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DAL WSJ "DEAR MR. PRESIDENT": LA RILETTURA DELLA "LITERA AD OBAMAM" NELL'ORIZZONTE48.

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Da Flavio, "scienziato sociale" multidisciplinare del web italiano, ormai "di "chiara fama", riceviamo e (più che) volentieri pubblichiamo, questo bellissimo post, di "rilettura" della "lettera di inizio anno" inviata, dalle pagine del Wall Street Journal, dal commentatore P.J. O'Rourke.
O' Rourke non è certo un "democrat" (in tutti i sensi) e non lo nasconde: Flavio ne smonta le premesse "economicistiche", evidenziandone l'ideologia conservatrice e manipolatrice, che tanti effetti negativi e antidemocratici (non in senso partitico), ha portato al popolo USA.
E smonta pure una bella ridda di luoghi comuni tanto popolari in Italia.
La lettura del post serve così a smascherare una strategia disinformativa, paralogica e oligarchica "senza confini". E quindi la confuta nella sua matrice, (più che radicata in Italia e in Europa, fino alla odierne, quasi inarrestabili, "estreme conseguenze").
Questa "controlettera" , in definitiva, di esortazione al "coraggio democratico" di Obama verso una svolta storica nel suo secondo mandato, recupera una dimensione che fa degli USA, in determinati momenti della loro Storia, un "Faro" per la democrazia mondiale.
Fra luci e ombre, anche agli americani ne gioverebbe la lettura (e, tra l'altro, dagli USA arriva il 2° più numeroso gruppo di contatti di questo blog). Per capire che contrastare "l'internazionalismo" della finanza (e dei suoi templi "sovranazionali) è un esercizio di democrazia che giova anche al benessere materiale diffuso nazionale e internazionale...dei popoli. E non ha nulla a che fare con...lo "stalinismo"
E comunque, il post rimpolpa la lettura frattalica di recente "rivitalizzata"...


"Mr. President",

leggendo l’articolo apparso sul Wall Street Journal a firma Mr. O’Rourke, non ho potuto fare a meno di mettere nero su bianco la mia modestissima opinione in merito alle critiche che Le sono state mosse.
Mi creda, so che sicuramente non leggerà ciò che sto per scrivere, ed allo stesso modo mi rendo conto che fare il suo avvocato difensore non è di certo una cosa di mia competenza: avendolo fatto Ella stessa di professione saprebbe svolgere questo ruolo molto meglio di quanto io possa permettermi.
Tuttavia mi lasci abbozzare qualche osservazione, iniziando da una piccola parafrasi delle parole dell’influente giornalista: l’ipocrisia è una parte importante del giornalismo, e il giornalismo è necessario per la politica interna.
Sappiamo bene quanto l’informazione (pilotata) sia vitale per mantenere la “pace sociale”, e gli odierni esempi di piaggeria che i nostri media quotidianamente perpetuano nei confronti dei cosiddetti “macellai” travestiti da “salvatori della patria” offrono un valido esempio del servilismo che, colpevolmente, i mass-media nazionali (ed internazionali) praticano in favore dei cosiddetti “poteri forti”, in totale spregio alle regole democratiche ed al benessere sociale degli stessi cittadini, che sono informati su “tutto” ma non “al meglio” per poter contrastare eventuali politiche perpetrate a loro danno e contro il loro interesse.

Non mi dilungherò molto nelle premesse, anzi, preferirei subito andare al succo del discorso, a quanto il Signor O’Rourke scrive: lasciamo ampiamente perdere le sue idee sulla politica estera. Sappiamo bene che essa, sostanzialmente, è influenzata da motivi strettamente economici... In realtà, non è una novità sostenere che il saudita Bin Laden era un uomo a “stelle e strisce” nella resistenza afghana contro l’invasione sovietica prima di diventare il nemico numero uno degli Usa in seguito al cosiddetto attacco alle Torri Gemelle (cfr. John Perkins, Confessioni di un sicario dell’economia), che la guerra irachena era solo un pretesto per impadronirsi del petrolio e delle acque della “mezzaluna fertile”, così come la guerra contro i Talebani allo stesso modo ha permesso la “conquista” del gas naturale, del petrolio, ed il controllo della produzione di oppio e delle risorse minerarie afghane. Tralasciando le affermazioni su Venezuela, Cuba, Israele, Russia e Nord Corea, vogliamo iniziare parlando della Cina?

