la norma"implicitamente", disapplicata (cioè l'art.81 Cost.), il punto 11 ha limitate conseguenze operative:
a) il suo effetto è circoscritto a tale caso che, oltretutto, è quello di un diritto fondamentale alquanto atipico, perché nasce (dobbiamo ragionevolmente ritenere, già nella stessa sistemtica della Costituzione) da un'ibridazione di due diversi diritti (art.32, "diritto di tutti alla salute garantito dallo Stato" e 34 Cost., "diritto di tutti alla pubblica istruzione"),
posti logicamente "a monte" e più precisi, cioè più pertinenti, per quanto riguarda la materia dell'accesso all'istruzione scolastica, del parametro effettivamente utilizzato.  

a1) Infatti, testualmente, la Corte, esamina la questione con riferimento all'art.38: e precisamente, c'è da aggiungere, al suo comma 3 ("gli inabili e i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale"), saltando a piè pari la coordinata previsione del comma 4, di rilevanza non trascurabile nella materia, dato che configurava un sistema di "organi e istituti predisposti...dallo Stato", ben diverso dalla soluzione di integrazione coi "normodotati" fatta propria dalla Corte nelle sue varie pronunce in questa materia (e non è infatti a priori stabilibile, se non scendendo in considerazioni medico-scientifiche "di merito", che il sistema in origine prescelto dalla Costituzione, al comma 3, fosse meno tutorio delle posizioni soggettive considerate, tenendo conto dell'aggiornabilità dei metodi educativi e didattici sviluppabili presso istituti specializzati: ma anche questi, ove sopravvivano, sono infatti sottoposti a crescenti tagli).
Il contenuto specifico del diritto tutelato, in effetti, ha una sua versione tutta giurisprudenziale, che conferma, nel suo chiaro riferimento ad una ritenuta "miglior" soluzione di terapeutica consistente nella "socializzazione", il prevalente legame con l'art.32 nella sua relazione con l'art.34 Cost.
a.2.) Su tale parametro espresso (art.38, co.3), dunque, si incentra il vero e proprio thema decidendi rimesso alla Corte, anche in relazione all’art. 24 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità.
Ergo, la specialità intrinseca di tale diritto e del suo contenuto "costruttivista" ed evolutivo, delimita in partenza la portata della decisione, giustificato anche dal non dover contraddire il precedente della Corte, sulla stessa questione, n.80 del2010 (e quando comunque i limiti dell'austerità, e del tetto al deficit derivante dal trattato di Maastricht, erano già più che sufficienti a limitare questo, MA anche tutti gl altri diritti fondamentali costituzionali);
 
b) infatti, l'assistenza ai disabili, come regime generale, continua e continuerà tranquillamente ad essere tagliata (a livello di fondo nazionale SSN e dei singoli bilanci dei comuni): cioè si fa una lotta ben delimitata su quello che è una sorta di "manifesto" (la scolarizzazione assistita nell'ambito del sistema scolastico "ordinario"), nascente da un "certo" contenuto del diritto che risulta a la page nel clima "culturale" UE, che si ritiene o si "scopre" costituzionalizzato, in via particolare e scissa dalla considerazione di ogni altro diritto sociale di prestazione, e lo si difende in quanto tale, pur non avendo, eccezionalmente, il consueto "costo zero" (v. qui, voce "diritti cosmetici");

c) è evidente che se si fosse voluta tutelare l'affermazione (invece volutamente circoscritta e meramente disapplicativa) della prevalenza dei diritti fondamentali "costituzionali"tout-court su ogni altra fonte, alla Corte avrebbero dovuto porsi il problema del contrasto dell'art.81, quantomeno, con gli artt.1-11 (in particolare quest'ultimo) e con gli altri diritti "di prestazione", propri della persona (art.2 Cost.) e connessi al perseguimento della eguaglianza sostanziale, (art.3, comma 2, Cost.), ancor più esplicitamente previsti dalla Costituzione.
c1) E ciò, secondo un rilievo di illegittimità costituzionale "interna" alla Carta fondamentale (qui, p.2), sollevabile ex officio, in relazione alla gerarchia tra le norme costituzionali originarie, "fondamentali" e non revisionabili, e le successive norme costituzionali da mera "revisione", portando poi l'esame sulla legge di esecuzione e ratifica del fiscal compact, ai sensi degli artt. 11 (10) e 139 Cost: come in effetti avvenuto nel caso della sentenza della Corte n.238 del 2014.

V.1. Ma di tutto questo non v'è traccia; e nemmeno si profila all'orizzonte. Almeno per ora (che pure è un momento quasi "finale"). 
Peraltro, come abbiamo visto nell'immagine di apertura del post, talora l'eccezione, invece che limitarsi a confermare la regola, può dar luogo ad una regola "secondaria" più estesa...Se vogliamo essere ottimisti.
D'altra parte, ad esempio, - se la Corte intendesse seguire fino in fondo la apertura "speciale" fatta in questo caso concreto -, il parlamento ben potrebbe, con molta attualità, sollevare conflitto di attribuzione versus diktat bancari BCE, in quanto applicati, con osservanza pedissequa, mediante atti del governo e della BdI, a tutela del risparmio ed ai sensi dell'art.47 Cost.: e "se non ora quando"?
A Italia rasa al suolo dal bombardamento tedesco?

Non facciamoci troppe illusioni...
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PER L'ANNO NUOVO: ATTUARE LA COSTITUZIONE

January 1, 2017, 4:40 am
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L’ha dichiarato a Bloomberg David Folkerts-Landau, capo economista di Deutsche Bank e non poteva dirlo in modo più chiaro e a noi favorevole pic.twitter.com/j9BsRVXecI
— Bruno de Giusti (@VaeVictis) 31 dicembre 2016



1. Facciamola semplice e riduciamo il "messaggio" di augurio per il prossimo anno all'essenziale.
I temi che come nodi "giungono al pettine", con tutto il loro significato riassuntivo di un paradigma in crisi, ma non meno deciso a proseguire nella sua opera di distruzione, sono la Banca centrale indipendente, per di più sovranazionale, il welfare, e la sovranità democratica: ergo, per risolvere la crisi abbiamo bisogno di ATTUARE LA COSTITUZIONE.
Fino in fondo. Ricominciando ad avere come programma di indirizzo politico-economico la pura e semplice legalità costituzionale.
Questo richiede forti istituzioni democratiche, costituzionalmente orientate, e la volontà di riprendere insieme il cammino verso il benessere e la democrazia di tutti gli italiani;un cammino di sviluppo su tutto il territorio nazionale, di una Repubblica fondata sul lavoro, una e indivisibile, che riconosca e promuova, attraverso gli strumenti della c.d. Costituzione economica, le autonomie locali (art.5 Cost.).
Ed è questa, e null'altro, la sovranità. 

2. Per uscire dal ricatto del debito pubblico che giustifica lo stato di sospensione extraordinem della Costituzione:

Un tempo c'era la Hazard Circular.
Ora la dottrina della BC indipendente (sovranazionale)https://t.co/wDQ2Z3Cklrhttps://t.co/3nrSxmsZnC
— LucianoBarraCaraccio (@LucianoBarraCar) 31 dicembre 2016
3. Per restituire a tutti l'effettività dei diritti garantiti dalla Costituzione nella effettiva eguaglianza sostanziale dei cittadini, e per far ripartire, lo sviluppo nella sua dimensione ottimale sull'intero territorio, risolvendo il problema del Mezzogiorno perché conviene a tutti gli italiani (ma non ad altri popoli che ci vogliono colonizzare):

IL MIO AUGURIO PER L'ANNO NUOVO
1) https://t.co/wRfsIiYBvX
2) https://t.co/ElyjUIDffu
C'ho lavorato tanto. Regalo per chi sostiene int naz.le
— LucianoBarraCaraccio (@LucianoBarraCar) 30 dicembre 2016
4. Per il resto, in molti sempre di più, hanno capito (anche grazie al nostro amato H.J. Chang). Vi offro una rassegna, solo apparentemente casuale, che riflette una crescita positiva dell'opinione pubblica:


  1. massimiliaNO‏@natolibero681 h1 ora fa
    @VaeVictis@VitoLops@LucianoBarraCar

🔵‏@GrecOfficial25 dic
«Se l'Italia esce dall'Euro la sua economia andrà meglio, per noi sarebbe un disastro». Firmato: gli economisti di Angela Merkel.


🔵‏@GrecOfficial23 dic
Per regalo di Natale vi lascio @SkaKeller - politica tedesca - che a Ballarò il 06/05/14 spiegò cosa succede se si rompe l'€uro. Fate girare
27 risposte496 Retweet340 Mi piace
♠️♥️♦️
♣️‏@ZioKlint21 dic
L'orrore talvolta merita screenshot. Schiavismo reloaded. Special thanks to @gr_grim

  1. Grim‏@gr_grim21 dic
    #Bloomberg | Sistema bancario italiano necessita di almeno €52mld per ripulire i bilanci dagli NPL \\ #stateserenihttps://www.bloomberg.com/news/articles/2016-12-21/italy-bank-rescue-won-t-fill-54-billion-hole-on-balance-sheets …
  2. In risposta a Alberto Bagnai
    Alessandro Greco®🔵‏@GrecOfficial20 dic
    @AlbertoBagnai@VaeVictis@xabax999 sei pure ingeggggniere
  3. Giuse‏@rubino700420 dic
    @CremaschiG guardi come i teologi del pensi€uro unico fingono di fingere di accorgersi dell'ovvio




  4. Class CNBC@classcnbc
    Economisti tedeschi contrari a #Italia fuori da #Eurozona: da sondaggio Faz-Ifo largo margine (61%) contro uscita Roma #Germania
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  5. Ora Basta‏@giuslit18 dic
    Ah, quindi banca centrale indipendente non è un dogma irreversibile? (Che sarà presto spazzato via..)

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massimiliaNO‏@natolibero6849 min49 minuti fa
@VaeVictis@VitoLops@LucianoBarraCar
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  • massimiliaNO‏@natolibero681 h1 ora fa
    @VaeVictis@VitoLops@LucianoBarraCar
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  • massimiliaNO‏@natolibero682 h2 ore fa
    @VaeVictis@VitoLops@LucianoBarraCar




  • In risposta a Bruno de Giusti
    massimiliaNO‏@natolibero682 h2 ore fa
    @VaeVictis@VitoLops@LucianoBarraCar il "solito" Chang
  • In risposta a Alberto Bagnai
  • lim bo‏@theBsaint9 h9 ore fa
    #QED Amb.US descrive miti reazioni a programma di austerità del Governo di "solidarietà" nazionale. @EuroMasochismohttps://wikileaks.org/plusd/cables/1976NAPLES00517_b.html …
    5. Con implicazioni derivanti da una ampia gamma di dati e notizie tutt'altro che fake...
  • Bruno de Giusti‏@VaeVictis15 h15 ore fa
    Il nostro caro @VitoLops avrebbe una domanda su una faccenduola che ben presto riguarderà molti di noi...





  • Erasmo Partenopeo‏@ErasmoPartenope18 h18 ore fa





  • Giuse‏@rubino700422 h22 ore fa
    La domanda ha fiducia nell'offerta, l'offerta non ha fiducia nella domanda


    lim bo‏@theBsaint29 dic
    @NazarenoGalie@AlbertoBagnai@EuroMasochismo mi sembra la solita Austerità: disciplina salariale, pareggio di bilancio, riforme...
    2 risposte9 Retweet10 Mi piace


  • Flà‏@flabel8229 dic
    Sempre dal 1998, questo è Theo Waigel. Più chiaro di così...

  • Vladimiro Giacché‏@Comunardo29 dic
    Ringrazio @KellerZoe per questo grafico definitivo. Sul tema euro non serve altro
  • lim bo‏@theBsaint29 dic
    Conversazione AMB. US - La Malfa. Su comp. storico, PCI, macelleria e grembiule rosa @AlbertoBagnai@EuroMasochismohttps://wikileaks.org/plusd/cables/1977ROME21019_c.html …





  • Ora Basta‏@giuslit28 dic
    #BCE sa qualcosa che non sappiamo o ha agito su comando del socio tedesco di maggioranza. Tertium non datur https://europaono.com/2016/12/28/zingales-ecb-decision-on-monte-paschi-economically-correct-politically-dangerous-decisione-bce-su-monte-paschi-economicamente-corretta-politicamente-pericolosa/ …





  • Ora Basta‏@giuslit28 dic
    Prima BdI li ha imbottiti di obbligazioni, poi li ha condotti al macello del #bailin. Punto http://pllqt.it/NS36Vs 





  • (questo va riportato due volte, v. in fondo, perché i fake mediatici sono troppi al riguardo).
    In risposta a Fabrizio Galluzzi
    Giuseppe Drago‏@GiuseppeDrago7627 dic
    @FabGalluzzi@rubino7004@frank9you insostenibile così?
  • Leonardo Sperduti‏@spe197727 dic
    TRUMP: “LA GERMANIA TRAMITE L’EURO HA ILLEGALMENTE SVALUTATO IL DEUTSCHEMARK E, O CESSA TALE FURTO, O METTERO’ DAZ…
  • Luca Gonnelli‏@GonnelliLuca27 dic
    Luca Gonnelli ha ritwittato Ultime Notizie
    @borghi_claudio@PatriziaRametta@fdragoni@LucianoBarraCar@Comunardo la ricetta non cambia e non puo' essere diversa: tagli
    Luca Gonnelli ha aggiunto,

    Ultime Notizie@ultimenotizie
    La #Raggi taglia i fondi a sostegno della disabilità, passano da 95 a 60,5 milioni di euro: -30% in un solo anno.
  • Ora Basta‏@giuslit26 dic
    Il weekend lungo della Befana mi pare perfetto per farla finita con questa indegna gazzarra di #BCE, #UE, #UEM. Change over fulmineo.
    4 risposte61 Retweet71 Mi piace

  • Ora Basta‏@giuslit26 dic
    Alla #Bce si son ricordati il giorno di Santo Stefano che c'era lo sciortfoll..nello scenario avverso.
  • Umberto Molini‏@molumbe26 dic
    I disoccupati e i nuovi poveri italiani ringraziano l'Unione Monetaria Europea #Euro
    4 risposte109 Retweet75 Mi piace

  • Alberto Bagnai‏@AlbertoBagnai25 dic
    Il Jobs Act distrugge produttività, un cambio flessibile la favorisce: http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0954349X15000788 …
    0 risposte143 Retweet107 Mi piace

  • Alberto Bagnai‏@AlbertoBagnai25 dic
    Un'altra dimostrazione del fatto che il Jobs Act distruggerà la poca produttività rimasta: Damiani e Pompei (2010) http://eaces.liuc.it/18242979201002/182429792010070207.pdf …😱
  • Vladimiro Giacché‏@Comunardo25 dic
    Attendiamo fiduciosi che i sapientoni della @faz_Redaktion ci spieghino le tecnicalità del bailout di HSH con 10mld ancora nel 2016
  • Stefano Crosara‏@StefanoCrosara25 dic
    Stefano Crosara ha ritwittato Dr G
    Dalla parte dei terroristi
    Stefano Crosara ha aggiunto,

    Dr G@Sal_T_S
    LA CIA ammette ruolo degli Stati Uniti nella guerra alla Siria - World Affairs - L'Antidiplomatico http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-la_cia_ammette_ruolo_degli_stati_uniti_nella_guerra_alla_siria/82_18369/ …





  • LaSte‏@stefaniami24 dic
    LaSte ha ritwittato vocidallestero
    Il Telegraph su Mps " La banca è in crisi a causa della situazione generale imposta dall’eurozona all’Italia : recessione e austerità ".
    LaSte ha aggiunto,

    vocidallestero@vocidallestero
    AEP: il salvataggio di stato di Monte dei Paschi è una catarsi http://vocidallestero.it/2016/12/24/aep-il-salvataggio-di-stato-di-monte-dei-paschi-e-una-catarsi/ …





  • Valeria S.‏@valy_s22 dic
    3/10 #Padoan"il piano di #MPS sarà un SUCCESSO,NESSUN intervento del Gov" 25/11 #Padoan"il piano FUNZIONA" 22/12 #MPS"piano fallito"


  • In risposta a Bread Giuseppe
    Giuse‏@rubino700421 dic
    @itbread i paesi in grigio? Tutti in default? Un paese sovrano non può fare default @MarcoBarbieri77@VittorioBanti
  • In risposta a Bread Giuseppe
    Vittorio Banti‏@VittorioBanti21 dic
    @itbread@rubino7004 Ora ce l'ha.

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    LA LOTTA ALLA CORRUZIONE? LA MANO INVISIBILE (ma non troppo) CHE "AGGIUSTA LE ISTITUZIONI"

    January 3, 2017, 3:19 am
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    https://i1.wp.com/fusion.net/wp-content/uploads/2015/01/richest.jpg?resize=1600%2C900&quality=80&strip=all 
    http://fusion.net/story/39185/oxfams-misleading-wealth-statistics/

    Ho trovato una sorta di riassunto (qualcosa di più di un abstract) di un articolo di Ha Joon Chang sulla corruzione (la versione completa non l'ho rinvenuta). 
    Ve lo propongo con un commento esplicativo (in corsivo) condotto alla luce di quanto abbiamo esposto in questa sede, in numerose occasioni sul problema della corruzione. Il commento sarà più di rinvio ad analisi già compiute e di sottolineatura del "frame" implicito nei vari passaggi che una trattazione organica: il tema, infatti, potrebbe altrimenti espandersi fino a costituire una vera e propria monografia (che prima o poi troverò il tempo di fare).
    ADDENDUM: Intanto, consiglio "anche" di rileggersi laBREVE GUIDA SULL'USO MEDIATICO DELLA CORRUZIONE COME STRUMENTO DI DISATTIVAZIONE DELLA DEMOCRAZIA, dove si vede come il costo di 60 miliardi annui (!) della corruzione non possa aver fondamento e come le "classifiche" non riflettano, stranamente, i fatti più rilevanti di corruzione (internazionale). In dettaglio qui i 10 più grandi casi di corruzione che, essendo "business", non rilevano...

    .@EuroMasochismo@beppesevergnini@ausoloda e vogliamo ricordare loro approccio disciplinare materia corruzione? pic.twitter.com/vc3ndWllLw
    — Alessandro Fiorencis (@AleFiore2249) 13 luglio 2015

    1. "Nel maggio 2016 il Regno Unito ha ospitato il Summit Anti-Corruzione a Londra, facendovi convergere leaders dalle nazioni sviluppate e in via di sviluppo, ed altrettanto, "esperti" e gruppi di interesse.
    I leader mondiali e gli accademici hanno tratteggiato le loro visioni ed esperienze nell'affrontare la corruzione. Il summit s'è concluso con un forte comunicato che pone in risalto la malvagia influenza della corruzione sulla crescita e sulla società e a numerose proposte di iniziativa per combattere il fenomeno.
    Pare così che la corruzione sia un fenomeno malvagio che occorre costantemente combattere ed eliminare".
    Questo incipit, nel suo sottolineare la scontatezza tautologica dell'approccio corrente, è in sè piuttosto ironico e richiama la ritualizzazione, sostanzialmente inconcludente, della ormai autocelebrata versione mondialista di tale approccio: da tutto il mondo convergono esperti, accademici e esponenti delle autorità governative, per discutere della corruzione, sempre allo stesso modo, - salvo qualche aggiornamento di dati raccolti sempre all'interno delle stesse "curiose" metodologie di rilevazione. 
    Lo schema è immutabile (come vedremo, in versione mondialista, a partire dall'affermarsi del Washington Consensus, ma "ideologicamente" da ben prima; qui, p.3-4): i paesi anglosassoni o che comunquesi (auto)affermano al vertice sia delle classifiche del basso indice di corruzione (percepita), sia di quelle del raggiunto successo come "economie di mercato", si paludano con le condiscendenti vesti dei benefattori, preoccupati che il magico mondo del liberoscambismo globalizzato sia ostruito, nella sua marcia trionfale, dalla presenza di paesi che si ostinano a non capire quanto il "libero mercato" sia l'unica via possibile all'onestà e alla specchiata moralità dei costumi e della legislazione (qui, p.5), e disquisiscono, sempre allo stesso modo da circa tre decenni, di come "civilizzare" il resto del mondo.
    L'Italia, notoriamente, nelle classifiche della corruzione, invariabilmente percepita, - cioè rilevata in base a questionari sottoposti da organizzazioni promosse dai paesi "moralmente superiori"(e finanziate da e/o collegate, direttamente o indirettamente, alla Open Society)-, si trova in posizione da quasi-paese in via di sviluppo: quindi, in partenza, - e con la preoccupata adesione di tutto il nostro mondo istituzional-culturale-, sul banco, se non proprio degli accusati, almeno di quelli che devono "rendere conto" a interlocutori benevoli (lo fanno per il nostro bene), ma giustamente severi.
    La conclusione invariabile, per noi, ma anche per tutti i paesi non abbastanza mercatisti, è che la corruzione ha impedito la "vera" crescita e che c'è sempre tanta strada da fare per favorire l'ambiente ideale...per gli investitori esteri, che non tollerano, proprio no, di vedersi chiedere la mazzetta e di non avere tempi certi per le loro benefiche operazioni "di mercato". Operazioni che, invariabilmente, promuovono la crescita e, specialmente, l'occupazione (!) nei paesi in cui vanno ad investire, poiché il capitalismo globale, notoriamente, è sì rigorosamente attento al giusto profitto, e ci mancherebbe!, ma è essenzialmente mosso da spirito umanitario nel promuovere posti di lavoro e condizioni di dignità sociale nei paesi in cui, previa imposizione di giuste ed eque "condizionalità", generosamente interviene.

    2. "Questo articolo tuttavia asserisce che non tutte le forme di corruzione sono contrarie allo sviluppo di un paese e che i metodi dell'anticorruzione possano risultare in effetti avversi sui vari paesi. 
    Anzitutto, manca una univoca definizione di corruzione. Si può dire che la corruzione sia "l'abuso della pubblica fiducia per il guadagno privato". Ma il termine "pubblica fiducia"è una definizione troppo ampia poiché parti diverse della società, di una certa comunità, hanno diversi gradi di fiducia nei funzionari della pubblica amministrazione.
    Allo stesso modo, "guadagno privato" ha una gamma differenziata di significati posto che tale guardagno potrebbe persino essere redistribuito alla comunità generale. 
    In questo senso, l'azione di un individuo potrebbbe in effetti favorire e non ostacolare lo sviluppo. Una elargizione indebita da parte di un funzionario potrebbe o anche non portare a un produttore inefficiente.
    E allo stesso modo, un capitalista nel libero mercato potrebbe non sempre usare i fondi pubblici in modo efficiente. Pertanto, non è consigliabile classificare tutte le forme di corruzione come contrarie alla crescita.
    Potrebbero esserci casi in cui la corruzione "locale" potrebbe  in effetti condurre alla crescita.
    Si può citare il caso in cui un investitore in Vietnam avrebbe fatto meglio ad accettare il pagamento di una mazzetta poiché il procedimento ordinario avrebbe richiesto una complessa serie di espletamenti burocratici. Questo potrebbe non essere vero in tutti i paesi. Ma, in ogni modo, indica che ogni paese ha istituzioni politiche e sociali o norme che conformano lo sviluppo in quell'area.
    Da notare: la definizione della corruzione come "abuso della pubblica fiducia per il guadagno privato"la trovate, stranamente, "pari pari" qui: si tratta di un'associazione privata, ma, evidentemente, tanto influente, da imporre definizioni e basi di discussione, prese come "tecnico-giuridiche" (!), sulle quali le convergenti autorità governative di tutti i paesi del mondo disquisiscono, una volta "convocate", con assoluta serietà e convinzione.
    Ma la definizione non è solo vaga, come enfatizza l'articolo in commento: indica piuttosto una "colpevolezza" in partenza tutta incentrata sull'abusivo funzionario pubblico, mostruosamente e maniacalmente propenso al proprio "guadagno privato", e all'abuso della sua posizione in danno del generoso tentativo dell'investitore estero...o del capitalista nazionale. 
    Ma quest'ultima posizione è già meno "pura", moralmente, perchè vatti a fidare di come, un imprenditore non proveniente da un paese dichiaratosi virtuoso in base alle classifiche che ha previamente promosso, possa aver fatto funzionare il suo business: come vedremo il capitalismo "clientelare" o familista amorale, (quindi rigorosamente non anglosassone o nord-europeo), così diffuso nelle schiere delle razze inferiori - nelle classifiche- non si sa mai quali scheletri di connivenza con l'orrido Stato, nemico del "mercato libero", possa aver nascosto negli armadi. 
    Il che rammenta una certa"rimozione" della Storia del capitalismo imperialista e colonialista e della natura della "Mano invisibile" aiutata dalle cannoniere quando falliva la sistematica corruzione dei funzionari del paese il cui mercato, perbacco!, andava "aperto" (come un melone); ma tant'è...
    Dunque, la definizione di corruzione, ed è questo un punto molto importante, è fatta concidere principalmente con quella della "concussione", che è un fenomeno molto diverso, di "costrizione": non di accordo, cioè di mutuo consenso (e quindi di concorso condiviso nel reato), normalmente promosso dall'offerta avanzata operatore del "libero mercato".  
    Insomma, la generosa preoccupazione dei supervisori mondialisti della "onestà", garantita dal "libero mercato",  si attiva proprio, e solo, a fronte dell'attività estorsiva fatta da un pubblico funzionario la cui autorità è naturalmente portata all'abuso. 
    Ma, prima ancora, la visione della sfera del pubblico del paese "corrotto"è nutrita dall'aprioristica convinzione della sua non legittimazione a dettare regole (se non quelle rigorosamente "autorizzate" dalle organizzazioni economico-finanziarie sovranazionali o moralmente "approvate" dalle ONG mondialiste, benefattrici dei popoli "non all'altezza", come ci ricordano con classifiche, convegni e loro aggiornamenti). 
    In pratica: se queste regole si rivelano aggirabili a costi ragionevoli, non ci si preoccupa della corruzione; ma se il prezzo diviene troppo alto, allora il tentativo di bypassare le regole del paese "inferiore" e non adeguato al "libero mercato", diviene una "transazione non corretta" e conveniente e il tentativo di corruzione viene tout-court definito come "concussione".
    Cioè, l'episodio viene più esattamente "ribaltato" nel suo senso "negoziale": dalla corruzione, in cui l'offerta di "mazzetta" si ascrive alla iniziativa dell'investitore, alla forma dell'abuso con violenza e minaccia, tutti imputabili alla "naturale" propensione a delinquere dei pubblici ufficiali. 
    In pratica, è questione di "potere di mercato" nella transazione: oliare i meccanismi è un incentivo al dovuto "riguardo" verso l'investitore e la sua instrinseca funzione filantropica. 
    Invece, spartire i veri e propri profitti, associandosi alla loro compartecipazione, è, in definitiva intollerabile: un "salto di classe" che merita la creazione di un'autorità di supervisione mondialista e il conseguente sistema di invocazione di sanzioni e adeguati "rimedi". Rimedi alla intrusione indebita nell'affare, non limitata alla rispettosa agevolazione.

    Questo dunque lo schema: il paese "inferiore" non può, per definizione, dettare regole che, pensando al pubblico interesse comunitario, risultino accettabili e legittime (almeno per l'investitore del "paese" moralmente degno e non familista): in quanto queste regole risultino comunque di ostacolo al libero fluire della "mano invisibile" che sospinge l'investitore estero, viene, perciò, abbandonata la proposta di  corruzione e si passa all'accusa implicita, - sanzionata dal pubblico ludibrio mondiale delle classifiche e dalla imposizione di "condizionalità" e "riforme" ad opera di organismi economici sovranazionali- di abuso, malversazione e, soprattutto, concussione. 
    Lo Stato (altrui, non ad economia totalmente aperta agli investitori esteri dei paesi "benefattori"), è "violento o minaccioso" e quindi non legittimato né a dettare regole di ostacolo alla "mano invisibile" , né tantomeno a farle rispettare.
    Eloquente dimostrazione di ciò la si ritrova in questa definizione di "corruzione"che si rinviene sul sito della Open Society: "The Open Society Foundations are working to secure legal remedies for bribery, the theft of public assets, and money laundering arising from the exploitation of natural resources". 
    E già: chi è degno di appropriarsi delle "risorse naturali"? 
    Non certo il funzionario sudaticcio di una paese mediterraneo o tropicale che immancabilmente chiede la mazzetta, "rubbbba" il pubblico denaro e aiuta il lavaggio del denaro sporco (non la finanza internazionalizzata anglofona, come dimostrano i "Panama Papers": proprio il funzionario pubblico dell'oscuro paese in via di sviluppo è il motore del riciclaggio!); il denaro sporco accumulato da mafie e capitalisti "clientelari" dei paesi "arretrati" (only).

