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L'INTEGRAZIONE ECONOMICA IN EUROPA? I TRATTATI CREATIVI DELLO STATO DI ECCEZIONE. ANTIDEMOCRATICO.

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1. Nell'accingervi a leggere questo post, mi pare opportuno segnalare l'ultimo post odierno su goofynomics, che risulta ricco di chiarimenti sulle diverse formule e gradi dei sistemi di apertura dell'economia o, in termini complementari, di integrazione dell'economia tra paesi diversi: l'apertura delle economie, infatti, esige sempre una regolazione giuridica che tenda a coordinare gli effetti "innovativi" che scaturiscono, - detto in termini brutalmente semplici, ma così riassunti dallo stesso Caffè-, dall'arrivo di merci e capitali esteri in una misura e intensità che alterano i precedenti equilibri socio-economici interniriguardo a "ciò che dovrà essere prodotto nel Paese e a ciò che dovrà essere ottenuto in cambio dall'estero" (qui, p.8). Aspetto che, secondo Keynes, sarebbe poi la decisione politica suprema che giustifica il ruolo dello Stato e la sua titolarità delle politiche economiche e fiscali: una decisione che, idealmente, Caffè riporta (pp.8-9) alle formule, normative sia chiaro, della Costituzione economica e che, "tecnicamente" egli ravvisa negli studi preparatori della stessa effettuati dalla Commissione economica per la Costituzione, di cui Caffè era componente

2. Una piccola aggiunta a questo necessario chiarimento, ci dà lo spunto per un utile (spero) riassunto del discorso complessivamente svolto da questo blog (insomma i links non sono da sorvolare a cuor leggero...).
Il discorso svolto da Alberto, infatti, ci porta a sottolineare che, quando parliamo di integrazione economica, si tratta, in linea di tendenza, di sistemi (pretesamente) cooperativi che trovano, invariabilmente, la loro "istituzionalizzazione" in accordi di diritto internazionale: cioè in decisioni politiche del più alto livello e, come tali, teoricamente sottoposte al massimo grado di responsabilità non solo politica (cioè elettorale), ma anche giuridico-costituzionale: cioè in termini di rottura, resa permanente, della legalità costituzionale e di creazione di un assetto extra-ordinem (come ci conferma Luciani, eminente costituzionalista, in uno scritto post-Maastricht, arrivando alle nostre stesse conclusioni...del 2013). 
Si tratta, quindi, della incombente responsabilità (costituzionale e persino penale) per la instaurazione di assetto non consentito dalle norme costituzionalisui limiti dei poteri negoziali degli organi di indirizzo politico: governo e parlamento.

Ne consegue che, come abbiamo già segnalato, "apertura" dell'economia e metodi di integrazione economica tra economie di Stati diversi, non "accadono" per forza naturale, delle cose ma seguono invariabilmente due percorsi: quello negoziale di diritto internazionale, ovvero quello della guerra di sottomissione di uno Stato colonizzatore in danno di un altro Stato (inteso come comunità sociale e territoriale avente delle sue precedenti connotazioni di autonomia e unità politiche). 
Di questa seconda formula ci dà, da ultimo su questo blog, ampio conto il più recente post di Bazaar che, al tempo stesso, evidenzia come, specialmente nell'esperienza storica europea più recente, che va dall'espansione nazista germanizzatrice a quella dell'Unione europea, - egualmente germanizzatrice nei crudi fatti-, i risultati perseguiti coi i due diversi "sistemi", non divergano poi in modo rilevante.

3. Questa inquietante "non diversità" di risultati ultimi, come sottolinea anche il post di Alberto sopra citato, trova dei diversi e alternativi riflessi avversativi (anzi, estirpativi) di ciò che viene definito, in modo solo manicheista, "protezionismo" e che, invece, come abbiamo visto, non è sussumibile in un'unica funzione politico-economica, meno che mai riducibile alla esaltazione del nazionalismo e all'ostilità verso gli altri Stati: ma è lo stesso Caffè a segnalarci come Keynes avesse ben individuato il costo immancabile dell'apertura delle economie

In altri termini, secondo Keynes, tale apertura e la regolazione tesa alla complementare "integrazione", pur potendo spaziare in una certa variabile intensità di effetti degradanti del tessuto economico e sociale del paese più debole che si "apre" e si "integra" (e il colonialismo che diviene intrinsecamente razzista ne è l'espressione al limite massimo), presenta un effetto negativo invariabile, che, a ben vedere, discende dalla stessa tendenza, presupposta, del capitalismo liberoscambista a fondarsi sulla ipocrisia della libera concorrenza senza "frontiere" (come appunto si vuole nel Manifesto di Ventotene).
Ma tale libera concorrenza, in realtà, null'altro è che, (proprio nel  liberoscambismo così macroscopicamente incarnato dall'Unione politica e monetaria europea), l'esaltazione delle tendenze mercantiliste degli oligopoli dei paesi più forti economicamente. Senza dimenticare che, come evidenziano pure il post (e l'opera divulgativa) di Alberto, aggiungendo al liberoscambismo, all'Unione doganale e al mercato unico, l'unione monetaria, il paese più forte - e dunque inevitabilmente avvantaggiato dai trattati che tale moneta unica sanciscono- è quello che muove da una situazione di più bassa inflazione e prosegue ad accenturare questa situazione (cercando cioè il vantaggio competitivo dei c.d. tassi di cambio reale la cui decisiva rilevanza permane anche in una moneta unica, se non viene unificato politicamente, e in partenza, il bilancio e il governo fiscale dell'intera area monetaria).

4. Per tornare al costo, evidenziato da Caffè in una visione keynesiana rigorosa, della "integrazione economica" da trattato- specialmente multilaterale, come abbiamo evidenziato in questo post, essendo ben diversi gli impatti, e gli stessi presupposti di autonomia sovrana e di convenienza, dei trattati bilaterali-, esso contiene l'implicita critica all'ipocrisia della principale ipotesi di scuola liberista (marshalliana, si sarebbe detto nella sua epoca): quella della concorrenza perfetta
Ma la sintesi profetica di Caffè contiene anche la prefigurazione del costo sociale ed economico inevitabile della "integrazione" e anche il preannunzio dell'impoverimento culturale, in ogni senso, dei paesi coinvolti.
Questo costo è infatti così tratteggiato:
"l'ingigantirsi, privo di freni e di remore...della stessa intensificazione dei traffici internazionali, quando essi non riflettano una più efficiente soddisfazione di bisogni basilari, ma si risolvano in un artificioso travaso reciproco di prodotti resi indispensabili dalle tendenze imitative tipiche delle situazioni di concorrenza oligopolistica."
Ora, come sappiamo, il fenomeno dello "artificioso travaso reciproco di prodotti" viene evidenziato pure da Rawls, nello stigmatizzare l'effetto inevitabile dell'Unione europea, (tra l'altro pur senza analizzare se il suo accoppiarsi con la moneta unica sacrificasse persino quella crescita "garantita" che, pure, Rawls considera un vantaggio di valore inferiore ai disagi sociali e culturali che comunque l'Unione avrebbe apportato!): il "consumismo senza senso". 
Che è come dire il tecnicismo-pop al potere che diluisce ogni pallido ricordo della verità, cioè degli effetti reali che vengono programmati quando si intraprendono unioni economiche e monetarie, senza aver voluto considerare minimamente il benessere e la democrazia dei popoli che ne sono coinvolti.

5. Nel caso dell'Unione europea, basti dire che questa mancata considerazione programmatica del benessere e della democrazia è addirittura un principio fondante: cioè quella "economia sociale di mercato fortemente competitiva", principio chiave supremo dei trattati, che null'altro è che un'esasperata e anticooperativa competizione tra Stati, e sottostanti popoli.
Una competizione che riduce al valore "mercato"(conquista di quote, inevitabilmente in danno dell'economia-comunità sociale di un altro Stato, parte dello stesso trattato) l'essenza dell'Unione europea e priva di ogni legittimazione cooperativa la ragion d'essere del trattato.
Un trattato meno che mai funzionale alla "pace e alla giustizia tra le Nazioni", dato che, come abbiamo visto, l'integrazione fortemente competitiva fnisce per avere, all'interno della moneta unica, gli stessi effetti del mercantilismo imperialista e colonizzatore a vantaggio dei già forti e a svantaggio dei deboli, ancor più indeboliti. 
Fino, possibilmente, alla schiavizzazione, come insegna il "modello" di risoluzione greco, adottato nell'eurozona per le crisi da squilibri commerciali e di  indebitamento estero interne all'area monetaria divenuta mercantilista e colonizzatrice. 
Un modello che non è solo la negazione del benessere e della democrazia dei popoli, ma anche un sistema intenzionale di creazione di "stati di eccezione" che trasferiscono irreversibilmente il potere dalla sovranità democratica, fondata sulla piena occupazione come orientamento costituzionale, all'ordine sovranazionale degli oligarchi del capitalismo finanziarizzato. Per trattato.
Questa è l'integrazione economica oggi realizzata in €uropa.
E, si badi bene, non ha proprio nulla a che fare con effetti inevitabili del progresso tecnologico sui modi della produzione e sull'assetto sociale che ne consegue: ha solo a che fare, come ci illustra il post sull'ordoliberismo sopra linkato, con la ben nota "rivincita" del vetero-capitalismo sulla emancipazione democratica del mondo del lavoro. In €uropa specialmente...
Ma questo versante del problema cercheremo di affrontarlo in un prossimo futuro.
 



