
Flavio torna con un post che compie un'interessante ricostruzione-decostruzione, storico-economica, del mito della concorrenza e del consumatore (che decide e orienta l'offerta). Un mito teorico ma prima ancora "politico" - perchè di questo, ormai sappiamo, si tratta.La lettura può risultare impegnativa, ma rimane stimolante cimentarvisi, cogliendo gli spunti che decodificano il linguaggio del potere odierno: ormai irrevocabilmente divenuto pop.E il bello è che, almeno a guardare la "pubblicita" RAI, questo stesso "pop" punta ora sulTTIP.
Flavio si era detto perplesso sulle conclusioni da dare al post, chiedendomi, in caso, di trovarne una versione. Come vedrete, andando fino alla fine del post, l'ho rinvenuta nelle parole di Ha-Joon Chang (tratte dal suo ultimo libro).
Flavio si era detto perplesso sulle conclusioni da dare al post, chiedendomi, in caso, di trovarne una versione. Come vedrete, andando fino alla fine del post, l'ho rinvenuta nelle parole di Ha-Joon Chang (tratte dal suo ultimo libro).
Concorrenza perfetta o imperfetta? Alcune considerazioni:
1- Il Fatto quotidiano, 21 Novembre 2013:
Privatizzazioni. Letta annuncia piano da 12 miliardi. Sul mercato Eni e Fincantieri. :
“Enrico Letta annuncia il piano di privatizzazioni per battere cassa. “Complessivamente questa operazione di cessione di quote societarie dovrebbe far entrare tra i 10 e i 12 miliardi di euro nelle casse dello Stato”, ha dichiarato il premier, “di cui la metà andrà a ridurre il debito nel 2014 e il resto a ricapitalizzazione della Cassa depositi e prestiti”.
Corriere della Sera, 24 gennaio 2014:
Privatizzazioni,al via Poste e Enav. Il governo punta a incassare 5,8 miliardi
Letta: “Ridurremo il debito dopo sei anni in crescita. Il controllo resta in mano pubblica”. Altre sette cessioni inarrivo:
“Il piano di privatizzazione che durerà almeno un paio d’anni, come stimato dal ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, prevede la cessione di quote di altre sette società controllate dal Tesoro, direttamente o tramite Cassa Depositi e Prestiti ed in un caso da Ferrovie. Si tratta di Eni, il gigante dell’energia nel quale il Tesoro ha partecipazione del 4,34% mentre Cdp (all’80,1% del Tesoro) è presente con il 25,76%. L’intenzione è di procedere con un riacquisto di azioni proprie fino al 10% del capitale; Stm, leader nel mercato dei semiconduttori partecipata indirettamente dal Tesoro tramite la StMicroelectronics Holding di cui ha il 50% (il restante 50% è del francese Fonds strategique d’investissement); Sace, società dei servizi finanziari controllata al 100% da Cassa Depositi e Prestiti; Fincantieri, controllata da Fintecna (al 100% della Cdp) con una quota oltre il 99%; Cdp Reti, veicolo di investimento posseduto al 100% da Cdp. Tag, Trans Austria Gasleitung, strategico perché garantisce circa il 30% delle importazioni nazionali di gas, della quale Cdp ha una quota dell’89%; Grandi stazioni, controllata al 60% da Ferrovie.”.
Repubblica, 02 febbraio 2014:
Letta dagli Emirati arabi: “Privatizzazioni. Piano ambizioso”.
“Nel dettaglio, Letta ha spiegato che “ci sono molte opportunità: la prima è nel campo del trasporto aereo, tra Alitalia e Etihad, che stanno parlando, ma ci sono molte altre opportunità per il manifatturiero avanzato la logistica e investimenti finanziari. Per la prima volta dopo 15 anni in Italia c'è un grande piano di privatizzazioni di circa 12 miliardi di valore”.
Per Letta “è il momento giusto, perché i mercati sono pronti, noi diciamo ai paesi del Golfo che ci sono buone opportunità per privatizzazioni sane: mettiamo sul mercato grandi gruppi come Fincantieri, Poste, Sace. E' un grande passaggio, per noi è l'occasione per tagliare il debito ma anche per attirare investimenti”. Parallelamente “l'Italia possiede alta tecnologia, è essa stessa pronta per investire nel Golfo in logistica e infrastrutture”.
“… ecco che ieri da una riunione al dicastero di via Venti Settembre è giunta una notizia: il Tesoro è pronto a vendere entro l’anno quote di Eni ed Enel.La vendita delle quote secondo Repubblicaavverrà fra “la seconda metà di settembre e fine novembre”, mentre il Sole 24 Ore dice che le “quote dovrebbero arrivare sul mercato tra la fine di ottobre e gli inizi di dicembre”. Tempistica a parte, la sostanza è chiara: il governo Renzi, tramite il Tesoro, venderà sia il 5% di Enel sia circa (il 4,3%) di Eni. L’incasso stimato è di circa 5 miliardi di euro: 2-2,5 miliardi per Enel e circa 3 miliardi per la fetta del Cane a sei zampe.”
Tratto da http://www.formiche.net/2014/08/28/eni-ed-enel-vendi-italia-o-svendi-italia/.
Tratto da http://www.formiche.net/2014/08/28/eni-ed-enel-vendi-italia-o-svendi-italia/.
Privatizzare, liberalizzare, attrarre investimenti esteri.
Queste le cinque parole d’ordine dei governi che da trent’anni a questa parte si succedono alla guida del nostro paese.
Concorrenza, libero mercato, arretramento del perimetro d’azione dello Stato fanno invece da sfondo.
Bisogna aumentare la concorrenza, la nostra economia non è competitiva, nonostante diversi studi (di cui ne riportiamo uno a uso e consumo dei lettori) dicano che si, i problemi ci sono, ma ne abbiamo uno un pochino più grosso da risolvere per sbloccare l’impasse in cui è caduto il paese, dobbiamo ridurre la tassazione e di conseguenza lo si può fare solo tagliando la spesa pubblica. Questi i mantra ripetuti ossessivamente da giornali e tv main-stream asserviti al sistema capitalistico-finanziario.
Queste le cinque parole d’ordine dei governi che da trent’anni a questa parte si succedono alla guida del nostro paese.
Concorrenza, libero mercato, arretramento del perimetro d’azione dello Stato fanno invece da sfondo.
Bisogna aumentare la concorrenza, la nostra economia non è competitiva, nonostante diversi studi (di cui ne riportiamo uno a uso e consumo dei lettori) dicano che si, i problemi ci sono, ma ne abbiamo uno un pochino più grosso da risolvere per sbloccare l’impasse in cui è caduto il paese, dobbiamo ridurre la tassazione e di conseguenza lo si può fare solo tagliando la spesa pubblica. Questi i mantra ripetuti ossessivamente da giornali e tv main-stream asserviti al sistema capitalistico-finanziario.
Ma è davvero così?
Davvero questo è l’unico modo per poter migliorare la nostra situazione? Davvero il solo mercato, lo stesso che ci ha portato fin qui dopo aver abbattuto i muri e tagliato tutti i fili che permettevano allo Stato di ammortizzarne i cicli, potrà portarci fuori dal guado?
Il Direttore Generale della Banca d’ItaliaSalvatore Rossi, nella sua lectio magistralis tenuta per il Premio Donato Menichella a Roma, non ha avuto dubbi:
“Le ragioni del libero mercato attendono ancora pieno riconoscimento nel nostro paese. Ciò deve renderci avvertiti ogni volta che riflettiamo sull’opportunità dell'intervento pubblico nei fatti dell’economia. Lo sviluppo economico lo fanno gli inventori e le imprese, nel libero gioco del mercato. Il primo compito, formidabile, dello Stato è di rendere quel gioco possibile e fluido.”. Lo Stato deve fissare le regole e lasciare che la concorrenza faccia il suo corso, nonostante il Direttore stesso riconosca, parlando del sistema bancario italiano, come i “fallimenti del mercato” abbiano costretto il legislatore a riformare completamente il sistema finanziario nazionale con la Legge Bancaria datata 1936 e ad istituire in un biennio (1932-1933) l’IMI e l’IRI per il salvataggio delle imprese e delle banche in crisi post-depressione. Libero mercato e libera concorrenza quindi in sostituzione ad uno Stato che “non alloca correttamente le risorse”.