    3. "In secondo luogo, gli sforzi passati e attuali per combattere la corruzione o non l'hanno fermata o hanno in effetti inibito lo sviluppo di un certo paese.
    Una consolidata visione dei privati assoggettati alla corruzione è che lo Stato dovrebbe avere una ridotta interferenza con l'attività economica. 
    Questo approccio risalente durante gli anni 1980 e 1990, ha permesso in effetti alle imprese private e pubbliche di praticare l'attività corruttiva. Nell'era  post-Washington Consensus, gli operatori suggerirono che lo Stato intervenisse per assicurare diritti di proprietà più forti e transazioni economiche "razionali", o direttamente di "aggiustare le istituzioni".
    Ciò voleva significare che lo Stato che assicurasse un sistema mercato-centrico dovesse proseguire a farlo. E inoltre, significava che lo stesso rigido schema fosse presentato ai paesi in via di sviluppo. Questo costituiva la "Agenda del Buon Governo", che ancora oggi non aiuta a correggere la corruzione. 
    In effetti ha alimentato nuove forme di corruzione come il “crony capitalism” (ndt: capitalismo "clientelare" o "degli amici", tipico della transizione verso un paradigma mercatista puro), prevalente nei paesi post comunisti dell'Europa orientale e prima e durante la crisi finanziaria asiatica.
    La "Good Governance Agenda"è stata inoltre un segnale che suggeriva, agli operatori che ricevevano aiuti e sussidi, di conformarvisi al fine di divenirne beneficiari, perpetuando condizioni simili a quelle presenti negli anni '80 (di dipendenza dalle indicazioni del potere costituito pur in un nuovo scenario ed indirizzo). Come lo stesso Washington Consensus, questa agenda ha in concreto inibito la crescita economica. Tuttavia, questa è l'agenda utilizzata dai leaders politici da quegli anni fino all'attuale agenda anti-corruzione.
    Appunto: ridurre il perimetro dello Stato e promuovere i diritti di proprietà privata e le "transazioni economiche razionali". Inutile ripetere come ciò assomigli molto alla sistematica eliminazione di intrusi nella spartizione del bottino.

    4. Queste indicazioni dalla realtà applicativa indicano che la corruzione non è sempre contraria allo sviluppo e che gli sforzi per eradicarla non l'hanno fermata e hanno frenato lo sviluppo.
    Questo articolo non mira a lasciar dilagare la corruzione quanto ad indicare che c'è bisogno di nuovi approcci al problema. 
    Anzitutto, gli operatori (esperti e governativi dei paesi che erogano fondi per combattere la corruzione nei paesi in via di sviluppo) non dovrebbero assumere tutte le forme di corruzione come cattive o contrarie allo sviluppo. Essi dovrebbero esaminare ciascun differente contesto istituzionale prima di applicare qualsiasi misura di contrasto. 
    In secondo luogo, occorre una impostazione del tutto nuova per affrontare le forme attuali di corruzione. 
    Gli operatori e i governi dovrebbero focalizzarsi sui poveri e sulla eguaglianza nel portare avanti le misure anti-corruzione. Non dovrebbero soltato porre attenzione su misure anti-corruzione mercato-centriche o funzionali alla crescita. 
    In terzo luogo,  dovrebbe esserci un cambiamento di cultura operativa all'interno delle nazioni "eroganti" e le organizzazioni preposte. Gli esperti delle organizzazioni per lo sviluppo potrebbero (invece) permanere nelle stesse metodologie e soluzioni, nonostante l'affermazione di un cambio di approccio al problema. Un tale mutamento può naturalmente richiedere tempo per essere completato, ma è necessario per pervenire a un diverso approccio verso la corruzione.
    Ma probabilmente, anzi con ampio margine di certezza, quando si parla di lotta alla corruzione, non si ha proprio in mente "lo sviluppo". Se così fosse, non ci si sarebbe ostinati nelle strategie anticorruzione che, negli ultimi decenni, si sono accompagnate (v, pp. 4-7) proprio alla marcata riduzione della crescita nella varie aree del mondo!
    La lotta alla corruzione, condotta da decenni e con le incrollabili convinzioni che abbiamo visto, avrà mai fruttato, finora, oggettivi risultati nel promuovere la crescita "nel" libero mercato globalizzato e, specialmente, una più equa distribuzione della ricchezza? 
    E più "combattono" la corruzione, ESSI, per il nostro bene, più diventa equa.
    Ma si sa: è colpa degli Stati, brutticorrotti...

    62 people own the same as half the world, reveals Oxfam Davos report



    Infographic: The global pyramid of wealth | Statista
    http://www.valuewalk.com/wp-content/uploads/2014/11/Wealth-Inequality-1.jpg

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    PARLAMENTARISMO, STATO DI ECCEZIONE PERMANENTE E AMMISSIBILITA' DEL QUESITO SULL'ART.18

    January 5, 2017, 12:02 am
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    http://images.slideplayer.it/12/3666573/slides/slide_3.jpg
    http://slideplayer.it/slide/3666573/

    Mentre sul fronte delle politiche economico-fiscali (e non a caso, visto che dovremo presto pensare alle coperture e ai "piani di rientro") domina la "questione bancaria", cioè l'insolvenza posta a carico dei risparmiatori-contribuenti in (più) momenti, sostanzialmente inscindibili (e lo vedremo nel 2017-2018), l'attività parlamentare e "partitica" appare in una sorta di stasi che ricorda molto la quiete prima della tempesta.
    Formalmente, l'attività politica sembra in stallo perché vige la parola d'ordine che occorre aspettare un paio di pronunciamenti della Corte costituzionale.
    Uno è quello, atteso per il 24 gennaio, relativo alla "costituzionalità" della legge elettorale, c.d. Italicum. 
    L'altro, ancor prima (l'11 gennaio), e ancor più rilevante in termini di valori costituzionalì, - in un Repubblica fondata sul lavoro (art.1) obbligata ad attivarsi per rendere "effettivo" il diritto relativo, con politiche economiche di pieno impiego (artt.3 e 4, comma 2, Cost. in relazione all'intera Costituzione "economica")-, è quello sull'ammissibiltà dei quesiti referendari sul jobs act.

    2. Anzitutto,sull'Italicum la pronuncia della Corte potrebbe risultare di inammissibilità: tale legge, infatti, non solo non ha avuto applicazione in alcuna concreta elezione, ma risulta, secondo lo stesso Capo dello Stato, inapplicabile, dovendo essere quantomeno coordinata e "armonizzata" con il "Consultellum", de facto vigente per il Senato, e una vera "armonizzazione" non è compiutamente operabile dalla Corte. Questa allora, potrebbe fermarsi a rilevare il difetto di "rilevanza" delle norme denunciate, a rigor di logica. Ma se volesse superare questo non trascurabile aspetto pregiudiziale, con un certo"spirito pratico", potrebbe anche scendere del merito:in tal caso, però, essenzialmente per mostrare che non spetta a lei indicare soluzioni direttamente applicative che rimangono nella responsabilità del parlamento.

    Sui quesiti del referendum la questione è ancor più "spinosa".

    2.1. Il quesito più importante, quello sull'art.18, infatti, è in odore di inammissibilità ed oggetto di una dura lotta interna alla Corte, stando a quanto riportano i giornali, non sorprendentemente orientati, in maggioranza, ad accreditare l'inammissibilità sostenuta da esperti ESTERNI alla Corte.  
    La tesi relativa sarebbe, in sintesi, (e salvo maggior approfondimento imminente), che il quesito, in particolare la parte di esso relativa alcomma 8 (dell'art.18), inciderebbe non solo sulle parti della disposizione complessiva introdotte dal jobs act ma anche sulla parte ad esso sopravvisssuta, cioè sulla differenziazione delle soglie di esenzione (dalla tutela rafforzata dei licenziamenti mediante la reintegra), tra imprese "industriali" (per cui è di 15 dipendenti), e imprese agricole (per cui è di 5 dipendenti), differenziazione risalente alla versione "originaria" della previsione. 
    In pratica, si dice, l'esito del referendum sarebbe quello non di abrogare la norma vigente ma quello di introdurne un nuova, divenendo inammissibilmente "propositivo"(a differenza di qualsiasi disciplina previgente, nel tempo, si avrebbe l'estensione della reintegra a tutte le imprese con almeno 6 dipendenti).

    2.2. Tale obiezione, non ha, a rigor logico-normativo, molto fondamento: oggetto del referendum abrogativo è il testo di una norma (in tal caso articolata in più disposizioni coordinate), a prescindere dalla pluralità di fonti, che materialmente hanno dato luogo a "quel" testo (e all'unica fonte attuale "composita", materializzata in un unitario testo di portata normativa). 
    Se quindi l'abrogazione investe IL TESTO di una norma, in una delle disposizioni coordinate a tutte le altre nella sua attuale formulazione letterale, sia pur derivante da più fonti, (comunque accorpate in un'unica disciplina come risultato attuale della pluralità di fonti), non pare corretto ri-scindere, in fase abrogativa, le fonti unificate nell'unico testo per sindacare l'effetto abrogativo: questo deve poter espandersi pienamente secondo il consenso maggioritario espresso dal corpo elettorale,  e ipotizzarne, forzatamente, un risultato "creativo" di una nuova norma. 
    E ciò per la semplice ragione che l'effetto abrogativo di una delle disposizioni contenute in un'unica norma-disciplina articolata, disposizione legittimamente oggetto di richiesta di abrogazione, conduce sempre, immancabilmente ad un nuovo testo della norma complessiva e, quindi, a una nuova norma in senso materiale ("interpolando" la fonte nella sua attuale e inscindibile portata normativa). 
    Non sta scritto in Costituzione che una complessiva norma, composta, come normalmente accade, di più disposizioni coordinate, provenienti INDIFFERENTEMENTE da una o più fonti succedutesi nel tempo, possa essere solo oggetto di abrogazione integrale o relativa all'ultima fonte confluita in quella vigente.

    3. Ma questo ordine di problemi, ci riporta a una questione più generale e "pregiudiziale". 
    La sovranità, cioè il potere di esprimere la volontà realizzativa dei fini fondamentali della Comunità-Stato, racchiusi nella Costituzione, spetta in via prevalente al Parlamento o al popolo eretto in corpo elettorale che, a rigor di Costituzione, è titolare di tale sovranità? 
    Per comprendere l'insidia che deriva dallo stesso porsi questo quesito, ricorriamo ai profili di storia, istituzionale ed economica, che sono emersi dal dibattito su questo blog.

    3.1. Ci dice Lorenzo Carnimeo, commentando la questione della "neutralizzazione" degli stessi parlamenti perseguita, esplicitamente, fin dai suoi esordi, dalla costruzione federalista europea:
    "Bello spunto, che mette in evidenza, tra l'altro, ed anzi conferma, l'incompatibilità sostanziale tra liberalismo e democrazia parlamentare, laddove, invece, la "vulgata" dominante vede (ancora) come l'uno padre dell'altra.

    Non è invece così (e lo vediamo oggi), non era così (e lo vediamo leggendo criticamente i trattati di Roma ed il manifesto di Ventotene), non era così ancora prima (vedi il liberale Salandra e tanti altri come lui affascinati dalle sirene dell'autoritarismo fascista).

    E non era così nemmeno "alle origini" in un certo senso.
    Già alla fine dell'800, infatti, Sonnino si trovava ad affermare (nel celebre "Torniamo allo Statuto") che "In un Governo fondato quasi totalmente sull'elezione manca, nella alta direzione della cosa pubblica, la rappresentanza dell'interesse collettivo e generale". 
    Il Passo citato ci dice già tutto: la composizione civile degli interessi particolari, che, a ben vedere, è alla base del confronto parlamentare deve cedere, ad avviso di Sonnino, il passo ad un preteso interesse superiore, che è visto addirittura come estraneo e sovraordinato ai meccanismi della democrazia rappresentativa, i quali, per loro natura intriseca, rappresentano addirittura qualcosa di opposto (i cattivi "interessi particolari"). 
    Si tratta, in sostanza, di un perverso primato della politica che costituisce, puta caso, la "grundnorm" di un particolare "stato di eccezione", quello del "vincolo esterno" che diventa, da un punto di vista morale, una sorta di misura necessitata per, potrebbe ben dirsi, salvare la democrazia da se stessa (annullandola).
    In quel testo si trovano, poi, tanti altri rimandi al nostro presente. Primo fra tutti il mito del "governocentrismo" come unica via per affermare il preteso interesse superiore. 
    Il ritorno alla formula letterale del potere esecutivo in capo al Re, con conseguente rigetto della prassi parlamentare che si era consolidata, viene infatti giustificato da una visione di un potere esecutivo che deve (si citano le testuali parole) "nella sua azione di governo, mantenersi al di sopra e al di fuori dei partiti" (e come si collocano, oggi, le istituzioni €uropee? "Al di sopra e al di fuori dei partiti"!!!), e che non deve (si cita sempre dal testo) "favorire gli interessi della maggioranza piuttostoché quelli della minoranza [ ... ] ma considerare tutti i cittadini allo stesso modo tenendo conto del solo interesse generale dello Stato". 
    Ben potrebbero vedersi, in queste parole, gli albori di quella che potremmo definire "morale della tecnocrazia": se il potere esecutivo, per ricondursi all'interesse superiore di cui è unico portatore, deve prescindere da ciò che un Parlamento democraticamente eletto rappresenta, ciò significa -e non potrebbe essere altrimenti- che l'unico modo in cui il secondo può coesistere col primo è vincolato alla presenza di un perenne stato di eccezione che ne neutralizzi la sostanza, riducendolo a mero organo ratificatore.
    Insomma, la "dottrina" era già stata scritta.....
    Guardando ai fatti di oggi, rimango sempre più convinto che Liberalismo e parlamentarismo tutto sono tranne che fratelli. E non c'è momento nella storia, dalla nascita delle prime democrazie ottocentesche, in cui il primo non manifesti, ad intervelli regolari, decisa insofferenza verso il secondo..."

    3.2. Sottolinea Arturo (autore del post), con un commento di cui occorre apprezzare i links:
    "Sono d'accordissimo, ma l'equivoco, se vogliamo chiamarlo così, mi pare semplicemente il frutto di una separazione fra storia filosofico-politica e storia giuridica.
    Se si evita l'apologetica della prima e ci si concentra sulla seconda, la "normale" apribilità dello stato di eccezione (ricordo la citazione di Bin che avevo riportato qui e quella di Zagrebelsky qui, punto 1.4) e la prevalenza dell'esecutivo sui parlamenti (vedi la citazione di Bagehot riportata da Nania qui) risultano fatti acquisiti". 


    3.3. E infine vi ripropongo (sempre a fini di miglior conservazione dei più proficui dibattiti) le mie riflessioni indotte da questo importante scambio:
    "Ci sarebbe da chiedersi perché i parlamenti siano stati, comunque, nel corso del tempo, anche esaltati dal capitalismo anglosassone, che è poi il modello di riferimento del sempre autorazzista spirito imitativo delle elites italiane.

    Volendo farla breve, la ragione principale di tale concorrente "vena" della facciata etica del capitalismo liberoscambista, e implicitamente mercantilista-imperialista (come evidenziò Joan Robinson), è la CORRUTTIBILITA' delle compagini parlamentari (pre-orientativa delle deliberazioni assembleari: cose che, ancora oggi, vediamo divenuta una mitologia pop in serials USA come House of cards o "The Boss", di cui consiglio la visione a ci se lo fosse perso. Senza menzionare le "storiche" vicende dei rivolgimenti dell'Assemblea nazionale durante la Rivoluzione frencese...).

    In sostanza, la prevalenza dell'Esecutivo conssegue a un certo qual consolidamento di rapporti di forza che si incentrano sui più eminenti operatori economici "tradizionali" e, in qualche modo, legati all'accumulo di terra-oro nel territorio nazionale.

    Si tratta, ovviamente, di banchieri, della cui "morale" prevalente Bazaar ha evidenziato il ruolo essenziale relativamente alla fondazione delle regole pregiuridiche ritenute "fondanti" un ordinamento liberale, e delle grandi industrie di "prima generazione"; questo complesso consolidato, in quanto tale, tendeva, e tende (adeguandosi ai tempi e alle tipologie di media) a condizionare l'opinione pubblica e la legislazione "a valle" di essa.

    In altri termini, nelle vicende storiche di superamento del c.d. ancien régime,gli operatori economico-finanziari, resa rispettabile la propria condizione, tendono irresistibilmente ad assumere funzione e ruolo delle vecchie aristocrazie (che hanno espulso dal potere) ed "occupano" le strutture istituzionali, cioè lo stesso Cabinet e le "filiere" pubbliche dell'esercito e della diplomazia (e della magistratura).

    Se la burocrazia diviene così esponenziale dello Stato borghese-liberale, incarnato dalla tendenziale prevalenza dell'Esecutivo, lo diviene in un modo particolare: cioè, inevitabilmente autoconservativo di certi rapporti di forza "interni" alla classe capitalistico-mercantile.
    Allora, in questa situazione, le forze nuove che operano sull'evoluzione dei traffici commerciali e delle filiere industriali, in chiave colonialista e mercantilista, entrano in concorrenza con l'establishment del capitalismo (pro-tempore) divenuto rispettabile (ma non meno attento a conservare la prevalenza nel conflitto sociale interno).

    Per indurre politiche che siano anche protettive e promozionali dei nuovi settori emergenti, che spesso, in poco tempo, divengono i più lucrativi, questi ultimi tendono a comprare l'indirizzo legislativo tramite il parlamento, di cui si assicurano un crescente numero di esponenti eletti e foraggiati, nelle loro prese di posizione, dai nuovi flussi finanziari.

    Sul punto, rammento questo post: http://orizzonte48.blogspot.it/2016/04/la-mano-invisibile-che-affida-la.html (relativo alla guerra dell'oppio; esempio paradigmatico che può essere esteso a molte altre successive ed analoghe vicende, anche negli Stati Uniti).

    Questa, in fondo, è la logica dei checks and balances: essa presuppone cioè la possibilità di avvicendamento tra settori o fazioni del potere economico, storicamente mutevoli e in dialettica rispetto agli assetti autoconservativi interni alla classe oligarchica.

    Dunque, sulla base di alcuni principi organizzativi quali l'idraulicità delle elezioni, garantita dal controllo dei media, e i meccanismi delle leggi elettorali (invariabilmente tesi a selezionare l'elettorato passivo), i parlamenti sono considerati accettabili come espressione della "Mano Invisibile" proiettata nel campo del controllo concorrenziale delle istituzioni: ma sempre ascrivibile ad una sola classe sociale...

    Al di fuori di queste rigide condizioni, e spesso proprio per la inefficienza in termini di benessere collettivo di questi meccanismi delimitati, i parlamenti "entrano in crisi": cioè finiscono per rappresentare diversi gradi di un più esteso malcontento sociale.
    Ed è allora che la solidarietà della classe finanziario-industriale viene ritrovata e si muove l'attacco sistematico ai parlamenti.

    Inutile dire che la causa di ciò sono diversi gradi di compromesso: cioè allorquando si accetta il suffragio (più o meno) universale e/o accedono alla burocrazia esponenti di altri ceti sociali, o "peggio", si organizza il potere sindacale.

    Il parlamentarismo va bene, dunque, purchè non si realizzi neppure un minimo di Stato pluriclasse e l'idraulicità elettorale sopporti soltanto stress soggetti all'agire di forze, in evoluzione, tutte interne all'oligarchia.

    Oggi, dai veloci (e spesso violenti) arricchimenti coloniali, siamo passati all'affermarsi delle "nuove tecnologie" come dinamiche caratterizzanti questa dialettica, considerata accettabile e che, entro queti limiti, fa ancora conservare i parlamenti e i processi elettorali.
    In pratica: solidali quando si tratta di scongiurare la "dittatura della maggioranza", in concorrenza, anche feroce quando di tratta di sostituire una "dittatura della minoranza" ad un'altra.

    Il rapporto normale del capitalismo con le pubbliche istituzioni politiche, dunque, è la corruzione, che rappresenta l'applicazione del metodo concorrenziale al processo di formazione dell'indirizzo politico (si tratta, a ben vedere, di un corollario della formazione dei prezzi in regime oligopolistico).

    Oggi, più tecnocraticamente (and out of political correctness), la designano "capture", ma il principio è sempre lo stesso.
    La corruzione-brutta - quella delle classifiche promosse dai più grandi corruttori (su scala industriale)- è solo quando intermediari non appartenenti alle elites si inseriscono nel meccanismo ed alzano il costo della competizione politica "interna", rendendo "inammissibilmente" più incerto e oneroso un esito favorevole (cioè ottimo-allocativo paretiano).

    3.4. Chiosa di Francesco:
    "Non a caso, il Parlamento è un’istituzione dell’epoca liberale, mentre l’istituzione dell’epoca democratica è rappresentata dai partiti di massa: l’entrata in scena di questi ultimi avrebbe dovuto spostare il centro della vita democratica fuori del Parlamento, organo che quindi avrebbe dovuto essere profondamente modificato per adattarsi al nuovo scenario. Non è accaduto.

    I risultati sono quelli da Lei puntualmente rilevati: scadimento dell’istituto Parlamentare a beneficio del Governo, con sostanziale concentrazione del potere oligarchico-capitalistico in capo a quest’ultimo (la scampata riforma costituzionale voleva non a caso sublimare quest’assetto).

    Il problema è, manco a dirsi, spostare dal Parlamento alle masse il definitivo baricentro, in modo che le masse possano inserirsi negli ingranaggi della vita collettiva, cioè là dove sono in giuoco i loro interessi. Partiti e sindacati di classe, valorizzazione degli enti locali (Comuni), gestione diretta ed autonoma dei servizi sociali, culturali e servizi essenziali, oltre che dei sistemi informativi. Ma, soprattutto, democratizzazione del processo produttivo mediante gestione aziendale (art. 46 Cost., di cui i molti ignorano l’esistenza; le argomentazioni di Giannini, sul punto, andrebbero riprese alla lettera).

    Non è utopia, è Costituzione italiana, norme precettive: artt. 1, 3, comma II, 4 e ss.. Sempre allo stesso punto andiamo a finire. Ma tanto che ce lo diciamo a fare…"
    ↧

    CHI PUO' PERMETTERSI DI DIRE LA V€RITA'"ALLA CITTADINANZA" (MAI AL "POPOLO")?

    January 7, 2017, 11:50 pm
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    1. Non siamo noi che battiamo il ferro finché è caldo: è la tumultuosa (e per ESSI "sorprendente") realtà che lo surriscalda, e porta un intero sistema a smartellare (in preda alla confusione se non al panico). 
    Un sistema il cui vertice (cultural-mediatico, naturalmente pop), già da un pezzo si interroga sui populismi e, in effetti, non sa come rispondersi, perché...non lo può semplicemente fare, a pena di avviare un processo di autoimputazione.
    Facciamo un esempio che, in termini di establishment cultural-mediatico italiano è piuttosto rilevante: Mucchetti, un autorevole commentatore e esponente politico, che abbiamo già incontrato su questo blog, riflette sull'agonia dell'idea portante, di fusione di partiti a vocazione maggioritaria, che ha animato la fondazione del partito democratico. 
    Interessante il rilievo critico di premessa: 
    "Il Pd non ha aperto ancora alcuna discussione né sulla sconfitta al referendum del 4 dicembre né sulle precedenti, fallimentari elezioni amministrative".
    Quindi ripercorre un po' di storia delle alleanze a sinistra e dei meriti di un passato prodiano: 
    "il primo governo Prodi avviò le privatizzazioni e le liberalizzazioni, varò le Autorità indipendenti, tagliò il debito pubblico certo grazie ai tassi calanti (come adesso, del resto) ma anche grazie alla riduzione del costo del lavoro delle pubbliche amministrazioni pari a due punti di Pil, introdusse criteri di gestione meritocratici (poi svaniti nella successiva execution), congelò la dinamica del costo del lavoro nel settore privato attraverso la concertazione e portò l'Italia nell'Euro contro tutte le previsioni". 

    2. Da ciò emerge, inequivocabilmente, che il metro di ricognizione dei "meriti" stessi sia, tutt'ora, ancorato ad una scala di valori che definisce un paradigma al cui vertice c'è "l'entrata nell'euro". 
    E con ciò, si rende assiologico tutto lo strumentario funzionale a tale valor€ supr€mo che, a sua volta, implica la "virtù" della società "riformata", al passo con la sfida della globalizzazione e l'inevitabile e indiscutibile esigenza di de-sovranizzare uno Stato il quale, in sè, non può che essere un "peso", un elemento retrivo e negativo.
    Infatti, il debito va tagliato; la spesa pubblica, meglio ancora se nelle voci riguardanti il costo del lavoro delle pubbliche amministrazioni, altrettanto; il  costo del lavoro? Ma va congelato! Altrimenti quale mai altra può essere la chiave verso l'aumento della produttività e della sua compagna, immancabilmente "pacifista", la "competitività"? 
    La realtà storica dei dati e indicatori macroeconomici italiani, stressati (almeno dai gloriosi t€mpi di Prodi) da questo paradigma valorial€, non conferma l'ipotesi "m€ritocratica": anzi la smentisce in modo drammatico, ma non importa.

    3. Poi, però, diviene praticamente impossibile capire le cause profonde della crisi politica, (non solo italiana), prescindendo dalla struttura economico-sociale che si è voluta ri-plasmare in un modo in cui si continua incrollabilmente a credere.
    E infatti Mucchetti, per spiegare "meglio" la crisi politica, cioè un effetto sovrastrutturale (per definizione) ricorre a un elenco non di cause, bensì di effetti, confermando che l'inversione del meccanismo causa/effetto (qui p.8) è il carattere essenziale dell'eurostrabismo a vocazione (sovra)internazionalistica. 
    Il brano  che stiamo per citare non esaurisce tutto il complesso ragionamento svolto da Mucchetti, ma rimane fortemente indicativo della "inversione" che caratterizza la (pur intelligente, all'interno di questa paralogica inesorabile) critica costruttiva di Mucchetti:
    "...Salvati non nasconde la nostalgia per la riforma costituzionale bocciata dagli italiani, che l'aspettavano, così diceva l'ex premier, da 70 anni. Nostalgia per il rafforzamento della governabilità che ne sarebbe derivato. 
    Mi chiedo se la governabilità, bandiera in verità non nuova essendo stata sventolata da Bettino Craxi almeno trent'anni fa, vada perseguita a qualunque costo. Se constatiamo come i populismi avanzino anche in Paesi con sistemi istituzionali più solidi ed efficienti del nostro proprio sul piano della governabilità, allora non possiamo non riconoscere come la crisi delle democrazie occidentali dipenda da altre ragioni, diverse dalla presunta insufficienza dei poteri del governo entro i confini dello Stato. Come dipenda da ragioni più profonde e più contemporanee: per esempio, dall'atomizzazione degli individui e dalla ricostruzione di nuove tribù d'opinione favorite dalle tecnologie internettiane. Come dipenda dalla globalizzazione finanziaria che depotenzia la politica nazionale e ha ormai provocato il divorzio del risparmio dagli investimenti nei luoghi dove la gente genera - meglio, ha generato - il risparmio; dalla globalizzazione del diritto che, lo spiegò perfettamente Sabino Cassese, ha disintermediato i parlamenti e perfino i governi a favore di burocrazie senza patria; dal declino delle ideologie laiche e delle religioni cristiane; dall'andamento delle disuguaglianze di reddito e di speranza e, soprattutto, della loro percezione all'interno delle diverse comunità".

    4. Notevole come il vero senso del mito della governabilità,  e la sua radicale estraneità alla democrazia sostanziale, cioè alla struttura dei rapporti di forza riequilibrata verso il lavoro;  il "facciamocome" imitativo delle "altre democrazie"; l'individualismo metodologico; il liberoscambismo globale; la de-sovranizzazione statuale e la prevalenza del diritto internazionale privatizzato, siano visti come fenomeni quasi indipendenti tra loro, vicende evolutive che "capitano", e non come le tappe e i vari epifenomeni realizzativi di un unico grande disegno: la Grande Società dell'ordine sovranazionale dei mercati, volta alla restaurazione del paradigma liberista (neo o "ordo"), che vede, nel generare la montante marea dei "perdenti" un risultato naturale, e nel marginalismo marshalliano l'unica possibile condizione di equilibrio, in cui le oligarchie riversano, sulla "perfetta" flessibilità del prezzo(costo) del lavoro, la loro ossessione patologica per l'efficiente allocazione delle risorse: "paretiana". Senza crescita (ché, ormai, la "ripresa" viene identificata con l'assenza di recessione!), ma giusta e naturale: et pereat mundus.

    5. Da qui tutto un inseguire, come fa in fondo il Wolf linkato all'inizio, la definizione del nuovo "male", visto come causa, improvvisa, di impedimento ad un progresso altrimenti inarrestabile; anche se, magari, un po'"disintermediante", non tanto dei parlamenti e dei governi, quanto delle istituzioni democratiche rappresentative degli interessi pluriclasse del popolo italiano, cioè della democrazia pluriclasse (e non formale, idraulico-elettorale, cioè liberal-oligarchica): quella della eguaglianza sostanziale della nostra (la nostra!) Costituzione.
    Il nuovo male, naturalmente, sono i POPULISMI. Ismi, ismi...
    Il termine più vuoto di significato della lingua italiana viene declinato pure al plurale, a confermarne l'indeterminatezza#populismipic.twitter.com/37UXZSpbDV
    — Ora Basta (@giuslit) 8 gennaio 2017

    Ma lo smantellamento del welfare a piccole dosi (prodianamente parlando), il perseguimento dell'alta disoccupazione strutturale per "concedere", come fosse un beneficio graziosamente elargito da volenterosi "amici del popolo" (ma detto sottovoce, "popolo", per non confondersi con i populisti...), il precariato e la deflazione salariale dai mille volti (dai contratti di solidarietà, ai voucher, alle riassunzioni dei licenziati ultracinquantenni, in nuovo regime "jobs act"), possono davvero essere "curati" e con esso il "populismo", muovendo dei rimproveri a...Renzi?

    Non credo sia scandalo pagare lavoretti extra ai pensionati con i voucher. È scandalo pagare il 1º lavoro con i voucher. Pensione a 126anni! pic.twitter.com/bhM9MoFKzg
    — Nazario (@ARIZONA49) 7 gennaio 2017
    6. In particolare si avanza il rimprovero di "non dire la verità alla cittadinanza". 
    Non sia mai che la si possa dire al "popolo sovrano", come invece scolpisce chiaramente l'articolo 1 della Costituzione, visto che, insomma, "popolo"è la radice di populismo; mentre la "sovranità", beh, è il "nemico della pace" (rimuovendo Rosa Luxemburg...e Lenin, pp.6-7; il che "a sinistra" non mi pare il massimo...) e, dunque, non è più "etico" parlarne, (specie dopo la Brexit!). Ma "rimosso" il primo e demonizzata la seconda, c'è qualcuno che può permettersi di dirla, 'sta verità, ove avesse già a lungo governato (in nome dell'euro e della sfida della globalizzazione)?