IMMIGRAZIONE IN EUROPA E "€UROPEAN-WAY": LE PREVISIONI "DIMENTICATE" DEI TRATTATI

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http://4.bp.blogspot.com/-DwqS60ZhK54/UpHuHKpNkjI/AAAAAAAAC38/jR8lgZfj_9Q/s1600/gastarbeiter.jpg

1. La confusione mentale regna sovrana nelle dichiarazioni degli €uropeisti, istituzionali e "culturalizzati", ovverosia, ideologizzati a quella forma di mondialismo, sedicente progressista (ma che ha in sommo odio le Costituzioni democratiche dei diritti del lavoro), che finisce invariabilmente per predicare la...carità del gold standard mondializzato, come forma di promozione, addirittura, dell'etica cristiana.
Perchè di questo si tratta quando si teorizza l'assoluta priorità del mantenimento dell'euro in quanto tappa fondamentale di un percorso verso una moneta unica mondiale, indubbiamente sottratta alla sovranità dei singoli Stati (democratici e regolati da Costituzioni) e, di conseguenza, necessariamente affidata al sistema bancario liberalizzato e altrettanto mondializzato: questo assume così la forma di una governance "de facto", ma guardandosi bene dal chiarirlo ai cittadini che, a un certo punto, si trovano esposti al bail-in. 

Ed infatti, allorchè un trattato istituzionalizza tale assetto monetario (dove l'erogazione del credito diviene l'unica forma di emissione della moneta lecitamente praticabile), questo risulta l'effetto per il benessere e la democrazia dei cittadini degli Stati assoggettati al trattato stesso. Cioè un assetto che sottomette ogni tipo di istituzione "pubblica", sia statale, in via di "liquidazione"(perché obsoleta), che pseudo-internazionale; dunque governance  rispondente a interessi economico-finanziari "privatizzati" e resi "sovrani" da trattati che si intendono superiori alle Costituzioni.
In versione cristiana, ecco la non nascosta teorizzazione che ne fece Beniamino Andreatta tra un "inevitabile""movimento per l'unificazione monetaria" mondiale, essendo la moneta nazionale "uno strumento sempre più obsoleto", e lo sviluppo, non a caso anticipatorio di Padoa-Schioppa, "in modo duro austero e forte" del "senso della cittadinanza universale": 


2. Presupposto, come direttiva principale, questo scenario, - che non bisogna mai dimenticare, dato che non è nè lo stato di eccezione derivante dall'immigrazione nè quello, ancor più "eccettuante", creato dal terrorismo, che lo pongono in discussione (anzi, lo rafforzano e ad esso occorre tendere con ogni mezzo: propagandistico, mediatico, accademico, e anche militare, ormai)-, dicevamo della confusione che regna sovrana negli enunciati e nelle decisioni preannunciate (come TINA) dall'€uropeismo in crisi (wanna be) di espansione.

Infatti, da un lato, dichiarano che il problema dell'immigrazione di massa nel territorio dell'Unione è qualcosa con cui dovremmo convivere a lungo, perché, a dire dell'UE e di tutte le organizzazioni mondialiste (in testa il Dipartimento di Affari Sociali ed Economici dell'ONU), esso è un fattore benefico di trasformazione e riequilibrio demografico,indispensabile per la sostenibilità sociale (certamente dello Stato minimo hayekian-mondialista).
Dall'altro lato, in varie versioni, che spesso si rincorrono e si contraddicono tra di loro, ci dicono che siamo in guerra con l'Islam, o coi terroristi antidemocratici: come se la democrazia fosse una preoccupazione dell'UE, che teorizza senza mezzi termini l'esautorazione dei parlamenti nazionali, e l'instaurazione di unagovernance tecnocratica modellata, secondo la versione esplicita della Venice Commission, su quella della World Bank

3. Insomma, sia come sia, saremmo in guerra e bisogna costituire un esercito europeo; naturalmente supportato da "riforme strutturali" che includono la riduzione del personale pubblico dipendente della difesa, l'operatività auspicata dei contingenti armati di contractors privati, la creazione di gruppi industriali privati, super-oligopolistici, accorpati a livello €uropeo (cioè l'acquisizione dell'industria della difesa dei paesi "debitori" da parte dell'industria privata dei paesi "forti"), e, però, investimenti in ricerca e sviluppo a carico dei bilanci degli Stati (senza tuttavia rinunciare al pareggio di bilancio, non sia mai!), perchè si sa, il "ritorno" di tali investimenti può essere gravemente incerto e non possono i privati perdere tempo visto che sono così cristiani e caritetevoli da fare gli interessi della "difesa comune".

In questa evidente contraddittorietà non c'è spazio per alcun ragionamento razionale, essendo l'emotività su cui si basa il controllo totalitario neo-ordo-liberista (anche Sapelli ce lo conferma), completamente intollerante verso qualsiasi ragione che la contraddica.

4. Ma val bene la pena di rammentare qualche precedente storico: movimenti migratori interni all'Europa ci sono stati in passato e, con tutta evidenza, non furono regolati nel modo in cui si vorrebbe attualmente imporre il flusso di coloro che "fuggono dalla guerra, dalla miseria e dalla fame".
Certamente, il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, determinò in Europa problemi anche più gravi di quelli causati dalle crisi mediorientali e africane attuali. Negli anni e, anzi, nei decenni immediatamente successivi, infatti, in attesa degli effetti sociali ed occupazionali delle varie "ricostruzioni" (industriali e degli Stati di diritto) di un continente devastato, i flussi migratori tra Stati europei furono certamente imponenti. E gli italiani ne furono, purtroppo, protagonisti.
Come furono affrontati?

5. Seguendo un modello di risoluzione che oggi si è stranamente dimenticato: 
a) naturali carenze di manodopera e di base demografica erano certamente presenti (i morti, i disabili al lavoro e i deportati erano decine di milioni) e costituivano un problema per la ripartenza industriale, specie in attesa di poter ricostituire, con adeguati investimenti, gli impianti distrutti o, comunque, resi obsoleti dall'arresto delle attività economiche non strumentali all'apparato bellico. (Dapprima, va detto, furono utilizzati come lavoratori in stato di semi-schiavitù, i prigionieri tedeschi, ma questa fase, procedendo l'applicazione dei vari trattati di pace, finì entro il 1947-46);
b) Stati come il Belgio e la Germania (ma anche la stessa Francia), risolsero il problema stipulando trattati bilaterali con gli Stati che, come l'Italia, avevano un'incompiuta (quanto ad efficienza) base agricola e un'insufficiente base industriale, financo da ricostituire, per poter assorbire l'eccesso di manodopera determinato dal simultaneo ritorno dei vari combattenti e dalla carenza di investimenti praticabili (in attesa della riforma agraria - che, comunque, a dire di Caffè, rimase incompiuta nella sua dimensione programmatica "a tappe" che, pure, era stata elaborata dalla Commissione economica per la Costituzione-, e della ripresa industriale);
c) questi trattati bilaterali prevedevano una selezione della manodopera potenzialmente ammissibile alla emigrazione operata, sulla base di procedure di richiesta dello Stato "ricevente", dagli stessi uffici competenti dello Stato di origine. Questo modulo fu poi piegato alle esigenze della parte economicamente più forte, in quanto dapprima si volevano essenzialmente lavoratori italiani provenienti dalle aree già industrializzate e che non fossero comunque stati coinvolti in rivolte contadine e "occupazioni" delle terre: insomma, nei centri di raccolta (sotterranei della stazione di Milano o di Verona, non molto dissimili da lager) in territorio italiano, i funzionari belgi e tedeschi riselezionavano i cittadini italiani considerati più adatti e meno politicamente compromessi col "comunismo";
d) nel paese di destinazione, i lavoratori italiani venivano trasportati, dai treni-merce su cui avevano viaggiato, in appositi carri-bestiame, a della baraccopoli per essere allogiati. Generalmente si trattava degli stessi campi di prigionia usati dai tedeschi o dagli alleati durante il conflitto. Qui avveniva un'ulteriore selezione, dove i politicamente sgraditi e quelli fisicamente e psicologicamente inadatti al lavoro, in miniera, o nel facchinaggio più pesante, erano individuati sbrigativamente e rimpatriati;
e) dopo alcuni anni di applicazione di questi trattati, l'indirizzo di selezione mutò, perché ci si accorse che i meridionali italiani, essendo più privi di alternative e più disperati, erano meno portati all'abbandono e al rimpatrio di quelli del nord, che, a loro volta, venivano richiamati in patria dai parenti che, nel frattempo, avevano constatato la ripresa economica e dell'occupazione nelle aree industriali italiane, dove le condizioni di lavoro erano meno disumane di quelle imposte da begli o tedeschi;
f) nondimeno, i meridionali italiani, una volta stabilizzati, perché ritenuti affidabili e "produttivi" (naturalmente a livelli retributivi, e di condizione abitativa, più bassi di quelli che qualsiasi autoctono avrebbe mai accettato), e ritenuti perciò "preferibili", venivano incentivati a richiamare anche i parenti; ciò da un lato consentì ai paesi "riceventi" di evitare la straniazione e la potenziale destabilizzazione sociale legata alla presenza degli immigrati, dall'altro li rifornì di un ulteriore stabile flusso di manodopera a bassa retribuzione, che veniva socialmente emarginata e rinchiusa in enclaves chiuse nella memoria e nella nostalgia della terra di provenienza (dunque, l'assimilazione fu convenientemente molto lenta e completata dalla discriminazione selettiva nell'accesso ai livelli superiori di istruzione dei figli dei nostri emigrati: fenomeno, che dato il sistema istituzionale scolastico tedesco, è sostanzialmente ancora in atto).

