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L'ANTICA INCOMPRENSIONE DELL'€UROPA E L'ITALIA INDIFESA DI OGGI



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1. Il commento di Bazaar che precede ci offre una chiave di lettura generale del problema che stiamo per affrontare.
Ovverosia, cosa sia stata, da sempre, la costruzione europea e quali forze l'abbiano costantemente guidata e sospinta verso l'esito attuale. Naturalmente questa questione è affrontata ne "La Costituzione nella palude": ma appare utile tornarci su, in quanto i dati storici e istituzionali che risultano rilevanti nel definirla sono talmente numerosi che sarebbe stato impossibile racchiuderli in un unico libro (passabilmente) divulgativo, a pena di esporre il lettore a una sovralimentazione di elementi attinti dalla scienza economica, politica e soprattutto dalla giurisprudenza. 
Una continua ed ulteriore elaborazione arricchita di nuovi dati e conseguenti approfondimenti dell'analisi è in fondo il senso di questo blog (almeno finché rimarrà operativo, grazie anche al contributo di commentatori così attenti e profondi da divenire co-autori del discorso, esattamente come si auspicava fin dall'inizio della vita del blog).

2. Ora, è altrettanto vero che la comprensione del "problema €uropa"è soggetta alla individuazione di diversi livelli di lettura, che solo in forza di un'ormai complessa e difficile ricostruzione storica "multidisciplinare" può rendere fruttuosa l'applicazione delle conoscenze scientifiche proprie dell'economia o del diritto (assumendole come scienze sociali principalmente coinvolte nel processo ricostruttivo dell'attuale situazione).
Di questa complessiva difficoltà "cognitiva", che spiega anche perché la reazione all'instaurarsi in forma "orwelliana" del paradigma €uropeo sia stata agevolmente depotenziata e ritardata fino al momento in cui tale paradigma si era ormai fortemente consolidato, ci dà atto Claudio Borghi con una dimostrazione di rara onestà intellettuale:

3. Lo stesso Claudio, in linea con questa imparziale capacità di ricerca e di giudizio, procede alla ricognizione di un fenomeno drammatico, che, peraltro, in questo blog è stato spesso oggetto di discussione. E cioè, come la legge di esecuzione e ratifica di Maastricht fosse stata a suo tempo affidata a un parlamento complessivamente non in grado di comprenderne e anticiparne la reale portata in termini costituzionali.
Va detto per inciso: ne "La Costituzione nella palude", - non a caso e grazie al contributo filologico e critico di Arturo-, vengono riportate la analisi relative a natura ed effetti del trattato, quasi coeve a tale votazione parlamentare, che compì il prof. Guarino con (ormai desueta) chiarezza; almeno, rispetto alla comprensione giuridico-economica che, fin da allora, era affidata a uno schematismo in cui l'accademia ratificava, nei fatti, una preponderante vulgata mediatica, secondo un fenomeno di euro-conformismo già, a suo tempo, evidenziato da Luigi Spaventa in sede di approvazione, nel 1978, dello SME (egli parlò, per la precisione, di terrorismo ideologico europeistico).
Dunque, Claudio fa una valutazione storico-critica, drammatica, dicendoci che, dopo aver esaminato gli atti del dibattito parlamentare, l'unico che avesse compiuto un intervento rivelatore di una "profetica" consapevolezza, era risultato Lucio Magri (poi magari Arturo ci porterà l'esempio di altri analoghi interventi...):
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4. Dai commenti al precedente post emerge, tra l'altro, la ricostruzione, offerta dal "solito" Arturo, della vicenda relativa alla prevalenza "selettiva" del diritto "comunitario" sulle fonti di livello costituzionale nazionali, quale affermato dalla Corte di giustizia europea già nel 1964 e seguito dall'adeguamento empirico, e apparentemente pragmatico, della nostra Corte costituzionale (in più fasi e fino ai nostri giorni). 
Su questo "adeguamento" rinviamo ai suoi interventi; ma il punto più importante e oggi straordinariamente attuale, è che il successivo ampliamento delle "attribuzioni" della Comunità europea, fino a Maastricht, e alla di poco successiva trasformazione in Unione europea, avrebbero posto l'esigenza di rivedere, nelle sue stesse premesse, il passaggio fondamentale con cui la Corte nazionale cedette il terreno, in modo praticamente irreversibile, alla prevalenza, contraddittoriamente selettiva, del diritto europeo sulla Costituzione.
Se dunque, - ma solo in una visione statica e non attenta, come vedremo, agli inevitabili effetti che sarebbero derivati dall'adozione dei modelli socio-economici contenuti nei trattati-, la regola empirica, un po'"a occhio", rigidamente nominalistica, fino a costituire una "petizione di principio", che un trattato economico incida per definizione "solo" sui "rapporti economici" e non su quelli sociali e politici, aveva una certa sostenibilità, approssimativa e temporanea, all'inizio degli anni '70, lo stesso non si può dire per i contenuti del "vincolo esterno" che parte dallo SME, passa per l'Atto Unico e arriva al "Maastricht" dell'unione monetaria