Una versione che stride al confronto con la convinzione che al tempo, sia ad A. Beneduce che allo stesso D. Menichella andava consolidandosi, e cioè che: “… i capitalisti privati non fossero in grado, nonostante la compressione dei salari consentita dal regime e i sostegni statali, di portare la grande industria e l’alta finanza fuori dalla crisi… con particolare riguardo al capitale delle banche, si dovette constatare che «non restava quindi che […] riconoscere puramente e semplicemente che lo Stato era il vero padrone delle banche e il vero padrone delle azioni delle industrie possedute dalle banche stesse» (D. Menichella, Le origini dell’I.R.I. e la sua azione nei confronti della situazione bancaria [1944], in Id., Scritti e discorsi scelti…, pp. 127 s.).
Davvero questo è l’unico modo per poter migliorare la nostra situazione? Davvero il solo mercato, lo stesso che ci ha portato fin qui dopo aver abbattuto i muri e tagliato tutti i fili che permettevano allo Stato di ammortizzarne i cicli, potrà portarci fuori dal guado?
Il Direttore Generale della Banca d’ItaliaSalvatore Rossi, nella sua lectio magistralis tenuta per il Premio Donato Menichella a Roma, non ha avuto dubbi:
“Le ragioni del libero mercato attendono ancora pieno riconoscimento nel nostro paese. Ciò deve renderci avvertiti ogni volta che riflettiamo sull’opportunità dell'intervento pubblico nei fatti dell’economia. Lo sviluppo economico lo fanno gli inventori e le imprese, nel libero gioco del mercato. Il primo compito, formidabile, dello Stato è di rendere quel gioco possibile e fluido.”. Lo Stato deve fissare le regole e lasciare che la concorrenza faccia il suo corso, nonostante il Direttore stesso riconosca, parlando del sistema bancario italiano, come i “fallimenti del mercato” abbiano costretto il legislatore a riformare completamente il sistema finanziario nazionale con la Legge Bancaria datata 1936 e ad istituire in un biennio (1932-1933) l’IMI e l’IRI per il salvataggio delle imprese e delle banche in crisi post-depressione. Libero mercato e libera concorrenza quindi in sostituzione ad uno Stato che “non alloca correttamente le risorse”.
Una versione che stride al confronto con la convinzione che al tempo, sia ad A. Beneduce che allo stesso D. Menichella andava consolidandosi, e cioè che: “… i capitalisti privati non fossero in grado, nonostante la compressione dei salari consentita dal regime e i sostegni statali, di portare la grande industria e l’alta finanza fuori dalla crisi… con particolare riguardo al capitale delle banche, si dovette constatare che «non restava quindi che […] riconoscere puramente e semplicemente che lo Stato era il vero padrone delle banche e il vero padrone delle azioni delle industrie possedute dalle banche stesse» (D. Menichella, Le origini dell’I.R.I. e la sua azione nei confronti della situazione bancaria [1944], in Id., Scritti e discorsi scelti…, pp. 127 s.).
Libero mercato e sistema bancario universale, sommate a libera concorrenza e privatizzazioni, tendono a concentrare il mercato ed a renderlo instabile. Avevamo già visto al tempo cosa ciò significhi nelle conclusioni a questo post.
Una domanda a questo punto sorge allora spontanea.
Ma siamo davvero sicuri che la “concorrenza perfetta” sia la panacea di tutti i nostri mali?
Ma siamo davvero sicuri che la “concorrenza perfetta” sia la panacea di tutti i nostri mali?
2- Come si studia in qualsiasi testo di economia industriale, cerchiamo approssimativamente di distinguere due “nozioni” di concorrenza, quella degli economisti neoclassici non marshalliani e quella di Adam Smith.
Per Adam Smith il regime di concorrenza è essenzialmente un mercato dove c’è ampia libertà di entrata di rivali e dove l’avvento di concorrenti, di competitors, provoca di continuo uno stimolo, una selezione delle iniziative che genera una tendenza alla compressione dei prezzi ai costi medi unitari. Sul mercato di concorrenza smithiano esistono molte imprese, ma la ragione per cui questa molteplicità è necessaria a caratterizzare quel tipo di mercato è che l’efficienza nasce dal confronto continuo. La nozione di concorrenza dei classici altro non è che la nozione di gara, di competizione: una gara che lancia sul mercato le energie migliori e le mette al servizio dei consumatori. La loro idea guida è l’evoluzione, la lotta per l’esistenza e l’affermazione del singolo, che genera la selezione e lo sviluppo della società.
Per Adam Smith il regime di concorrenza è essenzialmente un mercato dove c’è ampia libertà di entrata di rivali e dove l’avvento di concorrenti, di competitors, provoca di continuo uno stimolo, una selezione delle iniziative che genera una tendenza alla compressione dei prezzi ai costi medi unitari. Sul mercato di concorrenza smithiano esistono molte imprese, ma la ragione per cui questa molteplicità è necessaria a caratterizzare quel tipo di mercato è che l’efficienza nasce dal confronto continuo. La nozione di concorrenza dei classici altro non è che la nozione di gara, di competizione: una gara che lancia sul mercato le energie migliori e le mette al servizio dei consumatori. La loro idea guida è l’evoluzione, la lotta per l’esistenza e l’affermazione del singolo, che genera la selezione e lo sviluppo della società.
Ma la loro apologia della concorrenza, voleva dire apologia della competizione aperta fra molte imprese.
Furono gli economisti successivi che anatomizzarono le caratteristiche di un sistema di concorrenza cercando di individuarle in un assieme di requisiti strutturali: tante imprese, ciascuna piccola rispetto al mercato e operante a costi crescenti, che vede il prezzo come un dato e non fa nulla per costruirsi la propria domanda.
Furono gli economisti successivi che anatomizzarono le caratteristiche di un sistema di concorrenza cercando di individuarle in un assieme di requisiti strutturali: tante imprese, ciascuna piccola rispetto al mercato e operante a costi crescenti, che vede il prezzo come un dato e non fa nulla per costruirsi la propria domanda.
Essi dimostrarono che vi sono ragioni teoriche per cui, in questo regime, il singolo operatore, facendo il proprio tornaconto, agisce nel senso del massimo vantaggio collettivo. Diedero cosi la dimostrazione scientifica della perfezione dell’equilibrio economico di concorrenza date certe condizioni.
Ma val la pena di sottolineare, come fece Piero Sraffa (che a questo proposito scrisse nel 1926 un saggio divenuto quasi subito famoso), che questo modello di concorrenza (a differenza di quello smithiano) è (il più delle volte) irrealistico: anche in un regime con molte piccole imprese, nella realtà, la preoccupazione di ciascuna è proprio quella di riuscire a vendere il proprio prodotto e quindi di formarsi una propria domanda, una propria clientela; l’impresa non è limitata dal fatto che i suoi costi sono crescenti, ma dal fatto che ad essere limitata è la domanda dei suoi beni, che è decrescente, all’espansione della quantità venduta. E tutti gli sforzi che l’impresa fa, per allargare il proprio mercato, nascono da questa circostanza.
Ma val la pena di sottolineare, come fece Piero Sraffa (che a questo proposito scrisse nel 1926 un saggio divenuto quasi subito famoso), che questo modello di concorrenza (a differenza di quello smithiano) è (il più delle volte) irrealistico: anche in un regime con molte piccole imprese, nella realtà, la preoccupazione di ciascuna è proprio quella di riuscire a vendere il proprio prodotto e quindi di formarsi una propria domanda, una propria clientela; l’impresa non è limitata dal fatto che i suoi costi sono crescenti, ma dal fatto che ad essere limitata è la domanda dei suoi beni, che è decrescente, all’espansione della quantità venduta. E tutti gli sforzi che l’impresa fa, per allargare il proprio mercato, nascono da questa circostanza.