6. Al di là della cronistoria di dettaglio di questi eventi, che certamente testimoniano la non novità delle grandi migrazioni di massa in Europa, e che potete trovare più o meno crudamente illustrati qui e qui (ex multis), è evidente che le soluzioni adottate, - pur quando, si badi bene specialmente nell'esperienza tedesca, erano già operanti i trattati OECE (poi OCSE) e i primi trattati europei CECA e Euratom-, erano improntate a:
a) fissazione annuale di contingenti da parte del paese di destinazione e selezione degli "aspiranti" operata essenzialmente sul territorio di provenienza, da parte di organismi e funzionari sia nazionali che del paese di destinazione, secondo procedure fissate nei trattati bilaterali (anche se poi, come abbiamo detto, in pratica "forzate" a favore della discrezionalità esercitata di fatto dai selettori stranieri operanti in territorio nazionale);
b) assicurazione dell'occupazione all'arrivo, ma sottoposta sia a un'ulteriore selezione "in loco" che ad un periodo permissivo "legale" iniziale limitato (generalmente a un anno), al cui termine, se la autorità e i dirigenti delle imprese non erano soddisfatti, si procedeva alla revoca del permesso di lavoro e al rimpatrio;
c) forte ciclicità dell'immigrazione stessa, in funzione della corrispondente ciclicità dei settori industriali interessati, con contingentamenti e rimpatri accelerati in caso di crisi occupazionale del settore. A ciò si unì poi la mitigazione delle mera importazione di forza lavoro col consentire i "ricongiugimenti", cosa che garantiva sia futura forza lavoro senza dover ricorrere all'applicazione del trattato bilaterale, sia la più sicura assimilazione dei familiari insediati, seppure segregati in condizioni di mobilità sociale, in particolare sotto il profilo dell'accesso ai livelli più alti di istruzione,  istituzionalmente delimitate;
d) la successiva crescita dell'economia italiana, a complemento di ciò, indusse poi il fenomeno dei "ritorni" nei paesi di origine, contribuendo ulteriormente a calmierare i problemi di impatto socialmente destabilizzante sulle comunità sociali e politiche di destinazione.

7. In sintesi, si può dire che il sistema ebbe una certa funzionalità, pur con i suoi ovvii inconvenienti, riassumibili nella formula: non ci sono pasti gratis, meno che mai che per degli stranieri, e meno che mai ci si può aspettare che vengano stesi tappeti rossi per un'integrazione che, come evidenziano le cronache del tempo, ad es; in terra tedesca, passavano per una comunicazione politica e misure normative che rassicuravano i tedeschi sulle preferenza loro accordata per l'accesso ai lavori più appetibili.

Rimane il fatto che tale sistema aveva dei contenuti concordati essenziali, considerati connaturali: il reclutamento-collocamento e il convolgimento burocratico e istituzionale congiunto, sul territorio di "origine" dei responsabili amministrativi di entrambi gli Stati, secondo esigenze e contingenti programmabili stabilite negli accordi bilaterali, nonché la selezione ulteriore, in funzione di convenienze anche di orientamento politico e atteggiamento "cooperativo", compiuta nel paese di destinazione. Che, comunque, si riservava sia ulteriori selezioni all'arrivo in base a criteri di ulteriore "gradimento", sia l'adozione di un sistema di temporaneità dell'occupazione assicurata, che quello di misure normative studiate per tenere sotto un certo controllo l'inserimento-mobilità sociale dei nuovi arrivati (e delle loro stesse famiglie ricongiunte).

8. Ora, pur nella, molto presunta, nuova sensibilità verso i "diritti umani" dell'attuale €-clima ideologico-mediatizzato (diritti che, se escludiamo quelli di tutela del lavoro, smantellati a tappe forzate in tutta €uropa, si riducono a formule cosmetiche su accoglienza e forme di assistenza sociale, anch'esse progressivamente tagliate, come ben sappiamo), è facile avvedersi come questa soluzione sia tutt'ora e vantaggiosamente praticabile.
Va, infatti, considerato che i paesi di provenienza dell'attuale immigrazione - che furiosamente e "curiosamente" viene lasciata premere direttamente alle frontiere dei paesi di destinazione- sono statisticamente ben noti e, comunque, facilmente accertabili, e che solo una percentuale minima, in termini quantitativi, dei "disperati", ha i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, o persino della condizione di protezione umanitaria o sussidiaria (cfr; art.78, par.1, del TFUE: concetti non ben precisati, semplicemente perché non precisabili sul piano materiale, storico e politico, e che dunque si prestano a arbitrii e manipolazioni del tutto contingenti, cioè a una discrezionalità priva di una seria predeterminazione legale dei suoi criteri di esercizio).
Si consideri che, quanto al 2014, ad esempio, "su 36.270 stranieri richiedenti lo status di rifugiato, il 10% (3.641) l'ha ottenuto, il 23% ha ricevuto protezione sussidiaria, il 28% quella umanitaria. Pari al 39% le domande respinte". E questa statistica esclude dal computo quegli immigrati che non hanno inoltrato alcun domanda di asilo, che sono la maggioranza, considerando che, nello stesso 2014, gli arrivi sono ammontati a circa 170.000 persone.

NB: I dati della tabella sottostante riguardano, nei vari Stati interessati, l'esito delle pratiche attivate dai richiedenti uno status di profugo o similare, non il numero totale degli immigrati in arrivo, che è molto maggiore: quelli che non fanno richiesta, infatti, sono, per loro stessa ammissione, degli immigrati "illegali" ai sensi dell'art.79 TFUE, cioè espressione del fenomeno che tale norma imporrebbe all'Unione di contrastare:
 

9. Essendo questi i fatti, non si vede perché l'Unione europea e, più ancora, gli Stati-membri non abbiano, di fronte alla situazione emergenziale protraentesi ormai da anni, attivato gli accordi bilaterali modellati sulle precedenti esperienze, interne all'Europa, che consentirebbero di evitare il tragico spettacolo permanente della disperazione e dell'ammasso umano, sfruttando, anzi, doverosamente applicando, le stesse clausole dei trattati.
Va infatti ricordato che l'art.78 TFUE  sopra citato, se letto in buona fede, si riferisce chiaramente a flussi peculiari, cioè determinati da eccezionali e imprevedibili eventi circoscritti a uno "Stato terzo" manifestamente in stato emergenziale, e non coinvolgenti in modo stabile e prolungato, data l'evidente ratio di eccezionalità della normativa, intere aree continentali o addirittura interi continenti.

Ce lo conferma lo stesso trattato: al successivo art.79, infatti, l'Unione nel configurare una "politica comune" di gestione dei flussi migratori:
a) si pone, al par.1, l'obiettivo prioritario del "contrasto rafforzato alla immigrazione illegale e alla tratta degli esseri umani". 
E dov'è tale azione comune di contrasto rafforzato, che è evidentemente diversa dal principio del "non respingimento" e della protezione sussidiaria e dei rifugiati, che riguarda situazioni eccezionali e imprevedibili?;
b) enuncia il seguente fondamentale principio (par.5): "Il presente articolo non incide sul diritto degli Stati membri di determinare il volume di ingresso nel territorio dei cittadini di paesi terzi, provenienti da paesi terzi, allo scopo di cercarvi un lavoro indipendente o autonomo";
c) infine, volendo attribuire alla normativa europea una certa previdenza sugli esiti emergenziali dei principi dell'art.78, lo stesso art.79, al par.3, mostra come la degenerazione, fuori dai suoi presupposti giustificativi nel trattato, di una fase emergenziale non si risolva con la permamente apertura delle frontiere che, anzi, fuori dalla condizione di imprevedibiltà, origine circoscritta ed eccezionalità, (caratteri che la dimensione e la durata attuale del fenomeno ormai smentiscono), deve considerarsi non consentita e da correggere. Ed infatti, il par.3 così prevede:
"L'Unione può concludere con i paesi terzi accordi ai fini della riammissione, nei paesi di origine o di provenienza, di cittadini di paesi terzi che non soddisfano o non soddisfano più le condizioni per l'ingresso, la presenza o il soggiorno nel territorio di uno degli Stati membri". 
E dove sono, dopo anni e anni di incremento vertiginoso del fenomeno della immigrazione illegale (ce lo dicono le statistiche) questi accordi, coi ben identificabili paesi terzi, per il rimpatrio di coloro che non soddisfano ora e poi le condizioni di ingresso in €uropa?

10. In conclusione, se gli Stati, nel quadro dei trattati europei, avrebbero ben potuto impostare dei trattati bilaterali coi paesi di maggior provenienza della immigrazione economica, per regolare i flussi migratori in funzione delle proprie effettive esigenze occupazionali, se l'Unione non ha concluso gli accordi di rimpatrio con questi stessi paesi (anche di coloro che "non soddisfano più" le condizioni di entrata), ci sarà un motivo razionale?
Forse che la disoccupazione dei legalmente residenti in €uropa non è un problema attuale, eclatante, disastroso, e, alle condizioni di governance economica dell'UEM, rivelatosi in concreto irrisolvibile?
Non è dunque un problema espressamente preso in esame dati trattati con le loro esplicite previsioni?

11. Certo, qualche problemino, ORA, a trovare organi dei paesi terzi legittimati a concludere dei trattati bilaterali e con l'Unione ci sono: ma la situazione sopravvenuta della Libia, visto il suo ruolo di passaggio-vettore della migrazione africana, era ben prevedibile, una volta scatenata la guerra contro Gheddafi. Anche considerando, appunto, che dalla Libia, essenzialmente, non scappano i libici, ma coloro che, provenienti da gran parte dell'Africa, uno Stato libico legittimo secondo il diritto internazionale, piuttosto, teneva sotto un certo controllo (per quanto ricattatorio).
E destabilizzare sistematicamente il medio-oriente con crociate per la democrazia aveva lo stesso risultati molto prevedibili di medio e lungo termine.
Tra l'altro nulla impedisce di concludere, anche attualmente, accordi bilaterali con Stati come la Tunisia, il Marocco, la Nigeria e via dicendo, anche implementando presso il territorio di questi Stati, o Stati simili, centri a gestione congiunta di selezione e verificanon solo della condizione di "rifugiato" o di "protezione umanitaria", ma pure di quella della "eleggibilità" del mero migrante economico.
Almeno, dovendo prendere delle decisioni in quadro giuridico certo e predefinito, si dovrebbe ammettere,nel caso dei "migranti economici", che la situazione dell'occupazione, nella maggior parte dell'eurozona, non è, in questo (lungo) momento, tale da rendere economicamente e socialmente opportuna tale tipologia di immigrazione.
E magari, si dovrebbe pure spiegare ai cittadini europei perché le cose stanno in questo modo (ben diversamente da quello che accadde nella fase di ricostruzione che seguì alla seconda guerra mondiale).