5. Più ancora, questo empirismo nominalistico della Corte denota la perdita, già negli anni '70, della consapevolezza circa l'inscindibilità, - affermata dai vari Ruini, Ghidini, Basso, Mortati, Calamandrei, in sede costituente- tra principi fondamentali della persona, al cui vertice assoluto è normativamente posto quello lavoristico, e Costituzione "economica", come previsione di strumenti che non sono eventuali e potenziali per l'azione politico-economica dello Stato, ma oggetto di un obbligo il cui mancato assolvimento vanifica proprio i diritti fondamentali della persona, quali intesi dai Costituenti e con gli effetti molto concreti che indica il post di Bazaar riportato all'inizio.

Arturo sulle origini della vicenda storico-giurisprudenziale in questione ci rammenta una serie di significativi elementi:
a) il caso "Costa contro Enel" scaturì dal ricorso proposto da due giuristi italiani, il professore di diritto costituzionale Giangaleazzo Stendardi e l'avvocato Flaminio Costa. 
Ci pare storicamente molto interessante tradurre quanto riferito, dalla fonte citata, sulla visione teorico-scientifca del primo: Stendardi aveva teorizzato il ruolo dell'attivismo legale davanti alle Corti come un quasi-sostituto della "responsabilità politica", in particolare al livello europeo. In vari scritti, prima e dopo il caso "Costa", sosteneva che "non è necessario avere un parlamento direttamente eletto dal popolo per realizzare la protezione dei cittadini; si richiedeva soltanto l'esistenza di una procedura idonea a proteggere gli individui direttamente di fronte alla organizzazione [europea]...Questo forte "credo" nella "Legge"come sommo strumento di protezione dei cittadini (persino più importante dell'esercizio del voto), fu naturalmente attivato in tale contesto contro la legge italiana di nazionalizzazione [del settore elettrico]. Stendardi, che era stato professore aggiunto alla scuola milanese "Bocconi" negli anni '50, e al tempo era un membro attivo del partito liberale italiano a Milano, era fortemente critico sul progressivo processo delle nazionalizzazioni in Italia".

b) In tempi praticamente coevi alla sentenza "Costa contro Enel", la nostra Corte costituzionale arrivò a enunciare i presupposti della prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale e sulla stessa fonte costituzionale...a certe condizioni. Sul punto commenta Arturo