Fa come al solito sorridere vedere come la colpa di un qualcosa che viene prima, il debito estero statunitense datato 1982, possa essere causato da un qualcosa che avviene dopo, il surplus cinese esploso dal 1994. Bagnai in ben due articoli smonta punto per punto il luogo comunismo sui cinesi cattivi che “causano” la crisi mondiale in seguito alla svalutazione “nominale” dello Yuan Renminbi, mentre un giornale di sicuro stampo, eufemisticamente parlando, socialista come l’Economist decreta a scanso di equivoci una rivalutazione nominale di circa il 24%, reale invece addirittura del 50%, avvenuta nel periodo fra il 2005 ed il 2010, affossando istantaneamente qualsiasi opinione che vada nell’ottica di un maggior “pugno di ferro” con il cosiddetto “celeste impero”, nuova patria delle svalutazioni competitive che, nella realtà, non esistono. La favoletta degli Usa buoni che combattono in nome dell’Occidente è oramai vecchia, guardiamo quindi a quello che in realtà è il vero nocciolo della questione.

Il problema centrale, ed il Signor O’Rourke dovrebbe saperlo, che permette questa asimmetria, questo squilibrio “mondiale”, verte sul fatto di un sistema monetario internazionale che, nella realtà, è fondamentalmente instabile poiché basato su una moneta nazionale, quindi su di uno strumento che nel tempo tende a svalutarsi: il dollaro.
Le conseguenze “economiche” di Bretton Woods si fanno sentire eccome: imponendo nel 1944 al mondo la propria divisa, gli Stati Uniti, al tempo in surplus quale unica potenza con tessuto produttivo intatto dopo la devastazione della guerra, hanno dovuto scegliere se dimensionare l’offerta di dollari alla propria economia – lasciando il resto del mondo a secco, e causando un collasso del commercio – o all’economia mondiale, stampando una tale quantità di dollari tali da:
- comprometterne la convertibilità in oro
- rendere inevitabili periodiche svalutazioni.

A partire dal Nixon shock del 1971 (abolizione convertibilità oro/$), si realizza quanto preconizzato nel 1960 dall’economista belga Robert Triffin con il suo “dilemma”. Diventare la “banca del mondo” ha indubbi vantaggi ma – essendo il dollaro la forma di investimento più liquida presente sul mercato e principale arma di difesa per una nazione da utilizzare in caso di crisi valutaria – questa condizione implica, sia per il paese interessato che per l’intera economia mondiale, delle controindicazioni di non poco conto, come ancora Bagnai sottolinea in “Crisi finanziaria e governo dell’Economia”:
Essere la “banca” del mondo ha dei vantaggi ma obbliga gli Stati Uniti a indebitarsi col mondo. La crisi dei subprime è solo lultima manifestazione di instabilità di un sistema basato su un mezzo di pagamento che intrinsecamente tende a svalutarsi (perché la sua emissione coincide con un deficit delle partite correnti del paese emittente), ma nel quale vengono tuttavia investiti i risparmi del resto del mondo (perché con un commercio mondiale fondato sul dollaro, chi accumula surplus in dollari trova conveniente investirli negli - cioè prestarli agli - Stati Uniti, alimentando così la crescita dei consumi statunitensi e, di riflesso, delle proprie esportazioni)”, attivando il modello kaldoriano di crescita cumulativa enunciata dalle leggi di Thirlwall e Verdoornper i paesi prestatori ma costringendo gli USA ad una bilancia dei pagamenti in perenne deficit con pesanti ripercussioni economiche sia interne che estere dovute a saldi settoriali statunitensi che dire “sballati” può sembrare un eufemismo.

Un problema di non poco conto che impatta sulla vita del cittadino comune, come lo stesso Anthony Thirlwall nella sua opera “Moneta e credito. Modelli di crescita limitata dalla bilancia dei pagamenti: storia e panoramica” mette bene in luce, decodificandone i rischi sistemici e proponendo la soluzione ottimale a questo scompenso: “Gli squilibri globali nelle bilance dei pagamenti sono un problema per l’economia mondiale. Producono grandi, volatili flussi di capitale speculativo; contribuiscono all’instabilità delle valute e al bisogno per i paesi di detenere grandi riserve di valuta estera, al fine di intervenire nei mercati valutari quando necessario; e producono arbitrarie riallocazioni delle risorse tra paesi in deficit e paesi in surplus, spesso dai paesi più poveri a quelli più ricchi. Oggi per esempio, c’è qualcosa di perverso nel fatto che i cinesi trasferiscano risorse agli americani, dieci volte più ricchi di loro.