Invece, si continua con la politica dell'ammasso e degli arrivi alle frontiere dell'Unione, che sono esattamente l'opposto dei trattati bilaterali che il trattato avrebbe previsto e anzi, nelle condizioni attuali, imposto, per regolare i flussi di immigrazione e per combattere quella illegale e la tratta degli esseri umani.
Evidentemente, prevenire il terrorismo dei disadattati "programmatici", nelle sue più ovvie cause scatenanti, non è un obiettivo razionalmente affrontabile in sede €uropea.
Evidentemente la soluzione preferita è l'esercito europeo delle multinazionali private e delle privatizzazioni sovranazionali...

M€RCATI, PUBBLICO-PRIVATO E L'ESERCITO €UROPEO: UNICA ASSENTE, LA REALTA'

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http://www.internetsv.info/Images/EastIndiaC.jpg

https://baruda.files.wordpress.com/2009/03/prison-industry.jpg?w=595

1. Proviamo a tornare sul tema dell'"esercito €uropeo"...che garantisce la democrazia. 
Il problema sostanziale al riguardo non è politico-militare o storico-etno-culturale: porre l'attenzione su tali aspetti, che ostacolerebbero l'operatività futura di un tale "€sercito", equivale tutto sommato a soffermarsi su un problema consequenziale e applicativo che, nello scenario effettivo in cui si svolgono le politiche dell'UE, nonè considerato, dagli effettivi "decidenti", così rilevante
Il problema, o meglio l'essenza di queste politiche ha, invece, più a che fare con le implicazioni e le decisive influenze, tornate in queste ultime ore particolarmente attuali,determinate dall'ideologia, propria dei trattati UE, della assoluta prevalenza dei mercati, e quindi della prevalenza di alcune persone fisiche, che siano esponenti dei gruppi industriali e finanziari, sulle istituzioni (ormai teoricamente) democratiche.
Che questo sia il nodo della questione, che è dunque quello di una politica della "difesa" orientato a favorire i "mercati", più che le effettive e praticabili esigenze operative di protezione dei cittadini assoggettati a tali politiche sovranazionali TINA, ce lo aveva ben illustrato la serie dei 4 post "Fortezza Europa" di Riccardo Seremedi.

2. Naturalmente, oggi, chiunque provi a ragionare sulla "struttura", cioè sull'assetto reale e concreto dei rapporti sociali e di produzione, e quindi sulle inevitabili conseguenze dei trattati UE, in ogni settore di intervento che essi si prefiggono (conformemente alla loro oggettiva natura ordoliberista), viene tacciato di complottismo
Anche se i fatti della cronaca politica e giudiziaria, - adeguatamente frazionati dalla grancassa mediatica, per farli ricadere nelle categorie corruzione e Stato-spesa pubblica brutta-fonte-di-clientelismo-e-corruzione, evitando accuratamente di fornire lo scenario (storicamente ben definito e anche persistente) a cui abbiamo fatto sopra riferimento-, smentiscono la possibilità riduzionistica della realtà al complottismo.
E' ovviamente una questione di frame mediatico, dunque di comunicazione istituzionalizzata e, in definitiva, di precomprensione accuratamente diffusa per ottenere il consueto effetto di determinare "quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi".

3. A conferma delle analisi, basate (complottisticamente?) da Riccardo su fonti e documenti  ascrivibili alla stessa deliberazione istituzionale di indirizzo delle politiche UE, mi sono imbattuto in un "complottista"dal nome autorevole e che, al riguardo di "pubblico e privato" e politiche della difesa, ha scritto in "tempi non sospetti": John Kenneth Galbraith.
Perciò mi limito a riproporvi alcuni semplici passaggi del suo libro "L'economia della truffa", (RCS, 2004), tratti in particolare dal capitolo 7, "Il mito del pubblico e del privato" (pagg.103 ss.). 
Ogni lettore che sia sufficientemente ragionevole e non "de coccio", può, con gli opportuni adattamenti, trarre le sue conclusioni riguardo alla situazione attuale nel quadro europeo
In sintesi la spesa pubblica diviene "bella" se avvantaggia l'industria privata delle armi e, al punto a cui siamo giunti, l'apparato statale deve la sua residua sopravvivenza alla sua qualità di acquirente e utente di determinati prodotti e servizi resi dall'industria che, di vlta in volta, ha il maggior peso politico. 
E' la spesa scolastica, previdenziale e sanitaria quella che suscita la campagna di odio mediatico più intensa; ma mai toccare la capacità di spesa pubblica più altamente "produttiva": quella che prepara o attua la guerra (notoriamente processo catartico e selettivo con funzioni darwiniste ancor più bene accette ed efficaci delle stesse crisi economiche, epidemie e carestie). 
Più in generale, la spesa pubblica "buona"è quella si indirizza totalmente verso coloro che controllano il relativo settore di mercato e che sia completamente sotto il controllo di tali operatori dominanti. E intendiamo un controllo che, come evidenzia Galbraith, è sempre più esercitato all'interno delle stesse istituzioni:

"Negli Stati Uniti, come in altri paesi economicamente avanzati, nessun riferimento è così comune, così accettato, come quello ai due settori del mondo economico e politico: il settore privato e quello pubblico.
C'erano una volta il capitalismo e il socialismo; ora, come si è detto, il termine "capitalismo"è in parte uscito dalla lingua parlata e scritta. E quando è usato, ha una connotazione vagamente negativa. Ma negli Stati Uniti anche il socialismo e, in generale il settore pubbico e le sue iniziative, sono guardati con profonda diffidenza. Ben pochi aspirano a essere definiti "socialisti". 

Perciò ci si riferisce positivamente soltanto al settore privato e a quel tanto di settore pubblico che è considerato indispensabile.

Il dibattito che ne deriva è tutto su temi specifici
E' giusto l'intervento pubblico nell'assistenza sanitaria, nel sostegno agli indigenti, ai pensionati e, in generale, ai bisognosi di aiuto, e nel sistema scolastico, che in teoria rientrerebbe nel settore privato?
Sarebbe utile privatizzare come si suole dire, altre attività dello Stato?
L'intervento dello Stato ha un costo in termini di libertà personale? Negli Stati Uniti, e in minor misura in altri paesi, il ruolo dei due settori è al centro di un intenso dibattito, nonché di una retorica prolissa e soporifera. 
Unica assente, la realtà.
Esaminata seriamente, la dicotomia settore pubblico-settore privato, si rivela inesistente. E' nelle parole, ma non nei fatti.
Un'ampia cruciale porzione del cosiddetto settore pubblico è, a tutti gli effetti, settore privato.

Nell'anno fiscale 2003, quasi metà della spesa discrezionale del Governo USA (gli stanziamenti non destinati a usi specifici come la previdenza sociale o il servizio del debito pubblico), è andata al settore militare: la Difesa, nella pudibonda definizione attuale
Di questa metà, una parte rilevante era destinata all'acquisto di armamenti, al loro sviluppo o al loro ammodernamento. Un sottomarino atomico costa miliardi di dollari; un solo aereo, decine di milioni. Altre armi ed equipaggiamenti sono meno spettacolari ma altrettanto costosi. 
Queste spese sono il risultato della persuasione e dell'influenza da parte di persone interessate e ricompensate, a ogni livello fino a quello della c.d. difesa atomica.

Le spese per armamenti non sono, come si tende a credere, il frutto di analisi obiettive da parte del settore pubblico. Molte sono la conseguenza dell'iniziativa e del peso politico dell'industria degli armamenti, cioè del settore privato.
Dalle principali industrie di armamenti vengono i progetti e le proposte di nuove armi; a quelle industrie vanno le commesse e i profitti.
E lo stesso avviene per i guadagni legati al resto della produzione bellica.
In un'impressionante dinamica di potere e influenza, l'industria degli armamenti assicura impieghi ben retribuiti, stipendi da manager e generazione di profitti nei suoi bacini elettorali, e indirettamente è una preziosa sorgente di finanziamenti politici.
La gratitudine e le promesse di appoggi politici raggiungono Washington e il bilancio della difesa, proseguendo fino al Pentagono e alla sue decisioni. Fino a sfociare, talvolta, nella guerra, come recentemente per il Vietnam o l'Iraq. 

Che il settore privato stia conquistando un ruolo predominante rispetto al settore pubblico è evidente. Meglio sarebbe discuterne in modo comprensibile.
Per la verità, parlare del mito della contrapposizione di pubblico e privato non è molto originale dal momento che la prima assai autorevole testimonianza in questo senso risale niente meno che al presidente Dwight D. Eisenhower, con le sue denunce dello strapotere del complesso militare-industriale.
L'assunzione del controllo della politica pubblica degli armamenti da parte dell'industria militare è stata esplicita. E' una delle ragioni dell'nutilità della contrapposizione tra i due settori.
D'altra parte, è difficile non tener conto, a questo riguardo, del parere di un presidente degli Stati Uniti che è stato la più nota figura militare del suo tempo.