E fu così che i liberali, che in Assemblea Costituente erano "quattro noci in un sacco", come ebbe a dire efficacemente il vecchio Togliatti, riuscirono a piantare un virus di portata europea in Costituzione, rispetto ai cui effetti devastanti la Corte Costituzionale ha dimostrato negli anni una cecità che si commenta da sola (basti ricordare la sent. 183 del 1973, in cui si ritiene estremamente improbabile ”l’ipotesi di un regolamento comunitario che possa incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con di­sposizioni contrastanti con la Costituzione italiana”, in quanto la ”competenza normativa degli organi della CEE è prevista dall’art. 189 del trattato di Roma” è limitata “a materie concernenti i rapporti economici”. Ah, beh, se si tratta "solo" di rapporti economici allora siamo tranquilli... 
6. Dal complesso delle fonti che abbiamo finora messo insieme, possiamo trarre alcune conclusioni, che servano possibilmente da chiarimento per individuare un filo conduttore in un insieme di dati storici e di concetti che, altrimenti, rischiano di sfuggire nella loro coerenza unitaria: questa, infatti, emerge se proiettata nel corso dei decenni, nei quali si collocano gli antecedenti ora riassunti ed in coordinamento con altri elementi sopravvenuti, ma fin dall'origine rispondenti ad un disegno iniziale, a realizzazione "progressiva" (temi già analizzati in questa sede)
a) l'idea, fatta propria dalla Corte costituzionale, che un trattato (parliamo di quello di Roma del 1957), che predicasse la creazione di un "mercato comune", promuovendo espressamente la libera circolazione "delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali", cioè un trattato di sostanziale liberoscambio, non avesse influenza sui "rapporti civili, etico-sociali e politici", è non solo manifestamente illogica dal punto di vista della attendibilità economica, ma contraria agli stessi espressi enunciati del trattato stesso (intediamo quello c.d. di Roma). Traiamo dalla fonte ufficiale (UE) appena linkata
"Dopo il fallimento della CED, il settore economico, meno soggetto alle resistenze nazionali rispetto ad altri settori, diventa il campo consensuale della cooperazione sovranazionale. Con l'istituzione della CEE e la creazione del mercato comune si vogliono raggiungere due obiettivi. Il primo consiste nella trasformazione delle condizioni economiche degli scambi e della produzione nella Comunità. Il secondo, più politico, vede nella CEE un contributo alla costruzione funzionale dell'Europa politica e un passo verso un'unificazione più ampia dell'Europa".