Uno dei “pionieri” della concorrenza monopolistica fu quindi Piero Sraffa, col saggio che si è detto, ma non riconobbe la vera natura del proprio figlio e lo rinnegò. Già Pigou, l’allievo prediletto di Marshall, aveva elaborato la nozione di concorrenza monopolistica e usato questo termine nella sua monumentale opera sull’economia del benessere. Ma tutto era poco chiaro sinchè Sraffa non ebbe sviluppato la sua polemica.
Poco dopo infatti furono scritti, in Inghilterra (sotto l’influenza di Sraffa) e in America, i due libri, rispettivamente di Joan Robinsondi Cambridge e di E. H. Chamberlindi Harvard, dedicati sistematicamente ad un nuovo modello interpretativo dell’economia di mercato con molte piccole imprese: la concorrenza “imperfetta” o “monopolistica”.
L’errore di Sraffa fu di non avere capito una verità banale, cioè che questa concorrenza intrisa di monopolio,che Joan Robinson battezzò come “imperfetta” ed Edward Chamberlin più correttamente, ma ambiguamente, come monopolistica, è la vera concorrenza, in quanto in essa l’impresa ha la sua clientela, quindi ha il risultato delle sue scelte.
Kaldor,successivamente, criticò l’impostazione dei due economisti Robinson e Chamberlin: non di certo per confutare la loro tesi, bensì andando a correggere quei risvolti affrontati secondo la teoria dell’equilibrio marshalliano che oramai era ritenuta anche da lui superata.
Poco dopo infatti furono scritti, in Inghilterra (sotto l’influenza di Sraffa) e in America, i due libri, rispettivamente di Joan Robinsondi Cambridge e di E. H. Chamberlindi Harvard, dedicati sistematicamente ad un nuovo modello interpretativo dell’economia di mercato con molte piccole imprese: la concorrenza “imperfetta” o “monopolistica”.
L’errore di Sraffa fu di non avere capito una verità banale, cioè che questa concorrenza intrisa di monopolio,che Joan Robinson battezzò come “imperfetta” ed Edward Chamberlin più correttamente, ma ambiguamente, come monopolistica, è la vera concorrenza, in quanto in essa l’impresa ha la sua clientela, quindi ha il risultato delle sue scelte.
Kaldor,successivamente, criticò l’impostazione dei due economisti Robinson e Chamberlin: non di certo per confutare la loro tesi, bensì andando a correggere quei risvolti affrontati secondo la teoria dell’equilibrio marshalliano che oramai era ritenuta anche da lui superata.
3- Il fondamento dell’economia libera è quello per cui ciascuno è responsabile delle sue scelte e riceve dagli altri l’equivalente di ciò che dà.
La concorrenza come osservano Walter Eucken -fondatore nel 1948 della rivista economica “Ordo”, che ebbe grande eco in Germania, e padre del cosiddetto Ordoliber(al)ismo, (nato come idea nel 1937, e della dottrina dell’Economia sociale di mercato ) –e Friedrich Lutz, è un fatto dinamico; il modello dellapura concorrenza, in quanto implica un perfetto equilibrio, è invece statico e quindi nega la concorrenza come realtà dinamica.
La concorrenza cosiddetta pura nel senso dei neoclassici non è quindi mai esistita. Per l’uomo d’affari e per l’uomo della strada, da che mondo è mondo, quando un’impresa manda in giro dei rappresentanti per indurre il pubblico ad acquistare i suoi prodotti anziché quelli di altri, o quando essa fa pubblicità per cercare di farsi un nome migliore di quello degli altri, fa “concorrenza”.
La concorrenza come osservano Walter Eucken -fondatore nel 1948 della rivista economica “Ordo”, che ebbe grande eco in Germania, e padre del cosiddetto Ordoliber(al)ismo, (nato come idea nel 1937, e della dottrina dell’Economia sociale di mercato ) –e Friedrich Lutz, è un fatto dinamico; il modello dellapura concorrenza, in quanto implica un perfetto equilibrio, è invece statico e quindi nega la concorrenza come realtà dinamica.
La concorrenza cosiddetta pura nel senso dei neoclassici non è quindi mai esistita. Per l’uomo d’affari e per l’uomo della strada, da che mondo è mondo, quando un’impresa manda in giro dei rappresentanti per indurre il pubblico ad acquistare i suoi prodotti anziché quelli di altri, o quando essa fa pubblicità per cercare di farsi un nome migliore di quello degli altri, fa “concorrenza”.
Per i neoclassici si ha regime di concorrenza in quanto il prezzo di mercato è assunto come un dato e, a quel prezzo, qualsiasi offerente può vendere tutto quel che vuole: si ferma solo quando i suoi costi – che si pensa siano crescenti al crescere della quantità prodotta – superano il prezzo.
Innanzitutto, è ovvio che se le imprese sentono il bisogno di agire per rubarsi i clienti a vicenda, non è vero che il prezzo è un dato e che, a quel prezzo, ciascuno può vendere ciò che vuole; non è vero che le imprese rimangono (eventualmente) piccole a causa dei costi crescenti, ma a causa delle difficoltà, connesse alla limitazione di domanda di ciascuna e di altri ostacoli.
Ma se il prezzo non è un dato, l’impresa può manovrarlo, ha cioè un potere di mercato, seppur limitato. Vi è qualcosa di monopolistico. Un fattore che sfuggì sia a Sraffa, che alla Robinson, che a Chamberlin è che il principale ostacolo alla crescita delle imprese è dato dalla limitatezza del capitale che gli imprenditori riescono a raccogliere e dal fatto che le energie e le capacità organizzative e tecniche imprenditoriali non sono senza limiti.
Innanzitutto, è ovvio che se le imprese sentono il bisogno di agire per rubarsi i clienti a vicenda, non è vero che il prezzo è un dato e che, a quel prezzo, ciascuno può vendere ciò che vuole; non è vero che le imprese rimangono (eventualmente) piccole a causa dei costi crescenti, ma a causa delle difficoltà, connesse alla limitazione di domanda di ciascuna e di altri ostacoli.
Ma se il prezzo non è un dato, l’impresa può manovrarlo, ha cioè un potere di mercato, seppur limitato. Vi è qualcosa di monopolistico. Un fattore che sfuggì sia a Sraffa, che alla Robinson, che a Chamberlin è che il principale ostacolo alla crescita delle imprese è dato dalla limitatezza del capitale che gli imprenditori riescono a raccogliere e dal fatto che le energie e le capacità organizzative e tecniche imprenditoriali non sono senza limiti.
L’equivoco sul concetto vero di concorrenza è stato facilitato, fra gli economisti, dal modo poco chiaro con cui Alfred Marshall, la cui fama e popolarità raggiunse quella di Adam Smith, teorizzò la concorrenza.
Nei Principi di economia di Marshallè difficile dire se sia accolto il concetto tradizionale, di Adam Smith o quello dei neoclassici, per quel che riguarda la concorrenza. Ai più, sembrò che Marshall descrivesse la concorrenza con uno schema eguale a quello dei neoclassici continentali. Tanto che, quando Sraffa scrisse il saggio in cui contestava il modello neoclassico di concorrenza, egli lo fece in polemica con la tradizione marshalliana. Rileggendo ora Marshall, a un secolo di distanza, ci si accorge che il pensiero di Marshall sulla concorrenza è un pensiero che svolgeun sottile e paziente lavoro di conciliazione fra la competizione di memoria smithiana e la concorrenza dei neoclassici, e che prepara la via a una revisione profonda. La concorrenza di Marshall in realtà è intrisa di elementi di imperfezione che, con linguaggio odierno, possono essere definiti di “concorrenza monopolistica”...
Nei Principi di economia di Marshallè difficile dire se sia accolto il concetto tradizionale, di Adam Smith o quello dei neoclassici, per quel che riguarda la concorrenza. Ai più, sembrò che Marshall descrivesse la concorrenza con uno schema eguale a quello dei neoclassici continentali. Tanto che, quando Sraffa scrisse il saggio in cui contestava il modello neoclassico di concorrenza, egli lo fece in polemica con la tradizione marshalliana. Rileggendo ora Marshall, a un secolo di distanza, ci si accorge che il pensiero di Marshall sulla concorrenza è un pensiero che svolgeun sottile e paziente lavoro di conciliazione fra la competizione di memoria smithiana e la concorrenza dei neoclassici, e che prepara la via a una revisione profonda. La concorrenza di Marshall in realtà è intrisa di elementi di imperfezione che, con linguaggio odierno, possono essere definiti di “concorrenza monopolistica”...