Gli squilibri globali…producono un bias deflazionistico sull’intera economia mondiale… L’economia mondiale non sarebbe necessariamente in questa situazione di gravi squilibri globali, se avesse istituito dei meccanismi istituzionali per penalizzare i paesi in surplus (ndr: aspetto di cui l'attuale amministrazione Obama pare iniziare a curarsi seriamente) che sono riluttanti a, o per qualche ragione non sono in grado di, spendere più o ridurre i loro surplus in qualche maniera.L’economia è fatta per le persone, non le persone per l’economia. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) potrebbe dichiarare…che non tollererà i surplus dei propri membri che eccedono una certa percentuale del PIL – ad esempio il 2%, che è un livello di deficit sostenibile per la maggior parte dei paesi…Surplus superiori al 2% del PIL potrebbero condurre per i paesi a delle sanzioni a tassi via via più alti. I ricavi da queste sanzioni potrebbero poi essere girati in forma di aiuto ai paesi più poveri in deficit.

In effetti, Keynes…alla Conferenza di Bretton Woods nel 1944…propose un’International Clearing Union che avrebbe funzionato come una banca centrale mondiale, fornendo la sua moneta internazionale (il bancor) che i paesi avrebbero utilizzato per i pagamenti tra di loro. Ciascun paese avrebbe avuto una quota nell’Unione (come oggi i paesi hanno una quota nel FMI, che ne determina i limiti nel ricevere prestiti). La proposta di Keynes allora era che se un paese aveva un credito (o debito) in eccesso di un quarto della sua quota, avrebbe dovuta pagare una tariffa pari all’1% di questo eccesso, e un altro 1% se il suo credito (o debito) avesse ecceduto un mezzo della sua quota. Keynes scrisse: “questi pagamenti […] potrebbero fornire importanti e notevoli incentivi a tenere un equilibrio nella bilancia dei pagamenti, e potrebbero essere un’indicazione significativa che il sistema guarda in maniera critica sia agli eccessivi surplus di bilancio sia agli eccessivi deficit, ognuno dei quali, in effetti, è inevitabilmente contemporaneo all’altro”.

La proposta di Keynes di un’International Clearing Union fu rigettata dagli americani a Bretton Woods. Keynes scherzava così che la sua proposta di una banca era diventata un Fondo (il FMI), e la sua proposta di un fondo era stata rinominata Banca (la Banca Mondiale). L’altra proposta di Keynes, di una clausola della “valuta scarsa”, che avrebbe dato ai paesi in deficit il diritto di discriminare contro le importazioni di beni da paesi in surplus (che si riteneva sarebbero stati gli USA), fu accettata, ma la clausola non è mai stata utilizzata, perché ben presto gli Stati Uniti divennero un paese debitore. L’idea di una clausola della valuta scarsa potrebbe in effetti essere risuscitata, per essere nuovamente utilizzata contro i paesi in surplus nella maniera prevista all’inizio. Entrambe le idee, di discriminazioni nel commercio contro i paesi in surplus (nonostante le regole del WTO, che non ha mai mostrato interesse nelle conseguenze sulla bilancia dei pagamenti delle liberalizzazioni del commercio) e le sanzioni per i paesi in surplus, sono degne di considerazione per un ordine economico internazionale più stabile e per ridurre il bias deflazionistico nell’economia mondiale che deriva dai vincoli della bilancia dei pagamenti sulla domanda e sulla crescita dei paesi in deficit perpetuo.”.

Il primo, vero, fondamentale problema è questo. Il “non sistema monetario internazionale” (cit. Gandolfo, 2002), caro Presidente, caro Mr. O’Rourke, è la prima causa degli squilibri globali, ed una sua soluzione, magari ricalcando le teorie qui sopra esposte sarebbe quanto mai salutare in un’ottica di riequilibrio di lungo periodo per tutte le economie mondiali, e stimolerebbe in qualche modo un’allocazione delle risorse, per una volta, migliore di quella fin’ora sperimentata, perché volente o no, il mondo è e rimane un gioco a somma zero. Ed i surplus di qualcuno sono giocoforza i deficit di qualcun altro.

