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REFERENDUM CONSULTIVO SULL'EURO: L'ALGIDO ED INUTILE "GIUDIZIO DI DIO"

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Parrebbe che questa sia la formula lanciata dai vertici del M5S per arrivare, forse, un domani, ad un'aperta presa di posizione anti-euro:
1) raccolta di "un milione" di firme per depositare in parlamento, entro sei mesi, una proposta di legge costituzionale ad iniziativa popolare (in realtà, ai sensi dell'art.71, comma 2, Cost, ne bastano 50.000, che sono raccoglibili in molto meno che sei mesi per una forza politica organizzata e dotata di consenso);
2) tale proposta di legge costituzionale avrebbe ad oggetto un quesito referendario sull'uscita dall'euro;
3) iter approvativo della legge costituzionale, necessariamente, ai sensi dell'art.138 Cost., cioè in doppia lettura e con eventuale svolgimento di referendum (che poi sarebbe relativo al consenso popolare ad una legge costituzionale che prevede...un successivo referendum il quale, dopo il primo referendum "procedurale" sulla revisione costituzionale...si svolgerà solo in caso di completamento positivo, appunto con referendum!, dell'iter ex art.138 Cost.);
4) attesa dell'esito del referendum. E qui, per mancanza di ulteriori indicazioni, dobbiamo aggiungere: per fare cosa?

Sì, perchè il referendum "consultivo" in questione avrebbe solo un limitato effetto di attivare il Parlamento ad esercitare, con varie soluzioni rientranti in una intatta discrezionalità, la potestà legislativa (o altro tipo di potere parlamentare, es; commissione d'inchiesta su effetti dell'UEM) a seconda dell'esito del referendum stesso.
E, per di più, il Parlamento dovrebbe attivarsi solo "eventualmente": cioè se l'esito fosse favorevole all'euro-exit, il che presuppone la prevalenza dell'idea euro-contraria a fronte di una grancassa mediatica e "espertologa" largamente favorevole alla moneta unica, e che non sarebbe concretamente superabile, certamente non da un'iniziativa propria del M5S. 
A meno che non cambi l'ordine di scuderia (per fattori internazionali di collasso esogeni rispetto alla pavida realtà italiana), sulla moneta unica, da parte dei controllori del sistema mediatico; cosa che avrebbe un proprio  manifestarsi e un proprio obiettivo obiettivamente autonomi rispetto ai quali, nella migliore delle ipotesi, l'iniziativa del M5S potrebbe al più essere complementare o meglio "ausiliaria".

Ma andiamo con ordine, anche se è difficile di fronte ad una delle cose più arzigogolate e più  giuridicamente e logicamente contraddittorie che si sia mai vista in politica.
Diciamo subito che se si ritenesse che l'euro e i vincoli valutari e fiscali che implica siano alla base della crisi italiana, l'urgenza dovrebbe sconsigliare di partire con una proposta di legge di iniziativa popolare di revisione costituzionale, per di più ponendosi l'onere di raccogliere un milione di firme in sei mesi.
Già il deposito della legge mostra una certa "flemma" rispetto ad una recessione distruttiva che rischia di prolungarsi, anzi di acuirsi, nel prossimo anno.
Raccogliere un milione di firme, oltre che eccedente il limite di 50.000, è anche irrilevante dal punto di vista dell'iter di revisione costituzionale che dovrebbe innescare.
Che il M5S abbia, diciamo, più di un milione di voti, la maggioranza parlamentare lo sa già: questo non sposta minimamente il fatto che il procedimento di revisione costituzionale, quale che sia il soggetto che esercita il potere di iniziativa, è normalmente portato avanti o da una maggioranza ampia (cioè assoluta) o in base ad un'accordo tra forze della maggioranza e dell'opposizione.
Insomma, il "milione di firme", potrà solo suscitare nell'elettorato del movimento l'illusione ingannevole che cambi qualcosa, anche solo politicamente, rispetto all'ipotesi di parlamentari del M5S che presentino, da subito, essi stessi una proposta di revisione costituzionale.
In entrambi i casi è altamente improbabile che tale proposta arrivi mai ad essere votata in aula.  fine del gioco.

Forse, avendo qualcuno capito questo, il gioco è allora un altro: creare sei mesi di mobilitazione di tipo mediatico-propagandistico, una sorta di anomala campagna elettorale, al fine di far coincidere la raccolta delle firme DI PER SE' con un gigantesco referendum DE FACTO contro l'euro.
Ma questo effetto sarebbe sortibile solo se la proposta del referendum consultivo fosse chiaramente sottoposta all'opinione pubblica non come un giudizio di Dio, (vada come vada mi rimetto al "popolo"), ma come un razionale e ben motivato invito all'uscita dall'euro, che contenga cioè in sè la comprensione dei suoi effetti negativi passati ed attuali, nonchè la chiara indicazione dei rimedi e degli strumenti, ulteriori all'euro-exit, necessari per gestire sia la fase di transizione del ripristino di una valuta nazionale che, in generale, l'economia italiana nell'interesse sovrano del Paese. Cioè una proposta organica che illustri responsabilmente il modello socio-economico, industriale, fiscale, previdenziale, sanitario, di mercato del lavoro, che si intende perseguire una volta ripristinata la sovranità che la moneta unica, adesso, ci preclude, obbligandoci a decisioni automaticamente predeterminate dal mero fatto dell'adesione all'UEM

E' proprio questa chiarezza assolutamente mancante il vero punto debole di questa strategia.
Gettare un dado su una questione del genere, è giocare col destino degli italiani e, al tempo stesso, manifestare un'algida indifferenza sull'esito dell'alea iacta est, facendosi guidare da un tatticismo che si nutre di effetti annunci e di una vistosa negligenza già nel volerne comprendere i meccanismi e gli effetti giuridico-costituzionali.