b) dunque, le stesse istituzioni UE hanno sempre e costantemente inteso il trattato (già quello del 1957) come avente uno scopo politico a cui l'approccio economico era essenzialmente strumentale: ma tale strumento si connotava, fin da allora, in senso liberoscambista e, co-essenzialmente, improntato all'idea neo-liberista della libertà di concorrenza come ipotesi macroeconomica di prevalenza del sistema dei prezzi, affidati alle dinamiche dell'economia privata non ostacolata dall'intervento dello Stato nel raggiungere l'efficienza allocativa. Quest'ultima non è univocamente volta a "crescita e sviluppo", ma subordina dichiaratamente entrambi alle condizioni della stabilità dei prezzi nonché della preferenza per la flessibilità verso il basso dei prezzi relativi ai costi d'impresa (in primis i salari), che consentono l'ipotizzata efficienza allocativa della singola impresa, automaticamente estensibile a equilibrio generale: cioè l'idea del liberismo neo-classico, superata esplicitamente dalla nostra Costituzione. Postulato, ossessivamente esplicitato, è che l'attività economica si esplichi in condizione di "libera concorrenza"e che ciò sia ostacolato dall'intervento dello Stato sulle dinamiche del mercato. Citiamo ancora per sottolineare la dichiarata chiarezza di questa concezione secondo la stessa fonte istituzionale europea:
"Il mercato comune si basa sulle famose "quattro libertà": libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali.
Esso crea uno spazio economico unificato che permette la libera concorrenzatra le imprese, e pone le basi per ravvicinare le condizioni di scambio dei prodotti e dei servizi che non sono già coperti dagli altri trattati (CECA e Euratom).
L'articolo 8 del trattato CEE prevede che la realizzazione del mercato comune si compia nel corso di un periodo transitorio di dodici anni, diviso in tre tappe di quattro anni ciascuna. Per ogni tappa è previsto un complesso di azioni che devono essere intraprese e condotte insieme. Fatte salve le eccezioni o deroghe previste dal trattato, la fine del periodo transitorio costituisce il termine per l'entrata in vigore di tutte le norme relative all'instaurazione del mercato comune.
Poiché il mercato è fondato sul principio della libera concorrenza, il trattato vieta le intese tra imprese e gli aiuti di Stato (salvo deroghe previste dal trattato) che possono influire sugli scambi tra Stati membri e che hanno per oggetto o effetto di impedire, limitare o falsare la concorrenza.
c) La Corte già disponeva di questo quadro di interpretazione autentica e vincolante dei trattati. L'influenza delle politiche tese ad instaurare la "libera concorrenza tra le imprese" su: a) livello dell'occupazione; b) livello dei salari; c) livello delle inevitabilmente connesse prestazioni previdenziali (e, più in generale, di ogni altra forma pubblica erogatrice di salario indiretto o differito, tra cui spiccano le prestazioni dell'istruzione e della sanità pubbliche), era obiettivamente conoscibile e prevedibile: non come questione scientifico-economica ma come effetto inevitabilmente predicato sul piano normativo dai trattati
d) E ciò era possibile, fin dagli anni '70, assumendo come riferimento interpretativo, certamente accessibile sul piano del dovuto chiarimento delle norme, le teorie economiche che predicano l'equilibrio del sistema sulla base dell'ipotesi (propria dei trattati) di vigenza e promozione della libera concorrenza: questa operazione nei lavori dell'Assemblea Costituente era stato compiuta per respingere proprio tali teorie, come viene ampiamente evidenziato ne "La Costituzione nella palude"
Era solo questione di tempo perché gli effetti sociali, cioè sul mondo del lavoro, sul livello di occupazione e sul benessere diffuso, di questa impostazione economica, che è in sé una forte scelta politica, si facessero sentire e iniziassero a modificare, nell'evidenza dei fatti, gli stessi rapporti politici
E la gradualità e estensione pervasiva delle relative politiche era espressamente prevista dal trattato del 1957, come abbiamo appena visto. 
e) Ma non solo: lo svolgimento di politiche coinvolgenti un numero crescente di settori economici a forte impatto sociale (al "minimo" agricoltura e trasporti) era altrettanto previsto, fino al punto di includervi tout-court, ed espressamente, la "politica industriale"che, come ci descrive Caffè, è il perno della sovranità effettiva di uno Stato, cioè la ragion d'essere delle "funzioni e gli scopi dello Stato": essa attiene infatti al problema di decisione politica, preliminare ad ogni altra, di cosa e quanto produrre e cosa scambiare con gli altri paesi. 
Da questa scelta, infatti, dipende il livello del reddito nazionale e della conseguente occupazione, laddove, com'è altrettanto notorio, un trattato liberoscambista, basato sull'inevitabile ipotesi delle funzioni economiche dello Stato come ostacolo principale all'allocazione efficiente delle risorse, assume come prioritaria l'azione del mercato secondo il principio allocativo dei "vantaggi comparati": tale meccanismo insito nel liberoscambio crea inevitabilmente una competizione commerciale e industriale tesa a instaurare una gerarchia tra gli Stati aderenti, con pochi vincitori e molti perdenti nella stessa competizione
6. L'implicito estendersi in progressione del meccanismo dei "vantaggi comparati"è anch'esso enunciato nel trattato del 1957, e preannuncia, senza equivoci, che le "politiche" che si assumeva l'istituzione CEE consistevano in "condizionalità" a carico degli Stati - e dei loro scopi e funzioni costituzionalmente sanciti...in precedenza- per consentire la riallocazione propria degli stessi vantaggi comparati:
Alcune politiche sono previste formalmente dal trattato, come la politica agricola comune (articoli 38-47), la politica commerciale comune (articoli 110-116) e la politica comune dei trasporti (articoli 74-84).
Altre possono essere intraprese a seconda delle necessità, come previsto all'articolo 235, secondo cui "quando un'azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il presente Trattato abbia previsto i poteri d'azione a tal uopo richiesti, il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato l'Assemblea, prende le disposizioni del caso".
Sin dal vertice di Parigi dell'ottobre 1972, il ricorso a tale articolo ha permesso alla Comunità di sviluppare azioni nei settori della politica ambientale, regionale, sociale e industriale.
Oltre allo sviluppo di tali politiche viene creato il Fondo sociale europeo, diretto a migliorare le possibilità di occupazione dei lavoratori e il loro tenore di vita, e istituita una Banca europea per gli investimenti, destinata ad agevolare l'espansione economica della Comunità attraverso la creazione di nuove risorse".