    6.1. Ora, tra le soluzioni, Mucchetti indica il sistema proporzionale con adeguato sbarramento per evitare la frammentazione, "perché in Germania funziona". Ma il tutto è volto allo scopo di favorire le grandi coalizioni, "con il centro e il centrodestra costituzionali": come, come, come? 
    E da quando ci sarebbero anche un centro e un centro-destra "incostituzionali" e quale sarebbe il carattere discretivo? E poi: siamo sicuri che il sistema proporzionale (con sbarramento e magari un "piccolo" premio di maggioranza), contro il populismo che arriva misterioso e flambant neuf (ma davvero?), in Germania, realmente "funzioni" e possa continuare a farlo?
    Non so perché, ma appare una posizione un po', come dire, wishful thinking, un espediente di auto-mantenimento al potere ad ogni costo; di certo una soluzione né stabile, nè tantomeno strutturale.

    7. Su questo piano, Mucchetti fa qualche pallida concessione alla realtà (in rapido, quanto inarrestabile, deterioramento: e chissà perché): 
    "Le misure contro la povertà assoluta, appena annunciate dal ministro dell'Agricoltura (sarebbe toccato a Poletti parlarne, ma la concorrenza interna al partito...), non fanno mai male, e tuttavia risultano un palliativo rispetto al progetto per il Sostegno all'inclusione attiva elaborato da Enrico Giovannini e da Maria Cecilia Guerra; le prime costano un miliardo e sono coperte da una legge di bilancio che spezzetta tutto in mini provvedimenti (le "misure di sollievo" di cui sopra), l'altro e' un progetto universale, impegna e sfida le pubbliche amministrazioni nell'esecuzione e ne costa sette, di miliardi, e dunque richiede scelte di finanza pubblica coraggiose e potrebbe non pagare subito in termini elettorali, perché i destinatari spesso non votano".

    8. Ma davvero inseguire il reddito di cittadinanza o il reddito di inclusione, e fare le solite scelte "coraggiose" (= tagli alla spesa pubblica) - cioè altrimenti detto, dolorose, che comprimono all'infinito il livello decrescente dei diritti..."incomprimibili"-, per costruire dei palliativi che, come ormai dovrebbe essere del tutto evidente,accelerano il problema della deflazione salariale e amplificano la diffusione della povertà, per fasce di età e classi sociali, anzicché risolverlo-, sarebbe una soluzione strutturale? 
    O non piuttosto una "resa" definitiva alla globalizzazione, e allo smantellamento della Costituzione, appena respinto da un pesante voto contrario del popolo ("popolo", anche se fa brutto menzionarlo)?
    Non è un po'paradossale tentare di neutralizzare il dissenso che si è espresso con la difesa popolare della Costituzione (non populista, visto che s'è espresso il corpo elettorale...e non è un intruso della democrazia), attraverso la diretta e ulteriore distruzione del welfare tutelato dalla Costituzione (art.32 e 38 in relazione agli artt.1 e 4), e l'introduzione di un sedativo, che cristallizza la povertà, escogitato da von Hayek e Milton Friedman (v. qui, "Introduzione")? 
    "Sarebbe" sì paradossale, ma l'idea è che la Costituzione debba essere cambiata (c'è da supporre, sempre "per adeguarsi alla governance europea": what else?). E infatti: "Terza lezione: correggere la Costituzione solo laddove si registri la maggioranza dei due terzi in Parlamento così da rendere impossibile il referendum. Perché no?, mi dico facendo il cinicone". 
    Ma l'idea di una revisione della Costituzione che possa non essere il portato della deriva t€cnocratica della governabilitàe che risulti rafforzativa della garanzia dei diritti già esistenti e che, dunque, possa reggere il vaglio di una consultatione popolare, proprio no? 
    No: sarebbe populismo. Il corpo elettorale, per definizione, non può capire cosa veramente gli conviene...E non proporgli sacrifici e scelte dolorose sarebbe da destra xenofoba (e populista).  

    8.1. In tema di scelte dolorose, di inevitabili tagli alla spesa pubblica del welfare, prodianamente parlando, non basta che qualunque governo, anche muovendosi dentro le linee "coraggiose" e il "dire la verità alla cittadinanza", debba ora fronteggiare l'abrogazione della "mobilità" e la sua sostituzione con l'esile NASPI? 
    Un salto nel vuoto, della disperazione, per centinaia di migliaia di lavoratori che divengono, per di più, disoccupati "ufficiali", e che si aggiungeranno, a buon diritto, con tutte le loro famiglie, alla schiera della povertà assoluta, ergo bisognosa delle insufficienti "misure di sollievo", o del controproducente e hayekiano "reddito di inclusione".

    8.2. Non sarà che l'unica verità da dire "alla cittadinanza" non può che coincidere con quella enunciata dai tedeschi e ben precisata, con più drastica esplicitazione di quanto detto da Prodi, da David Folkerts-Landau, capo economista di Deutsche Bank ("a fondo e repentinamente")?
     
    Sempre raccordato con la versione, attualizzata, del neo-realismo politico indicato da Prodi (pur sempre fiero della "€ntrata"):
    https://aramcheck.files.wordpress.com/2016/06/senza-titolo.png?w=590&h=446
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    LICENZIAMENTO "PER PROFITTO": LA CASSAZIONE COMPLETA LA "RIFORMA STRUTTURALE" DELL'ART.41 COST. (mentre incombe l'ammissibilità del quesito sull'art.18)

    January 10, 2017, 2:40 am
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    Un'altra dimostrazione del fatto che il Jobs Act distruggerà la poca produttività rimasta: Damiani e Pompei (2010) https://t.co/sbpr5Ym88u😱 pic.twitter.com/bcNDQZLC6S
    — Alberto Bagnai (@AlbertoBagnai) 25 dicembre 2016


    Il post di Sofia che vi proponiamo non esige una lunga introduzione, data la vastità della materia affrontata e la sua coerenza con l'analisi economica del diritto pubblico portata avanti in questa sede: la sua integrazione è stata compiuta mediante i pertinenti links al blog. Buona lettura!
     
    1. Dalla modifica dell’art. 18 alla pronuncia della Cassazione 25201/2016.
    In un post di quattro anni fa, Quarantotto, anticipando quelli che sarebbero stati gli effetti susseguenti alla modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori,(la modifica di "prima generazione", quella apportata dalla Legge Fornero, meno stringente di quella poi introdotta dal "jobs act"), aveva già previsto quelle che sarebbero state le probabili modalità di risoluzione delle controversie ad opera della magistratura,  esattamente nei termini ora confermati dalla pronuncia della Corte di Cassazione n. 25201 del 7.12.2016, che di tale prima versione dell'art.18 "ristretto" (nella tutela) ha fatto applicazoine.
    Si ricorderà che con tale "prima" riforma dell'art. 18, l. n. 300/1970, realizzata tramite l'art. 1, comma 42, l. n. 92/2012, sono state graduate le tutele applicabili al licenziamento disciplinare illegittimo — e, più in generale, al recesso illegittimo — e, consequenzialmente, il giudice è tenuto dapprima a verificare se il comportamento del lavoratore integri una giusta causa di licenziamento, alla luce delle nozioni di cui all'art. 2119 c.c. e all'art. 3, l. n. 604/1966 e, una volta accertata l'illegittimità del recesso, ad individuare la tutela da applicare al lavoratore secondo quanto previsto dall'art. 18, l. n. 300/1970 (limitando a ipotesi residuali ed eccezionali la "reintegra").
    Quarantotto aveva anticipato che la nuova formulazione dell’art. 18, introducendo il legittimo licenziamento individuale per "motivi economici" ("oggettivo"), cioè dovuto a (praticamente insindacabili) esigenze organizzative dell'impresa, comportasse una gravosa "inversione dell'onere della prova" proprio nella sfera di fatti di cui, al lavoratore, sarebbe stata preclusa la minima conoscibilità, arrestando i poteri istruttori del giudice di fronte a un ben formulato "aziendalorum". Sarebbe stato, cioè,  il lavoratore a dover dimostrare, nella disciplina allora introdotta e poi aggravata dal jobs act, nei casi in cui fosse ipotizzabile, il carattere discriminatorio, la natura disciplinare "dissimulata", ovvero la "manifesta" insussistenza dei fatti; più concretamente, poi, qualunque ragione "economico-aziendale", e quindi attinente alla necessità di riorganizzare o innovare, sarebbe stata probabilmente considerata valida "fino a prova contraria", e tale prova si sarebbe scontrata con la generica e impenetrabile (alla normale expertise del giudice) allegazione di esigenze tecnico-aziendali da parte del datore di lavoro. 

    1.1. La pronuncia della Cassazione n. 25201 del 7.12.2016 conferma tale analisi e pare andare anche oltre nel percorso prescelto coinvolgendo una "rilettura" dello stesso ruolo dell'iniziativa economica nell'ambito dei rapporti sociali, prima ancora che interni alla stessa impresa (probabilmente in vista di future applicazioni dell'ulteriore restrizione apportata dall'art.18 dal c.d. "jobs act", cioè accompagnando una revisione sistemica dei rapporti tra imprese e lavoro). Infatti, l’onere della prova non solo è invertito a discapito del lavoratore, ma sin anche eliminato laddove dovesse ancora residualmente gravare sul datore di lavoro e ciò avviene attraverso un'interpretazione "novativa" dell’art. 41 Cost. (ben lontana da quanto i Costituenti avevano inteso), in base alla quale la libertà di iniziativa economica giustifica qualunque decisione relativa alla gestione e all’assetto dell’impresa; e ciò, sia che attenga al superamento di una fase di crisi economica (già considerata dalla disciplina dei "licenziamenti collettivi"), sia, in modo ben più esteso ed intenso, che tale decisione gestionale attenga ad una presunta miglior organizzazione dell'impresa, bastando l'enunciazione del fine di voler a conservare o migliorare la propria posizione di mercato (e potendo illimitatamente coinvolgere, in tal modo, qualsiasi posizione di lavoro individuale).

    1.2. Dall’art. 41 Cost. quindi, la Cassazione fa derivare un potere così ampio (con relative scelte di merito gestionali su cui il Giudice non potrebbe in alcun modo interferire) che giunge a ricomprendere anche la decisione di eliminare singoli dipendenti divenuti superflui, esattamente come qualunque altro mezzo di produzione/merce immesso nel ciclo produttivo.
    Se poi, da tali scelte, emerge come principale la finalità giustificativa (tutt'altro che nascosta) di mantenere o massimizzare il livello di profitto, - e non quella, (in precedenza considerata dalla disciplina sui licenziamenti economici collettivi), di costitituire un rimedio "di ultima istanza" ad una crisi congiunturale del settore o dell'intera economia nazionale, in connessione alla ben diversa prospettiva di conservare l'esistenza dell'impresa e di rimanere sul mercato -, questo rimane solo un dettaglio. 
    Comunque, afferma la Cassazione, nella vera  "innovazione sistemica" che caratterizza il decisum, questa diversa e praticamente illimitata, (anche in quanto praticamente insindacabile), finalità del licenziamento, risulterebbe assolutamente legittima,  perché questo rispecchierebbe le regole del mercato di cui l’imprenditore si assume il relativo rischio.

    1.3. Solo per completezza va evidenziato che, nel caso esaminato, il datore di lavoro era una impresa con un fatturato di circa 10 milioni di euro l’anno, che aveva licenziato un solo dipendente(adducendo la necessità di soppressionedellacaricadidirettoreoperativodovuto all'esigenza tecnica di rendere più snella la cd. catena di comando e quindi la gestione aziendale). 
    Viene quindi da domandarsi se effettivamente la riorganizzazione potesse essere effettuata solo e soltanto licenziando il dipendente. Questione su cui, tra l’altro, il Giudice era tenuto ad indagare, dovendosi ritenere che il potere di accertamento istruttorio sussista sempre quando si tratta di accertare la veridicità-manifesta logicità delle motivazioni addotte dal datore di lavoro (dovendo, il Giudice, perseguire in primis il bene superiore costituzionalmente garantito, almeno finora, della tutela del lavoratore), proprio sul piano dell'onere della prova che incomberebbe comunque "a chi afferma". 
    L'accertamento della veridicità e, in stretta connessione, della logicità, di immediata percezione, delle motivazioni "economiche" addotte in sede di relativo licenziamento individuale, infatti, si estendono naturalmente a definire uno scenario di "fatti", ordinariamente conoscibili all'interno del processo. 
    Tra questi, oltretutto, vi sono elementi storico-aziendali di varia natura, che possono rendere il licenziamento quantomeno contraddittorio, in termini di lealtà cooperativa dell'imprenditore con il sistema pubblici di "incentivazione": si pensi alle imprese che addivengono ad accordi con gli enti locali, o con organismi coinvolgenti vari livelli territoriali di governo, per ottenere finanziamenti pubblici all’apertura e all’esercizio di determinate attività sul territorio in cambio dell’impegno a mantenere determinati livelli occupazionali.

    1.4. La decisione della Corte di Cassazione, invece, recepisce quelle che erano state le argomentazioni dell’impresa che riassumevano pedissequamente un più recente orientamento giurisprudenziale a cui la Cassazione dichiara espressamente di aderire “al fine di consolidarlo” (rispetto all’orientamento giurisprudenziale degli anni passati che, invece, era maggiormente e costituzionalmente orientato alla tutela del lavoratore).
    In base all’orientamento ora recepito, non risulta (più) legittimo far derivare dall’art. 41 il principioper il quale l'organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato modificabile solo in presenza di un andamento negativo dell'impresa: divengono ora rilevanti i fini di una più proficua configurazione dell'apparato produttivo, dandosi preminente rilievo al naturale interesse, del datore di lavoro, ad ottimizzare l'efficienza e la competitività (Cass. n. 10672 del _ 2007; Cass. n. 12094 del 2007, Cass.n.9310del2001).  
    Secondo la Cassazione, infatti, in termini microeconomici, nel lungo periodo e in un regime di concorrenza, l'impresa che ha il maggior costo unitario di produzione è destinata ad essere espulsa dal mercato" (Cass. n. 13516 del 2016; Cass. n. 15082 del 2016). Da qui l’opportunità di licenziare anche un singolo dipendente soprattutto se tale mancato licenziamento potrebbe compromettere la stabilità del posto di lavoro di tutti gli altri dipendenti. Senza indagare, peraltro, il perché tale costo unitario dell'unità produttiva possa essersi innalzato, coinvolgendo l'intero sistema economico nazionale, magari per ragioni fiscali, valutarie e monetarie e, quindi, in un quadro macroeconomico - e di cedimento della domanda interna- che non può essere percepito e compreso a livello "micro".

    1.5. Risolvendo il problema dell'efficienza e del CLUP (e quindi della "produttività), in termini microeconomici, - senza porsi il problema se questa situazione possa essere "sistemica" e, dunque, applicabile ad ogni settore produttivo e giustificare in ogni caso qualsiasi licenziamento individuale, la Cassazione afferma che sarebbe addirittura incompatibile con l'art. 41 co. 1° Cost. l'assunto secondo cui il datore di lavoro dovrebbe provare la necessità della contrazione dei costi e, quindi, l'esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato: dovrebbe essere sufficiente una sua autonoma scelta in tal senso.
    Per l'appunto, da un lato, non sarebbe possibile distinguere, quanto alle ragioni economiche a sostegno della decisione imprenditoriale "tra quelle determinate da fattori esterni all'impresa,  o  di mercato, e quelle inerenti alla gestione dell'impresa, o volte ad una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto" (Cass. n. 5777 del 2003) e, dall’altro, anche ove fosse possibile, non spetta al giudice entrare nel merito  delle decisioni assunte dall’imprenditore(Cass. n. 23620 del 2015).

    1.6. Secondo la Cassazione, inoltre, il principio della extrema ratio secondo cui la scelta che legittima l'uso del licenziamento dovrebbe essere "socialmente opportuna" non è “costituzionalmente imposta”. In assenza dì una specifica indicazione normativa, la tutela del lavoro garantita dalla Costituzione non consente di ritenere precettivamente imposto che, nel dilemma tra una migliore gestione aziendale ed il recesso da un singolo rapporto di lavoro, l'imprenditore possa optare per la seconda soluzione solo a condizione che debba fare fronte a sfavorevoli e non contingenti situazioni di crisi.  
    La Cassazione, poi, pare suggerire anche uno specifico tracciato al legislatore ove aggiunge che l'art.  41,  co.  3,  Cost.,  riserva  al  legislatore  il  compito  di  determinare i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. 
    Nella scelta tra una più efficiente gestione aziendale ed il sacrificio di una singola posizione lavorativa, il legislatore non necessariamente deve seguire la strada di inibire il licenziamento individuale, ma potrebbe anche diversamente ritenere che l'interesse collettivo dell'occupazione possa essere meglio perseguito salvaguardando la capacità gestionale delle Impresedi fare fronte alla concorrenza nei mercati e che il beneficio attuale per un lavoratore a detrimento dell'efficienza produttiva possa piuttosto tradursi in un pregiudizio futuro per un numero maggiore di essi.
    Fermo restando il vincolo invalicabile per cui l'iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, essa "è  libera"  (art. 41, co.  1, Cost.) e, quindi,  spetta all'imprenditore stabilire la dimensione occupazionale dell'azienda, evidentemente al fine di perseguire il profitto (che è lo scopo lecito per il quale intraprende).
    Dunque, nel complesso, la Cassazione pare abbracciare l'idea, di origine UE, e attuata con ancor più convinzione dal jobs act, che la flessibilità del rapporto di lavoro vada intensificata perché consente di aumentare il livello di occupazione: ora, questa teoria, risalente alla impostazione ideologico-economica  c.d. "neoclassica", cioè neo-liberista e monetarista, basata sulla ipotesi del riequilibrio naturale del livello di occupazione in funzione del perfetto operare della legge della domanda e dell'offerta, - senza interferenze da parte della "frizione" creata dall'intervento statale e dall'azione sindacale-, non solo risulta con assoluta immediatezza contraria al modello socio-economico accolto in Costituzione, ma è oggi ampiamente contestata anche dalla più più autorevole dottrina economica, in ormai innumerevoli studi, incluso lo stesso FMI, che ha intrapreso una progressiva "autocritica", visti i risultati fallimentari della sua applicazione in ogni parte del mondo e, ancor più, all'interno dell'eurozona.

    2. La pronuncia della Cassazione quale riflesso della decostituzionalizzazione del diritto al lavoro.
    Alla luce di questa pronuncia della Cassazione si ha dunque la conferma del processo di smantellamento politico (prima di tutto), legislativo e giurisprudenziale della Costituzione e delle sue norme fondamentali, volte alla tutela del lavoro, in nome dei Trattati (e della loro ideologia pervasiva che impone, irresistibilmente, il continuo "adeguamento", in affanno, di cui parlava Guarino negli anni '90), e quindi del controllo dell’inflazione, in funzione di "produttività" e "competitività", realizzabile (solo) attraverso una sempre maggiore flessibilità del lavoro, attuata attraverso il processo dell’aumento della disoccupazione e la conseguente deflazione salariale.
    Poiché varie analisi sono già state fatte sulle modifiche dell’art. 18, occorre comprendere anche come, giunti ad un livello di destrutturazione della tutela oggettivamente risultante dagli artt.1, 4 e 36 Cost. (quantomeno), si è tentato di modificare o di svuotare di significato (rispetto a quello originario attribuito ad esso dai Costituenti) l’art. 41.
    Ebbene, la sentenza della Cassazione rivede, per superarli, (non si sa se consapevolmente o per mera accettazione acritica di teorie economiche neo-liberiste, soggette, ora più che mai, ad una stringente critica scientifica) aspetti che erano stati oggetto di vivace dibattito in sede costituente.
    Infatti quando tale decisione sostiene che non è imposto dalla Costituzione che il licenziamento sia adottabile solo quale extrema ratio e solo quando sia un costo socialmente inevitabile, nega proprio le linee fondamentali che portarono all’attuale formulazione dell’art. 41 Cost, in raccordo con la natura coessenziale della Costituzione economica di costituire lo strumento indispensabile per realizzare la "piena occupazione" conforme agli artt.1 e 4 della stessa Costituzione: in base all'art.41, è vero che l'iniziativa economica privata è libera, ma subito dopo si precisa che tale attività non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

    2.1. Ma cosa intendevano i costituenti? Intendevano che “L'impresa privata costituisce la regola, in quanto non leda l'interesse pubblico: su questo piano deve essere costituzionalmente garantita la libertà d'iniziativa economica” (1 ottobre 1946, seduta della terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione - FrancescoDominedò). 
    Ed i Costituenti erano talmente consapevoli che la formulazione dell’articolo sulla libertà di iniziativa economica fosse strettamente dipendente anche dall’impostazione costituzionale circa l’intervento dello Stato nell’economia che rimandano la discussione sull’art. 41 ad un momento in cui tale impostazione fosse definita (3 ottobre 1946 - Emilio PaoloTaviani ). 
    Ma il nesso imprescindibile tra la libera iniziativa economica e l’utilità sociale legata al lavoro (inteso sia come diritto al lavoro, che come diritto ad una retribuzione dignitosa) viene rimarcato da Togliatti nella seduta del  3 ottobre 1946: 
    “Quando infatti si dice …che ogni cittadino ha diritto al minimo indispensabile di mezzi di sussistenza, ecc., e poi si aggiunge che a tal fine il cittadino è libero di svolgere un'attività economica nel modo che più gli aggrada, è evidente che la seconda affermazione contraddice pienamente con la prima, e la contraddice in modo tale da renderla una irrisione. Quando si lasciano le persone libere di svolgere quella attività che loro aggrada, cioè si asserisce e sancisce il principio della piena libertà economica, è evidente che non si garantisce ad ogni cittadino, come è detto nel primo comma, il diritto al minimo indispensabile di mezzi di sussistenza. Si garantisce invece la disoccupazione periodica in un paese industrialmente evoluto. È evidente che soltanto negando la seconda proposizione, che è la formulazione dell'astratto principio liberale delle Costituzioni del secolo scorso, soltanto affermando il principio dell'intervento dello Stato per regolare l'attività economica, secondo un metodo, un corso differente da quello dell'economia capitalistica liberale pura; soltanto facendo questo passo, si può dare un minimo di garanzia al diritto ai mezzi di sussistenza, al lavoro, al riposo, alla assicurazione sociale”.
    Moro chiarisce ancora che:
    "è effettivamente insostenibile la concezione liberale in materia economica, in quanto vi è necessità di un controllo in funzione dell'ordinamento più completo dell'economia mondiale, anche e soprattutto per raggiungere il maggiore benessere possibile. Quando si dice controllo della economia, non si intende però che lo Stato debba essere gestore di tutte le attività economiche, ma ci si riferisce allo Stato nella complessità dei suoi poteri e quindi in gran parte allo Stato che non esclude le iniziative individuali, ma le coordina, le disciplina e le orienta… Non è possibile permettere che gli egoismi si affermino, ma è necessario porre la barriera dell'interesse collettivo come un orientamento e un controllo di carattere giuridico. Ed è nell'ambito di questo controllo che lo Stato permetterà delle iniziative individuali, finché rientrino nell'ordinamento generale, di svolgersi liberamente” (controllo dello Stato ribadito anche il 5 marzo 1947 da Renzo Laconi).
    Ed infine, nella seduta 11 marzo 1947, La Pira, riferendosi ad un libro del Renard, aggiunge: 
    “l'impresa va concepita in maniera istituzionale, non secondo la categoria del contratto di diritto privato, ma secondo, invece, quella visione finalistica per cui tutti coloro, che collaborano ad una comunità di lavoro, sono membri, sia pure con diverse funzioni, di quest'unica comunità che trascende l'interesse dei singoli; quindi gli strumenti di produzione si proporzionano a questa concezione: e allora eavete una concezione della proprietà, che pur essendo presidio della libertà umana, tuttavia diventa strumento di questa opera collettiva, quindi dà una dignità al lavoratore, che non è più un salariato, ma, come le Encicliche pontificie ricordano, deve tendere a diventare il consociato, il compartecipe di questa comunità di lavoro. Quindi se guardiamo alla realtà economica e vediamo tutte queste imprese, e le vediamo in senso cooperativo — vedi i richiami agli articoli 42 e 43 — vediamo questa grande famiglia umana che nel campo produttivo crea queste cellule vive, attraverso le quali viene risolta la questione sociale: le comunità di lavoro”.

    2.2. Quindi la libera iniziativa economica privata è libera anche perché costituisce esplicazione della dignità dell’uomo il quale deve essere messo in condizione (assumendosene anche il relativo rischio) di creare e produrre; ed infatti nessun limite è in effetti rinvenibile nell’art. 41 in tal senso. 
    Ma se la libera iniziativa economica è lasciata agire in base alle regole di un mercato senza freni, soprattutto se la naturale tendenza è quella di portare alla formazione di monopoli ed oligopoli nell’ambito dei quali il lavoratore perde ogni potere contrattuale, l’intervento dello Stato è giustificato dalla necessità di tutelare l’utilità sociale. 
    Nel momento in cui la libera iniziativa economica comporta l’impiego di risorse lavorative, subentrano dunque, secondo l'intenzione dei Costituenti, anche altri fattori costituzionalmente tutelati tra cui il diritto al lavoro e alla remunerazione adeguata, nonché la tutela della dignità del lavoratore che col proprio apporto contribuisce anche al successo dell’imprenditore. In ragione di ciò si giustificano i limiti che possono essere imposti dallo Stato all’attività economica derivanti dall’utilità sociale, secondo un indirizzo che possa garantire il massimo rendimento per tutta la collettività (oltre ad avere anche un effetto redistributivo di risorse).

    3. Il processo di smantellamento dell’art. 41 Cost. a partire da Maastricht
    Ma il concetto così inteso di utilità sociale ha incominciato ad entrare in crisi con l’avvento delle istituzioni europee. 
    L’espressione costituzionale (svincolata da una lettura combinata con gli artt 1, 4, 35 e 36 Cost.) ha cominciato ad essere considerata generica ed indeterminata, così che spetterebbe alla libera "discrezionalità"del legislatore il potere di stabilire cosa sia conforme e cosa contrasti con l'utilità sociale (esattamente quello che hanno ritenuto i Giudici nella sentenza qui esaminata).  
    Ma è evidente che questo non era l’intento dei Costituenti, che mai avrebbero attribuito al legislatore il potere di intervenire per favorireuna libertà di iniziativa economica che conducesse a risultati in contrasto con l'utilità sociale; cioè, in pratica, attribuendogli, contestualmente, la libertà di decidere discrezionalmente cosa si debba intendere per utilità sociale a seconda di mutevoli indirizzi determinati, come ben spiega Kalecky in "Political Aspects of Full Employment", dal prevedibile revanchismo del "capitale" (la parte naturalmente "più forte"), rivalutato dalla prevalenza di trattati internazionali economici completamente estranei all'impostazione costituzionale.

    3.1. Tra i "nuovi" costituzionalisti legati alla prevalenza del modello economico neo-liberista dei trattati europei, Amato, ha proposto una nuova interpretazione dell'art. 41 che ponesse rimedio alla scarsa considerazione avuta dai Costituenti per il mercato e per i meccanismi benefici spiegati dalla teoria dell'efficienza dei mercati liberi e concorrenziali che dagli anni Ottanta ha iniziato a dominare tra gli economisti[1]. Sempre secondo Amato, se questa teoria fosse stata conosciuta (ma in realtà era ben nota, proprio perché niente affatto nuova, sebbene "prevalente" prima della Costituzione del 1948 e consapevolmente respinta dalla Carta), i Costituenti non avrebbero guardato l'economia di mercato col sospetto che traspare dalle parole usate nell'articolo 41, ma avrebbero avuto un approccio diverso perché la teoria avrebbe dimostrato che un mercato concorrenziale, liberato da intrusioni statali, produce spontaneamente risultati che sono socialmente utili, quali la stabilità del sistema economico e un'ottima allocazione delle risorse. 
    E, su questa linea, aggiunge Padoa Schioppa, se avessero saputo che il mercato « ha in sé la capacità di raggiungere i fini di sicurezza, libertà, dignità umana, retribuzione proporzionale alla qualità e quantità del lavoro, che la Costituzione enuncia » [2], i Costituenti avrebbero capito che solo eccezionalmente sono necessari interventi pubblici volti a limitarne la libertà in nome dell'utilità sociale.
    Di qui la proposta di aggiornare l'interpretazione dell'art. 41, rileggendolo alla luce della teoria dell'efficienza dei mercati liberi e concorrenziali, che ha condotto all'emanazione della legge antitrust ma che non ha esaurito le spinte innovative.
    NeglianniimmediatamentesuccessivialTrattatodiMaastricht,NatalinoIrti,apreundibattitosull’evoluzioneinterpretativadell’art.41Cost.e,contestualmente,sullacompatibilitàdei“programmiecontrolli”previstialterzocommacon iprincipidell’economiasocialedimercato comunitaria che tuttavia non si trasforma immediatamente inesigenzadiprocedereadunarevisionedell’art.41Cost.

