
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa "lettera di un liberista dal futuro".
Sia che si parli di euro, cioè di pace senza confini, che di immigrazione, cioè di benessere senza confini, che di corruzione, cioè di onestà senza confini, non bisogna mai dimenticare la "doppia verità".
Ogni credo religioso che assuma di fondare un assetto sociale e ogni paradigma di scientificità (pop) dell'equilibrio economico, si fonda opportunamente sull'affermazione, paludata di ragionevolezza, di proposizioni complementari a realizzazione congiunta impossibile.
Poiché questa programmata e dissimulata contraddittorietà conduce a uno stato di altrettanto programmata "crisi" (e di stato di eccezione conseguente), ciò implica che le proposizioni-guida della società così formulate abbiano una e una sola soluzione: quella tecnicae corrispondente a "leggi naturali", già voluta, fin dall'inizio, da chi formula le proposizioni a realizzazione congiunta impossibile.
L'utile e la giustizia, sono dunque solo apparentemente in conflitto: la nostra pecca imperdonabile è credere che la giustizia sia un'azione praticabile dai "giusti", mentre, nel mondo delle "leggi naturali", la conciliazione degli opposti si ha nel fatto che la giustizia è una prerogativa del "più forte". Se si accetta la naturale prevalenza di questi (ESSI), l'ingiusto diviene il più utile e degno degli uomini.
Col solo piccolo inconveniente, che passa costantemente inosservato, che gli (altri) uomini, nel loro complesso, debbano, in tale processo, divenire schiavi: inevitabilmente e razionalmente, in omaggio a una "legge naturale" (la volontà dell'Onnipotente o dei mercati, trascendente e imperscrutabile, coi limitati mezzi della ragione di chi non essendo forte è tanto temerario e blasfemo da invocare la giustizia).
Costituzione, Giustizia e Libertà: lettera di un liberista dal futuro.
« tutte le cose religiose sono false e sono finte dai principi per istruire l'ingenua plebe affinché, dove non può giungere la ragione, almeno conduca la religione», Giulio Cesare Vanini sul pensiero di Machiavelli
Li: quarto secolo dopo Sun Myung Moon, Atene
Oggetto:Il “nuovo” ordine mondiale (alias, “oggi c'è la Cina ”)
Sapiente Quarantotto,
« sei tanto fuori strada da ignorare che la giustizia e il giusto sono in realtà un bene di altri, un utile di chi è più forte e governa, ma un danno proprio di chi obbedisce e serve; che l'ingiustizia è l'opposto e comanda a quegli autentici ingenui che sono i giusti; e che i sudditi fanno l'utile di chi è più forte e lo rendono felice servendolo, mentre non riescono assolutamente a rendere felici se stessi. E devi poi tenere presente questo, semplicione di un Quarantotto, che in qualunque modo un uomo giusto ci perde rispetto ad un ingiusto.
Ciò vale anzitutto nei contratti d'affari: ogni volta che si associano un giusto ed un ingiusto, non troverai mai che allo sciogliersi della società il giusto ci guadagna sull'ingiusto, bensì che ci perde. Poi, nei rapporti con lo Stato: quando ci siano dei tributi da pagare, il giusto a parità di condizioni paga di più, l'altro di meno; e quando c'è da ricevere, l'uno non guadagna nulla e l'altro molto.
Quando l'uno e l'altro ricoprono una carica pubblica, al giusto succede, anche se non gli capitano altri guai, di veder andare sempre peggio i propri affari, non potendosene occupare, e di non ricavare dalla cosa pubblica profitto alcuno, a causa della sua giustizia; e di venire poi in odio ai familiari e ai conoscenti se non vuole favorirli per rispettare la giustizia. All'ingiusto accade tutto l'opposto. Mi riferisco a chi dicevo poco fa, a chi è assai abile a soverchiare.
Ed è a questi che devi guardare, se è vero che vuoi giudicare quanto maggior utile egli ritragga dalla ingiustizia che dalla giustizia. Lo comprenderai senza fatica se ti spingerai fino a realizzare l'ingiustizia assoluta, che rende sommamente felice chi la commette e sommamente infelice chi la subisce e rifugge dal commeterla.
Parlo della tirannide, che con inganno e violenza porta via i beni altrui, sacri e profani, privati e pubblici, non un po' alla volta, ma tutti in un colpo: e quando in ciascuno di questi àmbiti uno viene sorpreso a commettere un atto contro giustizia, non solo viene punito, ma riceve anche i titoli più disonorevoli. A coloro che, ciascuno nel proprio àmbito, si rendono colpevoli di simili misfatti contro giustizia si dà il nome di sacrileghi, di schiavisti, di sfondamuri, di rapinatori, di ladri.
Ma quando uno, oltre che delle sostanze dei cittadini, s'impadronisce delle loro persone e se ne serve come di schiavi, anziché ricevere questi turpi titoli, ecco che è chiamato felice e beato non soltanto dai concittadini, ma anche quanti vengono a sapere che ha realizzato l'ingiustizia assoluta.
Chi biasima l'ingiustizia lo fa non perché tema di commettere le azioni ingiuste, ma perché teme di patirle. E così, Quarantotto, sempre che sia realizzata in misura adeguata, l'ingiustizia è più forte e più degna di un uomo libero e di un signore di quanto lo sia la giustizia; e, come dicevo fin da principio, la giustizia consiste nell'utile del più forte, e l'ingiustizia in ciò che comporta vantaggio e utile personale. »[1]
Cordiali saluti,
Trasimaco
[1] Platone, La Repubblica , I, 343c - 344c – [Dopo aver ovviamente sostituito “Quarantotto” con “Socrate”...]