E questo punto stimola l’ulteriore critica nei confronti di Mr. O’Rourke sulla sua posizione in merito alle politiche di “redistribuzione”: per lui sarebbe meglio detassare e lasciare più soldi a chi deve investire, lasciare produrre di più a chi detiene i fattori produttivi per stimolare l’offerta… un film già visto, dove si persegue lo sviluppo dell’offerta in piena crisi… da domanda, tralasciando che necessariamente la spesa di qualcuno – lo stato o i consumatori, per la gran parte lavoratori – genera il reddito di qualcun altro.
Ebbene, per il Sig. O’Rourke non dovrebbero esserci problemi a tagliare la spesa, né tantomeno a tagliare le agevolazioni o ad innalzare l’età pensionabile dei lavoratori: non crediamo di certo che queste misure sarebbero andate ad intaccare il suo tenore di vita
Peccato che egli non tenga ben presente quanto il moltiplicatore fiscale si avvierebbe ad agire sostanzialmente alla rovescia, andando a compromettere la debole ripresa americana. O forse speravano che ciò fosse accaduto? Sarebbe stato come prendere due piccioni con una fava per i repubblicani: salvare i portafogli dei ricchi e poi andare all’attacco dell’esecutivo democratico colpevole di non aver previsto i contraccolpi negativi dei tagli di spesa sul PIL, erigendosi a veri difensori dell’economia americana (ndr: grande intuizione di "smascheramento", Flavio!). Una rivincita coi fiocchi dopo la debacle alle elezioni presidenziali che, come una nota pubblicità afferma, non avrebbe avuto prezzo.
 
Cifre invece a sei o nove zeri rappresentati dagli incentivi alle imprese, come quantifica il Sole24 ore, ci aiutano facilmente a capire come in realtà quanto prospettato sul WSJ già, di per sé, avvenga.
Vale a dire: 80 miliardi di dollari ed “una rete di 1800 programmi gestiti da enti locali… mettendo a disposizione edifici, regalando servizi, pagando costi di qualificazione della manodopera e cancellando imposte locali” sono una delle “cause” del rimpatrio dall’estero delle aziende americane delocalizzate negli ultimi decenni. come illustra la seguente mappa, attirate da ben 18miliardi di tagli alle tasse sul reddito e 52 miliardi di riduzione delle tasse sulle vendite.
Numeri impressionanti: sgravi fiscali trentennali alla Nike in Oregon, 22milioni a Twitter da San Francisco, 1,77 miliardi da vari stati alla GM, 381 milioni la General Electric, 338 la Boeing, 200 milioni la Caterpillar.

Quindi ciò che Mr. O’Rourke chiede “more pizza parlors baking more pizzas”, perbacco, già esiste!
Ma l’illusione che la detassazione ai “ricchi”, il lasciare loro più risorse a scapito delle agevolazioni al ceto medio basso, sia sanitarie che fiscali, possano dare la spinta necessaria all’economia americana per ripartire in modo deciso, oltre che ingiusta, sembra però contrastare fortemente con i dati: fra il 1980 ed il 1998 le imprese statunitensi hanno autofinanziato l’acquisizione di capitale produttivo ed il risparmio delle famiglie – o quel poco che ne è rimasto visto che il loro debito (passività finanziarie lorde) è nel frattempo costantemente aumentato dal 66% al 135% del loro reddito disponibile nel periodo 1984-2007 (Flow of Funds Accounts of the United States, Federal Reserve, ) – pari a circa 5mila miliardi di dollari.
Tutto ciò è essenzialmente servito a finanziare fusioni ed acquisizioni: ed attraverso l’acquisto a prezzi maggiorati da parte dei late comers, si è alimentata una bolla finanziaria culminata nella crisi dei mutui subprime nel 2008. Bene. Capiamo bene quindi che questa non è la corsia preferenziale da imboccare.
Non è l’offerta a dover essere sviluppata, ma la domanda aggregata a dover essere sostenuta. E l’unico modo per stimolare l’economia, visto come oramai i cittadini statunitensi stiano “risparmiando” sui consumi in ottica di rientro dai debiti contratti, è solo ed esclusivamente la redistribuzione dall’alto verso il basso tanto demonizzata da O’Rourke, attraverso un serio programma di copertura sanitaria, agevolazioni, incentivi, acquisto di beni che permettano il sostegno dei cittadini delle fasce medio - basse, stimolino l’occupazione e quindi il reddito, volàno per una ripresa dei consumi.
Prendere dai ricchi per dare ai ceti meno abbienti non è solo un diritto, ma un dovere di un’amministrazione americana che per troppo tempo ha perseguito una politica di laissez-faire dannosa e controproducente, sia a livello produttivo che finanziario. Da più parti si invoca, infatti, una  regolamentazione finanziaria globale che per troppo tempo è stata tenuta chiusa in un cassetto a doppia mandata e che ha portato, assieme all’abolizione del Glass Steagall Act,alla finanziarizzazione dell’economia ed alla crisi del paradigma capitalistico occidentale.