    3.2. Dalla XI Legislatura in poi vengono presentati tredici progetti in materia di riforma dell’art. 41 Cost. che, però, nella maggior parte dei casi non superano la soglia della Commissione Affari costituzionali.
    Il Governo Berlusconi, ha proposto una riforma costituzionale  - parallelamente a quella dell’art. 81 Cost. che ha poi portato all’introduzionedelprincipiodelpareggiodibilancio nella Cartacostituzionale con L. 1/12 - che ricomprendeva una rivisitazione dell’art. 41 (C.4144,Modificheagliarticoli41,97e118,commaquarto,dellaCostituzione,presentatoallaCamera il 7marzo2011), il cui procedimentosièinterrottoallaCameradeiDeputati,il19ottobre2011,proprio perché avrebbe comportato unarevisionedellaCartacostituzionalepiùampiadiquellachesivolevafarcredere, cioèsoloapparentementecircoscrittaallalibertàdiiniziativa economica.
    Ma la proposta di modifica è stata preceduta da diversi interventi normativi, invariabilmente connessi alle "riforme strutturali" che ci imponeva l'adesione all'UE e la "sfida della globalizzazione", che comunque hanno mirato a indebolirne la portata. Il motivo di tali interventi è sempre lo stesso: si ritiene (a torto, alla luce dell'ordine logico seguito dai Costituenti che privilegiarono la pregiudiziale fissazione del principio lavoristico) che l’art.41dellaCostituzione sia la normasu cui poggia l’interventodelloStatonell’economia, e che definisceilrapportofrainiziativaeconomicaedinterventodeipoteripubblici. Qualunque mutazione ditalerapportocontribuisceamodificarequellodelloStatosociale.

    3.3. Ed è indubitabile chetalerapportosisiamodificatoinfunzionedella espansione del dirittodell’Unioneeuropea:la sentenza della Cassazione esaminata è solo una chiara rappresentazione di qualipossanoesseregliesiti,sullacostituzionemateriale,diuna riforma,direttao“indiretta”, dell’art.41Cost.insenso“concorrenziale”, quindi finalizzataarimuovereogniresiduoostacoloversol’istituzionediunsistemabasato su una economialiberale.
    GiuseppeGuarino (Cfr. CameradeiDeputati, Resocontostenografico dellaI Commissione, sedutadel 21 aprile1999,p. 7) ha affermato che la disciplinacostituzionale si  è dimostrata in grado digovernareprocessi economicimoltodiversitra loroeraggruppabili intrefasidinaturaomogenea:unaprimafase,diapplicazione“liberista”,neiconfrontidell’esterno,finoal1960;unasecondadi“amministrativizzazione” dal1960al1990; e,infine, una terzafasechehainizio nel1990 echeè definitacome“liberistadimercato”. 
    Nonostante queste trasformazioni, l’articolo 41  Cost. è rimastoidenticomahacambiatocontenutoperchéècambiatalaCostituzionemateriale pereffetto,inparticolare,deitrattaticomunitari.
    Che pure la modifica dell’art. 41 proposta dal Governo Berlusconi fosse dettata dalla necessità di adeguare il sistema costituzionale ai principi stabiliti nei Trattati emerge chiaramente nella relazione illustrativa al disegno di legge A.C.4144presentatoindata7marzo2011 ove si legge che si  ritienenecessario“eliminareleincertezzeelecontraddizionipresentinell’attualeformulazionedell’articolo41”alloscopodi“ridurrelacapacitàdirigisticadelloStatonell’economiaperfavorirel’avventodicondizionigiuridico-istituzionaliadeguateallastrutturadiunmercatomodernoedefficace”. Si trattava, cioè, di una riformavoltaaneutralizzareiresiduiostacoliinterpretatividell’art.41Cost.aifinidiunasuameraacquiescenzaaiprincipidellacostituzioneeconomicaeuropea.
    Ma come anticipato non è/era necessaria la riforma costituzionale per modificare il comune sentire rispetto al principio voluto dai costituenti relativamente all’art. 41. “Nonènecessariochel’EuropasifacciaStatoperchémonetaunicaepattodistabilitàtrasforminoinmodoirreversibilelecostituzioninazionali” [3].
    Equestoèancorapiùevidenteoggi,dopolaratificadelTrattatodiLisbonael’adesionealTrattatosullastabilità,sulcoordinamentoesullagovernancenell’Unioneeconomicaemonetaria.

    3.4. Così, in questa linea di rilettura europeista e pro-mercatista, si sostiene che il senso dell'art. 41 è stato modificato nel tempo attraverso diverse e "mere" leggi.
    E ciò contro il principio che nessuna "costituzione materiale", cioè un'evoluzione sostanzialmente de facto e affidata ai "rapporti di forza" che si instaurano all'interno del conflitto sociale distributivo, possa eludere la non revisionabilità (ex art.139 Cost.) dei principi fondamentali della Costituzione "formale", di cui l'art.41 è un diretto riflesso ("necessario", come direbbe Mortati).  
    Solo a titolo di esempio, si citano il D.Lgsn.114/98 (all’art.2,rubricato“Libertàdiimpresaelibertàdicircolazionedellemerci”) e varie altre fonti, tutte subordinate a quella costituzionale (e lo rimangono quand'anche, cioè, fosse ipotizzabile la "revisione" costituzionale del principio lavoristico insito nel concetto di "utilità sociale"), fonti che hanno avuto come fine quello di limitare il potere di intervento dello Stato nell’economia e ampliare lasferadellalibertàdiiniziativaeconomica apparentemente bilanciata dallatuteladeiconsumatori (qui, p.6).
    Come pure si cita il DLn.112/08, recantedisposizioniurgentiperlosviluppoeconomico,lasemplificazione,lacompetitività,lastabilizzazionedellafinanzapubblicaelaperequazionetributaria, in cui scompare ogni  riferimentoallelimitazioni“sociali” dell’art. 41 Cost..
    Ulteriore richiamodirettoall’art.41Cost. si trova anche nelprovvedimentonormativorecante“Ulteriorimisureurgentiperlastabilizzazionefinanziariaelosviluppo(c.d.Manovrabis- DLn.138/11), ma anche in questo caso (art.3)sirichiamaladisposizioneinseritaneldisegnodileggediriformacostituzionaledellostessoart.41Cost.disponendochel’ordinamentorepubblicanosiadeguialprincipioinbasealquale“l'iniziativael'attivitàeconomicaprivatasonolibere” ed occorre individuaretassativamenteicasidilegittimitàdidettoprincipio.Talicasisono“limitati”a specifiche ipotesi, tra cui laprevisionedivincoliderivantidall’ordinamentocomunitarioegliobblighiinternazionali, ovverochecomunquecomportinoeffettisullafinanzapubblica.

    3.5. Successivamente,il richiamoall’art.41dellaCartalo siritrovaancheall’art.1 dellaL.n.180/11,normativaconlaqualeillegislatoredefiniscelo“statutodelleimpreseedell’imprenditorealfinediassicurarelosviluppodellapersonaattraversoilvaloredellavoro,siaessosvoltoinformaautonomached’impresa,edigarantirelalibertàdiiniziativaeconomicaprivatainconformitàagliarticoli35e41dellaCostituzione”.Nelsecondocommasiqualificanotaliprincipicome“normefondamentalidiriformaeconomico-socialedellaRepubblicaeprincipidell'ordinamentogiuridicodelloStato”aventi“loscopodigarantirelapienaapplicazionedellacomunicazionedellaCommissioneeuropeadel25giugno2008recante«Unacorsiapreferenzialeperlapiccolaimpresa-AllaricercadiunnuovoquadrofondamentaleperlaPiccolaImpresa(uno"SmallBusinessAct"perl'Europa)»,elacoerenzadellenormativeadottatedalloStatoedalleregioniconiprovvedimentidell'Unioneeuropeainmateriadiconcretaapplicazionedellamedesima”. Comunicazione che verrà recepita all’art.1,alcommaquinto.
    Infine si può citare il provvedimentolegislativoc.d.“crescitalia” DLn.1/12,che,all’art. 1,introduceunaserie dinorme con l’obiettivodifavorirela liberalizzazione delleattivitàeconomicheediridurreglioneriamministrativisulleimprese. L’art.1esordiscerichiamandol’art.3delDL138/11sopraricordatoperl’individuazionedellenormeche,“inattuazionedelprincipiodilibertàdiiniziativaeconomicasancitodall’articolo41dellaCostituzioneedelprincipiodiconcorrenzasancitodalTrattatodell’Unioneeuropea”,possanoessereabrogate  daregolamentigovernativi didelegificazione. 
    Viene anche stabilito che l’emanazioneditaliregolamentideveavvenirenelrispettodeicommiprimoesecondodell’art.1delprovvedimentoc.d.“crescitalia”esecondoiprincipieicriteridirettivistabilitiall’art.34delprovvedimentolegislativoc.d.“salva-italia” ( DL201/11convertitoconmodifichenellaLeggen.214/11recante“Disposizioniurgentiperlacrescita,l’equitàed il consolidamento dei contipubblici”). A cui si aggiunge l’art.1delDLn.1/12che individuaunaseriediparametrinormativicheriguardanotrasversalmentetuttol’art.41Cost.
    Non ci si sofferma certo sullalegittimitàdeiregolamentididelegificazioneautorizzatipermezzodidecreto-legge,ma certamente non pare troppo velato l’intento di voler procedereadunadelegificazioneinattesa  dellarevisionedell’art.41dellaCostituzione[4].

    3.6. Se a tutto questo si affiancano le modifiche dell’art. 18 risulta ancora più chiaro il pronunciamento della Cassazione.
    Per cercare di comprendere quale fosse l'intenzione perseguita dal legislatore con la (prima) modifica dell'art. 18, l. n. 300/1970, basta fare riferimento ai lavori preparatori della l. n. 92/2012 (che ha anticipato la modifica dell’art. 18 poi "portata a compimento" dalla successiva versione uscita dal jobs act e dalla generale configurazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato come contratto di durata risolubile, su un piano contrattuale di eguaglianza formale, in ogni momento da ciascuna delle parti).
    Al riguardo, viene precisato che la l. n. 92/2012 si propone di «adeguare alle esigenze del mutato contesto di riferimento la disciplina del licenziamento». 
    Infatti, prima della riforma del 2012, per il caso di licenziamento "illegittimo", era prevista solo la tutela in forma specifica (cioè la "reintegra"), mentre dopo il 2012 ad una ristretta tutela reintegratoria è stata affiancata quella indennitaria, ossia un modo per adeguare la regolamentazione dei licenziamenti al mutato contesto economico accrescendo la flessibilità in uscita rispetto alla disciplina previgente.

    3.7. È chiara la gerarchia di valori alla quale si è rifatto il legislatore ordinario con la modifica dell'art. 18, l. n. 300/1970: mentre prima i giudici del lavoro tutelavano maggiormente il lavoratore, ora tutelano le imprese in favore dell’introduzione e della espansione del lavoro flessibile, aderendo (per "fatto notorio" si deve presumere) alla teoria del legame diretto tra maggior flessibilità "in uscita"e espansione della domanda di lavoro (cioè dell'opportunità di trovare o ri-trovare l'occupazione) da parte del sistema delle imprese. 
    Una teoria che si scontra non solo con la menzionata critica scientifica sempre più diffusa, ma anche con i dati della insostenibile disoccupazione strutturale derivata dal paradigma "liberalizzatore", specialmente se letti correttamente: cioè avendo riguardo ai fenomeni di part-time involontario dilagante e allo scivolamento delle prevalenti forme di lavoro precario nell'alveo dei sempre più numerosi working poors, in una situazione sociale che assimila disoccupati e occupati "a singhiozzo" (v., tra l'altro, il dilagare dei c.d. "voucher") alla stessa irrisolvibile debolezza contrattuale dei disoccupati.

    3.8. Tra l’altro, quando in passato (per la nuova richiesta di referendum abrogativo del "nuovo" art.18, quanto alle ragioni di un'eventuale inammissibilità del quesito,, vedere qui e qui) è stata chiamata a pronunciarsi sull'ammissibilità del referendum abrogativo dell'art. 18, -nella originaria versione introdotta dalla legge n. 300/1970, naturalmente- , la Corte Costituzionale (C. cost. 7 febbraio 2000, n. 46) ha affermato, non senza una certa assertività sbrigativa, che tale norma e, quindi, la reintegrazione nel posto di lavoro, non rappresenta l'unico possibile paradigma attuativo del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 Cost. 
    Quand'anche l'art. 18, l. n. 300/1970 fosse stato abrogato, infatti, il sistema di tutela avverso il licenziamento illegittimo sarebbe rimasto conforme alla Costituzione in conseguenza del permanere della tutela obbligatoria (che risolve la "sanzione" del licenziamento illegittimo sul mero piano indennitario-risarcitorio) di cui alla l. n. 604/1966 (ossia la Legge che è stata al centro del dibattito della pronuncia della Cassazione e, anch’essa, svuotata di significato). Tutela che, però, perde di significato proprio con l’ausilio della giurisprudenza, che ha finito per dare una applicazione delle norme vigenti non più orientata in base alle norme costituzionali che si sono viste, ma in base ad una visione ormai svuotata dell’art. 41, in ragione di continui interventi meramente legislativi, tesi ad affermare, negli anni, la libera iniziativa economica e la flessibilità del lavoro[5]parallelamente all’esclusione di qualsiasi intervento dello Stato nell’economia.

    4. L’attualità dell’art. 41 Cost.
    Eppure l’art. 41 non ha mai perso di attualità e l’interrogativo su quali debbano essere i limiti all’iniziativa economica, laddove contrasti con l'utilità sociale, si ripropone, oggi, ancor più attuale, alla luce delle spinte dichiaratamente neo-liberiste indotte dall’Unione Europea, che sottintende esattamente questo paradigma del mercato del lavoro (v, qui, per i dati economici salienti) con l'ossessivo richiamo alle "riforme strutturali".
    Non contrasta con l’utilità sociale una politica che assecondi unicamente la dinamica distributiva tipica di un mercato libero e concorrenziale che si risolve, in realtà, nella prevalenza della struttura oligopolistica (i c.d. "poteri di fatto") e nella suddivisione della relativa rendita tra (sempre meno) soggetti di grande impresa, che "fanno" il mercato e predeterminano unilateralmente il livello dell'occupazione a loro conveniente, sempre più in posizione di forza rispetto all'offerta di lavoro?
    Se un libero mercato concorrenziale ha la capacità di raggiungere spontaneamente i suoi fini distributivi (ottimo-allocativi), allora non dovrebbe contrastare con l'utilità sociale una politica che agevoli la dinamica distributiva (un mercato che assicura un'ottima allocazione delle risorse dovrebbe garantire anche un'ottima distribuzione delle ricchezze). 
    Ma i fatti dimostrano che ciò non avviene.

    4.1. Inoltre, il concetto di utilità socialeè correlato a quello di costo sociale. 
    Ogni scelta politica implica costi che la società deve sostenere. Ma quando una scelta favorisce senza una ragione valida una minoranza caricandone i costi su una maggioranza, certamente non può dirsi di utilità sociale. Anzi si dovrà dire, usando le parole della Costituzione, che la scelta contrasta con l'utilità sociale. 
    I dati statistici dimostrano che le scelte legislative suggerite dalla supply-side economics hanno causato un sostanziale trasferimento di ricchezza dai più poveri ai più ricchi (e in mano a un numero anche limitato di ricchi), il che rende poco attendibile la teoria sulla quale quella politica si è basata. E induce quanto meno a domandarsi se possano dirsi conformi all'utilità comune o, il che è lo stesso, all'utilità sociale scelte legislative che favoriscano l'arricchimento di una minoranza della popolazione a spese di una larga maggioranza.

    4.2. Questa è anche la ragione per rivalutare il ruolo dell'art. 41 Cost.. che è stato posto in ombra dalle letture riduttive che vedono in esso soltanto una norma che garantisce la libera iniziativa economica o la libertà della concorrenza. I Costituenti invece, lo hanno formulato consapevoli che, nell'interesse generale, le diseguaglianze economiche dovessero essere riequilibrate in modo da garantire a tutti l'effettivo godimento dei diritti previsti dalla Costituzione: diritto al lavoro, a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, a una tutela in caso di disoccupazione, malattia o vecchiaia. Erano consapevoli che un'economia di mercato, lasciata libera di sviluppare le sue dinamiche distributive, tende alla formazione di situazioni di monopolio/oligopolio che si riverberano in danno dei singoli lavoratori; tende ad aumentare più che a riequilibrare le diseguaglianze, precludendo così a molti l'effettivo godimento di quei diritti costituzionalmente sanciti. 

    4.3. Da questa consapevolezza nasce l'art. 41, che esprime la volontà di mantenere l'Italia in un'economia di mercato, ma impone allo Stato d'intervenire quando il mercato produca risultati contrastanti con l'utilità sociale, vale a dire con l'utilità comune, che non è l'utilità di una sola parte della società. Impone cioè una politica economica, e conseguentemente legislativa, che dia attuazione al compito, assegnato alla Repubblica dall'art. 3, comma 2º, cost., di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto l'eguaglianza e la libertà dei cittadini.
    Perciò si può dire che l'art. 41 costituisca l'architrave della costituzione economica che sostiene o rende effettive altre norme costituzionali: quali l'art. 4 che prevede il diritto al lavoro di ogni cittadino, o l'art. 36, comma 1º, che prevede il diritto di ogni lavoratore a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro o l'art. 53, comma 2º, che impone il criterio della progressività del sistema tributario. Se si tocca l'architrave, e si rilegge l'art. 41 alla luce della teoria dell'efficienza dei mercati liberi e concorrenziali, evidentemente queste norme rimarranno prive di un'adeguata attuazione[6].

    [1]Amato, La nuova costituzione economica, in Per una nuova costituzione economica, a cura di Della Cananea e Napolitano, Bologna, 1997, p. 12: « la Costituzione scritta, com'è noto, non è ispirata all'economia di mercato, ma è, in realtà, una costituzione di compromesso tra forze politiche programmaticamente contrarie al mercato ».

    [2]Padoa-Schioppa, Il governo dell'economia, Bologna, 1997, p. 40.

    [3] G.DiPlinio,LacostituzioneeconomicaeuropeaeilprogettodiTrattatocostituzionale,testodattiloscritto;I.Pernice,F.C.Mayer,LaCostituzioneintegratadell’Europa,inG.Zagrebelsky(acuradi),Diritti eCostituzione nell’Unione europea,Roma, , 2003, pp.43ess


    [4]FilippoZatti - Riflessionisull’art.41Cost.:lalibertàdiiniziativaeconomicaprivatatraprogettidiriformacostituzionale,utilitàsociale,principiodiconcorrenzaedelegificazione

    [5]Ester Villa: «SUSSISTENZA» E «INSUSSISTENZA» DEL FATTO NEL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE  su Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc.4, 2015, pag. 661




    [6] Ettore Gliozzi La distribuzione delle ricchezze e l'utilità sociale: l'importanza dell'art. 41 della Costituzione in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, fasc.3, 2016, pag. 767

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    IL QUESITO SULL'ART.18 E "L'ALIENO €UROPEISTICO". CHI SE NE ASSUME LA RESPONSABILITA'?

    January 12, 2017, 2:35 am
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    1. Corre l'obbligo di cercare di capire le ragioni della pronuncia di inammissibilità del quesito sull'art.18, appena adottata dalla Corte costituzionale.
    Quello che, allo stato, è riportato sui media si riassume in alcuni fatti e orientamenti "trapelati".
    Anzitutto, com'era preannunciato, si è svolta una dura discussione in camera di consiglio: la maggioranza di 8 a 5, peraltro, mostra un certo compattamento su una visione progressivamente (sempre più) restrittiva dei quesiti ammissibili, tanto più rilevante, per la vita democratica dei cittadini, quanto più tale orientamento incide sulla sostanza (ormai residuale) e sul ruolo della sovranità popolare: e lo abbiamo visto in questo post, anticipatore dei problemi di rappresentatività che le stesse istituzioni di governo si trovano a fronteggiare, essenzialmente a seguito del "vincolo esterno"€uropeo, di fronte a una restrizione della sovranità prevista dall'art.1 Cost.  

    2. E non solo a seguito dell'orientamento della Corte sull'ammissibilità dei quesiti referendari, ma su tutto il fronte del principio lavoristico della nostra Costituzione "sociale", - e non "liberale"-, che risulta ormai innovata da una revisione giurisprudenziale resecativa della portata precettiva delle sue clausole "sociali".
    Si potrebbe dire che interpretazioni, della varie Corti, che, progressivamente, sottraggono questa portata precettiva alle clausole sociali contenute nelle previsioni più importanti e caratterizzanti della nostra Costituzione, sono esse stesse "manipolative" e, con molta più efficacia del referendum (il cui esito è sempre neutralizzabile da un nuovo intervento normativo del Parlamento),"introduttive", di nuove norme costituzionali estranee alla volontà dei Legislatori primigenii della Costituente.

    3. Molte fonti autorevoli della scienza giuridica e molti dati economici, tanto significativi quanto ignorati (dalle Corti, intente a ridisegnare de facto le norme fondamentali della Costituzione) potrebbero essere citati: in questa sede ci limitiamo ad alcune annotazioni salienti.
    La prima è l'argomentazione clou della relatrice designata alla Corte per trattare l'ammissibilità dei quesiti: la prof. Sciarra, non a caso, ha compiuto la scelta forte, di dissenso, passando al vice-presidente la redazione della pronuncia, e lasciando la seguente "dissenting opinion" secondo le attuali "cronache": 
    "Per la Sciarra il riferimento per l’ammissibilità è la sentenza numero 41 del 2003 che dichiarò ammissibile il referendum che ampliava l’applicabilità della tutela dell’articolo 18 al di sotto dei 16 dipendenti e lo estendeva addirittura all’impresa con un solo dipendente. 
    Identica per materia al quesito del 2016. 
    Non solo. Entrando ancora di più nel dettaglio. Tradizionalmente l’articolo 18, ovvero la reintegra per licenziamento ingiustificato, si fermava di fronte a due soglie: quella dei 15 dipendenti per le imprese commerciali e industriali e quella inferiore a cinque per le imprese agricole. 
    Il quesito del referendum (ammesso) nel 2003 proponeva di abolire entrambe le soglie cosicché tutte le imprese – commerciali, industriali ed agricole – anche con un solo dipendente sarebbero divenute soggette all’articolo 18. 
    Il quesito discusso oggi fa saltare solo un limite, quello dei 15 dipendenti per le imprese commerciali e industriali, e dunque il limite sarebbe solo di 5 dipendenti come per le agricole. Ecco l’argomentazione della relatrice, finita in minoranza: che senso ha dire che quello del 2003 era abrogativo - infatti il referendum si celebrò - e questo è manipolativo? E ancora: se la Corte ha ritenuto ammissibile nel 2003 un quesito che abrogava tutti i limiti, perché non ammettere un quesito che ne elimina solo uno? Sarebbe come se la Corte smentisse se stessa".

    4. E invece, come sappiamo, il quesito è stato ritenuto inammissibile sulla scorta della giurisprudenza sulla "manipolatività" e sulla conseguente sua natura introduttiva di una nuova norma.
    Ora, questo indirizzo della Corte, come abbiamo appena visto, diviene altamente incerto e soggetto ad una rivedibilità "caso per caso" che lascia la possibilità di espletamento dei referendum, stranamente proprio nei casi più rilevanti per l'affermazione del programma costituzionale, alla imprevedibile discrezionalità della Corte.
    La stessa "discrezionalità", che nei giudizi di costituzionalità delle leggi, la Corte attribuisce al Legislatore quando preferisce arrivare a un sostanziale "non liquet" (cioè "non mi spetta di pronunciarmi") sui profili che coinvolgono maggiormente la portata precettiva della clausole di "socialità" e di realizzazione dell'eguaglianza sostanziale (art.3, comma 2, Cost.: secondo Basso, Mortati, Caffè, Calamandrei, - ma anche, oggi, secondo Luciani, forse il più autorevole costituzionalista italiano-, la disposizione più importante di tutta la Costituzione). 

    5. L'eguaglianza sostanziale, almeno un tempo, era concepita come oggetto di un obbligo attuale di "intervento" di Parlamento e governo, come legislatori e amministratori, ed andava promossa perciò attraverso un'attivazione dello Stato. 
    Un obbligo che, però, è ormai divenuto privo di concreto significato: e, quasi immancabilmente, per "superiori" ragioni di "vincolo assunto con l'UE", o per le sue proiezioni immediate. 

    Tra queste "ragioni vincolanti" indubbiamente, (v.p.3.1.), figura lo stesso jobs act, richiesto insistentemente, col riferimento ossessivo alle"riforme strutturali", dalla Commissione UE, dalla lettera Draghi-Trichet del 2011, e tante altre pressioni sovranazionali, di OCSE, FMI, BCE (a cui l'art.130 del TFUE vieterebbe queste "sollecitazioni", nonché dai cancellierati della Germania e dei suoi satelliti.

    6. Il prof. Valerio Onida (presidente emerito della Corte costituzionale), non certo propenso a forti interpretazioni "sociali". ma rigoroso nel concepire l'effettività della clausola (art.1 Cost.!) sull'attribuzione della sovranità al "popolo", si era già espresso sul connesso problema dell'ammissibilità dei quesiti referendarie della giurisprudenza della Corte cost., creativa di limiti ulteriori rispetto a quelli, già ragguardevoli, contenuti nella previsione costituzionale. 
    Il referendum ex art.75 Cost., naturalmente, realizzando una forma di democrazia diretta, correttiva e di "verifica" dell'operato e dell'attuale rappresentatività "popolare" del parlamento, è una diretta espressione del potere dell'elettorato di sindacare, come gli spetta, l'omissione o la distorsione de "l'obbligo di attivazione" posto dall'art.3, comma 2: in questa prospettiva di rigore interpretativo, Onida aveva detto (nel 1995):
    "A mio parere i passaggi «fatali» di questa giurisprudenza, che hanno contribuito più di ogni altra cosa alla distorsione dell'istituto referendario, sono stati due. 
    Il primo è quello con cui la Corte, apparentemente (ma solo apparentemente) sviluppando il requisito della «omogeneità» del quesito, a tutela della libertà di voto che sarebbe compromessa dalla proposizione in unico quesito di più domande diverse, ha affermato che il quesito deve essere anche «chiaro» e «coerente», e che a tale fine deve risultare palese il risultato che i promotori si propongono di raggiungere. 
    Ora, il referendum abrogativo, previsto dalla Costituzione, tende di per sé ad un unico risultato, che è la cancellazione di una o più norme. 
    Quel che succede nell'ordinamento a seguito di tale cancellazione è vicenda ulteriore, che non riguarda se non indirettamente i promotori del referendum... 
    Pretendendo invece dai promotori l'univocità in ordine agli scopi dell'abrogazione, la Corte ha avallato ed anzi ha indotto o addirittura reso necessaria la formulazione di quesiti complessi ed elaborati, e ha incentivato la tendenza a fare dei quesiti referendari uno strumento di proposta legislativa positiva. 
    Il secondo passaggio è quello con cui la Corte, di fronte a quesiti referendari relativi a leggi che disciplinavano la formazione di organi costituzionali... ha affermato che l'ammissibilità è condizionata al fatto che la proposta abrogazione lasci in vita una normativa «autosufficiente». Dunque non solo il quesito deve rendere esplicito a che cosa esso tende, ma deve proprio tendere a dar vita, come normativa «di risulta», ad un a legge in grado di essere applicata...A questo punto, come si vede, la strada dei referendum «manipolativi» non solo si è aperta, ma si è spalancata, e addirittura è divenuta talvolta un percorso obbligato..."

    7. Ma v'è ben di più, a questo punto della vicenda, date tutte le premesse finora svolte.
    Abbiamo visto come la relatrice Sciarra abbia enfatizzato la contraddittorietà della inammissibilità in relazione a un precedente che più specifico non poteva essere (un caso di referendum abrogativo ammesso dalla Corte, proprio sull'art.18 e in senso egualmente "resecativo-manipolativo", referendum il cui esito era stato vanificato dal mancato raggiungimento del "quorum" dei votanti).
    In proposito, ci soccorre quanto aveva fatto presente, - dall'esterno e in controtendenza rispetto al mainstream politico-mediatico, che prima ha "premuto" per la inammissibilità e oggi, naturalmente, l'acclama a gran voce-, il costituzionalista prof. Pallante, in raccordo con quanto osservato anche dal prof. Azzariti (altro autorevole costituzionalista..inascoltato). 

    7.1. Questi i passaggi salienti:
    "Nessun dubbio, dunque, che quello del 2003 fosse un referendum manipolativo, vale a dire un referendum volto in ultima istanza non a eliminare norme, ma a introdurne di nuove. La consultazione poi fallì, per il mancato raggiungimento del quorum. 
    Ma, resta il precedente dell'ammissione del quesito, nonostante il suo contenuto manipolativo-propositivo. Per quale motivo allora, almeno stando alle indiscrezioni giornalistiche, l'Avvocatura dello Stato avrebbe chiesto l'inammissibilità del referendum odierno denunciandone la natura manipolativa? E, soprattutto, per quale motivo, sempre stando ai giornali, tale argomentazione avrebbe addirittura fatto breccia in alcuni dei giudici costituzionali in carica? Davvero è possibile che la Corte intenda rimangiarsi i propri precedenti? O il giudizio di ammissibilità sta perdendo la sua connotazione squisitamente costituzionale per assumerne una marcatamente politica?
    ...
    In definitiva: nel 2003 la tutela reale era prevista solo per i lavoratori dipendenti da datori di lavoro con più di 15 dipendenti e si trattava di estenderla ad altri lavoratori (anche se non a tutti: restavano infatti esclusi i lavoratori appartenenti a determinate categorie "speciali"); oggi la tutela reale è prevista solo per i lavoratori dipendenti da datori di lavoro con più di 15 dipendenti assunti prima dell'entrata in vigore del Jobs Act e si tratta di estenderla ad altri lavoratori (anche se non a tutti: resterebbero infatti esclusi i lavoratori dipendenti da datori di lavoro con meno di 5 dipendenti, i dipendenti da datori di lavoro svolgenti senza fini di lucro attività «di tendenza», i lavoratori appartenenti a determinate categorie "speciali"). Dov'è la differenza? Perché il referendum del 2003 era ammissibile e quello del 2017, che peraltro avrebbe una portata estensiva ben minore, non lo sarebbe? La logica non ci insegna che dove sta il più necessariamente sta anche il meno (ciò che gli studiosi dell'argomentazione giuridica chiamano ragionamento a fortiori)?
    La sentenza n. 41 del 2003 si chiudeva rilevando che la domanda rivolta agli elettori «si presenta chiara e univoca nella sua struttura e nei suoi effetti», dal momento che «propone al corpo elettorale un'alternativa netta» (punto 3.5 del Considerato in diritto). 
    Proprio le tensioni odierne dimostrano che la situazione non è cambiata. 
    Di nuovo, l'alternativa è netta: da una parte stanno coloro per i quali il lavoro è oramai solo uno dei costi che l'impresa deve minimizzare; dall'altra stanno coloro per i quali il lavoro è insostituibile requisito perché l'esistenza di ciascuna persona sia realmente «libera e dignitosa». La prima, è l'idea di lavoro propria del finanz-capitalismo imperante; la seconda, è l'idea di lavoro prevista dalla Costituzione. Da che parte sta la Corte costituzionale, lo scopriremo l'11 gennaio".