Basti dire che si ricorre alla legge costituzionale che istituisce un referendum consultivo una tantum, facendo riferimento al precedente del referendum c.d. "sull'Europa" del 1989.

Già si potrebbe obiettare che, in quella occasione "precedente", il trattato su cui si dava l'indirizzo era ancora da negoziare (seppure nelle linee già fornite dall'Atto Unico) e da redigere e ratificare nelle sue specifiche previsioni. 
Qui, invece, si vuole intervenire su un trattato, o una componente più o meno essenziale dello stesso, già non solo ratificato ma anche largamente (e tragicamente, per il nostro interesse nazionale), applicato. Ponendosi così un problema di diretta influenza del referendum sul divieto ex art.75 Cost
Ammesso dunque che, dovendo rischiare di essere fermati su questa soglia, valga la pena di farlo per un referendum "consultivo", così privo di effetti giuridici vincolanti pratici, ed immediatamente intelleggibili, non solo per gli organi di indirizzo politico, ma per gli stessi elettori e, soprattutto, per i "mercati", che avrebbero lunghi mesi, se non anni, per scontare le complesse e controvertibili mosse successive ad un eventuale esito, del referendum stesso, contrario alla permanenza nell'UEM.
Un referendum di "indirizzo", infatti, non vincola a far nulla di immediato, ma ha bisogno, per definizione, di una fase di attuazione, lasciata al Parlamento e, a monte di esso, al governo pro-tempore, che dovrebbe adottare passi conformi a tale indirizzo col sostegno e - secondo il tipo di atto adottato-, l'approvazione eventuale del Parlamento stesso.
Questo in teoria.
In pratica poi, le cose sono andate ancora peggio.

«Ritenete voi che si debba procedere alla trasformazione delle Comunità europee in una effettiva Unione, dotata di un Governo responsabile di fronte al Parlamento, affidando allo stesso Parlamento europeo il mandato di redigere un progetto di Costituzione europea da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunità?».

Il Governo della Unione, nel senso istituzionale del termine suggerito dal quesito, non si è mai fatto: si novò la Commissione e si potenziò il Consiglio dei ministri (nelle sue varie proiezioni). Gli organi precedenti, TIPICI DI UNA  MERA ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE, furono "aggiustati" senza che ruolo e funzionamento essenziale ne fosse sostanzialmente mutato.
Nessuno vide mai la nascita di un "governo responsabile di fronte al Parlamento", che avrebbe implicato l'attribuzione, ad un unico centro di imputazione federale, di poteri di competenza esclusiva di iniziativa legislativa, in tema di bilancio, prelievo fiscale effettuato e spesa trasferita presso tutti i paesi aderenti. E ciò IN MISURA TALE DA CURARE I DIRITTI FONDAMENTALI DI TUTTI I CITTADINI COINVOLTI, come conferma la connessione del "potere di redigere" una Costituzione del Parlamento che doveva attribuire la fiducia, in senso giuridico-costitutivo, a tale governo. Cosa che non ebbe alcun seguito, come attestano le ben diverse procedure seguite per Maastricht e Lisbona.

La nascita di tale governo, dunque, era necessariamente implicita nella formulazione del quesito, come pure la vera natura decisionale suprema legislativa del Parlamento europeo. 
Ma la risposta affermativa data dal popolo italiano, col referendum, a questo "indirizzo" fu violata dall'esercizio successivo dei poteri negoziali, -legittimati sempre e solo dal rispetto dell'art.11 Cost.-, da parte del nostro governo.

Dunque, servirsi di quel precedente, significa ripercorrere una prassi, semmai se ne possa parlare in tal senso a livello di fonte di integrazione costituzionale, che indica la illimitata violabilità e, in sostanza, inutilità, dell'espressione diretta della volontà popolare.
Assommato a tutti gli altri inconvenienti e incongruenze sopra esaminate - e se ne potrebbero evidenziare delle altre- ed unito alla altissima improbabilità che sia mai raggiunta una discussione ed una conseguente votazione favorevole sulla legge costituzionale che proporrebbe tale soluzione, ne risulta un autentico "papocchio", costituzionale e della stessa democrazia.
E dire che, avendo la forza e, prima ancora la credibilità tecnico-politica indispensabili in un frangente così drammatico della vita nazionale, ben altre soluzioni sarebbero percorribili.

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