7. Oggi noi sappiamo che la Corte si trova a fronteggiare direttamente un problema, posto dalla disciplina europea, che, solo in apparenza, appare esplicitamente incidente, rispetto al passato, sui rapporti politici, sociali e civili: quello del pareggio di bilancio.
Di questo aspetto ci siamo già occupati sia in "Euro e(o?) democrazia costituzionale" che ne "La Costituzione nella palude".
Richiamiamo qui dei post che ne sono parte fondamentale:

COSTITUZIONALITA' DELLE MANOVRE FINANZIARIE. UN DUBBIO INTERNO ALLA STESSA COSTITUZIONE


Nel secondo di tali post avevamo commentato un articolo di Federico Fubini che esprimeva il seguente concetto:"...il conflitto fra interpretazione della Costituzione italiana, regole europee e risorse è più acuto che mai. Lo è al tal punto che, in ambienti del governo, sta emergendo una tentazione: chiedere un rinvio del caso alla Corte di giustizia europea, per chiarire se la sentenza della Consulta italiana sia coerente con gli impegni di bilancio firmati a Bruxelles. 
Il nuovo Patto di stabilità (il “Six Pack” e il “Two Pack”) sono inclusi nel Trattato, dunque hanno rango costituzionale e il diritto europeo fa premio su quello nazionale. Il governo italiano potrebbe chiedere alla Corte di Lussemburgo se la sentenza dei giudici di Roma sia compatibile con essi."

A questo perentorio assunto del "fa premio su quello nazionale" (di diritto costituzionale) avevamo opposto la sentenza della Corte costituzionale n.238/2014, dove era ribadita la vigenza dei controlimiti, cioè della invalicabilità dei diritti fondamentali previsti nella Costituzione, nei confronti di qualunque fonte europea. Questa consolidata affermazione basterebbe perché l'affermazione gerarchico-militare di Fubini fosse già confutata. La sentenza della Corte costituzionale in materia di "adeguamento pensionistico" ne è una traccia, ma, come abbiamo evidenziato, indiretta.

8. Questo perché, in quella occasione, la Corte in realtà aveva aggirato l'ostacolo ponendosi in "mezzo al guado" di un compromesso tra due soluzioni inconciliabili, che l'hanno, allo stato, arrestata sulle soglie di un problema diverso da quello del sindacato sulla compatibilità costituzionale dei trattati:
"Mi limito a suggerire una direzione di indagine:   - è più "equo" accorgersi degli effetti di restituzione retroattiva delle sentenze della Corte in vigenza dell'art.81 Cost.- cioè del pareggio di bilancio- per impedire una successiva redistribuzione punitiva derivante dalle esigenze di costante copertura appunto in pareggio di bilancio (caso della sentenza n.10), ovvero "ignorare" che, vigendo l'art.81 Cost. attuale, e il fiscal compact, qualcuno dovrà comunque pagare quella apparente restituzione e, dunque, l'intero sistema economico subire (per via fiscale) una equivalente contrazione (esattamente compensativa di quella dichiarata incostituzionale) di consumi, investimenti e occupazione?"
In sostanza, la Corte riaffermava il diritto fondamentale, ma ne subordinava la tutela effettiva, cioè il pieno ripristino sotto il profilo della eliminazione delle "lesioni" che il diritto stesso aveva subito nel corso del periodo di applicazione della norma illegittima, ad una ricercata compatibilità col principio del pareggio di bilancio.
Con ciò, da un lato, rifiutando di metterne in discussione la effettiva connessione coi pretesi scopi di "risanamento economico" e di promozione della crescita enunciati verbalmente come suo "titolo" giustificativo nominalistico, scopi che esso certamente non persegue (e nessuno lo afferma nemmeno più, neppure tra i massimi responsabili della politica economica), dall'altro, evitando di affrontare il cuore del problema: cioè cercare di spiegare quali siano le cause effettive della crisi economica italiana, sviluppatasi, dopo il 2011 in dipendenza delle politiche fiscali imposte dal mero scopo di mantenere in vita l'euro a detrimento del livello di occupazione e salariale.