    8. Va anche precisato un ulteriore aspetto.
    Non è che  basterebbe, dunque, che il quesito sia manipolativo-propositivo per escluderne l'ammissibilità. 
    Occorre anche che sia che esso NON "realizzi una "saldatura di frammenti lessicali eterogenei", sostituendo una previsione di legge con un'altra che "figura in tutt'altro contesto normativo". 

    8.1. Come (peraltro) attesta il precedente del 2003, era ben difficile ravvisare, anche in questo quesito sull'art.18, la saldatura di frammenti lessicali etetogenei e la sostituzione di una norma con un'altra ascrivibile a "tutt'altro contesto normativo". 
    L'alternativa per l'elettorato, come abbiamo visto, era "netta", cioè ben chiara nella sua sostanza agevolmente spiegabile: non meno agevolmente che in tutti gli altri casi di quesito abrogativo, che - a causa della complessità, (se non "voluta" oscurità), del lessico dell'attuale Legislatore (in genere ricettivo delle "incredibili" direttive e fonti UE).
    Ed infatti, il contesto normativo era manifestamente "unitario", trattandosi di un comma di un singolo articolato ad oggetto omogeneo (disciplina dei presupposti di applicazione di una certa procedura o "fattispecie complessa", e delle possibili misure di tutela applicabili dal giudice nel processo), ancorché incidentalmente, ma in modo irrilevante ai fini della chiara ratio dell'art.75 Cost. (qui, p.2.2.), derivante storicamente dalla sovrapposizione di più fonti nel tempo.
    Per tutto quanto appena detto, non si verificava nessuna possibile saldatura di frammenti eterogenei per introdurre una norma riferita a "tutt'altro contesto normativo": la norma sui presupposti procedurali della tutela era unitaria, e quest'ultima contenuta in una disciplina organica e concentrata, sebbene frutto di un processo di stratificazione di  successivi interventi, tutti ascrivibili alla volontà del Legislatore di realizzare le riforme strutturali, sotto la sferza incessante degli "obblighi assunti in sede €uropea".

    9. Ma l'aspetto più grave, per la preservazione dell'impianto della stessa sovranità democratico-sostanziale delineata dalla Costituzione, concerne la natura, e l'importanza, degli interessi che ne sono coinvolti alla stregua delle priorità assunte dalla Carta del 1948.
    Si trattava infatti di ammettere, o meno, la verifica del popolo sovrano su una disciplina legislativa che coinvolgeva la stessa natura, funzionalità ed efficacia nel tempo del contratto di lavoro; cioè, di quello che la Costituzione, (e non altri, non l'UE), considera, evitando ogni ipocrisia "liberal-liberista" sulla rispettiva posizione di forza contrattuale delle sue parti tipiche, un negozio bilaterale non riconducibile al mero, "classico" contratto tra parti poste in condizioni di parità. 
    Torniamo, quindi, ancora a Luciani, - di cui, per una più ampia comprensione del problema, consigliamo la lettura di questo, veramente notevole, recente saggio sul "livello essenziale" delle prestazioni corrispondenti ai "diritti sociali"-  che, in uno scritto del 1983 (grazie Arturo), ci spiega molto bene il modo in cui la "libertà negoziale", fondata nel nostro ordinamento sull'art.41 Cost., si atteggia in questa specifica materia:
    “L'elemento-chiave in possesso dell’interprete della prima parte dell'art. 41, 2° co., Cost., è la qualificazione fatta dalla norma della utilità che vuole raggiungere: utilità sociale.”
    “Questo aspetto dall'art. 41, questo suo collegamento strettissimo con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3, 2° co., è ormai tanto noto da non dover essere ancora sottolineato: il progetto dell’art. 3 è realizzabile solo se ne esistono le condizioni economiche, e il governo della struttura economia è regolato (per quanto riguarda le situazioni soggettive di vantaggio) dagli artt. 41 sgg. Cost. 
    Il punto va incidentalmente sottolineato con vigore: non tutti i Wertbegriffe [concetti di valore] presenti in Costituzione godono di questo collegamento privilegiato con l’art. 3, 2° co., ma solo quelli, come l'utilità sociale, che esprimono valori assolutamente funzionali al compimento del progetto ivi previsto […]. (La produzione economica privata nel sistema costituzionale, Cedam, Padova, 1983, pagg. 123-4, 125 e 129)”.

    10. Ma in un tempo passato, che pare diventato inconcepibilmente lontano e europeisticamente "alieno", lo stesso, ben noto, Commentario alla Costituzione di "G. Branca", nelle parole del prof. Mancini,rapportava tutto questo al contratto di lavoro e alla tutela costituzionalmente "vincolata" della parte debole nel rapporto che ne nasceva. 
    Questa (al tempo) assolutamente prevalente lettura logico-sistematica, era condivisa come "interpretazione naturale" che, sul piano letterale, sistematico, storico e della ratio, non pareva poter essere scalfita se non da vicende politiche che  provocassero un mutamento costituzionale extraordinem, visto che gli artt. 1 e 4 della Costituzione sono ritenuti (per ora) unanimemente non assoggettabili a revisione, cioè a "riforma" costituzionale:
    “Non v’è dubbio che il diritto a conservare il posto divenga « effettivo », come esige l’art. in esame, solo quando i limiti al potere di recesso abbiano carattere reale [ndr: essendo cioè sanzionati col ripristino del contratto mediante la "reintegra]; in altri termini, solo quando l'atto posto in essere senza tenerne conto sia colpito di invalidità. 
    Ora, si può comprendere che, perseguendo quel che la Corte ha chiamato «l’indirizzo politico di progressiva garanzia del diritto al lavoro», il Parlamento abbia nel '66 sancito limiti unicamente obbligatori; anche se, agli occhi di alcuni giuristi di sinistra, la protezione così accordata ai lavoratori finisse per essere meno intensa della tutela che, già in precedenza, avrebbe potuto fornire un'interpretazione evolutiva dell’art. 2118.  
    Assai meno comprensibile, comunque, sarebbe un suo ritorno a tali limiti oggi o domani. 
    Salire dal niente al poco avendo di mira il tutto o il quasi tutto è una cosa (saggia, aggiungerebbe un gradualista).  
    Scendere dal tutto — che corrisponde alla direttiva politica contenuta nella norma — al poco, specie se questo, com’è nel caso in esame, somiglia più al niente che al tutto (i limiti obbligatori non intaccano l’efficacia del licenziamento; aumentano solo il costo del suo esercizio), è una cosa affatto diversa. E, a mio avviso, contestabile sul piano della correttezza costituzionale.”

    11. Non era dunque in gioco, nella vicenda della referendum sull'art.41 Cost., un diritto alla "libera" organizzazione dell'impresa, e di conseguenza, il "diritto" ad ogni possibile livello di profitto (diritto che, a quanto pare, la Cassazione ora ritiene incondizionabile e prevalente su ogni aspetto dell'utilità sociale, svincolandosi dagli artt. 1, 4 e 35 Cost. e da ogni obbligo della legge statale di garantire la previsione sulla "effettività" del diritto al lavoro).

    Dunque la contraddizione tra il precedente del 2003, e la stessa coerente  e "intelleggibile" applicazione del criterio (già fortemente controverso di per sé, secondo la limpida analisi, "a monte", compiuta a suo tempo da Onida), relativo ai quesiti, sulla "saldatura di frammenti lessicali eterogenei", sostituendo una previsione di legge con un'altra che "figura in tutt'altro contesto normativo", finiscono per pesare come un macigno, una "pietra tombale" sulla stessa preservazione dei principi fondamentalissimi della Costituzione. 

    11.1. E sullo sfondo di questo schiacciamento si staglia l'ombra dell'UE, della moneta unica, della sua inesorabile funzione di sostituire, alla svalutazione dei cambi in regime flessibile, la ben nota, "svalutazione (c.d. "interna") del lavoro".
    Con costi sociali che, a questo punto, volendo addossarli solo a carico del mercato del lavoro e della dilagante disoccupazione, portano la comunità sociale (de-sovranizzata) ad un livello crescente di "compressione": fino a volerne fare una "pentola a pressione" che avrà il suo punto di rottura in un'esplosione.
    Qualcuno dovrà assumersene la responsabilità, prima o poi.
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    €-UROBORO, MUNCHAUSEN, LEGGE DI SAY E MITOLOGIA SUPPLY SIDE CONTRO LA LEGALITA' COSTITUZIONALE

    January 13, 2017, 9:35 am
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    Premessa: Meuccio Ruini, Presidente della "Commissione dei 75", di redazione della Costituzione, preparatoria dei lavori dell'Assemblea Costituente, nella sede di discussione generale, seduta del 12 marzo 1947 ("La Costituzione nella palude", pag.99):
    "Gli economisti — i migliori — riconoscono che il loro edificio teorico, la scienza creata dall'Ottocento, non regge più sul presupposto di una economia di mercato e di libera concorrenza, che è venuto meno, non soltanto per gli interventi dello Stato, ma in maggior scala per lo sviluppo di tendenze e di monopoli delle imprese private. 

    Quando vedo i neo liberisti, come l'amico Einaudi, proporre tale serie di interventi per assicurare la concorrenza, che qualche volta possono equivalere agli interventi di pianificazione, debbo pur ammettere che molto è mutato. 

    Non pochi vanno affannosamente alla ricerca della terza strada. 

    La troveranno? Non lo so. Questo so: che si avanza la forza storica del lavoro".
    1. L'attualità, che risalta per casi concreti, cioè empiricamente, nei temi trattati negli ultimi due post, consiglia di approfondire il discorso portandolo su un livello più ampio, storico-economico.
    Abbiamo visto che l'affermazione del "diritto al profitto" come posizione "incondizionata" dell'imprenditore, anche all'interno del rapporto di lavoro (di cui, appunto si perde di vista la sostanziale centralità come elemento determinativo della stessa crescita, economica e culturale del Paese), venga giustificata con una "nuova" lettura dell'art.41 Cost.
    Questa "revisione" interpretativa determina che quest'ultimo, inevitabilmente, venga fatto prevalere sugli artt. 1 (fondamento "lavoristico" della Repubblica), 4 (dovere della Repubblica di rendere "effettivo" il diritto al lavoro) e 3, comma 2, Cost. (obbligo di governo e parlamento di intervenire attivamente per rimuovere gli ostacoli "di fatto" che impediscono la "piena partecipazione" di tutti alla vita democratica del paese). E abbiamo mostrato come, sul piano del metodo ermeneutico, questa lettura finisca per reinterpretare l'art.41, norma costituzionale, non solo scindendolo dalle più importanti e inderogabili previsioni degli artt.1, 3 e 4 (che ne sarebbero, almeno fino a ieri, il presupposto operativo sul piano costituzionale), ma, anche, attribuendogli questo "nuovo" senso alla luce delle stesse norme di legge, di rango inferiore, che l'art.41 stesso dovrebbe giustificare (!).

    2. Il discorso si concretizza, dunque, in una sorta di ragionamento euristico, in cui una norma di legge modifica il senso di una norma costituzionale al fine specifico di trovare in quest'ultima la sua giustificazione. 
    E' evidente che la struttura simbolica cui si dà vita con un simile ragionamento, è quella del mitologico UROBORO. Che non a caso, in una precedente occasione, abbiamo ribattezzato €-uroboroneo-liberista. 
    http://static.giantbomb.com/uploads/original/5/54618/2679011-7506936419-ourob.jpg

    2.1. Per meglio comprendere il senso di queste sempre più frequenti riletture della Costituzione, in base a principi legislativi, normalmente derivanti dall'influenza istituzionale €uropea, si può anche ricorrere, come abbiamo altrettanto ipotizzato, al...Barone diMünchhausen, che evitava di affondare nella palude tirandosi per i capelli.

    3. Venendo ad un approccio più storico ed economico-scientifico, ci soffermiamo, per illustrarne ulteriormente le implicazioni, sulle affermazioni della Corte di Cassazione e sull'analisi giuridica compiuta:
    "Secondo la Cassazione, infatti, in termini microeconomici, nel lungo periodo e in un regime di concorrenza, l'impresa che ha il maggior costo unitario di produzione è destinata ad essere espulsa dal mercato" (Cass. n. 13516 del 2016; Cass. n. 15082 del 2016). Da qui l’opportunità di licenziare anche un singolo dipendente soprattutto se tale mancato licenziamento potrebbe compromettere la stabilità del posto di lavoro di tutti gli altri dipendenti. Senza indagare, peraltro, il perché tale costo unitario dell'unità produttiva possa essersi innalzato, coinvolgendo l'intero sistema economico nazionale, magari per ragioni fiscali, valutarie e monetarie e, quindi, in un quadro macroeconomico - e di cedimento della domanda interna- che non può essere percepito e compreso a livello "micro".
    ...
    Risolvendo il problema dell'efficienza e del CLUP (e quindi della "produttività), in termini microeconomici, - senza porsi il problema se questa situazione possa essere "sistemica" e, dunque, applicabile ad ogni settore produttivo e giustificare in ogni caso qualsiasi licenziamento individuale, la Cassazione afferma che sarebbe addirittura incompatibile con l'art. 41 co. 1° Cost. l'assunto secondo cui il datore di lavoro dovrebbe provare la necessità della contrazione dei costi e, quindi, l'esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato: dovrebbe essere sufficiente una sua autonoma scelta in tal senso.
    Per l'appunto, da un lato, non sarebbe possibile distinguere, quanto alle ragioni economiche a sostegno della decisione imprenditoriale "tra quelle determinate da fattori esterni all'impresa,  o  di mercato, e quelle inerenti alla gestione dell'impresa, o volte ad una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto" (Cass. n. 5777 del 2003) e, dall’altro, anche ove fosse possibile, non spetta al giudice entrare nel merito  delle decisioni assunte dall’imprenditore(Cass. n. 23620 del 2015)".

    4. Cerchiamo allora di connotare, sul piano economico, il perché queste asserzioni, essendo esclusivamente incentrate sull'equilibrio aziendale, cioè micro-economico, risultino fuorvianti nel definire la portata dell'art.41 Cost., laddove questo, alla lettera, limita la "libertà di iniziativa economica privata"  in funzione della "utilità sociale" (a prescindere dalla "dimenticata" dipendenza di tale articolo dai precedenti art.1, 4 e 3, comma 2: anche se tale dimenticanza è, già in sé, una scelta interpretativa non da poco).
    Il punto è che la stessa "utilità sociale", diversamente da quello che implica il modello neo-liberista implicitamente affermato dalla Cassazione, non vede l'estraneità dell'imprenditore ai suoi vantaggi.

    5. Solo che, per comprendere come tale positivo coinvolgimento dispieghi i suoi effetti (anche e proprio nell'ottica dei lavori della Costituente), occorre considerare l'imprenditore non come soggetto isolato socialmente e giuridicamente (e in particolare: costituzionalmente), cioè posto solo in relazione al bilancio e ai "conti" della sua impresa, ma in senso categoriale: cioè come esponente di una serie tipica di soggetti che vengono in considerazione per il loro ruolo, nel determinare, secondo la volontà del Legislatore Costituente, l'equilibrio c.d. della "piena occupazione" (qui, nella parole di Federico Caffè, pp.6-7).
    Questo equilibrio, o più esattamente le politiche dello Stato, fiscali e industriali,coordinate con quelle monetarie e valutarie, al fine di perseguirlo, vede, in effetti, verificarsi le condizioni di massimizzazione sia dei profitti che, a monte, della convenienza ad investire (soddisfacendo quell'elemento solo in apparenza elusivo che è l'aspettativa di profitto che, inevitabilmente, come comprova l'attuale congiuntura economica italiana, dipende, eccome, dal livello della domanda e, quindi, dalla previsione che questa sia in grado di assorbire quanto "prodotto", cioè di dare senso alla crescita dell'offerta, strutturata mediante investimenti, lordi e netti, aggiuntivi).

    6. Questi principi, ovviamente keynesiani, - e che furono alla base dell'abbandono delle teorie neo-classiche (marshalliane) per risolvere la crisi del 1929, nonché del superamento della "stagnazione secolare" e del c.d. "equilibrio della sottoccupazione"-, possono trovare una loro anticipazione empirica, ma ben identificabile, sul piano non strettamente macroeconomico, sebbene proprio dell'economia industriale: il modello fordiano (v.qui, p.1, laddove si parla di modello produttivo e salariale).
    6.1. Sul piano delle dottrine economiche, nel fare riferimento a tale modello, non si enfatizza l'aspetto della iper-specializzazione e segmentazione dei compiti all'interno della produzione industriale "di serie", quanto piuttosto, il ben più importante risultato per cui, stabilito un livello di occupazione massimizzato già all'interno del settore, o della "unità", industriale considerato/a, il modello perseguito da Ford implica livelli retributivi in partenza più elevati, - ed economicamente incompatibili con il "rimedio" della programmatica flessibilità totale in uscita della forza lavoro- al fine di trasformare gli stessi lavoratori in clienti e utenti del prodotto (v. pure qui, al par.I, sempre in termini di modello che l'arrembare dell'ideologia economica neoliberista €uropea ha condotto a sacrificare).

    7. Per contro, un modello neo-liberista, fondato sull'idea centrale, della perfetta flessibilità del mercato del lavoro, come condizione principale di riequilibrio delle crisi "accidentali" (di cui si nega la determinabilità autonoma se non come "malfunzionamento" determinato da condizioni imperfette di "libero mercato", v.p1), si fonda sulla persistente validità della Legge di Say: è l'offerta, ottimizzata da condizioni di costo marginale pareggiato al ricavo marginale, e registrabile simultaneamente in ciascuna "unità aziendale", che crea naturalmente le condizioni di assorbimento della domanda.
    Quindi, anche sul piano delle politiche legislative, abbracciare (fosse anche per implicito), questa teoria, implica che "qualunque" livello dell'occupazione, purché soddisfi il nuovo equilibrio dei costi reso necessario da "qualunque" livello di riaggiustamento dei salari, sarebbe promotore di un ritorno alla crescita, nell'efficienza allocativa (ottimo-paretiana). 
    E se anche non si registrasse una crescita significativa, - com'è in effetti avvenuto in ogni epoca in cui s'è applicato questo paradigma (qui, pp.4-7)- quello che conta è solo l'efficienza allocativa stessa e l'utile del settore delle imprese (cioè della c.d. "offerta", ovvero, in inglese, "supply side").

    8. Questa esclusiva e intransigente visione "supply side"è, in effetti, quella propugnata nei trattati €uropei (pp. 1-2), - come comprova, oltretutto, l'insieme delle continue indicazioni di "misure" e riforme strutturali che la Commissione consiglia ai vari stati dell'eurozona in sede di (sempre più intensa) sorveglianza sui bilanci fiscali. Ma il privilegiare esclusivamente il lato dell'offerta (o, nel rapporto di lavoro, i poteri "datoriali"), non riesce, in effetti, così come non è riuscito in passato, nè a far ripartire gli investimenti (e quindi, neppure ad ampliare la struttura dell'offerta dei Paesi che si sottopongono a tale modello), né a ripristinare, neppure lontanamente, i livelli di occupazione (e di crescita) antecedenti ad una fase di recessione.
    Diviene, piuttosto, una questione esclusivamente "politica": il credere in un certo assetto della società considerandolo eticamente superiore, ostinandosi nell'aspettativa fideistica che, prima o poi, il modello che privilegia il magico ruolo-guida dell'offerta produca i suoi frutti.
    Ma ciò non dovrebbe avvenire a scapito della legalità costituzionale e, segnatamente, delle sue norme più essenziali e inderogabili. 

    9. Poiché invece il jobs act si fonda su questa teoria (supply-side, microaziendale e imperniata sulla Legge di Say e sull'efficienza allocativa, accentuata in economie "aperte" dal principio ricardiano dei "vantaggi comparati"), esso va, per coerenza tecnico-economica, collegato ai risultati complessivi delle politiche in cui esso si inserisce. 
    Cioè l'assetto "iperflessibile" del mercato del lavoro è una conseguenza VINCOLATA dell'adozione di questo paradigma; ma questo paradigma non mantiene e non sta mantenendo, come sempre, le sue "induttive", e mai riscontrate, promesse di crescita e benessere.
    Piuttosto, scarica sulla parte più debole della società i costi delle crisi e promuove una redistribuzione verso l'alto - in forma di profitti e di risparmio accumulati soltanto dagli operatori economici esportatori-, e quindi "oligarchica", della ricchezza e del reddito.

    10. Un risultato ormai evidente a chiunque voglia prendere atto dei dati e degli indicatori economici reali, e non si accontenti degli slogan e delle indimostrate aspirazioni politico-mediatiche.
    Questo è il frutto del paradigma euro sulla produzione industriale italiana e sugli investimenti ("lavoro", sempre di meno; la disoccupazione cresce; i salari diminuiscono in termini reali e la propensione ad investire...va a picco):
    http://www.programmazioneeconomica.gov.it/wp-content/uploads/2015/05/1.41.png 
    All’inizio degli anni duemila il tasso di risparmio e di investimento pubblico e privato erano sostanzialmente allineati in Italia, la crescita della quota di investimenti fino al 2007 non è stata accompagnata da una crescita proporzionale dei risparmi, rimasti sostanzialmente costanti. Con la prima recessione (2008-2009) i risparmi sono calati più fortemente degli investimenti, che hanno resistito meglio. Durante la seconda recessione invece si è registrato un nuovo calo degli investimenti, mentre aumentava il risparmio precauzionale. Dal 2013 i risparmi sono tornati maggiori rispetto agli investimenti ma ad un livello radicalmente più basso per entrambi rispetto a quello pre crisi (nel 2014 18,3% di propensione al risparmio contro il 16,5% di propensione all’investimento).
    Per non parlare del versante degli investimenti pubblici che, pure, come pretesa soluzione alla interminabile crisi dell'eurozona, si invocano da anni: senza però mettere in discussione la moneta unica e i vincoli fiscali che servono unicamente a tenerla in vita. Questi sono i dati AMECO sugli investimenti pubblici netti italiani, complessivamente in costanza di vincolo esterno, cioè di adozione forzosa del marco come valuta:

    https://i1.wp.com/www.miglioverde.eu/wp-content/uploads/2016/12/U.jpg

    11. La Costituzione non consentirebbe il perseguimento di questo paradigma (marginalista e fortemente liberista per il solo mercato del lavoro), proprio perché, già nel 1946-47, lo considerava il frutto della "scienza economica dell'800" (sic, Ruini, nella celebre replica a Einaudi), nonché il meccanismo di innesco di crisi economiche che andavano a detrimento (strutturale) della "classe" dei lavoratori: non solo dipendenti, ma di tutti coloro che non fossero coinvolti nel supply side e nelle posizioni di forza oligopolistiche che prosperano alla sua ombra; vale a dire, comprese le piccole e medie imprese, la cui sopravvivenza dipende principalmente dalla domanda "interna", cioè dal potere di acquisto delle famiglie e dal livello di occupazione e di (strettamente connessa) retribuzione "dignitosa" che ha di mira la nostra Costituzione.
    E chi è chiamato a decidere su questi problemi dovrebbe essere attento ai presupposti teorici ed agli effetti pratici delle teorie che provengono dall'€uropa...

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    POVERTA' ASSOLUTA E POVERTA'...DI RISCHIO (molto attuale): LA FINE DELLA DISCIPLINA DELLA "MOBILITA" E IL REDDITO DEFLATTIVO DI INCLUSIONE

    January 15, 2017, 3:28 am
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    https://i0.wp.com/ilsocialepensa.altervista.org/wp-content/uploads/2016/10/disoccupazione_dignita.jpg?fit=2362%2C1181



    Questo nuovo contributo di Sofia mette in connessione i due aspetti salienti del fallimento, inevitabile e purtroppo inarrestabile, del paradigma economico neo-liberista, dettato dalla moneta unica: la distruzione di reddito e ricchezza trova il suo pendant simmetrico nella povertà conseguente alla mutata condizione del lavoro.
    Fatti e dati economici confermano sempre più questo degenerare della situazione economica e sociale: i provvedimenti che si prendono risultano, in ossequio a un fideismo per cui la cura non può altro che consistere in "ulteriori dosi dello stesso veleno", aggravare la situazione.
    Senza che nessuno dei "decidenti" paia in grado di comprendere e di trovare un modo per uscire da questa situazione: ormai divenuta insostenibile...
     
    1. All’inizio del 2015 (in contrasto con i dati che erano appena stati pubblicati dalla banca d’Italia) il Premier Renzi sosteneva: "In un tempo di crisi le famiglie italiane hanno visto crescere i propri risparmi, passati da 3,5 a 3,9 triliardi di euro dal 2012 al 2014". Senza neppure comprendere il significato di questi dati.
    In realtà si era trattato, come evidenziava lo studio di Bankitalia (sui dati disponibili al quel tempo più recenti) di una transitoria preferenza della liquidità resa necessaria dal costante calo della ricchezza patrimoniale delle famiglie, generato dall'intensa austerità fiscale imposta dall'UEM per salvare l'euro, e che vedeva un saldo netto complessivo negativo; questo era, anzitutto, imputabile al drastico calo dei prezzi immobiliari, e al sudden stop degli acquisti relativi, che ha determinato l'attesa nella spesa del risparmio monetario in attesa dell'assestamento verso il basso del prezzo degli immobili. 
    Ma tale risparmio "difensivo" era anche dovuto alla previsione del dover ricorrere ai propri (residui) risparmi per fronteggiare sia l'attesa dell'aumento costante della pressione fiscale, sia l'aspettativa di insolvenza dei propri debitori, sia la diminuita capacità di pagamento legata alla propria stessa situazione reddituale (ad es; clienti di micro e piccole imprese e liberi professionisti, ovvero, imprese fornitrici, e invano creditrici, sia dello Stato che delle PMI che, però, dovevano fronteggiare aumenti della tassazione, potenziali insolvenze fiscali, o il pagamento, a loro volta, dei rispettivi fornitori).
    1.1. D'altra parte, al di là di questa congiunturale preferenza per la liquidità, non si vede come l'effettivo risparmio, cioè il reddito non consumato, potesse essere aumentato, in termini quantomeno "reali" (cioè al netto dell'inflazione) con questi dati relativi al reddito e all'aumento delle passività delle stesse famiglie (un dato, tutto dovuto all'assetto della moneta unica, senza precedenti nella storia italiana):
    http://3.bp.blogspot.com/-2oeY0CIE3wg/VG3g6jrv1fI/AAAAAAAACWk/n4mISQvt77E/s1600/redditi%2Bdisponibile.jpg

    http://www.eticaeconomia.it/ee/wp-content/uploads/2015/12/giannetti2.jpg
    Dati che trovano appunto riscontro nell'andamento della ricchezza complessiva delle famiglie, indipendentemente dalla considerazione come "risparmio" del solo contante posteggiato nei depositi bancari:
    http://www.giornalettismo.com/wp-content/uploads/2015/12/ricchezza-famiglie.jpg

    2. In ogni caso i dati ISTAT più recenti mettono in evidenza la riprova sociale dell'altra faccia di questa drastica diminuzione di reddito e ricchezza-patrimonio: un aumento del livello di povertà della popolazione e non certo un arricchimento (almeno nel senso implicato da Renzi).  
    Gli ultimi dati ISTAT 2015 su condizioni di vita e redditostimano che il 28,7% delle persone residenti in Italia sia "a rischio di povertà o esclusione sociale" ossia 17 milioni 469 mila persone; coloro che vivono in famiglie gravemente deprivate sono l’11,5%. 
    La condizione di diversità tra persone "a rischio povertà", cioè che vivono di espedienti e "non arrivano alla fine del mese" (senza ricorrere ad altro indebitamento o alla carità, pubblica o privata: figuriamoci se sono in grado di risparmiare), e "povertà conclamata" (ascrivibile a circa 4.6 milioni di persone), risiede essenzialmente, nella quantità di fame e di malattia irrisolvibili, che nel secondo caso, devono affidarsi esclusivamente, e senza alternative, all'assistenza pubblica e privata. E quest'ultima, comunque, com'è ben noto, non è certamente in grado di apprestare una via d'uscita dalla condizione di indigenza (irreversibile).