Il mercato con tante imprese piccole rispetto a esso, può essere – e generalmente è – intriso di elementi monopolistici, nel senso che ciascun rivale tende a costruirsi, a conservare ed a potenziare la sua particolare sfera di influenza, dove esercita il suo particolare potere di mercato. Anche qui, come nella competizione di Smith, vi è la gara. Ed i costi per l’industria sono decrescenti mentre, per la singola impresa che vi partecipa, sono, nel periodo di tempo dato, crescenti. Le curve dei costi delle singole imprese però tendenzialmente si abbassano nel tempo e in questo senso anche le singole imprese hanno costi decrescenti.
4- Ma le illazioni di Smith, sugli effetti benefici della competizione, appaiono molto discutibili. Per fare un esempio facilmente comprensibile, si può guardare al mercato al minuto dei generi alimentari. Entrando in campo nuovi piccoli negozi, l’apparato distributivo diviene sempre più pletorico e i divari fra prezzi e costi d’acquisto aumentano. La gara c’è, ma con effetti diversi.
KnutWicksell, uno fra i più acuti economisti neoclassici, aveva chiaramente visto questo problema e aveva scritto: “Non dobbiamo dimenticare che, praticamente ogni venditore al minuto possiede, nel suo cerchio immediato di clienti, ciò che possiamo chiamare un effettivo monopolio di vendita, anche se esso, come presto vedremo, è basato soltanto sull’ignoranza e sulla mancanza di organizzazione dei compratori.
Egli non può, naturalmente, come un vero monopolista elevare i prezzi a piacimento – soltanto in luoghi lontani dai centri di commercio può avvenire un considerevole aumento locale dei prezzi – ma, se egli mantiene gli stessi prezzi e le stesse qualità dei suoi concorrenti, può quasi sempre contare sulla concorrenza dei suoi immediati vicini. Non raramente ne risulta un eccesso di venditori al minuto apparentemente a vantaggio, ma in realtà a danno dei consumatori. Se, per esempio, due negozi della stessa specie sono situati alle due estremità della stessa strada, è naturale che i loro rispettivi mercati si incontrerebbero a metà strada. Ora se un nuovo negozio della stessa specie viene aperto a metà della via, ciascuno degli altri presto o tardi dovrà cedere alcuni suoi clienti al nuovo concorrente, perché la gente che abita verso la metà della strada, se potrà comprare le stesse merci allo stesso prezzo, crederà di risparmiare tempo e fatica facendo gli acquisti nel negozio più vicino.
Egli non può, naturalmente, come un vero monopolista elevare i prezzi a piacimento – soltanto in luoghi lontani dai centri di commercio può avvenire un considerevole aumento locale dei prezzi – ma, se egli mantiene gli stessi prezzi e le stesse qualità dei suoi concorrenti, può quasi sempre contare sulla concorrenza dei suoi immediati vicini. Non raramente ne risulta un eccesso di venditori al minuto apparentemente a vantaggio, ma in realtà a danno dei consumatori. Se, per esempio, due negozi della stessa specie sono situati alle due estremità della stessa strada, è naturale che i loro rispettivi mercati si incontrerebbero a metà strada. Ora se un nuovo negozio della stessa specie viene aperto a metà della via, ciascuno degli altri presto o tardi dovrà cedere alcuni suoi clienti al nuovo concorrente, perché la gente che abita verso la metà della strada, se potrà comprare le stesse merci allo stesso prezzo, crederà di risparmiare tempo e fatica facendo gli acquisti nel negozio più vicino.
Tuttavia questo è un errore perché i negozi originari, che hanno perso ormai alcuni dei loro clienti senza potere ridurre le loro spese generali in misura corrispondente, saranno gradatamente obbligati ad alzare i prezzi– e lo stesso faranno i nuovi concorrenti, che hanno dovuto, sin dall’inizio, accontentarsi di un giro di affari minore. Questo dovrebbe spiegare l’osservazione che si dice sia stata fatta sull’abolizione del dazio di consumo – e cioè che l’attesa diminuzione dei prezzi non ebbe mai luogo, benché fosse aumentato considerevolmente il numero dei venditori al minuto”.
Se la concorrenza che si ha nel mondo reale non è quella dei neoclassici, ma quella, generica, smithiana, allora non vi è ragione per presumere che debba prevalere sempre il modello ottimistico di effetti della competizione, di Smith, rispetto a quelli che si traggono dagli scritti di Wicksell, di Sraffa, Joan Robinson e Edward Chamberlin sulla concorrenza monopolistica. Ma allora una serie di argomenti a favore del mercato di pura concorrenza cade.
6- Cade la dimostrazione (possibile, entro certe condizioni, per la concorrenza pura dei neoclassici) che in questo mercato, ciascuno operando secondo il proprio tornaconto, fa il massimo vantaggio per la collettività, in quanto i prezzi vengono sospinti dalla “gara” fra offerenti ai costi medi unitari minimi del settore e in quanto la domanda del consumatore viene “registrata” (e non già manipolata) dall’offerta che vi si adegua (nel modo più efficiente, che è appunto la vendita al minimo costo medio unitario).
In concorrenza monopolistica invece:
a) le imprese non riescono a raggiungere la dimensione ottima ma vendono al di sopra del minimo costo medio unitario;
b)non vi è una selezione fra imprese tale da fare prevalere quelle che hanno i minimi costi medi perché ciascuna si può scavare la sua nicchia e perché ciascuna può manipolare la sua domanda e quindi eccellere non per l’abilità nel “servire” la domanda data ma nel fare i propri affari, giocando sulle imperfette conoscenze e sulla influenzabilità del consumatore;
c) la domanda non è un “fatto naturale” anteriore all’offerta, ma risulta modificata dal gioco di questa sicché non si può dire che il mercato “fa la volontà del consumatore” se non dopo aver chiarito che questi, a sua volta, è frastornato dalla pubblicità e confuso dalla mancata conoscenza di una serie di elementi che riguardano le vere qualità dei prodotti e dall’impossibilità di far valere realmente ciò che desidererebbe, non sapendo dove cercarlo.
Queste critiche le capisce benissimo chi ricorda come, prima dell’avvento degli esercizi dei supermercati, funzionava in Italia la rete di distribuzione dei generi alimentari, caratterizzata da una miriade di piccole imprese che vendevano, ciascuna, poca roba e, con questo ridotto fatturato, dovevano coprire una quantità di spese fisse. Un fruttivendolo doveva guadagnare tanto su due o tre ceste di frutta e verdura che smaltiva ogni giorno, da camparci lui con tutta la numerosa famiglia.
Né questa molteplicità d’imprese che generava prezzi alti e crescenti sviluppava una gara, sul lato della qualità dei prodotti. Il consumatore era quasi sempre privo di una reale possibilità di scelta autonoma e consapevole. Si pensi poi a quel che accadeva per mercati come quello delle bevande analcoliche come la Coca Cola, ove il costo industriale della merce è quasi nullo in confronto all’enorme costo di distribuzione dovuto alla pubblicità e alla rete di vendita necessaria per imporre il prodotto. Il consumatore non sembra il “re” dell’economia di mercato. Vi sono severi dubbi che esso abbia mai regnato, veramente, in quella rete distributiva. Stenta a difendersi non solo dagli “imperi” delle grandi imprese industriali, ma anche dai piccoli e pur fastidiosissimi “ducati” e “contee” che affollavano la rete della distribuzione. In modi diversi, queste forze allontanavano il mercato dal servizio al consumatore.
