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BRAZIL E CRISI DA SVILUPPO. LA VIA DEL GAMBERO UEM

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Riceviamo e volentieri (come al solito) pubblichiamo questo post di Flavio.
Ci aiuta a capire l''irrequietezza sociale che è emersa di recente in Brasile, rinfrescandoci la memoria su alcuni meccanismi che, nel diverso contesto italiano ed UE, sono comunque distruttivamente all'opera.
I consolidamenti di bilancio hanno sempre un costo. Gli investimenti "razionali" (quelli che esaltano la capacità formativa della forza lavoro e la innovazione tecnologica in un ambiente in grado di sfruttarla) sono di certo sfavoriti dalla realizzazione degli avanzi primari pubblici in fasi di crescita che non c'è o si indebolisce: specialmente se, appunto, non si pensa ad effettuare investimenti che siano realmente tarati sulle linee di sviluppo "opportune" per una data realtà economica.
Aggiungiamo che questo è un punto che esige un fondamentale chiarimento preliminare: chi o cosa decide "l'agenda" degli interessi socio-economici di un determinato paese? In un passato post abbiamo risposto "il modello costituzionale".
Il problema è quanto sia chiaro, nella cultura dominante di un paese, l'impatto culturale della stessa Costituzione. E' un fatto di "maturazione" politica e di dinamiche ideologiche che arrivano a far recepire la cultura del "programma costituzionale" in un modo piuttosto che un altro.
Cioè, aderente a teorie economiche che tengano conto della benedetta domanda e non solo di supply side policies spesso miopi e che gratificano solo la parte della società che riesce a "catturare" più facilmente i governi. Su questo tema il libro in gestazione si sta dipanando, nelle grandi difficoltà di conciliare il linguaggio giuridico con le "controverse" teorie economiche.
Insomma, un lungo cammino, che, in Italia, la nostra Costituzione ci aveva già consentito di fare in buona parte. Ma poi è arrivato il "vincolo esterno". Cioè la "restaurazione". Il proporsi di aspetti conflittuali che il Brasile, ad esempio deve ancora risolvere in un percorso che li conduce nell'ambito dei suoi rapporti di forza sociali: non esistono pasti gratis, ma nemmeno per le forze economiche prevalenti. Perchè poi i fatti li obbligano a fare i conti con le istanze sociali della schiacciante maggioranza dei cittadini.
La cosa più assurda è,- a differenza di realtà come il Brasile e i BRICS in generale, che devono comunque affrontare i risvolti sociali della crescita-, il dover "ritornare" a questa fase di "rigetto" della governance di pochi, quando in realtà il problema era stato già superato. Come in Europa...
E ora diamo spazio all'analisi di Flavio.



Andiamo un pochino off-topic rispetto alla linea degli ultimi post. Partiamo da un indizio. La Confederation’s Cup di calcio. Chi l’ha vinta? La nazione che rappresenta, nel mondo, il calcio. Bravi: è il Brasile. E chi è, in Europa, che parla la stessa lingua utilizzata in Brasile? Facile: il Portogallo, di cui il paese sudamericano fu colonia. Bene. Individuati i collegamenti necessari, focalizziamo i punti del nostro ragionamento: avrete ben sentito parlare dei gravi disordini scoppiati durante lo svolgimento della manifestazione calcistica organizzata in ottica pre-mondiale, a cui partecipavano tutte le nazionali vincitrici delle rispettive coppe continentali.

Avrete inoltre pure letto del picco raggiunto negli ultimi giorni dai titoli di stato portoghesi (guardate la chart inserendo i rendimenti da un anno a questa parte).
Due notizie importanti che, sotto sotto, nascondono dei perché che nessuno però ha voluto mettere chiaramente sul banco per capire, soprattutto in merito al paese sudamericano, le cause degli scontri nati proprio durante la manifestazione organizzata dalla FIFA, proprio nel paese in cui il calcio è la seconda divinità dopo Nostro Signore.

In merito al Portogallo, ci limiteremo a dire una cosa soltanto, anzi, proponiamo un grafico, questo : chi mai sarebbe così pazzo da investire in titoli di uno Stato con una produzione industriale a picco? Nessuno.
Infatti per attrarre i necessari investitori – visto che Lisbona, come noi italiani, non ha un prestatore di ultima istanza essendo membro dell’UE ed è forse il più ligio ai “compiti a casa” decretati dalla BuBa/BCE – il Tesoro lusitano è costretto a mettere sul piatto interessi altissimi per conquistarsi i necessari capitali per far funzionare la sua macchina statale. Naturalmente lo “spread” è solo un indicatore, e l’effettivo tasso va misurato in asta e non di certo giorno per giorno, ma questo picco denota una sfiducia generale degli operatori che ben conoscono l’effettiva possibilità di un paese (stremato) di poter ripagare i propri creditori con una crescita negativa: vicino allo zero.

