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LA FRANCIA DI HOLLANDE ALLA ROULETTE RUSSA DELL'EURO

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Nel precedente post abbiamo accostato la rinuncia "di fatto" della Francia al fiscal compact, e quindi alle politiche deflattive ("Mantenga" l'inflazione...), agli sviluppi dello scenario economico internazionale preannunziati dal G20 di Pietroburgo, e l'insieme di questi effetti, in un apparente paradosso, al Tramonto dell'euro.
In effetti, la "eccezione" Francia dovrebbe consentire alla Germania di mantenere in vita l'euro non tanto per avvantaggiarsi di una possibile espansione del proprio export nell'area euro, obiettivo a cui realisticamente pare aver rinunziato (in questa fase), quanto alla possibilità effettiva, per l'attuale maggioranza di governo di:
- presentarsi alle elezioni di settembre con il distintivo dello "sceriffo" anti-inflazione;
- poter sfruttare il "fiscal compact" come strumento di definitiva spinta alla "deindustrializzazione avanzata" dei concorrenti nell'area "occidentale" (con le svendite generalizzate degli assets dei paesi debitori dell'area UEM). Potendo così rivolgersi a "est" per perseguire quel ruolo di potenza commerciale globale non più minacciato a occidente dalla concorrenza  dell'eurozona, sostanzialmente ridotta a "area economica esclusiva" di tipo coloniale.

Sia sufficiente o meno questa strategia a garantire la prosecuzione della prosperità germanica, essa si fonda essenzialmente su quattro presupposti:
a) che l'Italia (come più importante economia "servente" del disegno deflazionista egemone) continui nella sua politica economica di austerity, prona agli interessi esclusivamente tedeschi;
b) che sia sufficiente garantire l'eccezione "politica" francese dai vincoli del fiscal compact, consentendole di non ridurre il deficit, per dare quel tanto di sostegno pubblico all'economia transalpina da impedirne l'entrata in recessione, disinnescando quindi una intempestiva fuoriuscita dall'euro;
c) che, al contempo si riesca ad evitare la reazione politica degli altri paesi mediterranei, Spagna in testa, ma anche Portogallo e Grecia, magari saldatasi con quella della Francia e, in estrema ipotesi, della stessa Italia;
d) che, infine, la convenienza russa a prestarsi da gigantesco hub-corridoio per le merci cinesi e da "riserva" di materie prime a prezzi privilegiati (grazie anche alla forza valutaria mantenuta dai tedeschi ad ogni costo), trovi sufficiente remunerazione nel travaso di merci e tecnologie tedesche, riuscendo a garantire simultaneamente il rafforzamento dell'economia russa e la sua integrazione stabile con quella tedesca (il famoso disegno della neo-egeomonia congiunta "drang nach ost").

Ora il punto è che questa strategia può realizzarsi solo se tali condizioni di svilupperanno congiuntamente in un timing opportuno. Se nel breve periodo anche solo una di tali condizioni politiche ed economiche non dovesse avverarsi, il disegno fallirebbe.
Diciamo subito che la condizione sub d) (il versante russo-cinese) è quella temporalmente più "lontana" (sebbene già in fase di avveramento) nella cronologia del "piano", essendo evidentemente pregiudiziale la "soluzione" (finale?) del problema UEM.
E diciamo altrettanto che, data la sua "audacia" politico-internazionale, questa fase "finale" è quella di realizzazione più incerta, includendo ostacoli politici sia nella imprevedibile instabilità politica russa,  sia nella comprensibile reazione degli USA, che rischiano, come già evidenziato, un isolamento economico senza precedenti, che si tradurrebbe nella loro definitiva "svalutazione" sulla scenza poliica mondiale.
Impossibilitata a raggiungere il rilancio della propria dimensione industriale, già intrapreso da Obama, e  vedendo avverarsi le condizioni per la perdita della stessa capacità del dollaro di costituire il mezzo di pagamento del commercio mondiale, l'America si troverebbe a fronteggiare, indebolita, anche la reazione del sub-continente Americano e l'erosione dei "restanti" BRICS.
Mai come ora per gli USA, (nonostante la smentita delle analisi frettolose in senso diverso, tanto alla moda nella politica italiana), hanno interesse ad una partnership rafforzata con l'Europa, per conservare la domanda e il sostegno politico di quella che è sempre rimasta l'area economico-commerciale più importante del mondo. Ma di questo abbiamo già parlato e vedremo quali saranno gli sviluppi.