Né questa molteplicità d’imprese che generava prezzi alti e crescenti sviluppava una gara, sul lato della qualità dei prodotti. Il consumatore era quasi sempre privo di una reale possibilità di scelta autonoma e consapevole. Si pensi poi a quel che accadeva per mercati come quello delle bevande analcoliche come la Coca Cola, ove il costo industriale della merce è quasi nullo in confronto all’enorme costo di distribuzione dovuto alla pubblicità e alla rete di vendita necessaria per imporre il prodotto. Il consumatore non sembra il “re” dell’economia di mercato. Vi sono severi dubbi che esso abbia mai regnato, veramente, in quella rete distributiva. Stenta a difendersi non solo dagli “imperi” delle grandi imprese industriali, ma anche dai piccoli e pur fastidiosissimi “ducati” e “contee” che affollavano la rete della distribuzione. In modi diversi, queste forze allontanavano il mercato dal servizio al consumatore.
Va però ricordato che le licenze del commercio erano fortemente contingentate sia per la piccola che per la grande distribuzione. Pertanto questo quadro non riguardava il mercato libero di concorrenza, in cui gli operatori più efficienti che entrano sul mercato eliminano i meno efficienti e obbligano coloro che praticano margini troppo elevati ad abbassare i prezzi. In particolare con la liberalizzazione sia pure parziale delle licenzeè entrata in campo la grande distribuzione e si è avuto un continuo rinnovamento della rete distributiva. In ogni caso, se il mercato di concorrenza reale, compreso quello che abbiamo appena descritto, espressione di un modello dirigista, non era ottimale, era di gran lunga migliore.
In generale, in economia, come in politica, la ricerca del perfezionismo è sbagliata e pericolosa. Il mondo reale è fatto di persone imperfette, con razionalità limitata. Bisogna ricercare il sistema che dà luogo alla miglior soluzione possibile, l’ottimo fattibile, non quello astratto.
Già ai primi dello scorso secolo era sempre più chiaro che, in molti settori, la concorrenza, come molteplicità d’imprese molto piccole, andava lasciando il posto alla concentrazione e al dominio di una o poche imprese: cioè al monopolio e all’oligopolio. Da allora di monopolio e oligopolio si è parlato sempre più. Ed oggi l’oligopolio,da molti è considerato, per le economie capitaliste più avanzate, in particolare in quella degli Usa, la situazione di mercato prevalente.
Quindi, la concorrenza perfetta ed il monopolio, paradossalmente assunti come pietra miliare del pensiero economico classico (più la prima che il secondo), nella realtà rappresentano due casi limite seppur agli antipodi. Le forme di mercato più vicine alla realtà sono quindi la concorrenza imperfetta o monopolistica e l’oligopolio, e gli assunti che dominano nella realtà secondo certi economist ortodossi ed eterodossi sono “agents don’t optimise, markets don’t clear,expectations aren’t rational”, “the prices are sticky due to administered prices, mark up prices, full costprices” e, “Even if there were perfectly flexiblewages and prices, there could still be failures of aggregate demand (Davidson 1992).” .
E se la concorrenza perfetta è questa qui, beh, sorge più di qualche dubbio sul fatto della sua sostenibilità nel lungo periodo…
E se la concorrenza perfetta è questa qui, beh, sorge più di qualche dubbio sul fatto della sua sostenibilità nel lungo periodo…
6- Un po’ di storia: la critica di Sraffa.
http://w3.uniroma1.it/marcuzzo/pdf/Introduzione%20Joan%20Robinson.pdfL’economia che si insegnava a Cambridge nel primo dopoguerra era impostata suiPrincipi marshalliani e basata sull’evoluzione dell’impresa familiare di stampo vittoriano e sulla teoria quantitativa.
Erano gli anni del laissez faire (emblematiche le parole di Joan Robinson“For fifty years before 1914 the established economists of various schools had all been preaching one doctrine, with great self-confidence and pomposity – the doctrine of laissez faire, the beneficial effects of the free play of market forces. In the English-speaking world, in particular, free trade and balanced budgets were all that was required of government policy. Economic equilibrium would always establish itself. These doctrines were still dominant in the 1920’s.”), del ritorno della Gran Bretagna al Gold Standard imposto dal Primo Ministro Winston Churchill e dell’arrivo a Cambridge di Piero Sraffa.
Fu l’italiano infatti il precursore, con un articolo del 1926, della critica che negli anni successivi colpì il “vecchio” modo di intendere l’economia. Sraffa infatti criticava la teoria del valore marshalliana e le fondamenta della sua costruzione, la determinazione di prezzi e quantità in base all’idea di due forze simmetriche (domanda e offerta), in quanto a suo avviso riflettevano una teoria lontana dalla realtà. Di più: l’economista italiano affermava che era giunto il momento di abbandonare l’ipotesi che i mercati fossero governati dalle forze della concorrenza e presupporre invece che le imprese avessero ciascuna un proprio mercato, per effetto di differenze sui costi di trasporto, di vendita da un lato e delle differenze nelle preferenze dei consumatori dall’altro. Si doveva quindi partire, analizzando il mercato, non più da un’ipotesi di concorrenza perfetta, bensì al suo opposto, dal concetto che i mercati, essendo creazione dell’uomo, potevano essere imperfetti.
Erano gli anni del laissez faire (emblematiche le parole di Joan Robinson“For fifty years before 1914 the established economists of various schools had all been preaching one doctrine, with great self-confidence and pomposity – the doctrine of laissez faire, the beneficial effects of the free play of market forces. In the English-speaking world, in particular, free trade and balanced budgets were all that was required of government policy. Economic equilibrium would always establish itself. These doctrines were still dominant in the 1920’s.”), del ritorno della Gran Bretagna al Gold Standard imposto dal Primo Ministro Winston Churchill e dell’arrivo a Cambridge di Piero Sraffa.
Fu l’italiano infatti il precursore, con un articolo del 1926, della critica che negli anni successivi colpì il “vecchio” modo di intendere l’economia. Sraffa infatti criticava la teoria del valore marshalliana e le fondamenta della sua costruzione, la determinazione di prezzi e quantità in base all’idea di due forze simmetriche (domanda e offerta), in quanto a suo avviso riflettevano una teoria lontana dalla realtà. Di più: l’economista italiano affermava che era giunto il momento di abbandonare l’ipotesi che i mercati fossero governati dalle forze della concorrenza e presupporre invece che le imprese avessero ciascuna un proprio mercato, per effetto di differenze sui costi di trasporto, di vendita da un lato e delle differenze nelle preferenze dei consumatori dall’altro. Si doveva quindi partire, analizzando il mercato, non più da un’ipotesi di concorrenza perfetta, bensì al suo opposto, dal concetto che i mercati, essendo creazione dell’uomo, potevano essere imperfetti.
La nuova teoria della concorrenza stava prendendo forma. Nel 1929 Joan Robinson incontra uno studente strappato alla Fisica da Keynes, tale Richard Ferdinand Kahn, il cui insegnante era Gerald Frank Shove, che al tempo stava studiando la riproposizione della teoria marshalliana del valore e della distribuzione.
L’influenza di quest’ultimo sulla Robinson e su Kahn fu importante: egli infatti, pensatore insicuro e schivo ma che esercitò notevole influenza durante le sue lezioni a Cambridge, riteneva importantissima la storia delle imprese tanto da affermare, in un articolo del 1930, che “il problema economico che si presenta nel mondo reale” ha più a che fare con “un mosaico da ricomporre” piuttosto che “la soluzione di un problema di idraulica”.
Il 1929è un anno importante per la scuola di Cambridge: Keynes sostiene a gran voce il programma di lavori pubblici presentato dal partito liberale, utilizza per le sue lezioni le bozze del Trattato sulla moneta pubblicato un anno dopo, mentre nel 1931, anno del crollo del gold standard e del sistema monetario vigente al tempo, prende parte al McMillan Committee, comitato per la ricerca delle cause della depressione inglese, nel cui Report finale, secondo alcuni, si trova la prima formulazione del principio keynesiano che è il livello del reddito a portare in equilibrio risparmio ed investimento.
In quest’ultimo anno la Robinson si trova impegnata su due fronti: il primo riguarda la nuova teoria della concorrenza, il secondo una nuova teoria della produzionesviluppata in stretta collaborazione con Richard Kahn (L. Pasinetti afferma che la rivoluzione teorica compiuta da Keynes e dai suoi colleghi è la fondazione di un nuovo paradigma, basato sulla produzione e contrapposto a quello basato sullo scambio dei neoclassici).