    3. Come del resto anticipato anche nel libro Finanziamenti Comunitari – Condizionalità senza frontiere, gli obiettivi prefissati dalla Strategia Europea 2020 (entro il 2020 l'Italia dovrebbe ridurre gli individui a rischio sotto la soglia dei 12 milioni 882 mila) non saranno raggiunti proprio perché la popolazione esposta a tale "rischio" (per la verità piuttosto concreto e attualizzato, almeno rispetto agli standards di un paese appartenente alle c.d. "nazioni civili") è ancora «superiore di 4 milioni 587 mila unità rispetto al target previsto».
    I dati settoriali, poi sono a dir poco inquietanti perché al Sud quasi quasi la metà dei residenti (!!!) risulta a rischio povertà o esclusione sociale, con una percentuale del 46,4%.
    Inoltre nella graduatoria dei Paesi dell'Ue «l’Italia occupa la sedicesima posizione assieme al Regno Unito».
    In questa situazione il 20% più ricco delle famiglie percepisce il 37,3% del reddito equivalente totale; il 20% più povero solo il 7,7% e se questa diseguaglianza è andata aumentando negli anni il merito è proprio delle politiche europee che predicano pace e benessere per tutti.

    3. Un modo per migliorare questi dati sarebbe stato quello di fare politiche del lavoro per l’aumento dell’occupazione (effettiva, cioè stabile e dignitosamente retribuita). 
    Il Governo Renzi aveva promesso miracoli con il jobs act.
    Eppure anche su questo piano piovono smentite su ogni fronte, perché il jobs act non ha affatto aumentato l’occupazione ma, associato alla (ulteriore) modifica dell’art. 18, ha solo contribuito ad aumentare il precariato.
    LʼOsservatorio sul precariato (INPS) segnala (ma i dati sono confermati anche dall’ISTAT) che i contratti a tempo indeterminato sono il 32,9% in meno rispetto al periodo corrispondente del 2015.
    Scendono anche quelli le assunzioni da parte dei datori privati: -8%, mentre crescono i licenziamenti del 31%.Nei primi otto mesi del 2016  i c.d. voucher destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio, sono aumentati del 35,9%. Nell’identico periodo 2015 rispetto al 2014, erano aumentati del 71,3%.

    4. Mentre si delinea in senso crescente questo stato di cose, che registra in modo oggettivo le tendenze reali innescate dal jobs act, è di qualche giorno fa la notizia che si vorrebbe risolvere il problema povertà con l’introduzione del “reddito di inclusione”. 
    Ed infatti il ministro delle Politiche agricoleMaurizio Martina sostiene: "Noi dobbiamo rispondere all'appello lanciato giorni fa da "Alleanza contro la povertà". 
    A parte il fatto che Martina richiama i soli dati ISTAT in base ai quali i poveri "assoluti" sarebbero 4,5 milioni, - mentre invece abbiamo visto sopra che la condizione di "povertà relativa", (di per sè allarmante e non tollerabile in un paese democratica e a capitalismo "avanzato"), sono oltre 17 milioni-, egli smentisce che si tratti di una manovra di conquista elettorale. Ritiene invece che "Si tratterà di un sostegno finanziario non assistenziale, che dovrà rispettare determinati criteri e che coinvolgerà nella prima fase famiglie con minori” che ammonta a circa 400 euro mensili.
    Dal che desumiamo che se si abbiano a disposizione più di 400 euro mensili, il problema povertà diviene tale che lo Stato non se ne prende cura o, il che è lo stesso, che, a causa dei "vincoli di bilancio assunto verso l'Unione europea", un intervento "non ce lo possiamo permettere" (come ironizzava Keynes, stigmatizzando una situazione passata del tutto analoga all'attuale e parlando dell'incubo del contabile).

    5. Tuttavia, Martina omette qualunque riferimento alla copertura necessaria per una manovra del genere, che tenga conto dell’obbligo del pareggio di bilancio introdotto in Costituzione (art. 81) e delle sempre incombenti misure di correzione fiscale, dettate dalla Commissione UE, in senso "austero", che comunque questo stesso governo dovrà in qualche modo adempiere (con un ulteriore inasprimento fiscale che non potranno che aumentare il "rischio povertà" e la "povertà assoluta").
    E comunque del reddito minimo e di cittadinanza, della inutilità di queste misure, di come esse siano  - nella migliore delle ipotesi - solo un sedativo delle masse e uno strumento di deflazione salariale si è ampiamente parlato qui,  qui, qui, quie - con riferimento alla non conformità di tali misure alla Costituzione-  qui e ancora qui.

    Degli effetti che produce l’introduzione di un salario minimo o, in stretta connessione, un "reddito di inclusione" generalizzato (per modo di dire), con il già avvenuto simultaneo smantellamento di una misura, con finalità ben più logiche e mirate, come la c.d. mobilità pure, si è ampiamente detto; si era infatti chiarito che (riferendoci al salario minimo) “è un espediente per abbassare i salari di "entrata" allo stesso livello degli assegni di sostegno, per eliminare la cassa integrazione e, nello stesso tempo, per risolvere problemi legati alle procedure di mobilità”.

    6. E non è un caso, quindi, che si parli di "reddito di inclusione" proprio in parallelo alla disattivazione, a partire dal primo gennaio, della procedura di mobilità. Scompare, infatti, così come previsto dalla legge 92/2012(art. 2 comma 71), la mobilità introdotta dalla legge 223/1991, e, con essa, una qualche sicurezza per il futuro di 185mila impiegati nel settore manifatturiero che ne usufruivano. Ai quali si vanno ad aggiungere gli 86mila in cassa integrazione e le migliaia dell'indotto.
    Dal primo gennaio non esiste più l’indennità di mobilità, l’ammortizzatore sociale che in caso di licenziamenti collettivi accompagnava nel modo meno traumatico possibile il passaggio alla disoccupazione vera e propria o, nelle storie più fortunate, era il ponte verso un nuovo posto di lavoro.
    L’indennità di mobilità, dal 1° gennaio 2016 viene corrisposta per un massimo di dodici mesi per le due prime fasce di lavoratori fino a 40 e 50 anni per salire a diciotto mesi per gli over 50: questo avviene nelle aree del centro nord mentre nel meridione l’indennità di mobilità e’ pari a 12 mesi per i soggetti fino a quarant’anni, sale a 18 mesi per quelli fino a 50, mentre per coloro che superano tale età diviene di  24 mesi.
    Questo striumento sarà sostituito, man mano che andranno ad esaurirsi i periodi di mobilità in essere, dal combinato disposto di altri e "nuovi" ammortizzatori sociali: la Naspi in primis,  che rappresenta una copertura ridotta, correlata alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni e che prescinde dall’età e dal luogo di residenza dell’interessato (la modifica definitiva è intervenuta con il D.L.vo n. 148/2015).
    E si tratta di misure che riguarderanno, solo per citare i casi più corposi, gli operai dell'Ilva, della Lucchini di Piombino, dell'Alcoa di Portovesme, ma anche dell'Hp, dell'Italtel, della Linka-Compel, della Nokia, della Whirpool-Indesit, dell'Electrolux e molti altri.

    7. Occorre ricordare che la mobilità, dopo la riforma Fornero del 2012, aveva una durata massima di 48 mesi e prevedeva l’erogazione di un importo pari al 100% per il primo anno e all’80% dal tredicesimo mese in poi - entro i massimali previsti in ogni caso-, della retribuzione effettivamente in godimento.
    La Naspi disciplinata dal decreto legislativo n.80/2015, invece, è corrisposta per un massimo di 24 mesi; e ne hanno diritto i lavoratori con almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 4 anni e almeno 30 giorni di lavoro effettivonell’ultimo anno che precede l’evento di disoccupazione. L’ammontare dell’ammortizzatore in esame si ottiene sommando gli imponibili previdenziali degli ultimi 4 anni, dividendo il risultato per le settimane di contribuzione e infine moltiplicando il tutto per 4,33 entro un massimale di 1300 euro. L’importo, però, viene ridotto del 3% a partire dal quarto mese di fruizione, secondo i criteri messi in evidenza dalle circolari INPS n. 94 e n. 142 del 2015.
    Sia l’accesso alla NASPI che all’indennità di mobilità, nel momento in cui sarà pienamente operativo il sistema ipotizzato, con l’ANPAL,  dal d.lgs n. 150/2015, saranno condizionati dalla partecipazione a programmi di riqualificazione professionale susseguenti alla sottoscrizione di specifici programmi con i servizi per l’impiego. 

    8. In forza di tale meccanismo, e considerata la già vista situazione occupazionale italiana, e l'ormai consolidato prevalere della deflazione salariale connessa alla dilagante precarizzazione,  si avrà la conseguente impossibilità di rifiutare proposte di lavoro pena la perdita del sostegno economico. 
    Ma a quale soglia di impoverimento reddituale si attualizzerebbe questa prospettiva di perdita del sussidio NASPI (entro i 24 mesi massimi di sua fruibilità)?

    Laddove andasse in porto la proposta del reddito di inclusione, sarà praticamente automatica la fissazione del tetto di retribuzione "non rifiutabile" in misura almeno equivalente al reddito di inclusione di circa 400 euro. Con la conseguenza che coloro che non vogliono perdere la NASPI saranno costretti ad accettare posti di lavoro retribuiti come il reddito di inclusione ed anche meno: si è visto, infatti, che non è ammessa la facoltà di rifiutare lavori, soprattutto se sono qualificati socialmente utili.

    9. Tra l’altro la mobilità non era una misura utile ai soli lavoratori per tamponare le conseguenze reddituali e occupazionali di situazioni di difficoltà aziendale, ma anche per le aziende stesse.
    Costituiva, infatti, uno strumento che consentiva di ripartire tra l’impresa e lo Stato gli oneri della disoccupazione momentanea, in linea con le tutele del lavoro previste in Costituzione.
    Ma non solo. 
    La legge sulla mobilità conteneva delle misure, incentivanti all’assunzione, molto diffuse e questo, probabilmente, farebbe comprendere le ragioni per cui se ne è voluta l’abolizione.
    Va, infatti, ricordato, che la legge 223/1991 agevolava sia le occasioni di impiego con contratto a termine, sia gli inserimenti più stabili nel mondo del lavoro, con assunzioni a tempo indeterminato. 
    In entrambe le fattispecie, la norma prevedeva che la contribuzione a carico dei datori di lavoro che assumessero i lavoratori in mobilità, fosse dovuta nella misura prevista per gli apprendisti.
    Diverso era l’arco temporale di spettanza: 12 mesi per le assunzioni a tempo determinato, a cui si aggiungono altrettanti in caso di trasformazione a tempo indeterminato; 18 mesi nelle ipotesi di assunzione con un contratto a tempo indeterminato. 
    L’agevolazione competeva anche per le assunzioni part-time.
    La medesima legge, inoltre, prevedeva, la concessione di un ulteriore “bonus” nel caso di assunzione/trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto a termine (in entrambi i casi a tempo pieno). Ove, infatti, le "trasformazioni" stesse riguardassero lavoratori aventi diritto all’indennità di mobilità, al datore di lavoro era corrisposto un contributo mensile, consistente nel 50% della prestazione che sarebbe toccata al lavoratore se non fosse stato assunto.

    10. Con le modifiche introdotte dal 2017, invece: fino al 30 dicembre 2016, per le aziende rientranti nel relativo campo di applicazione, sarà possibile collocare in mobilità i lavoratori sia dopo un periodo di Cigs (articolo 4, legge 223/91), sia a seguito di licenziamento collettivo (articolo 24, legge 223/91); le aziende che attiveranno assunzioni di questi lavoratori entro la fine del 2016 potranno contare, nel rispetto dei principi generali, sugli incentivi di legge.
    Occorre, tuttavia, ricordare che, mentre le assunzioni a tempo indeterminato effettuate entro il 31 dicembre 2016 potranno beneficiare dell’intero periodo di durata dell’agevolazione (18 mesi) (cioè di decontribuzione delle assunzioni dei lavoratori in mobilità), quelle "a termine" che sconfineranno nel 2017 non potranno essere né prorogate (con i benefici decontributivi), né trasformate a tempo indeterminato fruendo degli incentivi previsti dall’articolo 8 della legge 223/91 in quanto la norma, come già anticipato, sarà abrogata dal 1°gennaio 17.
    In ultima analisi: dal 31 dicembre 2016 i lavoratori non potranno più essere collocati in mobilità, in quanto l’iscrizione nelle liste decorrerebbe dal 1° gennaio 2017, giorno successivo alla data di licenziamento; dal 1° gennaio 2017 non potranno essere premiate le assunzioni effettuate con riferimento a soggetti iscritti entro il 31 dicembre 2016, in conseguenza del venir meno delle relative norme incentivanti.

    11. L’impossibilità di accedere alle misure agevolate si rifletterà anche sui contratti di apprendistato professionalizzati instaurati con lavoratori che fruiscono della mobilità. Dalla medesima data, con questa tipologia contrattuale, sarà possibile assumere solamente lavoratori beneficiari di un trattamento di disoccupazione; per costoro - tra l’altro - da un anno e mezzo l’Inps dovrebbe dare specifiche istruzioni.
    Inoltre ilavoratori, iscritti nelle liste fino al 31 dicembre 2016, continueranno a fruire della prestazione per il periodo di tempo spettante come rimodulato (in peius) dall’articolo 2, comma 46 della legge 92/12; al sopraggiungere di un’assunzione a tempo indeterminato che comporterà la perdita dell’indennità di mobilità, il datore di lavoro – artefice del nuovo rapporto - dal 2017 non potrà fruire degli incentivi previsti dalla legge 223/91.
    Insomma, siamo di fronte all’ennesima cronaca degli effetti prodotti da politiche combinate di tagli alla spesa pubblica con effetti generalizzati sui redditi, sia del settore pubblico che privato, con conseguente restrizione della domanda interna, deflazione salariale e liberalizzazione del lavoro, smantellamento/svuotamento di ogni forma di welfare, in perfetta rispondenza ai diktat europei per la neutralizzazione della nostra carta Costituzionale.
    E la povertà, o anche solo il (molto concreto) "rischio" di finirci dentro, non potranno che aumentare.
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    L'OSTERIA DEL PENSIERO UNICO. TRUMP "DEBOLE"? LA GERMANIA NON HA ALLEATI (vuole solo servi)

    January 16, 2017, 10:46 pm
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    https://media-cdn.tripadvisor.com/media/photo-s/02/d2/00/42/osteria-lo-bianco.jpg

    Ecco perché stamattina postavo la foto di @realDonaldTrump con i pop-corn.
    [fonte qui: https://t.co/VmAynPgUwW]
    h/t @AlbertoBagnaipic.twitter.com/orSLdtTXmL
    — Alessandro Greco (@GrecOfficial) 27 dicembre 2016

    (tradotto in sintesi: la debolezza delle economie mediterranee all'interno della moneta unica mantiene il cambio dell'euro a un livello più basso di quello che avrebbe un marco come valuta autonoma...
    Trump promette di usare il Dipartimento del tesoro USA come strumento per neutralizzare ogni Stato che manipoli la sua valuta, anche imponendo dazi difensivi e compensativi al fine di far cessare tale manipolazione...)

    ANTEFATTO.
    Supponiamo che nell'unica (particolare importante) osteria della città, i clienti, dopo avere più o meno abbondantemente bevuto, se ne escano invariabilmente con un forte mal di testa e vomitino lungo il cammino verso casa.
    In un caso del genere (di monopolio che, sul piano politico, è l'egemonia di un pensiero unico ISTITUZIONALIZZATO), chiedere all'oste se il vino è buono, può risultare molto utile.
    Infatti, conoscendo gli effetti reali (i dati) delle bevute nella "osteria del pensiero unico", si può agevolmente assumere che il vino NON è buono, (qualunque sia la sua risposta: anche se, essendo in monopolio, l'oste pensi di non rischiare nulla ad affermare, in ogni caso, che il vino sia buono).

    Si tratta, in particolare, di un (ulteriore) corollario del test di Orwell (in cui domina la capacità decodificatrice, del senso effettivo di ogni proposizione, del simbolo di "negazione logica" identificato nel "not").

    1- CONSEGUENZE COGNITIVE
    Per fare immediata applicazione della metafora e del "metodo" interpretativo sopra ipotizzati, passiamo dunque ad analizzare le risposte date da un soggetto che, senza dubbio, può essere considerato un esponente molto rappresentativo dell'oste tedesco.  Egli, infatti, interrogato, risponde che il vino tedesco (non quello italiano, ovviamente) è buono: si tratta di "Roland Berger, consigliere della cancelliera Angela Merkel", intervistato da Fubini. 
    Ci atteniamo a due regole interpretative: 
    - l'utilizzo del segno "not" nella decodificazione di senso delle proposizioni principali (sul piano fenomenologico);
    - l'individuazione di tali proposizioni all'interno della melassa di "amore per l'Italia", nonché di simulata attenzione e di consueta condiscendenza verso il nostro Paese, con cui Berger infarscisce il suo discorso (avendo di fronte un intervistatore ben disposto sulla concettuologia europeista-global-liberoscambista, ovverosia il "pensiero unico").

    1.1. Passiamo dunque, dando per letta l'intervista linkata, all'elenco fenomenologico delle sue reali risposte (cioè partendo dall'appurata affidabilità del suo dire, in svariate forme e versioni, che il "vino tedesco è buono"):
    a) l'euro, per l'oste tedesco, è stato un successo: proprio perché si pensava (o s'è pianificato) che non si sarebbe potuta fare una politica economica e di bilancio dell'area monetaria che avrebbe condotto a risultati coordinati;
    b) il bilancio attuale nonè affatto negativo per la Germania, proprio perché è negativo per i paesi mediterranei, che vengono costretti, ora, a fare le stesse politiche tedesche degli "anni 2003-2004". Queste non erano legate agli oneri della riunificazione ma alla necessità di finanziare, con l'indebitamento pubblico (sforando il patto di stabilità allora vigente), politiche di aggressivo mercantilismo anticooperativo (v. punto a): ma naturalmente, è tutto legittimo secondo lui);
    c) la Germania, intesa come apparato industrial-finanziario,  non vuole uscire dall'euro e certamente sa che non le converrebbe, sotto il piano valutario, ma teme gli effetti di eccessivo accumulo dei suoi crediti target-2 legati al sistema monetario (per le più varie ragioni non tutte commerciali, dato l'afflusso di capitali dovuto al timore di eurobreak). 
    Perciò pensa che una possibile soluzione per preservarne il valore, almeno quanto ai crediti commerciali a breve, non convertibili in moneta diversa da quella usata dal "venditore" tedesco, sia uscire dall'eurozona sperando al contempo di avere così debitori più solvibili, grazie all'alleggerimento del livello di cambio di cui potrebbe fruire la "residua" eurozona, (di cui infatti, auspica il mantenimento anche senza la Germania, ma con dentro la Francia). 
    Si rende conto, Berger, che la Germania è divenuta un "elemento di disturbo": ma non perché ha un eccesso di surplus con l'estero (cosa che dimostra di apprezzare, in sé, e voler mantenere, stando alla risposta immediatamente successiva, in cui elogia la dipendenza dell'economia tedesca, al 50%, dalla domanda estera enfatizzando, dunque, la prosecuzione ad ogni costo della "competitività"), quanto perché sarebbe ormai difficile mantenere questa supremazia, senza eccessivi costi commerciali, nelle relazioni internazionali e politici, interni;

    d) infatti, l'euro debole nonè uno svantaggio per la Germania, perché gli consente di aumentare questo surplus (anche) a spese delle aree extra-eurozona; tuttavia, spiega poi molto bene, ciò scoraggia gli investimenti (interni) e l'aumento della produttività e della competitività di lungo periodo (non esclusivamente di "prezzo", cioè quella incentrata sulla qualità del prodotto). 
    Cioè, in pratica, la situazione di prolungato super-attivo commerciale, non consente (impunemente, sul fronte sociale interno) di proseguire, e/o di rendere sufficientemente convenienti(dato il rallentamento degli investimenti),rigide politiche deflattivo-salariali, che mantengano il vantaggio competitivo sui partners dell'eurozona.
    Ciò in quanto tale prosecuzione:
    - non sarebbe politicamente praticabile in una situazione di pieno impiego "tendenziale";
    - non è possibile sfruttare efficacemente ancora il sistema di sotto-lavoro delle Hartz, anche a causa delle tensioni inflazionistiche (e finanziarie) che derivano dalla svalutazione dell'euro, unite al predetto pieno impiego (e alla crisi demografica che provocano sempre le politiche deflazioniste prolungate);
    - infine, le politiche (deflattivo-salariali) di sostituzione etnica della forza lavoro perseguite dalla Merkel con l'apertura delle frontiere all'immigrazione, poi ritrattata senza alcuno scrupolo (v.p.2), si sono rivelate un costo politico-sociale troppo alto.
    E comunque, com'è noto, basare la competitività solo sulla deflazione salariale, e quindi sul "prezzo", spiazza gli investimenti dal capitale produttivo, e dalla sua continua innovazione, alla mera intensificazione di manodopera a basso costo, innescando un ciclo auto-impoverente della competitività intrinseca del prodotto.
     
    Dunque,non si ha una scelta migliore di quella di rivalutare il (recuperato) marco, per poter tornare a imporre (ai lavoratori tedeschi) politiche deflattive"necessitate", che consentano di mantenere e incrementare la produttività, opportunamente giustificabili col mantenimento del livello dell'occupazione in una fase di ripresa degli investimenti interni.

    e) Quanto all'Italia, Berger ci dice che: 
    e1) il settore delle imprese private nonè più ormai forte e vitale, - dato che si è asservito, principalmente come "contoterzista", alle filiere dominate dai tedeschi in posizione di price-makers.Ma il vero pericolo concorrenziale, per i tedeschi, è (tutt'ora) costituito dall'industria a partecipazione pubblica che nonè altrettanto controllabile e malleabile (salvo privatizzazioni pro-investitori esteri: ma di questo non parla, a onor del vero);
    e2) il problema italiano non sono la "infrastruttura burocratica" e "la giustizia che funziona male", visto che questi problemi non sono una conseguenza di una scelta politica autonoma italiana (cioè non sono dovuti a una...cattiva classe politica, dato che questa è quanto di più docile ai diktat fiscali e al perseguimento dei saldi primari - deindustrializzanti- imposti dalla Germania...pardon dall'UEM). 
    Questi problemi, infatti, sono esattamente la conseguenza delle politiche fiscali dettate da Maastricht in poi, acuite per mantenere in vita l'adesione alla moneta unica in favore della Germania e, quindi, non sarebbero  affatto irrisolvibili con politiche fiscali conformi alla nostra Costituzione e quindi, sul presupposto della riacquistata sovranità monetaria. 
    Per converso, efficaci "riforme" al riguardo non sarebbero attuabili all'interno delle politiche di bilancio imposte dalla moneta unica.

    Insomma, - all'insaputa di Fubini, intepretando adeguatamente le sue risposte ed usando in modo logico il test di Orwell ed il suffisso "not"-, il buon Roland ci dice in pratica che, appunto, il vino (tedesco) non è buono per l'Italia e ci indica con (indiretta ma eloquente) chiarezza quello che dovremmo fare per uscire dalla crisi.

    2- COMPRENSIONE OPERATIVA DI SCENARIO
    Naturalmente non possiamo pretendere che un sistema ermeneutico così...sofisticato come il test di Orwell, possa risultare, oggi, di uso comune per il sistema mediatico, e di controllo dell'opinione pubblica, dominante in Italia, che appare totalmente incapace di uscire dall'osteria del pensiero unico (ordoliberista).
    Perciò non è pensabile che le indicazioni di Berger siano decodificabili e utilizzabili ex parte italiana.

    Tuttavia, è possibile che qualcuna, buona parte, di queste rivelazioni indirette divengano praticamente operative in conseguenza del potenziale scenario internazionale derivante dalla linea presidenziale di Trump.
    Vi sottopongo, in sintesi e in immagini, una serie di news e dichiarazioni dello stesso Trump maturate solo nelle ultime 48 ore e direttamente influenti sulle problematiche così "abilmente" trattate da Berger; nonché rivelatrici di quella che può divenire, obtorto collo, la real-politik futura della crante Ccermania.

    2.1. Comincerei dalla "terrificante"(per i media mainstream)prospettiva della fine della sponsorizzazione, fondativa e propulsiva, degli Stati Uniti, per la pace e la concordia tra le nazioni europee, realizzata tramite il federalismo liberoscambista e de-sovranizzante (principalmente i parlamenti democratici nazionali):

    Avviso: cercasi #antidepressivi per #eurofilo in crisi.
    Chi ne avesse disponibili contatti urgentemente #Rampini. 🚑https://t.co/LI43UT9IPJpic.twitter.com/f7nBchqjpy
    — Antonio Triolo (@triolo_antonio) 16 gennaio 2017

    2.2. Proseguirei con la "alta" considerazione, della neo-presidenza, per le politiche tedesche nel campo dell'immigrazione (comunque, abbiamo visto, già oggetto di u-turn con sospensione di Schengen):

    2.3. Non trascurerei laquestione NATO (p.5-6), (strettamente correlata storica con la storica promozione USA del federalismo europeo) e la sua "rivoluzionaria" prospettiva "finale" (peraltro niente affatto imprevedibile una volta finita la strumentale e iperaggressiva crociata contro Putin):

    5 days before his inauguration, he repeats his view NATO & EU are finished. Champagne corks are popping in Kremlin. https://t.co/1252H8yNRG
    — Strobe Talbott (@strobetalbott) 16 gennaio 2017
    2.4. Ma la ciliegina sulla torta è dedicata alla "dipendenza" della Germania dal sopra visto 50% di domanda estera e dal grande surplus mantenuto da troppi anni, che è acuito dalla svalutazione dell'euro: su chi pesa di più, a livello di indebitamento con l'estero nonché occupazionale, questo surplus? 
    Indovinate...

    Trump threatens German carmakers with 35 percent U.S. import tariff https://t.co/vaX3tNiwO7
    — Reuters Top News (@Reuters) 16 gennaio 2017
    2.5. E infine, renderei conto di cosa significa (esemplificativamente) la visione del "cattivone" Trump una volta sistemati i conti con l'estero, e assecondata la sua presunta vena "protezionistica", in termini di interesse sociale nazionale:

    Intanto... \\ #Trump promette "assicurazione sanitaria per tutti" in sostituzione dell'Obamacare. https://t.co/Tew1QMhCQMpic.twitter.com/lNjhal8u7p
    — Grim (@gr_grim) 16 gennaio 2017
    3- RICHIAMI FRATTALICI
    Tutto ciò premesso...
    In neretto, più sotto, trovate gli eventi più direttamente connessi alla situazione italo-tedesca in rapporto a USA e Russia, quando, ogni tanto nella Storia, sono hanno un nemico comune e sono (quasi) alleati. 
    Notare che l'ostinazione del regime italiano a stare dalla stessa parte dei tedeschi, autodanneggiandosi anche sotto il profilo del consenso, - sia pur con stati d'animo contraddittori e perplessità mai manifestate con decisione-, non è priva di altissimi costi socio-economici. E si può anche capire come l'offensiva degli alleati anglosassoni, in Europa e nei suoi immediati dintorni, non fu, all'inizio, una "passeggiata" priva di battute d'arresto:
    • 20 gennaio - Avanzata dell'Armata Rossa sovietica su tutto il fronte da Voronež al Caucaso.
    • 23 gennaio - I britannici dell'VIII armata del generale Bernard Montgomery occupano Tripoli e si congiungono nel Fezzan con le forze della Francia libera.
    • 24 gennaio - Franklin D. Roosevelt e Winston Churchill concludono la Conferenza di Casablanca.
    • 26 gennaio - Battaglia di Nikolaevka: le superstiti forze italiane riescono ad uscire dalla sacca d'accerchiamento sovietica.
    • 27 gennaio - Primo bombardamento americano sul territorio tedesco, a Wilhelmshaven, presso Amburgo.
    • 29 gennaio - Inizia l'operazione Galoppo, l'offensiva generale sovietica in direzione del Dniepr
    • 31 gennaio: Battaglia di Stalingrado; fine della resistenza tedesca nel settore meridionale della sacca; resa del feldmaresciallo Friedrich Paulus e dello stato maggiore della 6. Armee.

    Febbraio

    • 1º febbraio - Iniziano le operazioni di intelligence anglo-americane per spiare la corrispondenza delle delegazioni sovietiche in Gran Bretagna e Stati Uniti[1].
    • 1º febbraio - Vidkun Quislingè nominato Primo ministro della Norvegia. (ndr. questa è più squisitamente esemplificativa di quanto brevi siano le parabole dei collaborazionisti in tempi di Germania che inizia a pagare i suoi errori di cieca prepotenza)
    • 2 febbraio - Battaglia di Stalingrado: resa delle ultime truppe tedesche della 6. Armee accerchiate nel settore settentrionale della sacca; la battaglia si conclude dopo oltre sei mesi di combattimenti con la vittoria completa dell'Armata Rossa.
    • 2 febbraio - Inizia l'operazione Stella, l'offensiva sovietica verso Char'kov
    • 8 febbraio - Battaglia di Guadalcanal: fine della battaglia con la ritirata generale giapponese.
    • 8 febbraio - L'Armata Rossa libera Kursk.
    • 10 febbraio - Operazione Stella: le colonne corazzate sovietiche superano il Donec e avanzano verso Char'kov
    • 11 febbraio - Europa: Il generale Dwight D. Eisenhower viene nominato comandante delle forze alleate in Europa.
    • 14 febbraio - Battaglia di Sidi Bou Zid, le Panzer-Divisionen tedesche sconfiggono duramente le forze corazzate americane in Tunisia.
    • 14 febbraio - L'Armata Rossa libera Rostov sul Don, le truppe tedesche completano la ritirata dal Caucaso.
    • 15 febbraio - Operazione Stella: i carri armati sovietici liberano Char'kov; avanzata dell'Armata Rossa verso il Dniepr; ritirata delle truppe Waffen-SS
    • 17 febbraio - Pesante bombardamento della città di Cagliari da parte degli Alleati. La città verra' distrutta all'80%.
    • 17-20 febbraio - Battaglia della Neretva: i partigiani jugoslavi sconfiggono le truppe italiane schierate sul fiume Neretva.
    • 18 febbraio - La Gestapo arresta i membri della Rosa Bianca.
    • 19 febbraio - Battaglia del passo di Kasserine: nuova sconfitta delle forze americane contro l'Afrikakorps di Rommel in Tunisia
    • 21 febbraio - Inizia la controffensiva tedesca del feldmaresciallo Erich von Manstein nel settore meridionale del Fronte orientale.
    • 22 febbraio - I membri della Rosa Bianca vengono giustiziati.