Ma è la condizione sub b) quella che attira maggiormente l'attenzione in termini di attualità.
Se non altro perchè la condizione a) (Italia che cessa di essere servente degli interessi tedeschi) è "culturalmente" ancora troppo lontana, data la forte radicazione, nella maggioranza dell'opinione pubblica, dell'idea che l'euro sia una sorta di "male necessario" (per proteggersi dalla Cina....?), legato al mito, ormai dogmatizzato, dell'Europa come "sogno" di futura prosperità, a sigillare il quale i media italiani spargono la loro ormai vacillante (ma non abbastanza) opera di sedazione della "ragione".
Dunque l'interrogativo cruciale per la Germania è: è sufficiente a garantire la propria strategia di colonizzazione europea, via euro, consentire alla Francia di "non ridurre" il deficit nella misura prevista dal fiscal compact?

Se diamo retta a Carlo Pelanda, parrebbe di sì, col solo inconveniente che tale "accordo" farebbe fuori l'Italia. Infatti, posto che il cambio di paradigma di USA, Giappone e emergenti Sudamericani tende ora a orientare la politica monetaria non più sul mantenimento di un certo tasso di inflazione, ma su un obiettivo di riduzione della disoccupazione, l'effetto "svalutativo"-inflattivo di ciò implicherebbe una contrazione dell'export dell'area euro di circa il 30%.
L'attenuazione del rigore, dunque, permetterebbe alla Francia di rinunziare a richiedere politiche monetarie di "svalutazione competitiva", in modo da far arrivare la Merkel in posizione vantaggiosa alle elezioni e solo poi, pervenire a un nuovo accordo Francia- Germania di allentamento dello stesso fiscal compact.
Non ci soffermeremo nè sulla terminologia nè sulla attendibilità di concepire la politica monetaria come decisiva per la formazione del livello dei prezzi; quel che è certo è che nella visione di Pelanda, alla fine, con un pò di politica monetaria espansiva e un futuro "ammorbidimento" del rigore, sostanzialmente consentiranno "via inflazione" di "evitare una depressione". D'altra parte, a parte la (non trascurabile) incompatibilità della simultanea applicazione di principi neo-classici e curva di Philips di tipo "keynesiano", con previsione "sovversiva" dell'abbandono, in UEM, del dogma della politica monetaria "credibile" (cioè solo deflazionistica e come tale capace di riportare la disoccupazione al suo livello "naturale"), Pelanda, (laureato in scienze politiche e studioso dei "sistemi") è uno dei tanti che sosteneva che l'agenda Monti è irrinunciabile.

Se dobbiamo invece dar retta a Jacques Sapir (qui nella traduzione di "Vocidall'estero"), prestigioso economista francese, la risposta è negativa:
"La Francia è, come sappiamo, una delle meno integrate nella zona euro in quanto solo il 50% del nostro commercio internazionale si svolge con i nostri partner. Vale a dire che il resto del commercio internazionale della Francia si basa sulla sterlina, il dollaro, lo Yen o anche altre valute. È per questo che un aumento dell'euro ha delle conseguenze disastrose per la nostra economia. L'impatto è stato calcolato nell'1% in meno di crescita ogni volta che l'euro si apprezza del 10%. Oggi, e tenuto conto che la zona euro è in recessione, il potenziale di crescita trainata dalle esportazioni sta in gran parte al di fuoridella zona euro. Ciò suggerisce che il potenziale impatto dell'aumento dell'euro rispetto alle altre valute avrà conseguenze ben più gravi di quello che è stato calcolato nel 2008, e si può supporre che dovremmo affrontare una contrazione di -1,2% per un apprezzamento del 10% dell'euro.