In quest’ultimo anno la Robinson si trova impegnata su due fronti: il primo riguarda la nuova teoria della concorrenza, il secondo una nuova teoria della produzionesviluppata in stretta collaborazione con Richard Kahn (L. Pasinetti afferma che la rivoluzione teorica compiuta da Keynes e dai suoi colleghi è la fondazione di un nuovo paradigma, basato sulla produzione e contrapposto a quello basato sullo scambio dei neoclassici).
Il dibattito sulle due teorie germoglia a Cambridge negli anni Venti perché sostanzialmente i keynesiani non avevano trovato risposta a diversi quesiti che la teoria marshalliana lasciava scoperti. Cioè, in una domanda, non si capiva ancora se nell’impostazione di Marshall l’equilibrio di concorrenza da una parte e i rendimenti crescenti e decrescenti dall’altra erano “ipotesi contradditorie”. John Harold Clapham nel 1922 aveva definito che i concetti di industrie a rendimenti decrescenti, costanti, crescenti erano delle scatole vuote prive di contenuto empirico.
Pigou invece, difendendo tale impostazione, ammise che tali concetti appartenevano a quel tipo di conoscenza realistica che non aveva alcuna utilità pratica; tuttavia era un fatto che “la produzione in aggregato e il costo di offerta stavano in un rapporto variabile l’uno all’altro”.
Nel 1925 Sraffa si unì con impeto al dibattito. L’ipotizzata interdipendenza fra costi e quantità, egli affermava, è il risultato del punto di vista assunto dagli economisti dopo aver adottato la Teoria dell’utilità marginale Per prima cosa l’utilità venne concepita come dipendente dalla quantità di beni disponibili poi, attraverso l’analisi marginale, si stabilì relazione inversa fra prezzo e quantità. Passo successivo fu lo sviluppo di un concetto asimmetrico che metteva in relazione i costi alla quantità prodotta al fine di stabilire la marshalliana “simmetria fondamentale” delle curve di domanda e di offerta nella determinazione dei prezzi relativi. Così l’ipotesi di non proporzionalità fra costi e livelli di produzione era la condizione perché l’offerta e la domanda avessero lo stesso ruolo nella determinazione dei prezzi relativi: infatti se i costi non fossero stati resi dipendenti dalla quantità prodotta non vi sarebbe potuta essere simmetria e il prezzo dei beni sarebbe dipeso esclusivamente dalle spese del processo produttivo e la domanda avrebbe esercitato influenza solo sulle quantità e non sui prezzi, come sostenevano gli economisti classici.
Sraffa dunque affermava che l’ipotesi di proporzionalità tra costo e unità prodotta era:
a) l’ipotesi corretta da cui derivare una teoria generale dei prezzi in condizioni di concorrenza
b) un’approssimazione della realtà che richiedeva di essere integrata con lo studio dei meccanismi effettivi di formazione dei prezzi.
Sraffa non contestava a Marshall e Pigou l’idea che la relazione non proporzionale tra costo e quantità fosse una questione di fatto, ma negava che fosse una buona ipotesi da cui derivare una teoria dei prezzi in regime di concorrenza. Sraffa preferiva l’ipotesi di Ricardo (costi costanti) a quella di Marshall (costi variabili) perché nell’analisi di quest’ultimo i costi crescenti e decrescenti vengono entrambi spiegati da:
a) cambiamenti nelle proporzioni delle quantità dei fattori impiegati da un’impresa quando la sua produzione totale varia
b) da variazioni nella produzione totale dell’industria.
Ma, come l’italiano argomenta, queste due condizioni sono indipendenti perché il caso dei costi crescenti (rendimenti descrescenti) nasce da a) nonostante l’influenza di b) mentre nel caso dei costi descrescenti (rendimenti crescenti) è il risultato di b) nonostante a).
La variabilità delle proporzioni, che si verifica “mantenendo uno costante mentre si aumenta l’altro” dipende dall’ipotesi di alta sostituibilità dei fattori. Una volta ammessa l’esistenza di un ordine determinato di combinazioni di fattori in scala discendente di efficienza, se all’aumentare della produzione è necessario passare dalla combinazione più efficiente a quella meno efficiente, la produttività decresce, e si avranno costi crescenti.
Il principio della produttività decrescente si riflette sulla curva di offerta di un’industria, che rappresenta per ogni quantità di merce il prezzo necessario perché quella quantità sia prodotta. Se l’industria fosse come un’unica impresa che impiega la totalità del fattore costante e quantità crescenti degli altri fattori, la curva del costo marginale di questa ipotetica impresa sarebbe la rappresentazione della curva di offerta aggregata dell’industria. Tuttavia, in concorrenza perfetta, ci sono molte imprese all’interno di un’industria e ciascuna raggiunge l’equilibrio in modo indipendente. Come si fa quindi a stabilire il rapporto di equilibrio tra quello dell’impresa e quello dell’industria? Marshall risolve la questione spostando il vincolo delle disponibilità dei fattori dal settore industria a quello della singola impresa. Con un ipotetico numero di imprese fisse e che non possano aumentare la quantità di fattore costante impiegata dall’industria, si riesce a mostrare che ogni impresa di fatto ha una curva del costo marginale crescente, ma in questo modo si sacrifica la plausibilità della spiegazione dei costi crescenti all’ipotesi della concorrenza.
Diversamente accade per i costi decrescenti: all’aumentare della produzione di un’impresa, il costo unitario diminuisce. Vi sono due ragioni che lo spiegano: la prima è che diventano disponibili metodi di produzione più efficientiall’aumentare della dimensione dell’impresa, come le economie interne dovute per esempio all’accresciuta divisione del lavoro. In questo caso il costo marginale tende a diminuire ed il costo medio unitario decresce. La seconda ragione è l’esistenza dei costi fissi che tendono a rimanere costanti o ad aumentare meno che proporzionalmente all’espandersi della produzione, per il cui costo medio unitario decresce, anche se il costo marginale rimane costante.
Ma, se si ammette che all’aumentare della produzione e quindi della dimensione della singola impresa, i costi decrescano, l’ipotesi di concorrenza perfetta non può essere mantenuta, perché non c’è ragione di non supporre che l’impresa continui ad aumentare la produzione fino a diventare il produttore monopolistico di quel mercato.
La conclusione dell’argomentazione di Sraffa era che le condizioni a cui deve sottostare la curva di offerta marshalliana erano troppo restrittive.
Aggiunse poi altri punti: il primo è la considerazione esplicita dei limiti della costruzione della curva di offerta basata sulla legge dei rendimenti decrescenti attraverso il metodo degli equilibri parziali. Se l’aumento nell’impiego di un fattore provoca un aumento del suo prezzo e quindi un aumento più che proporzionale nei costi necessari per produrre quella merce, lo stesso deve accadere per tutte le merci nella cui produzione quel fattore viene impiegato. Supponendo che le merci che impiegano lo stesso fattore siano sostituti, ne consegue che variazioni di prezzo dei sostituti di tale merce influenzeranno la domanda totale di quella merce. Se d’altra parte si suppone che l’aumento di costo sia trascurabile, perché l’industria impiega solo una piccola frazione di fattore costante, vi saranno da prendere in considerazione gli effetti sul costo di tutte le industrie che impiegano quel fattore. Pertanto, Sraffa affermava: “Se si prende in considerazione la produttività decrescente che sorge da un fattore costante, si rende necessario estendere il campo delle indagini in modo da considerare le condizioni dell’equilibrio simultaneo di numerose industrie…”.