Il mito contrappositivo dei due settori e le sue formidabili implicazioni si dissolvono lasciando un senso di urgenza ma non di grande originalità. Nè si tratta di una truffa innocente, in senso politico o sociale.

...In tempi recenti, l'invasione del cosiddetto settore pubblico da parte di quello che palesemente è il settore privato è diventata quasi normale
E dal momento che il management ha piena autorità nella moderna impresa, è naturale che tale autorità si estenda alla politica e al governo.
Una volta erano i capitalisti a intromettersi nella governo della cosa pubblica: ora sono i vertici delle grandi imprese.
Mentre scrivo, top manager del settore privato operano in stretta alleanza col presidente, il vicepresidente e il segretario alla difesa degli Stati Uniti, e importanti personalità delle principali società di capitali ricoprono incarichi chiave in varie banche del governo federale. Una di esse ha abbandonato la truffaldina e fallita Enron per assumere la direzione delle Forze Armate.
La Difesa e lo sviluppo degli armamenti sono una forza trainante della politica estera. 
Per alcuni anni (ma oggi, ancor più e non solo negli USA, ndr.), la grande impresa ha anche avuto il controllo risconosciuto del Tesoro e della politica ambientale. E si potrebbe continuare...

I media hanno ampiamente accettato questa evoluzione della politica.
Giornalisti bravi e coraggiosi parlano da tempo del controllo sullo sviluppo degli armamenti, sulla politica di difesa missilistica e sul bilancio della Forze armate da parte del potere privato. Il ruolo cruciale delle grandi imprese nella politica economica è ben noto...
Il venir meno della separazione tra settore privato e grande industria da un lato, e settore pubblico in restringimento dall'altro, è tuttora in corso.
Il 13 ottobre 2002, il New York Times ha annunciato che le società private hanno fatto un altro passo verso la presenza diretta nelle zone di guerra.
Nessuno potrebbe chiedere una prova più drammatica della sovrapposizione dei due settori. Ecco il resoconto del Times che, quando è uscito, ha attirato poca attenzione, forse perché il suo contenuto è già, in parte, luogo comune:
La grande impresa ora fornisce ogni sorta di sostegno alla truppe in combattimento, dal supporto logistico all'addestramento vero e proprio...
In Kuwait, alcune imprese private partecipano all'addestramento delle truppe americane con munizioni vere, nell'operazione il cui nome in codice è Desert Spring...Altre hanno funzionari che, indossate le loro vecchie uniformi, lavorano a contratto come reclutatori e istruttori, selezionando e addestrando la generazione successiva di soldati.

Questa è la realtà. In guerra come in pace, il settore pubblico diventa privato"

5. Ed eravamo "solo" nel 2002: oggi, più che mai, l'€uropa che smantella pensioni, sanità e istruzione pubblica, corre ad adeguarsi. "Deve" assolutamente adeguarsi: e i cittadini lo "devono" accettare come hanno accettato l'austerità malthusiana (si ritengano fortunati: l'austerità è più lenta e blanda di guerre e malattie carestie...).
In nome della pace e della sicurezza. E della democrazia...€uropean-way.

L'ASSEDIO: IL PERICOLO NON E' L'ARRIVO DELLA TROJKA

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1. Il pericolo non è l'arrivo della trojka che, come dovremmo ormai aver capito, è, nei fatti, già qui da un bel pezzo, (Monti ipse dixit); e forse non è neppure l'inasprimento inevitabile delle politiche attualmente imposte dall'€uropa ad opera del consueto governo tecno-pop, che farebbe ciò che sarebbe stato comunque fatto, solo con un po' più di brutalità nella comunicazione.
Il problema è che non c'è nessuno, ma proprio nessuno, capace di offrire un'alternativa risolutiva a questo scivolare verso il baratro. Peggio: è che non c'è nessuno, ma proprio nessuno, che sarebbe capace di trovare una linea di resistenza diffusa ed efficace a quella"comunicazione brutale" che  sarebbe il perno della propaganda, già dilagante, dell'ennesima "svolta".  
Una comunicazione che, come diceva Orwell, assume la forma dell'assedio.

http://it.manuelcappello.com/wp-content/uploads/2012/03/habermas-potere-comunicativo-IMG_4868.jpg
By George Orwell
 
Una comunicazione brutale, per capirci, fatta di:
- ritroviamo la competitività tramite la contrattazione decentrata

2. Tutta questa serie di slogan senza senso è ormai pronta per essere inoculata a dosi orwelliane e  troverebbe persino un vasto consenso.
Come avevamo visto qui:
"Ora, specialmente se si realizza l'ipotesi, allo stato più probabile, di euro-break "esogeno", cioè determinato al di fuori di un'iniziativa dello Stato italiano, l'eliminazione "forzata"dallo scenario della politica economica del vincolo valutario nella forma attuale, provocherebbeil rientro della scissione tra ordoliberisti per il superamento della sua unica ragione (ostinazione nel mantenimento di una facciata politica divenuta ormai, per la maggioranza di essi "irrinunciabile"),e, dunque, porterebbe a questa situazione:
 
===> 
 
Cioè l'aggregato ordoliberista riacquisterebbe una potenziale (e netta) maggioranza; e proprio grazie al ricongiungimento della componente dei tea-party divenuta, nei fatti sopravvenuti, dei meri "ex"-no euro ("senza causa").
...Da notare che, ancorchè eliminato l'euro, la partita sarebbe spostata immediatamente, e quasi per necessità, sul piano delle riforme costituzionali, di cui già oggi pare  fissata l'agenda e la sua attuazione: dalla esigenza di conservare o meno il pareggio di bilancio in Costituzione, alla stessa preliminare realizzazione della semplificazione decisionale del potere deliberativo delle Camere in materia di revisione costituzionale.
Quest'ultima revisione sarebbe il presupposto per poter più facilmente pervenire, - anche grazie ad un'opportuna legge elettorale-, alla seconda fasedi attacco al bersaglio grosso dei diritti fondamentali imperniati sulla tutela del lavoro e sulla piena occupazione in senso keynesiano.


3. Ormai, infatti, mancano le risorse culturali collettive, e non esiste più quasi nulla che si opponga al dominio totalitario della versione infeudata 2.0. del Quarto partito...
Abbiamo una trojka autoctona, incorporata con la sua religione, dentro alla parte più profonda delle istituzioni, del pensiero accademico, di ogni possibile comunicazione mediatica.

(da un intervista al Corriere della sera rilasciata da Mario Monti a Gian Antonio Stella)
http://scenarieconomici.it/wp-content/uploads/2016/01/PicsArt_01-11-09.55.24-1024x741.jpg

4. E dunque, traastensionismo inconcludente, e identificazione di massa nei pensieri e negli slogan di questa trojka di margravi "autoctoni", andremo al cupio dissolvi, portato avanti per il mero "piacere di vincere in un gioco in cui molti perdono", senza alcun dubbio, senza alcuna memoria: senza neppure la dignità di un popolo che sia capace di identificare se stesso come comunità collettivamente soggetta a una sistematica distruzione.

Non mi si venga poi a dire che denunciare questo stato di cose non è costruttivo: la mancanza di speranza è nei fatti, nelle tendenze irresistibili che sono già in atto, nella prosecuzione delle campagne mediatiche anti-Stato democratico e costituzionale addirittura in accelerazione.
Perchè se si volesse, - da parte di tutte le forze che, in astratto, affermano di opporsi a questo stato di cose-, il fornire un semplice punto di aggregazione, accettabile e comprensibile, sarebbe un compito praticabile e sul quale raggiungere anche un sufficiente grado di unità tra forze che, se oggi non sono coalizzate, ritroverebbero su ciò una comune convenienza.

5. Basterebbe supportare questo messaggio centrale, con fermezza, in tutta la comunicazione oggi disponibile alle opposizioni, in ogni spazio e in ogni circostanza:

"In sintesi, il cittadino dovrebbe pensare di non votare per chiunque non ponga la questione della inaccettabilità democratica della banca centrale indipendente, da cui deriva la conseguente inaccettabilità di tutti i corollari che, affermatisi a livello europeo, costituiscono il vincolo esterno.
E' sufficiente notare come, questa opzione di autotutela democratica del cittadino, non implica l'adesione a questa o quella ideologia che (sempre ingannevolmente) si arrogano il ruolo di soluzioni alla crisi (il caso Syriza è evidente, in tal senso): la lotta per la riconquista della sovranità popolare che passa per l'abrogazione del paradigma della banca centrale indipendente, attiene a una pre-condizione minima e coessenziale della democrazia in senso sostanziale, e può prestarsi alla unificazione ed alla confluenza di una pluralità di "visioni del mondo" all'interno della stessa democrazia.

Nella condizione di emergenza democratica attuale, in effetti, la battaglia per la ri-democratizzazione delle istituzioni bancarie e creditizie sarebbe il vero "distinguo" di un nuovo partito di massa, capace di dar voce agli interessi effettivi della maggioranza dei cittadini."

TOH, IL "MERCATO" IMPONE LA DECISIONE POLITICA IN €UROPA (quindi in Italia)

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1. Oggi più che mai, di fronte allo "stravagante" stupore mostrato dai media mainstream circa l'influenza del settore privato sulle decisioni politico-economiche, (cioè di livello legislativo), adottate dal settore pubblico, conviene rammentare l'analisi compiuta da Galbraith e riportata in un recente post.
Ve ne faccio una sintesi per linee essenziali che renda conto della istituzionalizzazione di tale influenza, al di là della questione del complesso militare-industriale (particolarmente influente negli USA per ben note ragioni strategiche internazionali):
"Che il settore privato stia conquistando un ruolo predominante rispetto al settore pubblico è evidente. Meglio sarebbe discuterne in modo comprensibile.