    Marzo

    • Un'ondata di scioperi investe l'Italia del nord, in particolare Torino, sotto la direzione anche di militanti anti-fascisti. La crisi economica dovuta alla guerra che si trascina da anni ha messo in crisi il sistema produttivo nazionale. Dure le reazioni verbali di Hitler alla notizia degli scioperi ...(E qui mi fermo; per ora...dovendosi ragionevolmente rimanere sulle previsioni di poche settimane)
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    IL TRAMONTO DELL'EURO: IL PERCORSO ACCIDENTATO ITALIANO TRA TRUMP E GLI SNODI INELUDIBILI

    January 18, 2017, 8:40 am
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    http://www.liceovallone.gov.it/nuovo/wp-content/uploads/2016/09/snodi-formativi2.jpg

    1. Nel tentare di sviluppare il tema del post precedente (v. p.2 e ss.), - in particolare se e come "l'avvento" di Trump potrà influire sul recupero della sovranità costituzionale italiana, e quindi della sua democrazia sostanziale- la risposta non può essere univoca.
    Da un lato, infatti, è molto incerta la stessa possibilità di Trump di consolidare, prima di tutto il suo effettivo ed autonomo potere decisionale, dall'altro, neppure è univoca la direzione in cui Trump potrà coerentemente agire, pur preannunziando, come abbiamo visto, una profonda revisione della NATO e dell'UE; entrambe, FINORA, promosse per specifici interessi degli Stati Uniti, che paiono essere finalmente mutati rispetto agli anni 40-50.

    2. Sotto quest'ultimo aspetto del problema, cenniamo a quanto risposto, in sede di commenti, a Paolo Corrado, che aveva sollevato il problema delle palese orchestrazione di una vasta opposizione "di piazza" a Trump, che ricorda molto da vicino il "metodo"ukraino, cioè quello seguito, dall'establishment finanziario e globalista, nelle pseudo-rivoluzioni arancioni:
    "...alla fine è un fatto di pazienza (e di coerenza) dispiegate da entrambi i fronti che si contrappongono.

    Cioè, l'esito di questo "sconvolgimento" conflittuale negli Stati Uniti, dipende da quanti soldi (ESSI) sono disposti a spendere per retribuire ogni singolo manifestante (e opinion-maker mediatico) e quanto a lungo questo costo complessivo può risultare vantaggioso in un calcolo costi/benefici, mentre, per contro, il potere di Trump, con tutto l'apparato dello US Government, si consolida.

    Certo, Trump può sbagliare scelte ed essere poco coerente rispetto al paradigma che è COSTRETTO, ormai, a perseguire: almeno, se vuole sopravvivere, coi risultati, a questa enorme pressione.

    Può darsi, infatti, che non si renda conto fino in fondo dell'esigenza di questa coerenza, e - come già si intravede- arrivi a un grado di compromesso con l'establishment che tenga conto dei rapporti di forza che si riflettono all'interno dello stesso US Gov., inteso come enorme "apparato" di potere "policentrico", che dobbiamo supporre largamente captured dalcomplesso industrial-militare, come ci disse Roosevelt, e da quello finanziario, che ne è la proiezione più evoluta, specialmente dopo l'abolizione, da parte di Clinton, del Glass-Steagall.
    Di certo, pochi presidenti sono stati in una posizione così poco invidiabile (almeno dai tempi di Lincoln e della Hazard Circular, v.qui, p.5,...)".

    3. Come dire: siamo nelle mani della...Provvidenza (in quanto italiani). 
    E lo siamo perché, in Italia, l'effetto Trump, - considerato nella sua essenza di ritorno alla tutela dell'interesse nazionale, e quindi all'unica dimensione in cui la democrazia, inclusiva e distributiva, ha un senso effettivo (in mancanza di qualunque riscontro in termini di organizzazioni sovranazionali)-, rischia di essere attutito dallo stesso difetto di "risorse culturali" che abbiamo più volte evidenziato. 
    Indubbiamente, cioè, il frutto di 39 anni (almeno) di vincolo esterno istituzionalizzato, e limitatore della sovranità democratica, è stato ingurgitato a livello di massa e di opinione pubblica, e si stenta a ritrovare, nel proprio passato, qualcosa che non sia la visione di Carli (o di Einaudi: grosso modo, in continuità, v.p.6)quando si passa a considerare la funzione intrinsecamente solidaristica dell'interesse nazionale, in un ordinamento, come quello costituzionale italiano, fondato sulla sovranità popolare.

    4. E, a tal punto, questa difficoltà emerge dallo scenario italiano che persino Bloomberg considera appena "medio" il "rischio elettorale" italiano (cioè la curiosa idea che le elezioni, in tempi di crisi economica irreversibile del modello neo-ordo-liberista €uropeo, siano una minaccia all'ordine costituito sovranazionale dei mercati, in quanto ad esito non idraulicamente controllabile dalle oligarchie):

    #Bloomberg aggiorna la mappa del "rischio elezioni" in Europa \\ Votare è un rischio. La democrazia è un rischio. Tenetelo bene a mente. pic.twitter.com/9ANwz2Wo01
    — Grim (@gr_grim) 18 gennaio 2017
    Consideriamo, infatti, che l'Italia, non solo, - ad eccezione della Grecia che è un caso del tutto "a parte"-, è di gran lunga il paese più danneggiato dall'adesione alla moneta unica (lo stesso Trump ne dà atto...), ma che, a differenza della Francia, ad esempio, è quello che più di ogni altro ha costituzionalizzato esplicitamente il modello di equilibrio keynesiano e di democrazia "sociale" che esso implica.

    http://www.lastampa.it/2017/01/07/esteri/trump-cerca-un-alleato-in-italia-per-rilanciare-la-partnership-con-gli-usa-QTYtmZagBagSkP456CvgYP/pagina.html

    5. La perfetta sintesi di questo ossimoro italiano - cioè il Paese che avrebbe le difese costituzionali più elevate contro il vincolo esterno, è al tempo stesso quello che ha più difficoltà a riappropriarsene e a riattivarle- ce la dà questo intervento di Stefano Fassina, certamente da elogiare sul piano della consapevolezza di questo aspetto decisivo:

    6. E quindi?
    Quindi, qualsiasi soddisfacente soluzione al problema democratico, e come conseguenza economico (perché sovranità costituzionale e realizzabilità del modello keynesiano di crescita sono inscindibili), che l'Italia si trova a fronteggiare, dovrà realmente passare per un lungo e tortuoso cammino che, certamente, sarà tanto più accelerato quanto più troverà la sua sponda in una coerente e rafforzata visione della cooperazione democratica tra Stati sovrani che gli USA sapranno affermare nei prossimi mesi.
    Non di meno, vorrei rammentare almeno alcuni "snodi fondamentali"che questo cammino, verso la democrazia e il benessere (ritrovati), non potrà eludere.

    7. Il primo ce lo ha segnalato Arturo, di recente, nei commenti alla decisione della Cassazione sul "licenziamento per profitto" e sulla lettura post-costituzionale dell'art.41 Cost.; riguarda il problema di come e chi possa far valere i "controlimiti", cioè la teoria, più o meno coerentemente enunciata (e mai applicata) dalla Corte costituzionale, per cui esistono delle norme fondamentali e intangibili della Costituzione che nessun trattato internazionale può derogare o, peggio, abrogare. 
    Arturo ci riporta la sintesi saliente, in argomento, tratta dal pensiero del più importante costituzionalista italiano attuale, Massimo Luciani, di quanto selezionato da Arturo, (sia pure con accenti critici, che condividiamo, sulla piena comprensione del profilo economico della "questione" da parte dell'illustre costituzionalista, i cui rilievi sono sotto riportati in corsivo). 
    Preavverto che il passaggio più importante, in quanto si raccorda alla novità costituita dalle parole di Fassina (per quanto, purtroppo, possano contare), oltre a enfatizzarlo in neretto l'ho pure sottolineato (togliendo le parentesi alla importante precisazione finale):
    "[Nell'analisi di Luciani...] mi pare significativo, oltre al saggio che hai poi linkato tu, questo sui controlimiti. E' piuttosto evidente che da un lato ritiene che i controlimiti siano stati superati, o comunque siamo ormai fuori dalla copertura dell'art. 11, dall'altra non intende dichiararlo "globalmente" (l'occasione del saggio è infatti una questione in materia penale): 
    "Solo il più inguaribile degli euro-ottimisti potrebbe non avvedersi che siamo di fronte a una costruzione sbilenca. Nessuno ha ancora risposto all’interrogativo su come possa reggere un sistema con moneta unica e debiti plurimi. 
    Nessuno ha mai spiegato come possa darsi uno spazio senza frontiere quando la sicurezza nazionale è riservata agli Stati (art. 4.2 TUE) e ci sono forze armate e sistemi di intelligence separati (la recente catastrofe della sicurezza pubblica belga, se qualcuno si fosse distratto, sta lì a ricordarcelo). Nessuno ha ben compreso quanto sia inaccettabile il prezzo che in termini di certezza del diritto si paga alla continua in-decisione sulle fonti di tutela dei diritti. 
    Personalmente, penso che da questo ginepraio si possa venir fuori meglio in avanti (con una forte iniziativa politica che ridia sangue all’idea di Europa) che all’indietro (con una progressiva chiusura degli Stati membri), ma è ben ora di uscire dall’equivoco di una situazione in cui gli interessi egoistici degli Stati (di quelli più forti, ovviamente) sono spacciati per interesse generale." (pag. 6).
    Se è ben difficile sostenere che un quadro del genere sia compatibile con l'art. 11, è ovvio che non si tratta di esprimere augurii su più o meno realistiche soluzioni politiche, ma una valutazione "giuridica" sull'"attuale" compatibilità del quadro dei Trattati con la Costituzione. Luciani lascia cadere en passant:  
    "Si sa che l’attenzione della dottrina è costantemente rivolta alla garanzia giurisdizionale del rispetto dei controlimiti. 
    È evidente, invece, che l’opposizione dei controlimiti può spettare (sempre secondo le regole costituzionali di ciascun ordinamento, ribadisco) anche a organi diversi: in primis al capo dello Stato, ma anche al Parlamento e allo stesso Governo." 
    8. Una volta chiarita la dimensione essenzialmente politica di ogni soluzione che possa risolvere il disastro, ormai evidente, determinato dal "vincolo €uropeo", ne discende, con altrettanta chiarezza, che, ancor più a monte, il problema è, guarda caso, sia di comprensione dell'attuale modello costituzionale (l'atto politico supremo di una comunità sociale), sia di "risorse culturali": cioè di ideologia e "filosofia" sul modello di società, e di rapporti di forza al suo interno, che si intende perseguire.
    Ai più attenti lettori, a questo proposito, forniamo dunque uno schema interpretativo generale e un glossario, plasticamente scolpiti da Bazaar, che ci paiono particolarmente appropriati per comprendere la visione diffusa che denota il difetto di "risorse culturali" in Italia.
    Ecco lo schema generale, tratto dal post sulla "democrazia diretta":
    "...la particolarità di una democrazia moderna, che, per essere tale "nella sostanza" - come faceva notare Mortati - necessitava un ordinamento lavoristico con una forte Stato sociale. Ovvero, si fondava l'intero ordinamento, con convergenza di tutte le forze politiche, sulla Sinistra economica (in senso contenutistico e non partitico, ndr.): sinistra economica che propugna la necessità della giustizia sociale affinché la democrazia possa essere chiamata tale.
    I liberali - ovvero la destra economica - oltre alla "giustizia commutativa" storicamente non chiedono altro: anzi.
    Quindi, la domanda che sorge spontanea consiste in: « ma se tutti convergono sui caposaldi storici "socialisti", che legittimità e che spazio hanno nel panorama costituzionale le "istanze liberali"» (in democrazia "compiuta", beninteso, ndr.)?

    Risposta: tendenzialmente nessuna.

    I liberali alla Einaudi avrebbero potuto difendere gli interessi di classe in una dialettica che avrebbe dovuto escludere la radicalità sostanziale della ideologia storica del liberismo, risultata definitivamente screditata dalla crisi del '29 e dalla seconda guerra mondiale: avrebbero dato un eventuale contributo nel "come" raggiungere gli obiettivi. 
    Non più "quali" obiettivi.
    Infatti, a differenza degli stati liberali "classici" come USA e UK, che avevano adottato le politiche keynesiane nel trentennio d'oro senza "obblighi costituzionali", arrivando poi a smantellare tutto lo stato sociale in breve tempo e senza troppi problemi (Reagan e Thatcher), per l'Europa il vecchio ordine (a vertice USA) ha tenuto "un piede nella porta" con la Germania ordoliberista: tramite i trattati di libero scambio dipinti di rosso da Spinelli, Rossi e utili geni del caso, tramite il "vincolo esterno", ovvero il "balance of payment constraint", ovvero tramite SME ed euro, la classe dominante internazionale, con il capitale nazionale "vassallo" e per definizione collaborazionista, si sono avviati a "ricordarci la durezza del vivere".Perché la democrazia è tale se, e solo se, esiste lo Stato sociale con le sue protezioni (v. Mortati).
    Il fatto che, nonostante la scelta unanime verso il keynesismo, Einaudi potesse godere di tali "riconoscimenti", potrebbe essere proprio considerata come il segnale della scelta extra-istituzionale, di un determinato gruppo sociale, di influenzare la politica nazionale al di fuori della legalità costituzionale. Obiettivo poi efficacemente perseguito a livello "tecnico" a fine anni '70."
    Postilla: sulla giustizia "commutativa", rammentatemi semmai di tornare, perché, in essenza, è quella idea che, trasposta sul piano ordinamentale-normativo (se non elaborata da...Rawls, ma sarebbe un discorso lungo), implica che le "tasse" pagate debbano esattamente corrispondere alla quantità/valore di utilità e servizi pubblici che si ricevono, e che porta dritti al "pareggio di bilancio", al rigetto della solidarietà tra classi sociali e comunità viventi su territori diversi, e, dunque, all'assetto allocativo ottimo-paretiano delle risorse "scarse & date". In una parola: la neo-liberismo.
    8.1. Ed ecco, nella sua (lucida) vis ironica, il "glossario" di Bazaar:
    1 - modernismo reazionario: il progressista vede la macchina a servizio dell'uomo (lavorare di meno e guadagnare di più...), il modernista vede la macchina come inevitabile strumento di sfruttamento dell'uomo sull'uomo (aumentare i profitti ed asservire i lavoratori tramite masse di disoccupati e sottoproletari che si scannano...).
    (Per quelli che non si scannano tra loro e vanno a rompere le uova nelle ville degli sciur, Milton Friedman e von Hayek proponevano... un "reddito di cittadinanza"... solo se c'era spazio nel bilancio... altrimenti più Malthus per tutti)

    Un keynesiano sa che nonostante il progresso tecnologico sia un fattore aggravante del fattore occupazionale e delle crisi da domanda, queste rimangono crisi di domanda, quindi attribuibili al conflitto distributivo, quindi attribuibili ad una scelta politica.
    La globalizzazione è una scelta politica: il non comprenderlo è parte degli effetti della propaganda "futuristica" e reazionaria di Casaleggio.

    2 - neoliberismo: il confondere la crisi di domanda con una crisi dal lato dell'offerta in riferimento dell'aumento di produttività (tramite il progresso tecnologico), è teoria neoclassica.
    Un keynesiano - ovvero un democratico conforme a Costituzione - è consapevole che i salari reali devono crescere marginalmente con la produttività. (Ovvero la quota riservata ai salari nominali deve crescere insieme al PIL).

    3 - livore - propensione livorosa verso una generica borghesia o un generico "padronato" che, in realtà, si trova nella medesima condizione del proletariato. Funzionale al divide et impera.

    Il livore è strettamente connesso all'ignoranza dei presupposti minimi delle dinamiche economiche e politiche subite: ti hanno mentito e la rabbia non ti permette di approfondire ciò che da carne da macello ti trasformerebbe in un civile e consapevole "uomo politico". (Non un "cittadino con il secchio in testa" usato come "elmetto", che non vede nulla, sbraita, e nessuno lo sente).
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    CARE ELITES GLOBALISTE,TRUMP E' UN ACCETTABILE COMPROMESSO. NON VI DATE LA ZAPPA SUI PIEDI

    January 21, 2017, 4:45 am
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    https://klaudiomi.files.wordpress.com/2015/02/zappa-sui-piedi.jpg?w=403&h=403

    ANTEFATTO- (ANSA) - "Ricostruiremo il Paese con mani americane e posti di lavoro americani": lo ha detto Donald Trump...
    Il sito della casa Bianca passa all'amministrazione Trump. E subito si hanno le indicazioni di quelle che potrebbero essere le prime mosse del 45mo presidente americano. "La nostra strategia parte con il ritiro dalla Trans-Pacific Partnership e dall'accertarci che gli accordi commerciali siano nell'interesse degli americani". Il presidente Trump è impegnato a rinegoziare il Nafta", l'accordo di libero scambio con Canada e Messico, e se i partner rifiutano di rinegoziare il presidente insisterà sulla "sua intenzione di lasciare l'accordo di libero scambio del Nafta".
    Hanno fatto il deserto e lo chiamano pace; hanno distrutto la democrazia, rendendola un triste rito idraulico, e lo chiamano politically correct; hanno calpestato e umiliato miliardi di esseri umani e lo chiamano "futuro".

    1. La vulgata tristemente trasmessa dalla solita grancassa, in affrettata frenesia para-espertologica, spinna disperatamente i termini di "protezionismo" e di "turbonazionalismo".
    Dunque, viene chiamato protezionismo qualsiasi freno al globalismo liberoscambista che si continua a contrabbandare come promotore di crescita e di benessere diffusi, contro ogni evidenza (pp.4-6) dei dati economici mondiali degli ultimi decenni, che indicano la flessione della crescita e il dilagare della concentrazione di ricchezza, nonché di disoccupazione e, soprattutto, sotto-occupazione, come frutto di tale paradigma. 
    Un paradigma che, per essere precisi, è la conseguenza non di irresistibili fenomeni naturalistici, ma essenzialmente di imposizioni derivanti da risoluzioni di organismi economici sovranazionali, che hanno alterato radicalmente (v. p.9) il mandato, cooperativo e riequilibratore, originariamente previsto dai trattati che li hanno istituiti, ovvero di imposizioni poste da nuovi trattati che hanno dato luogo al fenomeno del "diritto internazionale privatizzato": privatizzato sugli interessi della ristretta elite che ne impone il contenuto attraverso la sistematica capture dei delegati statali che vanno a negoziare (come ci attesta la lettura di "The Bad Samaritans").

    2. Quindi, limitare tale gigantesca concentrazione di potere politico, prima ancora che economico, che vanifica ogni traccia di democrazia dei popoli sovrani (che formalmente dovrebbero decidere se aderire a questi trattati secondo il criterio della democratica decisione fondata sull'interesse nazionale), sarebbe protezionismo; o addirittuta "turbonazionalismo".
    C'è un'inesorabile illogicità in tutto questo, una strumentalità manipolatrice che stride con il fatto che gli stessi sostenitori del globalismo liberoscambista si scagliano contro le fake-news, quando il loro gigantesco, e praticamente monopolistico (in senso mondiale), sistema mediatico e di condizionamento culturale, si fonda sulla sistematica diffusione, ultradecennale, di slogan offerti come "fatti" e mirati a nascondere la realtà e gli effetti della globalizzazione istituzionalizzata per via di trattato.

    3. Dunque, in questo processo di alterazione sistematica dell'opinione di massa, non c'è mediazione: o il liberoscambismo distruttore della dignità mondiale del lavoro e disarticolatore esplicito di ogni forma di welfare, o la feroce condanna di ogni istinto di sopravvivenza di comunità sociali e di interi popoli, con la demonizzazione di qualunque cosa che assomigli ad un recupero della dimensione solidaristica dell'interesse nazionale: l'individualismo metodologico hayekiano, malthusianamente sterminatore dei deboli e dei "perdenti" della globalizzazione, vuole Elysium e lo vuole senza tollerare obiezioni.

    Trump riscopre l'interesse del popolo che lo ha eletto, e di cui si afferma essere parte, e condanna un establishment che si è contraddistinto per uno spietato egoismo, a malapena mascherato dai diritti cosmetici del politically correct, che serve a generare i conflitti sezionali (p.4) su cui prospera il potere sempre più ristretto dei sempre più privilegiati?
    Ovviamente, essendo uno di questi privilegiati, è un traditore. 

    4. Ma non possono dirlo così, sic et simpliciter: parte piuttosto l'accusa di populismo, il debunking un tanto al chilo, finanziato da non si bene chi, e alimentato da strani fuoriusciti dai "servizi" occidentali, l'anatema di nazionalista-e-quindi-guerrafondaio, dimenticando, con una faccia tosta che solo la dittatura mediatica prezzolata può consentire, che mai tanti conflitti, in tutto il mondo, sono stati alimentati, sovvenzionati e tenuti in vita a oltranza, come da quando vige il Washington Consensus e l'€uropa della pace e della cooperazione.

    Il fatto è che "protezionismo"è un concetto "relazionale": come dice Bazaar, si definisce in funzione dell'oggetto, cioè di ciò che si vuole veramente proteggere.
    In tal senso, la globalizzazione istituzionalizzata attuale è la più grande e violenta forma di protezione degli interessi di un'elite sempre più arroccata che si sia mai vista nella Storia.

    5. Lo stesso liberoscambismo è, da sempre nella Storia, il protezionismo di coloro che, raggiunta la posizione dominante nei commerci e nei vantaggi comparati della propria produzione industriale, toglie la scala agli altri, in basso, e gli impone, irridendoli moralisticamente (!), di sforzarsi di salire.
    Con la gigantesca truffa delle riforme strutturali imposte a suon di condizionalità a Stati esautorati di ogni democrazia, in forza del debito verso il sistema privato bancario mondiale, che si assicura previamente di disarticolare la sovranità monetaria e la praticabilità di uno sviluppo socialmente sostenibile nei singoli paesi del mondo.

    Persino il paese leader di questo movimento, cioè gli USA, coi suoi neo-cons, coi suoi ignorantissimi "intellettuali" teorici della "fine della Storia", (già: basta cancellarne i fatti e alterarla a proprio piacimento e finanziare i politici locali affinchè tengano il gioco, contro i popoli che li eleggono!), non ne può più.
    Trump, potrà piacere o non piacere ai gusti estetici e etici dell'opinione pubblica occidentale e, in particolare, €uropea.
    Ma si rassegnino, i cultori ben pasciuti di questa estetica moraleggiante che finisce sempre per sostenere, da sinistra specialmente, le stesse visioni delle elites, e del FMI, di World Bank, di Goldman & Sachs, di JP. Morgan, dell'OCSE, della Commissione UE e della BCE, - insomma del capitalismo iperfinanziarizzato che prospera sul debito e fa pagare le insolvenze che provoca ai cittadini, contribuenti e/o risparmiatori. 
    Trump è solo il primo vagito di una reazione della comunità vera dei popoli oppressi.

    6. Non sarà certo eliminando lui, con le trappole e i pozzi avvelenati disseminati dentro l'apparato dell'US Government, dagli interessi oligarchici che esprimono, a titolo privatizzato, gli interessi dell'oligarchia globalista, che si fermerà la marea ormai montante della insofferenza di schiaccianti maggioranze popolari contro questo paradigma antiumanitario.

    Abbiamo già detto, più volte, che lo stesso termine protezionismo designa realtà storiche che, nella stessa letteratura economica, sono diverse se non opposte. Lo ripetiamo perché non fa male:
    a) Il protezionismo adottato da Potenze imperialiste è l'altra faccia del liberoscambismo, perché ne costituisce l'evoluzione, conservativa delle posizioni dominanti raggiunte e, al tempo stesso, anche l'utile strumento oppositivo alla contenibilità di tali posizioni da parte di altri competitor statuali.
    Questa evoluzione (connaturale agli interessi consolidati delle oligarchie che hanno promosso l'imperialismo liberocambista nella fase di conquista) può logicamente preludere al vero e proprio conflitto armato tra potenze imperialiste: ciascuna supportata dalle rispettive nazioni satellite, colonizzate politicamente o economicamente.
    b) Il protezionimsmo adottato da ordinamenti nazionali in via di sviluppo, e non dominanti sui mercati internazionalizzati, è invece un ragionevole strumento di crescita del c.d."infant capitalism", come spiegato da Chang ne "I Bad Samaritans" con riguardo a casi non certamente guerrafondai quali la Corea o, oggi, in UE, la "fascista" Ungheria. 
    6.1. Quando, dunque, non si tratti di Stati che, dal loro passato imperialista e colonialista, risultino ossessionati dalla egemonia sugli altri, il "protezionismo" nelle sue varie e modulabili forme, si rivela in definitiva uno strumento di avvio della democrazia economica e socialmente inclusiva; al contempo, se lealmente riconosciuto in funzione delle diverse esigenze di sviluppo della varie società statali, è uno stabilizzatore degli interessi dell'intera comunità internazionale a una convivenza pacifica".

    7. Ma il fenomeno (apparentemente) nuovo, in cui si inscrive l'affacciarsi sulla scena di Trump, - e che una volta compreso fa capire perché persino fermare un presidente eletto della più potente nazione del mondo si rivelerà inutile-, è un altro.
    Infatti, il paradigma della illimitata libertà di circolazione dei capitali, delle banche centrali indipendenti che generano l'idea cialtronica che gli Stati siano debitori di diritto comune, e della conseguente "lotta all'inflazione", contrabbandata come la "più iniqua delle imposte" (v. addendum) -  alimenta la terroristica confusione tra l'inflazione galoppante-brutta(che si instaura proprio laddove inizia a imporsi il liberoscambismo, o la c.d. "apertura delle economie", ai paesi economicamente più deboli, al fine di creare lo stato di necessità strumentale ad asfaltare ogni vagito democratico), con la presunta virtù della deflazione strisciante e permanente. 
    Ma tutto questo genera la deindustrializzazione nelle democrazie (ex) avanzate, e la più devastante disoccupazione strutturale (come indica Rodrik, già citato), e pone anche i paesi un tempo prosperi, come gli USA, nella condizione disastrosa di continui stati di eccezione  finanziari e di vulnerabilità dei conti con l'estero, che, nel lungo periodo, ormai trascorso, genera il legittimo "rigetto" del potere istituzionale da parte del corpo sociale.

    8. Quindi, non siate così tracotanti (segno della paura che vi inizia ad assalire), membri dell'elites e manutengoli mediatici che vi identificate in loro: se eliminate Trump, il problema rimarrà e, anzi, avrete ulteriori e più pesanti dosi della stessa reazione. Magari veramente incontrollabili e non mediabili. 
    Quindi un beffardo contrappasso, proprio per voi: voi che, per risolvere la crisi che avete deliberatamente creato, sperando di farla franca per i secoli a venire, avete sempre propugnato, appunto, che occorressero "ulteriori dosi dello stesso veleno" (per usare l'espressione, per una volta felice, di Roubini), cioè incessanti "riforme strutturali".
    Trump, infatti, dalle nomine di staff, alla coerenza complessiva di ciò che potrà portare a compimento, è pur sempre, in sé, un accettabile compromesso. 
    Membri dell'elite e del suo establishment mediatico-espertologico-orwelliano, sappiate che è nel vostro interesse che almeno corregga, e pure rapidamente, gli orrori più eclatanti del globalismo istituzionalizzato e antidemocratico: non vi conviene, se foste mai stati capaci di comprensione e non in preda al delirante moralismo neo-liberista, che Trump fallisca.

    9. Vi conviene, piuttosto, prendervi una bella pausa e augurarvi che Trump, coscientemente o meno (nessuno può scommettere sulla sua consistenza "culturale"), attui esattamente ciò che, negli anni '40 - quando per voi i "mulini" non erano più così bianchi e covavate la rivincita nel risentimento, senza aver evidentemente appreso la grande lezione della crisi del 1929-,  indicava Kalecky (v. p.5):
    ...In un’economia nella quale l’attrezzatura produttiva è scarsa è quindi necessario un periodo di industrializzazione o ricostruzione […]. In tale periodo può essere necessario impiegare controlli non dissimili da quelli impiegati in tempo di guerra.» (10). Un’affermazione come questa basta da sola a mostrare tutta l’inconsistenza e la superficialità dell’identificazione, che tanto spesso si è voluta fare, fra keynesismo e politiche keynesiane, basate esclusivamente sul sostegno della domanda aggregata".

    Se, anziché con la politica dell’offerta, il miglioramento dei conti con l’estero viene perseguito per mezzo della deflazione, il freno che ne deriva alla formazione di capacità produttiva tenderà ad aggravare ulteriormente la situazione. «E’ un affare molto serio - ha scritto un altro keynesiano della prima generazione, Richard Kahn - se l’attività produttiva deve essere ridotta perché la produzione a pieno regime comporta un livello di importazioni che il paese non può permettersi. Ed è un affare particolarmente serio se la riduzione in esame prende largamente la forma di una riduzione degli investimenti, inclusi gli investimenti volti alla formazione della capacità produttiva capace di farci esportare più beni a prezzi più concorrenziali e di diminuire la nostra dipendenza dalle importazioni.» (11). 