Aggiunse poi altri punti: il primo è la considerazione esplicita dei limiti della costruzione della curva di offerta basata sulla legge dei rendimenti decrescenti attraverso il metodo degli equilibri parziali. Se l’aumento nell’impiego di un fattore provoca un aumento del suo prezzo e quindi un aumento più che proporzionale nei costi necessari per produrre quella merce, lo stesso deve accadere per tutte le merci nella cui produzione quel fattore viene impiegato. Supponendo che le merci che impiegano lo stesso fattore siano sostituti, ne consegue che variazioni di prezzo dei sostituti di tale merce influenzeranno la domanda totale di quella merce. Se d’altra parte si suppone che l’aumento di costo sia trascurabile, perché l’industria impiega solo una piccola frazione di fattore costante, vi saranno da prendere in considerazione gli effetti sul costo di tutte le industrie che impiegano quel fattore. Pertanto, Sraffa affermava: “Se si prende in considerazione la produttività decrescente che sorge da un fattore costante, si rende necessario estendere il campo delle indagini in modo da considerare le condizioni dell’equilibrio simultaneo di numerose industrie…”.
La novità più grande dell’articolo del 1926 è il suggerimento di “abbandonare la via delle libera concorrenza e rivolgerci nella direzione opposta, cioè verso il monopolio”.L’irrealismo delle ipotesi di concorrenzaè riassunto in due punti: “Primo, l’idea che il produttore concorrente non possa deliberatamente influire sul prezzo di mercato e che quindi lo possa considerare come costante qualunque sia la quantità della merce che egli individualmente getti sul mercato; secondo, l’idea che ciascuno dei produttori in concorrenza debba produrre normalmente in condizioni di costi individuali crescenti”.
L’invito dunque era di prendere in considerazione la zona intermedia tra il caso della pura concorrenza e il caso del monopolio, perché più adeguata a descrivere le condizioni di fatto di molte industrie. Costi decrescenti individuali, invece che costi crescenti, costituiscono la regola.
La seconda lezione “quotidiana” è che i produttori non possono vendere qualunque quantità al dato prezzo di mercato, ma riducono i prezzi per riuscire a vendere quantità maggiori di prodotto.
E’, quindi, come se ciascun produttore avesse di fronte a sé una curva di domanda decrescente e ogni curva potesse essere artificialmente aumentata.
Il mercato generale di ciascuna merce è come una serie di mercati distinti, definiti da un insieme di preferenze, espresse da un gruppo di compratori, verso un’impresa particolare. All’interno del mercato quindi, come in un mercato monopolistico, ciascun produttore può fissare il prezzo a cui vendere la propria produzione, avendo come vincolo esclusivamente l’elasticità della domanda verso il suo prodotto. Essa quindi misura il “grado di indipendenza che un monopolista ha nel fissare i suoi prezzi: quanto meno elastica è la domanda per il suo prodotto, tanto più grande è il suo dominio sul suo mercato”.
L’esistenza di condizioni monopolistiche, cioè di costi decrescenti, è confermata dall’esperienza quotidiana che mostra come di fatto le imprese non trovino limiti all’espandere della produzione dal lato dei costi, bensì da quello della domanda.
L’esistenza di un mercato perfetto richiede invece “una domanda illimitata, al prezzo corrente, per i prodotti di ciascuno”. Solo i costi costanti tuttavia sono conformi a questa opzione, ciò perché da un lato il caso dei rendimenti decrescenti porta a qualche forma di monopolio e, dall’altro, il caso dei costi crescenti non può essere provato nel contesto di un’analisi parziale. Abbandonando l’idea della concorrenza, si è costretti a lasciare da parte anche quella dei costi costanti. Spezzata l’idea di “unità del mercato”, si abbandona pertanto anche l’ipotesi di elasticità infinita della domanda, ovvero della perfetta sostituibilità dei prodotti delle imprese all’interno di ogni industria, incorporando altresì il fatto che nella realtà ci sono gradi diversi di sostituibilità. Ogni impresa ha di fronte così una curva di domanda per il proprio prodotto negativamente inclinata.
In conclusione, se i mercati sono imperfetti, allora la determinazione dei prezzi e delle quantità di equilibrio non può valersi della teoria della concorrenza ma deve utilizzare quella del monopolio.
In conclusione, se i mercati sono imperfetti, allora la determinazione dei prezzi e delle quantità di equilibrio non può valersi della teoria della concorrenza ma deve utilizzare quella del monopolio.
7- La depressione degli anni ’20: il caso di Richard Kahn.
Chi raccolse la “sfida” lanciata da Sraffa fu Richard Ferdinand Kahn. Ciò che Kahn fece fu seguire questo filone, ed osservò il comportamento delle imprese durante la depressione degli anni Venti in Inghilterra: analizzando i modi in cui le singole imprese (soprattutto di cotone e carbone) reagivano alla caduta della domanda, egli scoprì che era pratica comune chiudere l’impianto per qualche giorno, all’incirca una settimana, per poi riaprire a pieno regime. Ciò stava a significare, contrariamente a quanto affermava la teoria della concorrenza perfetta, che non erano solo le imprese inefficienti a lavorare a un livello inferiore rispetto alla piena capacità produttiva bensì anche quelle “efficienti” e che le stesse imprese, quando la domanda scarseggiava, reagivano a tale ostacolo diminuendo la produzione invece dei prezzi.
Non tanto per non “rovinare il mercato”, quanto per minimizzare le perdite o massimizzare i profitti riducendo il livello della produzione.
Il terreno era pronto per dimostrare che il caso generale, invece della piena utilizzazione dei mezzi di produzione, era invece il loro utilizzo al di sotto della loro capacità.
La chiave della spiegazione sta nel fatto dell’analisi dei costi quasi-fissi e dei costi primi (differenza fra costi totali e costi quasi – fissi) che costituiscono i costi più rilevanti nel breve periodo.
Se le imprese lavoravano a tempo pieno solo alcuni giorni, ciò stava a significare che quello era il metodo più vantaggioso per massimizzare i profitti o minimizzare le perdite.
Si intuisce quindi che il costo primo medio ha un andamento particolare, cioè è costante fino al punto corrispondente alla piena capacità produttiva, in cui diventa infinito. Ma la forma a L rovesciata delle curve di costo primo medio (e marginale) di breve periodo mantenendo l’ipotesi di concorrenza perfetta, vale a dire ipotizzando la curva di domanda dell’impresa perfettamente elastica, implica che prezzo e quantità prodotta dalla singola impresa siano determinati in corrispondenza del livello di piena utilizzazione degli impianti. Inglobando al contrario l’ipotesi di concorrenza imperfetta, cioè che ciascuna impresa si trovi di fronte ad un proprio mercato particolare e quindi a una curva di domanda individuale negativamente inclinata, il livello di produzione di equilibrio può essere inferiore a quello di piena utilizzazione degli impianti.
8- Conclusioni
Ci è parso interessante concludere fornendo un quadro più "contemporaneo" delle condizioni del mercato, andando direttamente ed evidenziare chi siano i mitici "operatori", cioè il tipo di impresa che, prevalentemente, compone l'offerta, e dal cui tipico "decision-making", ormai divenuto"struttura mondializzata", deriva, senza mitologiche ipotesi si scuola, l'effettivo funzionamento del mercato.
Per farlo ho riassunto, in libera traduzione, alcune pagine (174-178) del libro di Ha-Joon Chang "Economics: The User's Guide", di cui vi ho già parlatoqui.
"Oggi i più importanti produttori sono grandi corporations, che impiegano centinaia di migliaia se non milioni di lavoratori, in dozzine di paesi.
Le maggiori 200 corporations del mondo producono messe insieme intorno al 10% del prodotto mondiale. Si stima che dal 30 al 50% del commercio internazionale dei beni manifatturati sia attualmente un commercio interno ai gruppi, ovvero un commercio di trasferimenti di inputs e outputs interni alla stessa impresa Multinazionale o Transnazionale, con operazioni in più Stati diversi.
L'esito finale dell'attività dello stabilimento dei motori Toyota in Chonburi, Thailandia, che vende il proprio prodotto alle fabbriche di assemblaggio Toyota in Giappone o Pakistan, può essere contabilizzato come export Thailandese a tali paesi, ma queste non sono "genuine" transazioni di mercato. I prezzi dei prodotti così "scambiati" sono dettati dai quartieri generali in Giappone, non dalle forze competitive del mercato.