Per la verità, parlare del mito della contrapposizione di pubblico e privato non è molto originale dal momento che la prima assai autorevole testimonianza in questo senso risale niente meno che al presidente Dwight D. Eisenhower, con le sue denunce dello strapotere del complesso militare-industriale.
...
Il mito contrappositivo dei due settori e le sue formidabili implicazioni si dissolvono lasciando un senso di urgenza ma non di grande originalità. Nè si tratta di una truffa innocente, in senso politico o sociale.


...In tempi recenti, l'invasione del cosiddetto settore pubblico da parte di quello che palesemente è il settore privato è diventata quasi normale

E dal momento che il management ha piena autorità nella moderna impresa, è naturale che tale autorità si estenda alla politica e al governo.

Una volta erano i capitalisti a intromettersi nella governo della cosa pubblica: ora sono i vertici delle grandi imprese".

2. Potremmo assumere questa sintesi come un'epigrafe da cui muovere per illustrarne una serie di corollari, altrettanto essenziali perché ormai istituzionalizzati.
Il primo, e più eclatante, è che si conferma lo schema della "teoria generale della corruzione"
L'essenza del fenomeno corruttivo, infatti, tende a sfumare elusivamente in un'area quasi insindacabile, rispetto alle ipotesi considerate dalle norme penali, allorché l'influenzamento del settore privato è esercitato, preferenzialmente, sul livello dell'indirizzo politico, cioè potendo controllare il processo normativo ai più alti livelli. 
Questo effetto di controllo del processo normativo, a sua volta, è la conseguenza di un ambiente istituzionale orientato al "mercato" ("che non può essere nè progettato nè discusso razionalmente perchè è esso stesso a produrre la ragione"): cioè orientato a considerare l'attività di impresa, "gli investitori", come principale, se non unico, punto di riferimento dell'azione politica; e, dunque, non l'elettorato, inteso come popolo sovrano che si esprime nei modi previsti dalla Costituzione, i cui interessi dovrebbero essere riflessi nei programmi delle formazioni politiche che ne richiedono il voto.


1) ad un estremo abbiamo uno Stato autoritario, con forte repressione poliziesca e scarsa garanzia processuale delle libertà del cittadino di fronte allo Stato, controllato da una classe politica ben salda di un consenso legittimato da un potere economico legato alla coincidenza tra sfera del pubblico e concentrazione della proprietà (allo stato più puro, il sistema feudale). Il regime (alquanto ancién) è tendenzialmente incentrato su una disciplina delle classi sociali ben gerarchizzata e definita:
- prevale la CONCUSSIONE, cioè il più facile uso di violenza (morale essenzialmente) e minaccia (intimidazione strutturale derivante in sè dal contatto con i poteri pubblici) verso gli strati più deboli (e meno còlti) della popolazione. Esse sono utilizzate da ogni livello di pubblica autorità per appropriarsi di denaro o altra utilità a fronte dell'esercizio di pubbliche funzioni, esercitate nell'interesse generale "formale" (es; dazione per non applicare una sanzione o per accordare un beneficio, che sarebbe spettante ma che viene fatto dipendere da un'ampia discrezionalità "di fatto");
(Semplificando, sul piano storico, ciò descrive, in modo tendenziale, la forma di Stato sia delle monarchie assolute pre-costituzionali, sia la lunga fase di transizione degli Stati liberali censitari, cioè con voto limitato alla parte più ricca della popolazione, di sesso maschile)
2) posizione intermedia caratterizzata da norme sulle pubbliche funzioni più avanzate nel definire l'interesse pubblico in senso democratico: cioè nel porre limiti formali alla discrezionalità che assicurino, in teoria, eguaglianza nell'accesso ai benefici pubblici o nell'atteggiamento sanzionatorio dei pubblici poteri.
In un tale assetto organizzativo, caratterizzato dall'eguaglianza formale, nonchè da un'eguaglianza sostanziale non integralmente effettiva, e perciò coesistente con una (teoricamente) transitoria conservazione di consistenti posizioni sociali di forza economica:
- prevale la CORRUZIONE, cioè l'offerta di denaro o altra utilità al pubblico decidente per violare le norme in modo da garantire, a chi sia in grado di "investire" in questa dazione, la convenienza di una decisione favorevole non dovuta, o più rapida di quella ordinariamente riservata ai normali cittadini, o il "risparmio" della non applicazione di una misura sfavorevole, legalmente dovuta;
(Ciò descrive, tendenzialmente, il fenomeno nelle democrazie costituzionali che enunciano a livello programmatico i diritti sociali ma si fermano, storicamente, a un grado più o meno parziale di loro realizzazione)
3) all'altro estremo, abbiamo la permanenza o instaurazione (successiva al passaggio per una o entrambe le fasi precedenti) di forti posizioni di concentrazione oligarchica della ricchezza, e, pur in presenza di un sistema mediatico a forte diffusione di massa (TV e giornali) e di "formali" elezioni a suffragio universale per la preposizione alle cariche di "governo", il conseguenziale controllo sulla composizione della classe politica elettiva da parte degli appartenenti alla oligarchia.
Ciò determina la "capture" più o meno totale del processo normativo: legislativo (capture delle maggioranze parlamentari) e regolamentare-provvedimentale (capture sugli stessi componenti del governo).
In un assetto socio-economico in cui l'oligarchia abbia il controllo del processo normativo, le norme rifletteranno una concezione di interesse generale creato dal controllo mediatico-oligarchico e - attraverso opportuni standard e meccanismi di linguaggio fortemente "tecnicizzato"- renderanno tendenzialmente legale l'appropriazione delle utilità e beni pubblici da parte delle oligarchie a danno della utilità e della eguaglianza, formale e sostanziale, del corpo elettorale, svuotando di contenuto sia i diritti politici, sia i diritti sociali.
In tale evenienza (realizzabile in diversi gradi):
- prevale L'ASSENZA DI CORRUZIONE (per difetto di fattispecie sanzionatorie applicabili ai meccanismi di appropriazione disparitaria della ricchezza, che vengono simultaneamente legalizzati dalle norme); e la corruzione degrada a fenomeno episodico, visto come eversione di un assetto sociale basato su un'APPARENTE ETICA FORTE, CONNESSA A UN CONCETTO NORMATIVO DI INTERESSE GENERALE SVINCOLATO DAL BENESSERE GENERALE.
(Ciò descrive, tendenzialmente, il riaffermarsi del capitalismo "sfrenato", e la sua marcia di neutralizzazione dello Stato redistributivo pluriclasse, sintetizzabile nella tecnocrazia mediatica)
http://files.cristianminerva.webnode.com/200000081-6e5d66f576/download%20(5).jpg

4. L'attività di decisione politica si trasforma dunque in azione di tutela del mercato, cioè degli interessi di alcuni specifici "operatori privati", la cui selezione è per definizione un dato non trasparente, sebbene proprio la "trasparenza" sia invocata da questo paradigma allorché pone sotto accusa il settore publbico. 
Affidandosi, come vedremo, a una formulazione enfatica  legittimata da un trattato sovranazionale, si tratta poi di un indefinito "mercato", di cui la stessa politica sostiene di conoscere e promuovere i meccanismi: questa conoscenza, a sua volta, è una cosa estremamente aleatoria, visto che la stessa individuazione e definizione di tali meccanismi dipende da ideologie che sono fortemente condizionanti le stesse teorie "tecniche" espresse dalla scienza economica. 
Facendosi coincidere la decisione politica con la promozione di (indefiniti) meccanismi di mercato, diviene naturale quel fenomeno di  "invasione del cosiddetto settore pubblico da parte di quello che palesemente è il settore privato"evidenziato da Galbraith (e non solo): la classe politica, infatti, dovendo assumere per sua funzione divenuta istituzionale, "decisioni sul mercato", deve ricorrere alla cooptazione di operatori economici sia al suo interno sia come "consulenti". 
E quale siail circuito selettivo di tali operatori economici in funzione decidente dell'indirizzo politico-normativo, è un fenomeno che attende ancora di essere indagato in termini di compatibilità con la Costituzione democratica e le sue regole fondamentali.


5. Ma rimane il fatto che tale trasformazione della composizione personale e dell'oggetto decisionale dell'indirizzo politico, non coincidendo con il sistema delineato dalla Costituzione democratica del 1948, è legittimata dall'adesione all'Unione europea, allorchè questa pretende di essere di valore normativo superiore alla stessa Costituzione, ed afferma il principio cardine della "economia sociale di mercato fortemente competitiva": è proprio di questo concetto ordoliberista ammettere l'azione dello Stato, a cominciare da quella del legiferare, in quanto si risolva in una promozione dell'azione del mercato, ipotizzato come ordinato sulla piena concorrenza.
Che quest'ultima si realizzi o meno nella realtà (ovvero che si sia mai realizzata) non è oggetto di rendiconto all'elettorato, dato che il principio supernormativo dell'economia di mercato (del "sociale" sappiamo il vero significato secondo Hayek e Roepke, p.7), assume il valore di obiettivo essenziale e permanente, il cui perseguimento consiste in una serie pressocché infinita di postulati tecnici, affidati alla formulazione di istituzioni sovranazionali che reclamano l'insindacabilità totale del proprio giudizio e della propria azione politica.


6. Basti soggiungere quanto detto in tema di effetti inevitabili dell'integrazione economica promossa mediante trattati liberoscambisti:
"..secondo Keynes, tale apertura (delle economie) e la regolazione tesa alla complementare "integrazione", pur potendo spaziare in una certa variabile intensità di effetti degradanti del tessuto economico e sociale del paese più debole che si "apre" e si "integra" (e il colonialismo che diviene intrinsecamente razzista ne è l'espressione al limite massimo), presenta un effetto negativo invariabile, che, a ben vedere, discende dalla stessa tendenza, presupposta, del capitalismo liberoscambista a fondarsi sulla ipocrisia della libera concorrenza senza "frontiere" (come appunto si vuole nel Manifesto di Ventotene).
Ma tale libera concorrenza, in realtà, null'altro è che, (proprio nel  liberoscambismo così macroscopicamente incarnato dall'Unione politica e monetaria europea), l'esaltazione delle tendenze mercantiliste degli oligopoli dei paesi più forti economicamente".