Supponendo, in un'ipotesi molto ottimista, che questo apprezzamento duri solo per il primo semestre, alla fine dell'anno ci troveremmo di fronte a un'ulteriore contrazione dello 0,6% della nostra crescita. Abbiamo già spiegato perché la previsione del governo di una crescita dello 0,8% non ha alcuna possibilità di materializzarsi1.
La prognosi più ottimista è di una crescita zero (0,0%) e la prognosi pessimistica è di circa -0,5%. A queste cifre dovrebbe pertanto essere aggiunto, se l'apprezzamento durerà solo un semestre, un ulteriore effetto di -0,6%, che, darebbe luogo a una evoluzione del PIL francese nel 2013 compresa tra -0,6% e -1,1%. Il divario con le ipotesi su cui era stato programmato il bilancio per il 2013 sarà dall' 1,4% all' 1,9%, il che implica una perdita di produzione di 28-38 miliardi di euro e una perdita di gettito fiscale di 12,6-17,1 miliardi.

A queste cifre va aggiunta la crescita della disoccupazione dovuta a questa ulteriore diminuzione dell'attività. Si possono quantificare queste conseguenze tra i 120.000 e i 180.000 disoccupati in più, in aggiunta all'aumento già previsto per il 2013. Tale aumento della disoccupazione, naturalmente, comporterà dei costi supplementari (in sussidi di disoccupazione). Il deficit indotto sarà dunque la somma delle diminuzioni delle entrate e di questi costi supplementari, tra i 15 e i 19,6 miliardi, dallo 0,75% all'1% del PIL.
La Commissione europea probabilmente non avrà altra scelta che lasciar perdere. Ma è chiaro che l'obiettivo del 3% del disavanzo pubblico non sarà raggiunto nel 2013 né nel 2014, e che bisognerà attendere fino al 2020 perché la Francia abbia, in queste condizioni e con questa politica, un equilibrio di bilancio.

Ma questo non fa che evocare le conseguenze immediate e meccaniche dell'aumento dell'euro. In realtà, esso aggraverà la perdita di competitività delle imprese francesi, causando un ulteriore calo degli investimenti e nuove chiusure delle industrie. Le capacità di ripresa dell'economia sono particolarmente suscettibili al calo degli investimenti. Anche se, scenario improbabile, ci fosse una ripresa dell'attività economica mondiale nel 2014, la Francia non sarebbe in grado di avvantaggiarsene. In effetti, l'aumento l'euro vale ad annullare gli effetti delle misure adottate dal governo, e in particolare quelle del patto "sulla competitività del lavoro". Questo aumento sprofonderà le imprese francesi. Il governo non avrà altra scelta che cercare di comprimere un po' di più i salari, e di conseguenza la domanda delle famiglie, con conseguenze prevedibili di disoccupazione, o uscire da questo quadro politico distruttivo lasciando la zona euro e svalutando il franco."

Naturalmente, le forze della finanza "al potere" non si arrendono.
E infatti, conformi all'idea che l'euro sia un "sistema di potere" ("loro"), abbandonano i dogmi neo-classici (nulla più che uno strumento e lasciati al loro destino in caso di necessità), in un modo diverso da quello indicato da Pelanda, e cercano di mantenere in piedi il "fogno" con un misto keynesian-montiano (la "chimera" anti-Sedan),come ci spiega il Sole24ore:
"La svalutazione competitiva? La sta facendo la Francia, tutta da sola, e in modo da colpire soprattutto i partner di Eurolandia.
Naturalmente Parigi non tocca la leva del cambio, perché non può farlo, ma ha trovato il modo di simulare con la politica fiscale gli effetti di un deprezzamento dell'euro, e lo ha usato con spregiudicatezza. I risultati potrebbero vedersi presto. L'idea è semplice. Cosa fa una svalutazione? Rende più costose le importazioni e più competitive, nel prezzo, le esportazioni. Si possono ottenere gli stessi risultati con strumenti fiscali (e si parla, quindi, di svalutazione fiscale).
Si aumenta l'Iva, dunque: questo non tocca i beni esportati, ai quali non si applica, ma pesa (anche) sui prodotti importati. Nello stesso tempo si danno crediti fiscali alle aziende, o in alternativa si riducono le tasse sul lavoro, il cuneo fiscale, o semplicemente si tagliano le tasse sulle aziende le quali, conservando i margini, possono abbassare i prezzi delle esportazioni.
Parigi sta facendo esattamente questo: su ispirazione di Philippe Aghion, uno degli studiosi più attenti al tema della crescita economica (strutturale) e consulente del presidente François Hollande, ha adottato l'anno scorso questa politica: più Iva - l'anno prossimo aumenterà l'aliquota più alta e ne sarà introdotta una nuova - e crediti fiscali per 20 miliardi.
Aghion si è ispirato al lavoro di Gita Gopinath, 41 anni, economista indiana dell'Università di Harvard che a sua volta, in un lavoro con Emmanuel Farhi e Oleg Itskhok, ha reso attuali alcune proposte avanzate da John Maynard Keynes nel 1931, - prima della Teoria Generale.
L'economista di Cambridge invitava però a usare i dazi, che colpiscono direttamente le importazioni, invece delle imposte sui consumi (che sono molto regressive, nel senso che pesano soprattutto sui meno ricchi). Per i risultati occorrerà aspettare che la politica vada a regime.
Una simulazione svolta sulla Spagna da José Boscá, Rafael Doménech,e Javier Ferri per la Bbva, mostra chela svalutazione fiscale ha davvero effetti su esportazioni e importazioni, ma di gran lunga inferiori rispetto alla svalutazione monetaria.
L'effetto complessivo sulla crescita è anche qualitativamente diverso: un deprezzamento del cambio porta a un aumento del Pil nel primo anno, ma l'effetto si riduce fortemente nel secondo; la svalutazione fiscale, al contrario, ha effetti relativamente limitati il primo anno, più robusti nel secondo, con un risultato medio leggermente migliore. Una "vecchia" analisi della Banca di Francia, precedente la crisi, ha trovato che un taglio di 1,5 punti percentuali nei contributi finanziato da un aumento dell'Iva genererebbe in teoria 30mila posti di lavoro, che salgono a 300mila se le misure puntassero soprattutto ai salari più bassi.