...Nella visione "classica" dell'individualismo che muoverebbe il mercato, molti economisti free-market hanno argomentato che c'è un legame tra la libertà di scelta dei singoli consumatori e le loro più generali libertà politiche. La critica di Hayek al socialismo, ne "Verso la schiavitù", o l'appassionata requisitoria d Milton Friedman sul sistema del free-market, "La libertà di scegliere", ne sono famosi esempi.
Di più, la visione individualista fornisce una potente giustificazione morale del meccanismo di mercato. Come individui tutti prendiamo decisioni solo per noi stessi, dice la "storia", ma il risultato è la massimizzazione del benessere generale. Così, non c'è bisogno che gli individui siano "buoni" per far funzionare un'economia efficiente a beneficio di tutti i suoi partecipanti...
Per quanto suggestive possano sembrare, queste giustificazioni, hanno "serious problems".
Riguardo a quella politica, non c'è una chiara relazione tra la libertà economica di un paese e la sua libertà politica. Molte dittature hanno avuto politiche di forte apertura del mercato, mentre molte democrazie, come per i paesi scandinavi, hanno una bassa libertà economica, dovuta ad alte tasse e ad un'abbondante regolazione.
In effetti, molti sostenitori della visione individualista, preferiscono sacrificare la libertà politica per difendere quella economica (per questo Hayek lodò la dittatura di Pinochet in Cile).
Sul "caso" della giustificazione morale del supposto free-market, ho già discusso molte teorie, inclusa quella del "market failure" basato sulla visione individualista neo-classica, dimostrando che l'illimitata ricerca dell'interesse egoista attraverso il mercato spesso fallisce nel produrre esiti socialmente desiderabili.
A causa del fatto che queste limitazioni dovrebbero essere ben note, e già nelle generazioni passate, il dominio corrente della visione individualista, liberomercatista, deve essere almeno in buona parte spiegato dalla POLITICADELLE IDEE.
L'approccio neo-liberista ottiene un enorme maggior supporto e approvazione, a detrimento delle altre visioni (specialmente quelle class-based, come le scuole marxiste o keynesiana), da parte di coloro che hanno potere e denaro e, perciò, più influenza sull'opinione pubblica.
E ottiene tale supporto perchè permette di dare per "acquisita" la sottostante struttura sociale, per aspetti come la titolarità della proprietà o i diritti dei lavoratori, eliminando ogni messa in discussione dello status quo (o su quello che si vuole ottenere, ndr.)"
A ciò, aggiungeremmo, come fondamentale strategia complementare di occultamento dello status quo, la "politica dei diritti cosmetici"
Non tanto per non “rovinare il mercato”, quanto per minimizzare le perdite o massimizzare i profitti riducendo il livello della produzione.
Il terreno era pronto per dimostrare che il caso generale, invece della piena utilizzazione dei mezzi di produzione, era invece il loro utilizzo al di sotto della loro capacità.
La chiave della spiegazione sta nel fatto dell’analisi dei costi quasi-fissi e dei costi primi (differenza fra costi totali e costi quasi – fissi) che costituiscono i costi più rilevanti nel breve periodo.
Se le imprese lavoravano a tempo pieno solo alcuni giorni, ciò stava a significare che quello era il metodo più vantaggioso per massimizzare i profitti o minimizzare le perdite.
Si intuisce quindi che il costo primo medio ha un andamento particolare, cioè è costante fino al punto corrispondente alla piena capacità produttiva, in cui diventa infinito. Ma la forma a L rovesciata delle curve di costo primo medio (e marginale) di breve periodo mantenendo l’ipotesi di concorrenza perfetta, vale a dire ipotizzando la curva di domanda dell’impresa perfettamente elastica, implica che prezzo e quantità prodotta dalla singola impresa siano determinati in corrispondenza del livello di piena utilizzazione degli impianti. Inglobando al contrario l’ipotesi di concorrenza imperfetta, cioè che ciascuna impresa si trovi di fronte ad un proprio mercato particolare e quindi a una curva di domanda individuale negativamente inclinata, il livello di produzione di equilibrio può essere inferiore a quello di piena utilizzazione degli impianti.
8- Conclusioni
Ci è parso interessante concludere fornendo un quadro più "contemporaneo" delle condizioni del mercato, andando direttamente ed evidenziare chi siano i mitici "operatori", cioè il tipo di impresa che, prevalentemente, compone l'offerta, e dal cui tipico "decision-making", ormai divenuto"struttura mondializzata", deriva, senza mitologiche ipotesi si scuola, l'effettivo funzionamento del mercato.
Per farlo ho riassunto, in libera traduzione, alcune pagine (174-178) del libro di Ha-Joon Chang "Economics: The User's Guide", di cui vi ho già parlatoqui.
"Oggi i più importanti produttori sono grandi corporations, che impiegano centinaia di migliaia se non milioni di lavoratori, in dozzine di paesi.
Le maggiori 200 corporations del mondo producono messe insieme intorno al 10% del prodotto mondiale. Si stima che dal 30 al 50% del commercio internazionale dei beni manifatturati sia attualmente un commercio interno ai gruppi, ovvero un commercio di trasferimenti di inputs e outputs interni alla stessa impresa Multinazionale o Transnazionale, con operazioni in più Stati diversi.
L'esito finale dell'attività dello stabilimento dei motori Toyota in Chonburi, Thailandia, che vende il proprio prodotto alle fabbriche di assemblaggio Toyota in Giappone o Pakistan, può essere contabilizzato come export Thailandese a tali paesi, ma queste non sono "genuine" transazioni di mercato. I prezzi dei prodotti così "scambiati" sono dettati dai quartieri generali in Giappone, non dalle forze competitive del mercato.
...Nella visione "classica" dell'individualismo che muoverebbe il mercato, molti economisti free-market hanno argomentato che c'è un legame tra la libertà di scelta dei singoli consumatori e le loro più generali libertà politiche. La critica di Hayek al socialismo, ne "Verso la schiavitù", o l'appassionata requisitoria d Milton Friedman sul sistema del free-market, "La libertà di scegliere", ne sono famosi esempi.
Di più, la visione individualista fornisce una potente giustificazione morale del meccanismo di mercato. Come individui tutti prendiamo decisioni solo per noi stessi, dice la "storia", ma il risultato è la massimizzazione del benessere generale. Così, non c'è bisogno che gli individui siano "buoni" per far funzionare un'economia efficiente a beneficio di tutti i suoi partecipanti...
Per quanto suggestive possano sembrare, queste giustificazioni, hanno "serious problems".
Riguardo a quella politica, non c'è una chiara relazione tra la libertà economica di un paese e la sua libertà politica. Molte dittature hanno avuto politiche di forte apertura del mercato, mentre molte democrazie, come per i paesi scandinavi, hanno una bassa libertà economica, dovuta ad alte tasse e ad un'abbondante regolazione.
In effetti, molti sostenitori della visione individualista, preferiscono sacrificare la libertà politica per difendere quella economica (per questo Hayek lodò la dittatura di Pinochet in Cile).
Sul "caso" della giustificazione morale del supposto free-market, ho già discusso molte teorie, inclusa quella del "market failure" basato sulla visione individualista neo-classica, dimostrando che l'illimitata ricerca dell'interesse egoista attraverso il mercato spesso fallisce nel produrre esiti socialmente desiderabili.
A causa del fatto che queste limitazioni dovrebbero essere ben note, e già nelle generazioni passate, il dominio corrente della visione individualista, liberomercatista, deve essere almeno in buona parte spiegato dalla POLITICADELLE IDEE.
L'approccio neo-liberista ottiene un enorme maggior supporto e approvazione, a detrimento delle altre visioni (specialmente quelle class-based, come le scuole marxiste o keynesiana), da parte di coloro che hanno potere e denaro e, perciò, più influenza sull'opinione pubblica.
E ottiene tale supporto perchè permette di dare per "acquisita" la sottostante struttura sociale, per aspetti come la titolarità della proprietà o i diritti dei lavoratori, eliminando ogni messa in discussione dello status quo (o su quello che si vuole ottenere, ndr.)"
A ciò, aggiungeremmo, come fondamentale strategia complementare di occultamento dello status quo, la "politica dei diritti cosmetici"