7. Al termine di questi chiarimenti, possiamo tornare all'affermazione iniziale: risulta evidente che, una volta realizzatosi in larga parte un tale sistema istituzionale, lo stupore sulla influenza politico-decisionale del settore privato (id est: economico in senso oligopolista su mercati internazionalizzati) appaia "stravagante".
Come potrebbe essere diversamente da così?
La legislazione dello Stato si assoggetta integralmente, e in modo praticamente incondizionato, a un trattato di intervento economico mercatista, che predetermina un processo decisionale, supremo e tecnocratico, in cui l'oggetto della tutela affidata al settore pubblico diviene l'offerta; l'offerta è, sua volta, caratterizzata dalla presenza e dal rafforzamento degli oligopoli propri di ciascun settore di mercato.
Ora, i meccanismi tecnici di "buon" funzionamento dell'offerta sono reclamati come conoscenza propria di un, ovviamente, ristretto numero di operatori; questo ristretto numero di operatori, perciò, tende naturalmente a divenire il dominus della decisione politica, proprio per l'identità dei propri interessi con quelli imposti all'azione pubblica, e per la naturale capacità degli interessi divenuti gerarchicamente prevalenti sul piano istituzionale, a organizzarsi per divenire governance: cioè per avere, anzitutto, il potere di fatto, ma conforme ai principi informatori dei trattati, di designare o comporre, direttamente e senza mediazioni, la classe decidente anche a livello politico.
Il fenomeno stravagante è così che si rilevi un episodio, piuttosto che un altro, di questo assetto politico-decisionale, e che si indaghi in un modo che, - nel complesso della produzione normativa che, anzitutto, risale alle direttive e alle soluzioni normative €uropee, tutte aventi gli stessi omogenei effetti di tutela dell'offerta-,  appare avulso da un sistema così generalizzato e pervasivo.


GLOBALIZZAZIONE E MONDIALISMO: IL TRUCCO C'E' . E PURE LA BENDA MEDIATICA SUGLI OCCHI.

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1. Perchè, vedete, il "trucco"è sempre lo stesso: prima si crea una situazione istituzionale sovranazionale (cioè un vincolo da trattato internazionale) che non consente agli Stati democratici la tutela dei diritti fondamentali (occupazione, salute, istruzione, previdenza) delle comunità sociali, le più ampie possibile in omaggio alla dottrina che i "confini" statali sono cattivi e guerrafondai. 
Poi si invoca un rafforzamento di questa situazione istituzionale come rimedio alla insostenibilità creata da essa stessa.
Sappiamo ormai che questo è il metodo seguito con la moneta unica europea. Nonostante che questa metodologia fosse stata abbondantemente deunciata in anticipo, e tutt'ora, come distruttiva del benessere e della democrazia.



2. Ma, in realtà, come s'è pure già detto, il trucco del mondialismo, di cui l'UE-UEM sono l'esperimento-pilota, orwelliano, più avanzato - nel senso che se funziona sulle democrazie costituzionali di paesi economicamente e socialmente sviluppati, nulla poi sarà capace di opporglisi-, ha un'unica e solida matrice:
"in una federazione di stati nazionali la diversità di interessi è maggiore di quella presente all'interno di un singolo stato, e allo stesso tempo è più debole il sentimento di appartenenza a un'identità in nome della quale superare i conflitti stessi (…). Un'omogeneità strutturale, derivante da dimensioni limitate e tradizioni comuni, permette interventi sulla vita sociale ed economica che non risulterebbero accettabili nel quadro di unità politiche più ampie e per questo meno omogenee (Hayek, 1939, “The Economic Conditions of Interstate Federalism”pagg.121-122)".

3. Muovendo da questa matrice, il discorso può essere strategicamente sofisticato in modo tale da risultare incontestabile e da rendere definitivamente impotenti le reazioni democratiche dei paesi i cui popoli sono sottoposti alla condizionalità e al senso di colpa.

Un esempio di questa strategia l'abbiamo vista nelle teorie della Sassen sulla "globalizzazione buona", cosa che a sua volta presuppone quel diffuso benessere  conseguente al molto presunto "maggior" progresso tecnologico che ne deriverebbe.
Nel suo linguaggio paludato, - ma circondato da un'ammirazione incondizionata negli ambienti mondialisti, divenuti paradigma mediatico del bene e della pace-, la Sassen ci spiega infatti che:
"La globalizzazione è frutto di "nuovi regimi giuridici", che, come sappiamo, fanno capo alla conclusione di trattati internazionali che, - come ammette senza alcuna preoccupazione, anzi, con un certo "apprezzamento", la Sassen-, constano:
a) di un punto di riferimento finale, cioè il titolare dell'interesse tutelato e realizzato dai trattati, individuato nelle "marche globali" (sarebbe poi a dire, le industrie multinazionali);
b) un punto di riferimento statuale nazionale, individuato in "alcuni settori", o "alcune componenti"interne allo Stato nazionale (!) che con un lavoro "altamente specializzato" - cioè di quelli ben retribuiti- portano avanti la denazionalizzazione per edificare uno spazio internazionalizzato nell'interesse non dei cittadini - che, necessariamente, sono coloro nel cui interesse devono agire i vari "settori" dello Stato-, ma delle imprese multinazionali.  
Infatti queste, poverine, non avendo una persona giuridica che le tutela (a livello mondiale), si devono accontentare di...catturare settori dello Stato per fargli attuare politiche di proprio interesse...non nazionale!"
La Sassen poi precisa ulteriormente:
"Perché se riconosciamo i processi di denazionalizzazione, se in altri termini comprendiamo che la globalizzazione è un processo parzialmente endogeno al nazionale piuttosto che a esso esterno, possiamo capire che è proprio all’interno del nazionale che si stanno aprendo nuovi spazi politici potenzialmente globali per tutta una serie di attori confinati nel nazionale. Attori che possono prendere parte alla politica globale non solo attraverso strumenti globali, di cui possono anche non disporre, ma attraverso gli strumenti formali dello stato nazionale...".
Questo passaggio può apparire un po' criptico e, addirittura, (nella tentazione di andare oltre), può indurre a soprassedere. Mal ve ne incoglierebbe! Quello che la Sassen ci sta dicendo nel suo metalinguaggio (che l'ha ormai resa celebre) è, tradotto in corretti e concreti termini giuridico-economici: 
- i politici che assumono il ruolo di promuovere, concludere e, successivamente, attuare i trattati internazionali che tutelano gli interessi delle "marche globali"(="multinazionali") acquistano un maggiore e crescente spazio istituzionale, funzionalmente giustificato dallo sviluppo dell'azione agevolatrice già svolta."
4. Ora, in margine al famoso trilemma di Rodrik, che in realtà è una versione abbastanza standard di cose che altri dicono ancor più esplicitamente - come Sen sopra riportato o prima ancora Rawls, Keynes e Caffè -, si è riaccesa l'attenzione: ovviamente per la preoccupazione di confutarlo, in un momento in cui il capitalismo sfrenato, che è il volto nascosto del mondialismo, pare impaziente di superare gli ostacoli che si frappongono alla sua definitiva affermazione istituzionale.
Si espone la spiegazione di Rodrik circa la soluzione per una globalizzazione più o meno, (moderatamente), democratica:
«Io non ho dubbi: la democrazia e la determinazione nazionale devono prevalere sull’iperglobalizzazione - spega ancora Rodrik - . Le democrazie hanno il diritto di proteggere i loro sistemi sociali, e quando questo diritto entra in conflitto con le esigenze dell’economia globale, è quest’ultima che deve cedere. Restituire potere alle democrazie nazionali garantirebbe basi più solide per l’economia mondiale, e qui sta il paradosso estremo della globalizzazione. Uno strato sottile di regole internazionali, che lascino ampio spazio di manovra ai Governi nazionali, è una globalizzazione migliore, un sistema che può risolvere i mali della globalizzazione senza intaccarne i grandi benefici economici». Non ci serve una globalizzazione estrema, riassume con uno slogan, ma una globalizzazione intelligente." 

5. Ma il gran finale dell'articolo del Sole è dedicato alla confutazione di questa idea (implicitamente bislacca e retrograda). 
La liquidazione di Rodrik, come vedrete, è alquanto perentoria (abbiamo aggiunto il link al c.v. di Rosa Lastra. A proposito, perchè rivolgersi proprio e solo a lei, esperta di diritto internazionale della finanza e della moneta, per dare una valutazione sul pensiero di un economista dello sviluppo, in tema di implicazioni istituzionali di assetti macroeconomici internazionali?):
"Dunque la ricetta per una globalizzazione intelligente sarebbe un ritorno agli Stati nazionali? Rosa Lastra, docente di International Financial and Monetary Law alla Queen Mary University of London, non è per nulla d’accordo. 
«Secondo me la dicotomia tra mercati internazionali e leggi nazionali può essere meglio affrontata proprio attraverso l’internazionalizzazione delle regole e delle istituzioni che governano i mercati mondiali - spiega - . La risposta è quella di più leggi internazionali e meno nazionali». Quindi una strada opposta rispetto a quella indicata da Rodrik. L’eccessiva fiducia nelle leggi nazionali accompagnata da deboli standard normativi internazionali è stata anzi una delle cause della crisi finanziaria globale, spiega ancora Lastra. Ma chi può gestire il cambiamento? «Il Fondo monetario internazionale, istituzione al centro del sistema monetario e finanziario internazionale, è nella miglior posizione per diventare uno “sceriffo globale” della stabilità», conclude la studiosa. Con buona pace del trilemma".