Passiamo ora al Brasile. Ricordiamo bene come il suo modello, negli ultimi anni sia col presidente Lula che con la presidente Dilma Roussef , sia stato un “esempio” a livello globale e come l’economia carioca sia stata uno dei giganti che hanno fatto da traino in questi anni; tanto da venir incluso di diritto all’interno dell’acronimo BRICS (Brasile Russia India Cina SudAfrica).
La sua performance economica è stata rilevante: tasso di crescita superiore al tasso medio di crescita del PIL degli altri paesi del continente (3% medio contro il 2,2%), surplus di parte corrente per buona parte del primo decennio anni 2000, spesa sociale “buona” che ha portato ad un elevamento degli standard qualitativi della vita ed alla riduzione della fame e della povertà.
Un paradiso? Non proprio. Così come per l’Argentina , molto del “non detto” ci aiuterebbe in qualche modo a capire il perché degli scontri di queste settimane.
Partiamo dal PIL: la crescita media del 3% rimane tuttavia un dato, appunto, nella “media” e, forse, troppo poco per poter creare tutti i necessari posti di lavoro per il considerevolmente numeroso popolo brasiliano. L’alternanza di anni di alta crescita (7% nel 2010) con altri di performance negative (- 0,2% nel 2003 e 2009) allargano la visione d’insieme dell’economia brasiliana: tassi di crescita così avvezzi ad alti e bassi denotano una certa dipendenza dai cicli economici mondiali ed una bassa “propensione” all’investimento ed alla ricerca per creare delle solide basi su cui poggiare le proprie aspettative e performances economiche e sociali future: dal 2000 al 2007 infatti ben il 51% dell’occupazione brasiliana era indirizzata verso i settori a basso salario e bassa produttività.
Nel 2011 invece la disoccupazione aveva raggiunto il 6% della forza lavoro. Un’economia in frenata, come lo stesso FMI riconosce.

I problemi del Brasile non sono finiti qui: durante gli anni ’90 un severo programma economico di moderazione salariale, consolidamento fiscale e una riforma monetaria (creazione del real agganciato al dollaro in sostituzione del cruzeiro) hanno permesso, a costo di enormi sacrifici, il taglio dell’inflazione da uno spettacolare 2400% al minimo storico del 5%, grazie ad un politica monetaria restrittiva fatti di alti tassi di interesse per attirare investimenti esteri ed all’adozione di un cambio sopravvalutato rispetto ai fondamentali paese.
Una cura da cavallo, che se da un lato domò le spinte inflattive, dall’altro generò un rapido deterioramento dei conti dell’estero, culminato con la crisi del 1998-’99 (seguente alla crisi asiatica del 1997 verso il cui Brasile esportava) da cui il governo uscì solo grazie agli aiuti internazionali, in cambio delle famose privatizzazioni e “riforme”.
Con l’avvento di Lula, accanto alle imposizioni stile “Washington Consensus”, Brasilia cerca in qualche modo di accompagnare a tali direttive l’obiettivo della giustizia sociale, le cui chiavi portanti furono la previdenza sociale, gli aumenti del salario minimo, alcuni importanti programmi di trasferimenti dalle fasce più ricche a quelle più bisognose.
L’impatto di queste riforme è stato buono (coefficiente Gini passato da 0,599 a 0,539 dal 1995 al 2009) ma, come per l’Argentina, non va esagerato.

Per poter ovviare a queste “riforme” (tra cui la riforma agraria), le necessarie coperture sono state finanziate in toto dalle tasse. Oramai l’imposizione fiscale in Brasile è al 36,2% del PIL. Una percentuale vicina alle nazioni “sviluppate”, ma con servizi quali sanità, educazione, trasporti ancora da terzo mondo. A livello fiscale, il governo brasiliano predilige la generazione di ampi avanzi primari: lo scorso anno il surplus ha sorpassato i 53 miliardi di $, pari al 2,3% del PIL, una cifra impressionante ma al di sotto del target prefissato del 3%. La tassazione inoltre è tutt’altro che progressiva: come in moltissimi altri paesi, tra cui l’Italia, la zavorra del ricarico è tutto sulle spalle della classe media ed a reddito basso ed inoltre il peso delle imposte indirette è abnorme: il 48% del gettito deriva infatti da questa tassazione regressiva (l’entrate IVA ad esempio sono pari al 12% del PIL).

Accanto a questa politica fiscale, l’altra nota dolente dell’economia sudamericana è il settore delle esportazioni. Circa il 55% di esse infatti derivano dal settore primario agricolo, con costi sociali ed ambientali considerevoli. Ad esempio l’espansione della soia transgenica nel Cerrado, sta provocando ed ha provocato danni irreparabili alla biodiversità di quelle zone, ma il fatto che questa coltivazione negli scorsi anni abbia fatto le fortune delle aziende nazionali impedisce una riconversione a colture sane e bio compatibili. Nonostante ciò, il Brasile promuove questo modello agricolo anche a paesi africani come il Mozambico.

Il punto debole di una economia export-led incentrata sui prodotti agricoli è presto detto. La volatilità dei prezzi di questi beni porta a rapidi boom ma altrettanto veloci cali, di cui il Brasile ha risentito molto negli ultimi anni: non a caso, nel 2012 si registrato è stato il peggior deficit commerciale dell’ultimo decennio. Sommiamo a questi due fattori - prezzi agricoli sgonfiatisi durante la crisi e alte tasse che colpiscono i percettori di redditi medio bassi - alla brutta performance dell’industria brasiliana nel 2012 dovuta al rallentamento globale, aggiungiamoci il contorno dei salari ancora bassi e dei servizi pubblici latenti, mettiamo vicino il fatto che gli avanzi primari sono serviti anche a finanziare i nuovi stadi da approntare per il mondiale prossimo venturo, - in cui far giocare calciatori patinati e stra-miliardiari, invece di coprire i bisogni sanitari e scolastici della popolazione brasiliana,- ed abbiamo il corollario delle possibili cause della “sorprendente” rivolta andata in scena sui nostri schermi nelle scorse settimane.
La morale è presto fatta: non basta dire di “essere di sinistra” per dichiararsi vicini al popolo. Bisogna agire in tale senso. In Brasile, a Vostro avviso, ciò è accaduto? A nostro modesto parere no. Ma siamo favorevoli ad aprire il dibattito su questi ed ulteriori aspetti.










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