Inutile dire che da ciò, prosegue il Sole24ore, nasce un piccolo problemino di "coordinamento" delle politiche economiche e fiscali, come si affrettano a precisare dal FMI, mentre "esperti danesi" lamentano una "politica protezionistica". Ovviamente nessuno si rammenta che la Germania, a suo tempo, agendo sul costo del lavoro e relativo welfare, abbia già abbondantemente fatto la stessa cosa, come abbiamo spiegato abbondantemente qui.
Ma niente paura: Germania e Francia si sono già accordate e probabilmente imporranno al resto dell'UE l'innalzamento del tetto pro-capite dei sussidi di Stato alle imprese.
"Si è discusso di alzare l'attuale soglia de minimis dagli attuali 200 mila euro a 500 mila, ma noi siamo non favorevoli ad un aumento di questa soglia", ha detto Moavero, precisando che con l'Italia si schiera "un buon numero di paesi" nel respingere la revisione.
Allo stato attuale, ha spiegato il ministro, "esiste una maggioranza di paesi che non vuole ritoccare la soglia" e quindi "siamo fiduciosi che Almunia agisca con rigore", ossia rispettando l'orientamento maggioritario degli Stati membri. La contrarietà del ministro, di Almunia e della maggioranza dei Paesi facenti parte dell’Ue ha origine anche dall'esperienza passata: già durante la crisi finanziaria 2008-2009 il tetto agli aiuti di Stato erano stati aumentati a 500 mila euro per le banche.
Moavero ha ricordato che, secondo un rapporto della Commissione sugli effetti di quell'innalzamento temporaneo, "la grande maggioranza degli aiuti è stata erogata in un solo Stato: la Germania" con il rischio "di una distorsione delle eguali condizioni competitive del mercato".
Anche in questo caso, dunque, un nuovo ammorbidimento delle norme sugli aiuti di Stato "si tradurrebbe in una distorsione delle pari condizioni di concorrenza sul mercato interno" fra "gli Stati membri che hanno capacità di intervento pubblico e altri che non possono permetterselo, perché fortemente indebitati" o comunque sottoposti ai programmi di austerità voluti dall'Europa, che chiede loro "di non eccedere nella spesa pubblica nazionale".

Avete capito Moavero? Non potendo sostenere, davanti all'opinione pubblica italiana, che il debito pubblico NON sia il problema e rivelare ciò che la stessa Commissione ammette, cioè che NON c'è un pericolo di insolvenza pubblica italiana, invece di negoziare un aumento della spesa pubblica italiana per "investimenti" (che pure era stata sbandierata come "risultato" della linea amichevol-prona di Monti alla Merkel), si rafforza l'idea che "non possiamo permettercelo", mentre la Francia con un probabile deficit 2013 sopra il 4% e una spesa pubblica al 56% del PIL lo sostiene a piè pari.
E' chiaro il timore che, rilanciando la produzione e l'occupazione (e aumentando le entrate), verrebbero meno, in Italia, le condizioni di shock continuo per imporre le "riforme strutturali" nel mirino del prossimo governo, che, incidendo sul lavoro, DEVONO  avere una cornice di crescente disoccupazione, da imputare alla "rigidità" esosa dei lavoratori.