Certo, se il mondo girasse nel verso giusto, se non esistesse il dollaro moneta “internazionale”, se le banche giocassero non d’azzardo, se davvero i mercati facessero la “cosa giusta” per noi, ma non per loro (la prassi è fallire in modo convenzionale, piuttosto che riuscire anti convenzionalmente) il capitale canalizzato attraverso gli istituti finanziari avrebbe dovuto seguire le logiche dei cosiddetti rendimenti decrescenti, andare dove più scarso perché meglio remunerato (andando quindi a livello globale dagli Stati Uniti alla Cina e non viceversa) ed esaurire lentamente il suo afflusso una volta che la remunerazione marginale fosse risultata via via più scarsa (al contrario ad esempio dell’imponente liquidità che ha attivato nei PIIGS il ciclo di Frenkel grazie ai capitali core-UEM). Così non è avvenuto.
Lasciare quindi ulteriori risorse in mano a chi già detiene gran parte della ricchezza pur essendo rappresentando l’1% della popolazione non è affatto il modo migliore per poter pensare ad una ripresa dell’economia americana che funga da traino alla tanto sospirata “ripresa globale”.
Anzi, ne rappresenta un rischio enorme. Paul Krugman ne fotografa al meglio la caratteristica di lotta di classe “strisciante” che ha caratterizzato le ultime discussioni sul Fiscal Cliff: “Si consideri…la spinta ad innalzare l'età pensionabile, l'età di ammissione al Medicare, o entrambe. Questo è solamente una cosa ragionevole, ci è stato detto: dopo tutto, l'aspettativa di vita è aumentata, quindi non dovremmo tutti andare in pensione più tardi? In realtà, tuttavia, sarebbe un cambiamento estremamente regressivo delle politiche, quello di imporre grandi oneri sulle spalle degli americani di basso e medio reddito, mentre i ricchi vengono a mala pena toccati. Perché? Prima di tutto, l'aumento della speranza di vita riguarda soprattutto i ricchi; perché i custodi dovrebbero andare in pensione più tardi se gli avvocati vivono più a lungo? In secondo luogo, Social Security e Medicare sono molto più importanti, in rapporto al reddito, per gli americani meno abbienti, e così ritardare la loro erogazione sarebbe un colpo di gran lunga più grave per le famiglie comuni che per l'1 per cento che si trova in cima. Oppure si consideri un esempio più sottile, l'insistenza sul fatto che eventuali aumenti delle entrate dovrebbero provenire più dalla riduzione delle deduzioni invece che da tasse più elevate. La cosa fondamentale da capire è che qui è la matematica a non funzionare; non c'è, infatti, nessun taglio alle detrazioni che possa far aumentare le entrate tanto quanto si può ottenere lasciando scadere i tagli tributari ai ricchi dell'era Bush. Qualsiasi proposta al fine di evitare un aumento delle aliquote, nonostante tutto quello che possano dire i suoi sostenitori, è la proposta di lasciare l'1% fuori del conto e di scaricare il peso, in un modo o in un altro, sulla classe media e i poveri.”.
Chiaro. E’ una lotta di classe al contrario quella che si sta combattendo, così come nell’Eurozona, anche negli Stati Uniti, a vantaggio del capitale. Ed a pagare, come sempre, sono e saranno i lavoratori e le classi meno abbienti se non si agirà ancora in questa  direzione, a protezione dei diritti dei lavoratori e dei cittadini.