9. Ebbene, l'impossibilità di risolvere questo genere di problemi in modo logico e conforme al dettato costituzionale, - che non dovrebbe mai consentire una norma, di qualsiasi origine, che in concreto, e per "fatto notorio", non potendosi ignorare l'impatto delle misure di consolidamento fiscale, sia limitativa dell'occupazione-, discende dalla scelta contraddittoria operata con le prime sentenze del 1973 e seguenti: deriva cioè dall'illusione di poter considerare in qualche modo "neutrale" la sovrapposizione del sistema neo-liberista rafforzato dal trattato di Maastricht rispetto alla questione fondamentale di quali siano "i fini e le funzioni dello Stato", per usare le parole di Caffè, previsti dalla Costituzione in rapporto alle politiche economiche e fiscali
Queste ultime non possono continuare a essere considerate un "qualcos'altro" rispetto alla tutela dei diritti fondamentali della persona.
L'alternativa al recepire in pieno questa interconnessione, voluta dai Costituenti in un'armonia complessa (come disse Basso in un celebre intervento in Costituente), sarebbe quella di separare da tali diritti fondamentali il diritto al lavoro, arrivando però a ratificarne quel carattere di "mero enunciato enfatico" (oggi tanto di moda), che non solo fu respinto come formula dagli stessi Costituenti, ma la cui accettazione ridisegna definitivamente, in senso profondamente modificativo, l'insieme dei diritti fondamentali concepiti nella Costituzione del 1948.

10. La Corte, come abbiamo già visto, assume come aprioristicamente attendibile ciò che è invece fortemente e ragionevolmente dubitabile: e cioè che gli obblighi assunti verso l'UE e che hanno portato alle politiche dettate dal fiscal compact, (inclusi i patti di stabilità interna che tanto incidono sul livello minimo essenziale delle prestazioni ad ogni livello di governo territoriale), siano stati contratti per superare la crisi economica italiana e "tornare alla crescita".
Ma nel far ciò si limita ad accettare come incontestabile questo enunciato puramente nominale, cioè a ritenere che siccome una fonte europea - e la legislazione conseguente che l'Italia è costretta ad adottare- enuncia un fine, questo sia indubitabilmente rispondente al vero: e, per di più insindacabile, non solo alla luce dei suoi effetti, - completamente contraddittori, scaturenti da tali fonti (europea e nazionale pedissequa), cioè alla luce della irrisolvibile recessione e stagnazione che derivano dall'applicazione delle politiche finanziarie imposte dall'UEM-, ma anche alla luce degli stessi presupposti giustificativi del fiscal compact assunti dalle istituzioni europee che l'hanno imposto
Con questo, in pratica, chiudendosi in un mondo di enunciati inerziali e fuori dal dibattito politico-ecomico che agita l'intera UEM, che ha reso ormai di pubblico dominio gli scopi effettivi del fiscal compact: la correzione degli squilibri commerciali e finanziari scaturenti dal meccanismo della moneta unica al fine esclusivo di mantenere in vita quest'ultima.

Questa presunzione assoluta di veridicità delle "intitolazioni" strategiche delle fonti europee, scisse dai loro scopi effettivi, facilmente accertabili in base a imponenti analisi e giustificazioni provenienti da dichiarazioni formali delle più importanti istituzioni europee, pare un vecchio punto debole della nostra Corte.
Un punto debole che si riverbera sulla operatività dei più autentici principi fondamentali della Costituzione del 1948 e che denuncia ormai un difettoso approccio culturale e interpretativo che ha superato i quaranta anni.

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