Ma torniamo "a bomba": tutto questo agitarsi vetero-keynesiano e "protezionisitico", ante "Teoria generale", consentirà alla Francia di scampare al trattamento PIGS e di finire in recessione prolungata e "colonizzata"?
Certo l'idea di riconquistare la "parità" politica con la Germania e violare impunemente gli artt.5, 34, 107 e 119-121, del Trattato sul funzionamento dell'Unione, non è male: specie perchè l'Italia e la Spagna hanno compatte maggioranze politiche (di qualunque segno: è il PUDE, bellezza) che sono dedite alla "colpevolizzazione" e alla deindustrializzazione dei rispettivi popoli.

Ma quello che dice Sapir fa dubitare di ciò, sul piano economico: la Francia non può avvantaggia sufficientemente del vantaggio competitivo accentuato sul versante partner UEM, proprio perchè realizza il suo (maggiore e crescente) export "atteso" già oggi fuori da tale area, che andrebbe comunque in ulteriore crisi da domanda.
Insomma, questa politica, non è somunque sufficiente a neutralizzare gli effetti del super-euro.
Se l'ostinazione pre-elettorale della Merkel farà arrivare, come è probabile il super-euro a 1,40, non basterà accanirsi sul beggar thy neighbour dei vicini UEM in drammatico calo della domanda interna, accentuandolo. Non solo ma le stesse politiche sono già in parte programmate da paesi come l'Italia, che ha infatti in "scadenza" un ulteriore aumento dell'IVA 2013 che diverrebbe inevitabile, mentre, in generale, questa distorsione fiscale, condurrebbe a un vantaggio per i beni e servizi "non tradable" (cioè non trasferibili con esportazione) dei vari paesi UEM, neutralizzando il re-indirizzo della domanda di tali paesi sui beni francesi.
Ammesso che, "sfiga" estrema, della Francia, l'Italia con un governo di centro-sinistra non completi il quadro di "simmetrica ritorsione", procedendo a un contemporaneo sgravio fiscale contributivo e fiscale, sbloccando (in qualche modo e in qualche misura) i famosi "crediti delle imprese" (magari accentuando la flessibilità del lavoro, come pare sbandierato in campagna elettorale), cioè sfruttando la maggior elasticità dell'economia italiana, quanto al commercio estero, al tasso di cambio reale.
Cioè, in pratica, tutti gli effetti principali delle politiche di Hollande sono vanificabili da una guerra commerciale tutti contro tutti (il Nobel per la pace all'UE, anfatti), mentre la Germania gongola della lotta all'inflazione e quindi l'euro forte e la prosecuzione dell'austerity sul lato della domanda interna (non sia mai che non si adottino politiche pro-lavoro e non imperialiste commerciali), porteranno alla recessione "comune", coordinata e armonizzata come prescrive il "vero" significato del Trattato (TFUE), quello applicato nella prassi e che volevano applicare fin dall'inizio.

Ed è per questo che Lars Seier Christensen, della Saxo Bank dice "the whole thing is doomed" (l'euro ndr.) e che venderebbe l'euro non appena si approssimi alla soglia di 1,40 sul dollaro.
Ed è per questo che la condizione sub b) non ha grandi speranze di verificarsi: la Francia entrerà in recessione, esattamente come prevede Sapir, e la sua unica alternativa sarà quella, PRIMA, di "comprimere ulteriormente i salari", peggiorare il quadro e, POI, dopo aver inflitto inutili sofferenze ai francesi e agli altri partners UEM,  "uscire da questo quadro politico distruttivo lasciando la zona euro e svalutando il franco".
Certo non sarà una passeggiata di salute, ma il disegno della Germania fallirà, lasciando un cumulo di macerie in Europa e l'incognita di una ricostruzione in cui non sarà chiaro, come nel 1945, che le responsabilità delle oligarchie finanziarie sono inescusabili.

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