E se vogliamo dire fino in fondo la verità, chi fin’ora sul manifatturiero americano non c’ha scommesso una lira (anzi, un dollaro) sono stati gli stessi repubblicani, e la stessa  Wall Street, mettendo davanti ai bisogni dell’industria statunitense e dei suoi lavoratori, le richieste delle grandi corporations finanziarie (Citigroup, G&S, M&S) che da più parti oramai sono viste come “too big to control”. Simon Johnson delinea in tre articoli apparsi su Bloomberg e qui riassunti dal Sole24Ore le complessità di un sistema finanziario oramai andato “fuori controllo”, dove la priorità da perseguire ora è “la separazione delle banche commerciali da quelle di investimento” .
Come infatti affermano Dan Tarullo, membro influente del consiglio dei Governatori del Federal Reserve System (“…abbiamo perso di vista quanto si suppone che il sistema bancario sia tenuto a fare. Le banche giocano un ruolo fondamentale in tutte le moderne economie, ma tale ruolo non consiste nell'assunzione di una quantità enorme di rischi, dove le perdite al ribasso vengono coperte dalla società.”) e Wilbur Ross, uno dei più grandi investitori statunitensi, (“…il vero scopo e la necessità reale che in questo Paese sono alla base del sistema bancario è soprattutto quella di concedere prestiti soprattutto alle piccole imprese e agli individui. Penso che sia la parte più difficile da adempiere…I mercati del capitale sono sufficientemente sofisticati e sufficientemente profondi da permettere che le imprese più grandi abbiano un sacco di modi alternativi per trovare capitali. Le piccole imprese e gli individui privati non hanno davvero la possibilità di accedere ai mercati pubblici. Sono loro quelli che più seriamente hanno bisogno delle banche. Penso che queste abbiano come perso la traccia di tale scopo”).
Ma Wall Street da quest’orecchio non sembra sentirci: il pericolo di un’ulteriore abbuffata di junk bonds, dopo i quantitative easings e gli acquisti di 40 miliardi al mese di Mortgage backed securities, sembra prossima all’orizzonte.
Il lupo perde il pelo ma non il vizio, ma di certo non è possibile continuare a percorrere le strade univoche della socializzazione delle perdite e dell’esplosione del debito privato. Certo, potremmo anche essere d’accordo col Sig. O’Rourke sul fatto che la redistribuzione non è tutto. Ma solo nell’ottica in cui essa sia solo una parte del programma.
La metta al centro della sua agenda, Sig. Presidente, e dia un segnale davvero importante al mondo intero:
- continui con più decisione nella sua politica di sostegno della domanda e dei redditi dei ceti meno abbienti
- crei un tavolo internazionale per trovare una soluzione al gravoso problema del sistema monetario internazionale
- metta mano ad una nuova regolamentazione finanziaria ripristinando innanzitutto il Glass Steagall Act
- dia un impulso al superamento delle  folli logiche del  libero scambio e della libera circolazione di merci e capitali, al contrario di quanto fa l’UEM, ad esempio, con i suicidi accordi con  Corea del SudGiappone.
Ma sappiamo bene come questi auspici rimangano solamente dei buoni propositi. Il cambio della guardia fra Timothy Franz Geithner– grande amico di Mario Draghi dai tempi di  G&S - e Jack Lew potrebbe essere un primo passo verso la realizzazione di questa serie di punti ineludibili nell’agenda che porta alla soluzione dell’attuale crisi delle economie avanzate.

Sarà interessante verificare se nei prossimi mesi questa “rottura” di “amicizie” ai vertici del potentato economico occidentale porterà, assieme alla scadenza del mandato di Mr. Bernanke nel gennaio del 2014, ad un auspicabile cambio di paradigma che ponga l’amministrazione statunitense in condizione di farsi garante di una nuova visione dei rapporti economico sociali fra le nazioni, ad una soluzione degli scompensi globali, ed a una ricomposizione del divario - fra una minoranza sempre più ricca, e sempre più interessata ad implementare il suo status, ed una massa di persone che una volta rappresentava il cosiddetto “ceto medio”, povera e sempre più sfiduciata-, che si sta facendo ogni giorno che passa sempre più drammatico.










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