    Se proprio occorre ridurre gli investimenti, afferma ancora Kahn, tale riduzione deve essere «altamente discriminatoria»: bisogna, cioè, tentare di «stimolare gli investimenti nelle industrie esportatrici e in quelle capaci di sostituire le importazioni, particolarmente nei settori in cui è l’attrezzatura produttiva a rappresentare la strozzatura, e di scoraggiarli in tutti gli altri settori. Le restrizioni monetarie possono, tuttavia, essere caricate di un contenuto discriminatorio solo con difficoltà ed entro limiti piuttosto ristretti. Vi sono qui, per eccellenza, forti ragioni per ricorrere a metodi alternativi di scoraggiare gli investimenti, e particolarmente a quei metodi che operano attraverso controlli diretti» (12).
    Dal fatto che la sostituzione delle importazioni e il potenziamento della capacità di esportazione sono obiettivi di medio o lungo termine, mentre la deflazione va evitata fin dall’inizio (anche per non pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi suddetti), può discendere la necessità di imporre controlli amministrativi sulle importazioni di particolari merci, e dunque sulla loro distribuzione all’interno del paese".
    10. Ma i tedeschi, no, non capiranno mai che tutto questo devono augurarselo (finché sono in tempo...e non sono mai in tempo, come insegna la Storia): basta guardare in TV un intervento qualsiasi di Piller-Gumpel (mi rifiuto di distinguere tra l'uno e l'altro, anche perché, in genere, la mia mano, al comparire di un qualsiasi esponente della premiata ditta, corre alla fondina...del telecomando).
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    LA N€O-LINGUA PER DISATTIVARE LA COSTITUZIONE LAVORISTICA: E L'EURO E' IL SUO PROFETA (METAMORFICO)

    January 23, 2017, 5:00 am
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    DALL’OCCUPAZIONEALL’OCCUPABILITA’. LA METAMORFOSI PROGRAMMATA DEL DIRITTO COSTITUZIONALE AL LAVORO (E DELLA PERSONA) (Parte I)
    http://www.rodoni.ch/KAFKA/KafkaSilentMovie.jpg

    “Ogni ordine sociale si basa su un'ideologia”
    [F. Hayek, Legge, legislazione e libertà. Critica dell’economia pianificata]
    Con questo pregevole post, Francesco Maimone apre un filone che si dimostrerà particolarmente fecondo.
    Anzitutto, perché consente di fare il punto riassuntivo, di quanto detto nel blog, sul quadro generale della ideologia-distopia che domina l'Unione europea. 
    In secondo luogo, perché si raccorda con immediatezza a tutte quelle diffuse, quanto inesatte, "credenze" che si possa "attuare la Costituzione", combattendo l'epifenomeno, o effetto attuativo, della finanza-cattiva, ovvero della finanziarizzazione ordinamentale ed economica, senza aver presenti gli scopi e gli strumenti essenziali del disegno perseguito.
    Senza questa chiarezza di visione dei fatti che ci occorre di subire, infatti, si arriva facilmente a un dissenso generico, quanto vago e inoperativo, sull'UE(M), e quindi a predicare che la costruzione €uropea possa essere "salvata" con "altri" trattati; e financo a voler mantenere l'euro, senza aver mai capito che esso è lo strumento principe, necessario e sufficiente, della finanziarizzazione (a favore di ristretti interessi finanziario-bancari) e la giustificazione principale della disattivazione della Costituzione: una disattivazione gravemente illegale (extraordinem!), perché incide sui suoi principi fondamentalissimi e non soggetti a revisione, mentre instaura uno "stato di eccezione" che si basa su un malinteso "primato della politica" (laddove tale primato dovrebbe essere della Costituzione). 
    Si tratta dello "stato di eccezione", (dichiarato dai "mercati"), che, come ormai dovrebbe essere noto (se non lo fosse: studiate!) che ridisloca la sovranità mutandone la titolarità dalla previsione costituzionale: cioè l'euro è non solo il "motore" della concreta finanziarizzazione privata che stiamo subendo, ma distrugge la (tipologia di) sovranità democratica popolare prevista dall'art.1 Cost. connessa, nello stesso articolo, al fondamento "sul lavoro" (per quelli che "credono nelle Costituzioni", ovviamente: non per quelli che le vogliono sabotare e distruggere, ovvero che non sono più in grado di capire cosa siano e si prestano, forse inconsapevolmente, al disegno dei primi). 
    Consiglio ai neofiti del blog, pertanto, di leggere i links inseriti fin da questa introduzione.


    1. Obiettivo: la ristrutturazione totalitaria
    Il neo-liberismo “(…) teorizza e attua, come prassi politica, un sistema di controllo sociale autoritario del conflitto. 
    Questo sistema di controllo, che pone capo una "diversa", ma non meno intensa programmazione economica, come bene evidenzia Robbins, si realizza in varie forme, di cui le principali, contemporanee, sono il sistema mediatico e quello monetario.
    Ma, su un piano più strettamente "finalistico" - a carattere "bio-antropologico-, questo sistema è funzionale ad una DEFINITIVA MUTAZIONE dell'orientamento psicologico e esistenziale dell'essere umano (cioè vuole invertire la sua autopercezione di essere capace di autodeterminarsi, sia pure entro limiti storicamente "convenzionali"). 
    Questa utopia-distopia, ben evidenziata da Orwell, fornisce alla Storia un formidabile paradosso: per strutturare la naturalità (scientifica) delle Leggi del mercato, e le loro conseguenze di gerarchizzazione sociale definitiva(come già nelle teorie teocratiche del medio-evo, da parte dell'aristocrazia terriera che, pure, svolgeva, in origine, una funzione difensivadel minimo di sopravvivenza delle comunità territoriali), il neo-liberismo ritiene indispensabile modificare la "natura" degli esseri umani, rendendoli propensi ad accettare la schiavitù come fatto normativo "fondante" [1].

    1.1. A chi sia digiuno dell’argomento (e quindi, a questo punto, colposamente incosciente), dette conclusioni sembreranno poco famigliari. 
    Assumendo come particolare tema di studio quello del diritto fondamentale al lavoro, si tenterà tuttavia di dimostrare, con rigoroso approccio fenomenologico, come il neoliberismo non sia soltanto un modello di gestione economica ma che lo stesso è finalizzato in modo prioritario ad una specifica regolazione sociale nonché ad una ristrutturazione bio-psicologica degli uomini (assunta come necessità etica e morale) in tutti gli ambiti e con il rigoroso “consenso degli aventi diritto”.
    Nella trattazione, ed al fine di comprendere come sia stato possibile in Italia assistere nell’arco di qualche decennio ad un ribaltamento di 180° dell’intero paradigma giuridico-costituzionale (e socio-culturale), si darà per acquisito proprio quest’ultimo, fondato sulla inscindibile sinapsi giuridica tra gli artt. 1, 3, comma II, e 4 Cost. con gli articoli della “costituzione economica” di indiscutibile ispirazione keynesiana.

    2. L’irruzione del concetto di “occupabilità” come inconfondibile impronta della revancheneoliberista
    Pietro Barcellona, giurista e filosofo, ci ricorda che “… Il problema dell’influenza del sistema mediatico e della propaganda, gestita nell’interesse di chi ne ha il controllo, non può essere affrontato senza un attento studio delle parole e della loro potenza conformativa. Sono convinto che oggi siamo quello che siamo perché siamo "parlati" da un linguaggioche non è espressione della nostra autonomia e della nostra consapevolezza…” [2].
    Il pensiero riportato non potrebbe meglio adattarsi, come vedremo, alla presente indagine. La messa in circolazione, anche in campo lavoristico, di una specifica terminologia (sapientamente inoculata per anni ai cittadini ed avallata acriticamente anche da molti giuristi) dà il senso di come, attraverso una strategia neurolinguistica di tipo orwelliano, sia stato possibile giungere a radicali mutamenti giuridici-culturalicon il fine programmatico di una completa trasvalutazione dei valori consensualmente accettata [3].

    2.1. Innanzi tutto, come correttamente ci ricorda il giurista Riccardo Del Punta, l’analisi da cui prendere le mosse per comprendere la controriforma “tolemaica” approntata in Italia in campo giuslavoristico deve essere focalizzata

    “…sulla tesi secondo cui il diritto del lavoro sarebbe un fattore diretto di disoccupazione, impedendo al mercato del lavoro di riaggiustarsi su un equilibrio di piena occupazione. Tale tesi è una discendente diretta del pensiero economico dominante, quello della c.d. scuola neoclassica, che tende a riassorbire le spiegazioni del funzionamento del mercato del lavoro all’interno della teoria dell’equilibrio concorrenziale, la quale a sua volta sostiene la tendenza dei mercati perfettamente competitivi a trovare naturalmente un livello di equilibrio fra domanda e offerta, attraverso il meccanismo dei prezzi. Le implicazioni che ne derivano sul piano della politica economica sono, evidentemente, liberistiche, tanto che tali teorie si possono considerare come l’espressione economica di quell’ideologia del mercato autoregolato che ha avuto il suo maggiore fautore, nel XX secolo, in Hayek…” [4].
    2.2. Come sappiamo, il mercato del lavoro, nell’analisi neoclassica ottocentesca, è infatti un mercato alla stregua di tutti gli altri, nel quale la funzione equilibratrice è assolta dalle oscillazioni elastiche del salario.
    Pertanto, qualsiasi intervento esterno si risolverebbe in un turbamento competitivo che impedisce al sistema di riordinarsi sul proprio equilibrio di efficienza. In tale prospettiva

    “… le rigidità regolamentari nell’impiego del fattore lavoro ed i conseguenti costi economici del sistema di sicurezza sociale – che dilata progressivamente la platea dei soggetti protetti e l’intensità delle tutele – costituirebbero un ostacolo decisivo alla crescita economica ed allo sviluppo dell’occupazione, e pertanto si propugna una deregolamentazione generalizzata delle relazioni di lavoro ed una riforma del welfare in senso minimalista, quale ricetta privilegiata per competere sui mercati internazionali e sconfiggere la disoccupazione di massa. Solo eliminando le rigidità normative che impediscono alle imprese di variare liberamente le condizioni di impiego in aderenza alle fluttuazioni del mercato, sarebbe insomma possibile acquisire nuove quote di produzione, ristabilire un equilibrio virtuoso nel mercato del lavoro e realizzare un adeguato contemperamento degli interessi complessivi del mondo del lavoro …” [5].
    2.3. L’ideologia neoliberista, nella convinzione secondo cui ciò che conta è offrire agli imprenditori quante più opzioni possibili nell’organizzazione dell’attività produttiva all’interno del libero mercato globalizzato, propugna in definitiva 
    “… una deregolamentazione radicale DEL MERCATO DEL LAVORO E DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI attuata attraversouna esaltazione dell’autorità imprenditoriale…”[6]. 
    Trattasi, a ben vedere, di argomenti datati e che anche in Italia hanno trovato illustri teorici.
    Già negli anni ’30, infatti, Luigi Einaudi, nell’elogiare il “prezzo di equilibrio di mercato” – definito come il “re del mondo economico” – e nell’esaltare gli imprenditori, sosteneva che “… resta il problema delle trincee che gli imprenditori hanno scavato attorno a sé per difendersi contro il tormento dell’ansia continua di intuire ed ubbidire alle segnalazioni del re prezzo. Costui equilibra il mercato, obbliga i produttori a modificare i piani produttivi per adattarli alle variazioni degli ostacoli e dei gusti; ma a quanta fatica sfibrante costringe gli imprenditori! Non questi soltanto tendono ad asserragliarsi per creare attorno a sé uno specchio di acque tranquille in un mare in tempesta. Le altre categorie produttive non stanno paghe alla stipulazione del contratto a prezzo fisso. L’operaio teme che alla scadenza il salario sia ribassato, il proprietario e l’inquilino vorrebbero garantirsi un reddito o un onere fisso anche oltre il tempo della locazione, il risparmiatore paventa il fallimento del debitore. Ognuno cerca garanzie e tranquillità per il proprio reddito, difesa contro i soprusi dei più forti, i quali dalle munite trincee dei dazi, dei cartelli, dei brevetti, dei marchi impongono prezzi troppo superiori a quelli che sarebbero i prezzi di mercato in condizioni di concorrenza perfetta.
    L’irrigidimento dei prezzi, dei salari, dei fitti, che fu proprio di epoche storiche trascorse, è ritornato ad essere uno dei fenomeni caratteristici del dopo guerra. L’irrigidimento impedisce il formarsi di un equilibrio, di quel cangiante mobile equilibrio fra sforzi e risultati, fra costi e prezzi, fra produzione e consumo, che solo ha ragione di chiamarsi veramente equilibrio” [7]. 

    2.4. Un'ideologia, quella suddetta, ormai fulcro degli odierni mercati sovranazionali, che, affinché potesse però essere restaurata, aveva necessità di attingere ad un nuovo armamentario linguistico, creato per l’occasione.
    Ed infatti, nel novero dei termini invalsi ed ormai comunemente accolti con valore tutt’altro che innocuo, appartiene sicuramente quello di “occupabilità” [8], concetto che in origine nasceva con finalità descrittive, intendendosi con ‘occupabile’ una persona adatta e disponibile al lavoro. 
    Solo negli anni ’50 si affermò quella che taluni studiosi battezzano “seconda stagione” del termine occupabilità [9],prevalendo quella di “flusso di occupabilità” (Flow employability), che poneva l’accento sulla problematica relativa alla domanda di lavoro e sull’accessibilità a quest’ultimo nell’ambito delle economie (locali e nazionali). 
    In sostanza, l’occupabilità così intesa aveva il compito di calcolare quali fossero le “reali probabilità oggettive” [10] di occupazione per una persona in cerca di lavoro [11].
    E’ negli anni’80, tuttavia, che ha trovato definitivo ingresso nel vocabolario comune la “terza generazione” del termine occupabilità, stavolta generalmente intesa in senso “interattivo” (Interactive employability), definizione che è tuttoggi in auge e che si concentra in modo pressochè esclusivo, perché considerate di primaria importanza, sulle attitudini e abilità dei lavoratori. In questa direzione, “…conoscenza, abilità, tecnologia e impresa sono le parole chiave per la competitività e la creazione di lavoro, NON LA REGOLAMENTAZIONE RIGIDA E L’INTERVENTISMO ANACRONISTICO ... OCCUPABILITÀ ...È CIÒ CHE CONTA…” [12].
    http://images.slideplayer.it/11/3104634/slides/slide_19.jpg
     (vi pare "come fosse antani" e brematurata? Tranquilli, nella neo-lingua è del tutto normale. Questa è la tecnica prediletta del neo-liberismo..."situazionale" e "progettuale", what else?).

    2.5. Sono queste le parole del primo ministro Tony Blair (ispirato dal sociologo Antony Giddens) il quale, nel 1998, annunciava urbi et orbi la propria politica “progressista”, ma che in realtà rifletteva un più ampio cambiamento culturale affermatosi già alla fine degli anni ’90 e che, non a caso, coincideva con un crescente disimpegno degli Stati nelle politiche attive del lavoro:  

    “… Le politiche per il lavoro a livello sovranazionale, nazionale, regionale e locale hanno individuato l’occupabilitàcome base per lo sviluppo e l’implementazione dell’intervento statale. A livello europeo… l’occupabilità è definita come uno dei quattro pilastri, anche se, nella revisione della Strategia del 2003, l’occupabilità è stata inserita all’interno di quattro obiettivi generali: pieno impiego, qualità e produttività del lavoro, coesione sociale e un mercato del lavoro inclusivo …” [13].
    In effetti, con il Consiglio Europeo Straordinario di Lussemburgo (20-21 novembre 1997), l’Unione Europea avviava un progressivo coordinamento delle politiche del lavoro degli Stati membri mediante l'elaborazione di una c.d. Strategia Europea per l'Occupazione (SEO) basata sull'adozione di Piani di Azione Nazionali per l'occupazione sottoposti ad un esercizio di sorveglianza multilaterale. 
    La strategia fu articolata retoricamente in quattro “pilastri” sulla cui base la Commissione europea avrebbe poi incentrato i propri orientamenti per “l’occupazione” rivolti agli Stati membri. 
    Il termine “occupabilità” si avviava perciò ad essere declinato nelle sue più chiare specificazioni.

    2.6. Il primo di tali pilastri coincide guarda caso con l’occupabilità - intesa come astratta e potenziale “capacità delle persone di essere occupate” - ed è diretto a migliorare le capacità delle stesse di trovare un impiego e mantenerlo. Al primo pilastro, si accompagna il secondo che si identifica con l’imprenditorialità, termine che “fa riferimento all'esigenza di creare nuovi e migliori posti di lavoro, attraverso politiche per l'occupazione che tengano in debito conto le esigenze delle imprese ed incoraggino la cultura del fare impresa”. 
    Ai due pilastri nominati, si aggiunge poi l’adattabilità, termine che “esprime l’obiettivo di fornire alle imprese e ai lavoratori i mezzi per adeguarsi alle nuove condizioni del mercato e adottare le nuove tecnologie”. 
    Il quarto pilastro, infine, è costituito dalle pari opportunità,concetto che“riassume l'intento di garantire uguali condizioni e prospettive di vita a tutti i cittadini, attraverso la definizione di politiche e iniziative finalizzate alla rimozione degli ostacoli che impediscono un'effettiva parità[14].

    https://s-media-cache-ak0.pinimg.com/564x/c0/81/5b/c0815b7131d4074442272e72395e067d.jpg

    2.7. La politica dei quattro pilastri era già lucidamente contenuta nei suoi tratti essenziali in un Libro Bianco di Delors presentato dalla Commissione europea nel dicembre 1993[15]. E con riferimento specifico al terzo pilastro (“adattabilità”), la dottrina ci informa che 

    “… non è soltanto il libro Bianco di Delors il padre nobile del terzo pilastro. Jeff Kenner (1999) sostiene che il filo d'Arianna - che collega flessibilità e sicurezza, non solo nel lavoro, ma nella società in generale - è costituito dalla c.d. TERZA VIA tra liberismo e socialdemocrazia che ha in Antony Giddens (1999) il mentore, ed in Tony Blair (1999) il più tenace e convinto eseguitore. La c.d. terza via non è semplicemente un filo conduttore, ma, probabilmente la fibra ottica sottesa all'intero network teoricosu cui poggia il pilastro dell'adattabilità …” [16].
    Venivano sapientemente gettate le basi massive della ristrutturazione, da intendersi come 

    “strumento comunicativo estremamente efficace… un insieme di interventi programmati e sistematici, miranti al cambiamento del comportamento” [17].
    ___________________________________
    NOTE
    [1] http://orizzonte48.blogspot.it/2016/07/ue-eurss-no-totalitarismo-neo-liberista.html
    [2] Così P. BARCELLONA, Parolepotere, Il nuovo linguaggio del conflitto sociale, Castelvecchi, Roma, 2013, 23
    [3] Si rinvia, per un’approfondita analisi sull’argomento, ai seguenti post ed ai relativi commenti: http://orizzonte48.blogspot.it/2014/11/il-test-di-orwell.html; http://orizzonte48.blogspot.it/2014/12/corollari-del-test-di-orwell-gli.html;  http://orizzonte48.blogspot.it/2015/03/lorientamento-ultimo-della-cultura.html
    [4] Così R. DEL PUNTA, Ragioni economiche, tutela dei lavori e libertà del soggetto, in Rivista italiana di diritto del lavoro, Milano, 2001, 407
    [5] Così G. FERRARO, La flessibilità in entrata alla luce del Libro Bianco sul mercato del lavoro, in Rivista italiana di diritto del lavoro, Milano, 2001, 427
    [6] Così G. FERRARO, La flessibilità in entrata alla luce del Libro Bianco sul mercato del lavoro, cit., 428
    [7] Così L. EINAUDI, Trincee economiche e corporativismo, in “La Riforma Sociale”, novembre-dicembre 1933, 633-656
    [8] Per una ricostruzione storica del termine, si vedano R. MCQUAID - C. LINDSAY, The Concept of Employability, Urban Studies, 42, 2005
    [9] R. MCQUAID - C. LINDSAY, The Concept of Employability, cit., 197-219
    [10] Si veda R. LENDRUT, Sociologia du chômage, Puf, Paris, 1966
    [11] Si veda R. MCQUAID-J. PECK-N. THEODORE, Beyond Employability, Cambridge Journal of Economics, 24, 2000, 729-749
    [12] Così J. PECK-N. THEODORE, Beyond Employability, cit., 730
    [13] M. JASPEN-A. SERRANO PASCUAL,Unwrapping European Social Model, The Policy Press, University of Bristol, 2006, 230
    [14] Reperibile all’indirizzo www.lavoro.gov.it/Lavoro/Europalavoro/SezioneEuropaLavoro/Utilities/Glossario/PilastriSEO.htm; la SEO è stata formalmente riformata e in sostituzione dei quattro pilastri iniziali sono stati individuati “in modo cosmetico” tre nuovi obiettivi (COM 6/2003): raggiungere la piena occupazione, migliorare la qualità e la produttività del lavoro, rinforzare la coesione e l'inclusione sociale
    [15] J. GOETSCHY,The European Employment Strategy: Genesis and Development, in EJIR 5, II, 130 http://www.eucenter.wisc.edu/OMC/Papers/Archive/goetschy99.pdf. Per una ricostruzione di tale politica, si veda anche M. BARBERA,A che punto è l'integrazione delle politiche dell'occupazione nell'Unione Europea?, inDir. relaz. ind., fasc.2, 2000, 161
    [16] Così B. CARUSO, Alla ricerca della “flessibilità mite”: il terzo pilastro delle politiche del lavoro comunitarie, in Dir. relaz. ind., fasc.2, 2000, 141. Si tratta, non a caso, della stessa “terza via” come dottrina economica respinta in Costituente; sulla terza via, si veda l’intervista rilasciata da A. Giddens al quotidiano Repubblica il 4 dicembre 2014 reperibile all’indirizzohttp://www.repubblica.it/esteri/2014/12/04/news/giddens_una_nuova_terza_via_nell_era_di_internet_cos_la_sinistra_batter_i_populismi-102085534/
    [17] Così R. BANDLER – J. GRINDER, La ristrutturazione - La programmazione neurolinguistica e la trasformazione del significato, Astrolabio, Roma, 1983, 9
    ↧

    DALL'EURO ALL'UNIONE BANCARIA: LO STUPRO SIST€MICO DELLA COSTITUZIONE (altro che referendum e "separazione bancaria")

    January 25, 2017, 5:26 am
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    1. Dall'ultimo Bollettino EIR, riceviamo e volentieri pubblichiamo, il sottostante chiarimento fondamentale sui rapporti causa/effetto, che fanno spesso confondere la finanza cattiva con i problemi più direttamente provocati dall'euro.
    E' invece, proprio l'euro in séche si conferma lo strumento "vincente" e coattivo (pp.4-6), attraverso cui i "mercati"possono giungere a dichiarare lo "stato di eccezione" della crisi del debito pubblico, imponendo un'austerità fiscale che, indicata come rimedio (al debito pubblico, ma, in realtà agli squilibri finanziari e commerciali inevitabilmente creatisi all'interno dell'eurozona: e l'unico a non volerlo capire pare che sia rimasto solo Monti), ha portato all'effetto opposto: aumento del rapporto debito/PIL e connessa recessione con insostenibili restrizioni del credito (credit crunch) e le insolvenze che tutto ciò ha innescato.

    2. Come conseguenza di questo doppio "stato di eccezione", in realtà, "a trazione" istituti tedeschi, francesi (mais oui) e britannici (solo che questi ultimi, non essendo nell'eurozona, non hanno preteso di imporre l'austerità distruttiva dell'economia reale ai paesi debitori), si registra, dunque,  poi l'ulteriore emergenza bancaria: questa è stata "curata" (si fa per dire), con l'Unione bancaria (pp.4-7), altro TINA generatore di una violazione sistematica, imposta dall'appartenenza all'eurozona, della clausola fondamentale, se correttamente intesa, dell'art.47 Cost. 
    Una gross violation di norma fondamentale dell'ordinamento italiano sui diritti della persona, - perfettamente riconoscibile sia dalle autorità italiane che da quelle dei partners UEM.
    Questa violazione dell'art.47 (che involge prerogative "personalistiche" umane, come il favor per la casa di abitazione e la possibilità di espletamento di un'attività economica espressione della specificità tutelata di talune di esse, in connessione all'art.2 Cost.), si aggiunge alle ancor più vaste e imponenti gross violations, determinate dall'austerità stessae dai connessi più drastici limiti al deficit dello Stato, che riguardano i più importanti diritti fondamentali della persona umana: diritto al lavoro (artt.1, 4 e 35 Cost.), diritto alla salute (art.32 Cost.), diritto alla pubblica istruzione (art.33 Cost.) e diritto ad un adeguato sistema previdenziale (art.38 Cost.).

    3. Speriamo dunque che il "deputato pentastellato" abbia compreso la risposta di Barbagallo e le dirette lesioni-violazioni dei principi fondamentali della nostra Costituzione, - che qui illustriamo, ancora una volta-, che discendono dall'appartenenza alla moneta unica e, in prima battuta, a un sistema di banca centrale indipendente (NON "PRIVATA": NON è QUESTO IL PUNTO!), che si lega al modello bancario "universale"- parliamo già della seconda direttiva bancaria, CE n. 646/89, cui più sotto fa riferimento Barbagallo-, e alla "vigilanza prudenziale" (v.p.2): tutte disciplineimposteci dall'€uropa e irreversibili finché permaniamo all'interno di essa.
    Questi punti dovrebbero essere chiari; se non lo fossero, sarebbe grave, a questo punto della crisi italiana.

    4. E dovrebbe essere chiaro che se banca centrale indipendente, modello bancario e di vigilanza, e il fondamentale acceleratore "esecutivo" di tutto ciò, costituito dalla moneta unica, - quindi dal suo salvataggio deflattivo mediante austerità fiscale-, costituiscono una sistematica gross violation della nostra Costituzione, cioè uno stupro continuato e durevole nel tempo, allora non ha senso (sostanziale prima ancora che politico-costituzionale) fare un referendum...sullo stupro.
    Ci si rimbocca le maniche, si studia e si cerca di capire a fondo, (ciò che in tutta €uropa è ormai evidente): e si agisce di conseguenza, assumendosene la responsabilità. E questo significa RIPRISTINANDO LA LEGALITA' COSTITUZIONALE, che è la prima è la più importante di tutte.
    Quella senza la quale, ogni altro richiamo alla legalità, significa agitare una bandiera insanabilmente contraddittoria, e, sul piano morale e giuridico, rende privo di senso anche il richiamo alla "onestà". 

    5. Sul presupposto consueto che il links inseriti siano effettivamente letti, quanto detto vale a maggior ragione per ogni altra forza politica; specialmente se "sovranista"...
    Ecco il "chiarimento" fornito dal direttore della vigilanza in sede parlamentare, che, alla luce delle considerazioni che precedono, dovrebbe risultare più chiaro (proprio per consentire il raccordo ho inserito il neretto):
    Bankitalia ammette: la separazione bancaria e l'UE non sono compatibili -Il direttore della Vigilanza di Bankitalia, Carmelo Barbagallo, ha ricordato che l'Italia dovette abbandonare il sistema di separazione bancaria, vigente dal 1936, per obbedire a una direttiva europea. Parlando di fronte alle Commissioni Finanze riunite di Camera e Senato il 17 gennaio, Barbagallo ha risposto a una domanda del deputato pentastellato Alessio Villarosa, il quale gli ha chiesto se non sia il caso che la crisi bancaria italiana mostra il fallimento del modello di banca universale e se non fosse meglio tornare al vecchio sistema.

    "È molto interessante quanto ha detto sulla legge bancaria del '36", ha risposto Barbagallo, ricordando che essa "fu modificata [dalla legge Draghi-Amato, ndr.] per recepire una direttiva comunitaria. Separatezza tra banca e industria, breve e lungo termine, banca d'interesse pubblico non sono concetti dell'Europa. Già a meta degli anni Ottanta non erano concetti dell'Europa. Se l'Italia sta in Europa" deve obbedire alle leggi europee, ha affermato, aggiungendo: "Si può avere un parere personale diverso ma questo è un dato di fatto".

    Ripetendo che sarebbe interessante discutere se la separazione bancaria avrebbe preservato le banche dalla crisi, Barbagallo ha però osservato che "il problema oggi è legato soprattutto ai crediti deteriorati perché (…) posto che 18% dei crediti sono deteriorati", si tratta di "un problema della banca commerciale, non della banca universale".
    Se l'economia va male, vanno male sia le banche universali sia quelle commerciali. "È naturalmente un tema aperto su cui si possono avere opinioni…. Poi le farò avere privatamente una risposta", ha concluso Barbagallo.

    Barbagallo ha ragione quando afferma che la crisi delle banche italiane, a parte qualche eccezione, è una crisi dei crediti commerciali; tuttavia, le sofferenze sono il prodotto della politica di austerità imposta dall'UE dopo i salvataggi delle banche universali nel 2008.
    Se in quella congiuntura i Paesi dell'UE avessero reintrodotto la separazione bancaria, i governi non si sarebbero sobbarcati quell'enorme passività e i fondamentalisti di bilancio non avrebbero avuto il pretesto per imporre l'austerità.

    Inoltre, la crisi che minaccia il contagio europeo, quella di MPS, è dovuta principalmente alla folle acquisizione di Antonveneta nel 2008, un atto che, fosse MPS rimasta banca commerciale, non avrebbe potuto verificarsi sotto la vecchia legge. Barbagallo dovrebbe saperlo bene, dato che fu proprio il suo ufficio, allora presieduto da Anna Maria Tarantola, a scoraggiare l'acquisizione nel 2007.
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