6. Circa la mission del FMI e di come si sia andata trasformando nel tempo, rinviamo a quanto illustrato qui, citandone un passaggio saliente:
"Siamo di fronte, oggi più che mai, a quello che Lordonchiama il diritto internazionale privatizzato (cioè, poi, come evidenzia Chang, non certo a vantaggio delle comunità sociali, ma rispondente agli interessi degli eletti, i"Bad Samaritans", professanti il free-trade da invariabili posizioni di forza).
Anzi tale sistema "istituzionalizzato"risponde, più esattamente, alle potenze vincitrici "occidentali" (problema che ha prima reso scarsamente efficace lo stesso ruolo dellONU e che poi lo ha quasi del tutto reso inutile). 
Tali potenze hanno esercitato e tutt'ora cercano di esercitare, secondo la loro convenienza politico-economica, il controllo (governance) su WTO, OCSE, WB, e, più che mai, sul FMIQuest'ultimo è ormai irreversibilmente trasformato in un organismo che nulla più ha a che fare, semmai in passato l'abbia avuto, con i principi della Carta della Nazioni Unite, cioè con gli scopi fondamentali di queste ultime
Tant'è che nessuno penserebbe di rivolgersi con qualche speranza di essere ascoltato, all'Assembea o altro organo arbitrale delle NU, - divenute ormai troppo "deboli" se non inutili-, per dedurre l'illegittimità provocata dalla inosservanza dell'accordo (di mera forma, ai sensi degli artt.57 e 63 della Carta ONU) concluso dal FMI con le NU, violazione concretizzatasi nella imposizione di una "lettera di Intenti".Queste "lettere di intenti" sono normalmente impositive, allo Stato indebitato con l'estero, di pesanti "condizionalità" in cambio dell'accesso, mediato attraverso i c.d. "diritti speciali di prelievo", alla valuta di riserva occorrente nelle transazioni internazionali (quella valuta che i paesi del c.d. "terzo mondo" prima, e poi, grazie alla asimmetria strutturale dell'euro, i paesi "periferici" dell'UEM, non vantano più come "riserva", essendo impediti, grazie al funzionamento dei mercati "liberalizzati"di capitali e di merci, a procurarsela mediante dei fisiologici attivi della bilancia dei pagamenti, resi impossibili dal funzionamento del free-trade).
Ma non risulta che tali "condizionalità" imposte dal FMI siano mai state oggetto di censura, mediante raccomandazioni (art.63 della Cartta), di organi dell'ONU, ovvero di lamentela da parte degli Stati per aver violato ciò che l'accordo che "dovrebbe" legare il FMI all'ONU sarebbe teso a garantire: cioè che il FMI (in quanto istituto specializzato delle NU) debba operare nel quadro dei fini indicati come prioritari dall'art.55 della Carta...
...Gli esiti delle "cure" propinate ai vari paesi dalle condizionalità imposte dal FMI non possono certamente ricondursi, neppure nelle più sfrenate fantasie, a tali finalità ed obiettivi.
E le Nazioni Unite, prescegliendo, attraverso il proprio Consiglio economico e sociale, di tralasciare la verifica sostanziale del rispetto dell'art.55 da parte dei suoi istituti o "agenzie" specializzati, hanno lasciato mano libera al FMI per instaurare una precisa concezione del ruolo della moneta e dei modi di correzione degli squilibri nei pagamenti internazionali che ha finito per negare, anzichè tutelare, diritti umani e piena occupazione, elevazione culturale e autodecisione dei popoli."


7. Insomma, si poteva chiedere anche una serie di pareri sul tema della globalizzazione, e sulle stesse teorie di Rodrik, a chi, per c.v. e autorevolezza scientifica, è più noto per essersene occupato. Tipo lo stesso Lordon o Chang, che non sono certo gli ultimi arrivati. E lo si poteva fare, se non altro, per completezza di contraddittorio e di informazione.
Di Lordon riportiamo questa citazione, proprio perché è particolarmente attinente al tema (ed essendo tratta da "Le Monde Diplomatique", non era certo meno autorevole):
"Ripiegamento nazionale", in ogni caso, è diventato il termine spauracchio, suscettibile, nella sua genericità, di essere opposto a qualsiasi progetto di uscita dall'ordine neoliberale
Dal momento che, se quest'ordine in effetti si definisce come sforzo di dissoluzione sistematica della sovranità dei popoli, perché possa così dispiegarsi senza intralcio la potenza dominante del capitale, qualsiasi idea di porvi fine non può avere altro senso che quello di una restaurazione di questa sovranità. [...] 
Pronunciare la parola "nazione", come una delle possibili vie di questa restaurazione della sovranità popolare, forse anche la più agevole o almeno la più facilmente accessibile a breve termine - precisazione temporale importante, visto che il jacquattalismo mondiale può aspettare - pronunciare la parola "nazione", dunque, significa esporsi ai fulmini dell'internazionalismo, o almeno della sua forma più inconseguente: quella che, o sogna un internazionalismo politicamente vuoto, visto che non indica mai le condizioni concrete della deliberazione collettiva, oppure, indicandole, non si accorge che sta semplicemente reinventando il principio (moderno) della nazione su scala più ampia!

8. In definitiva,la soluzione offerta dalla Lastra è proprio quel meccanismo sul quale abbiamo portato l'attenzione all'inizio del post: un vincolo esterno rende gli Stati impotenti perchè, contrariamente a quello che afferma la Lastra, le regole derivanti dal diritto internazionale "privatizzato", dei trattati, vengono affermate in assunto come più forti.
Ma tali regole sono forti proprio in quanto hanno un inarrestabile effetto programmatico liberalizzante di scambi e movimenti dei capitali; quindi, sono volte ad affermare la deregolazione dell'intervento e degli interessi pubblici, come discende appunto dalle lettere di intenti del FMI (o dai memorandum della trojka UE), per giungere alla neo-liberista "libertà" degli operatori economici sovranazionali. 
In altre parole, gli standard delle "leggi" internazionali sono già estremamente forti.
Se dovessero non avere più questo contenuto "debole", che è appunto segno di una grande forza normativa (capace di destrutturare Stati e sovranità!),  semplicemente dovrebbero regolare altri, nel senso di "ulteriori", interessi: ma gli interessi di chi e, soprattutto, prescelti come? 
E quali sarebbero le sedi di rappresentanza istituzionale di tali interessi a livello internazionale? 
Come e da chi sarebero "votate/adottate" leggi di regolazione nel pubblico interesse del sub-strato sociale internazionale? Ammesso che è questo quanto si intenderebbe fare e ammesso che questo pubblico interesse internazionalizzato sia identificabile e concretizzabile, cosa che Hayek nega radicalmente, con una geniale intuizione, ponendo tale negatoria alla base dell'internazionalismo istituzionalizzato (ovvero, del mondialismo della globalizzazione per trattato, ai nostri giorni)?

E un tale paradigma è, sia pur in negativo, cioè come paralisi delle potestà normative statali (avete presente la storiella degli "aiuti di Stato" di fronte a una crisi bancaria che travolga i risparmi tutelati dall'art.47 Cost.?), il massimo della forza cogente storicamente raggiunta dai trattati: cioè la paralisi e la delegittimazione delle fonti giuridiche supreme degli Stati nazionali, cioè le Costituzioni.
Questi problemi non sono neppure considerati lontanamente nella semplificata e apodittica confutazione del trilemma di Rodrik da parte della Lastra (e dunque nell'articolo del Sole24h.). Gli interrogativi sopra posti non hanno cioè alcun tipo di risposta.
Ma questo, se dal punto di vista mediatico, può essere un abile sistema semplificato di sostegno al paradigma mondialista, dal punto di vista pratico, cioè della soluzione dei problemi macroeconomici e sociali, che si pongono a causa del mondialismo, è solo quello che appare: una pericolosa non risposta

VISCO INFERNO: LA CONTRADDIZIONE PERMANENTE TRA €-RIFORME STRUTTURALI E COSTITUZIONI DEMOCRATICHE

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1. Visco a Francoforte, al convegno della European House,- Center for Financial Studies, (organizzato da una nostra vecchia conoscenza, Otmar Issing), ci racconta delle "stime tecniche" di Bankitalia che comproverebbero come, in assenza delle scelte adottate da Draghi e dagli altri membri del board BCE tra il giugno 2014 e il dicembre 2015, sia l'inflazione annuale che la crescita del prodotto sarebbero risultate più basse di circa mezzo punto percentuale nel periodo 2015-2017, nell'area euro complessivamente considerata.
"Il contributo della BCE sarebbe stato ancora più importante per l'Italia, in quanto in assenza dell'impulso monetario, la recessione italiana sarebbe terminata solo nel 2017 e l'inflazione sarebbe rimasta negativa per l'intero arco di tre anni.
Visco (come riporta "Il Messaggero" di ieri in argomento, a pag.5), si sofferma sul "legame tra crisi economica, alta disoccupazione e bassa inflazione: "nell'area euro la correlazione negativa tra disoccupazione, inflazione di fondo e tasso di crescita delle retribuzioni contrattate è molto evidente".
"In altre parole, la crisi ha reso i salari più legati alla disoccupazione: più è alta quest'ultima, meno crescono gli stipendi. Una tesi confermata dai dati empirici analizzati da Bankitalia, relativi a Francia, Italia e Spagna". 
"In particolare una riduzione di 3 punti del tasso di disoccupazione avrebbe l'effetto di incremetare le retribuzioni di uno 0,5-1%. Ecco perchè, spiega Visco, "sostenere la crescita e l'occupazione è cruciale per riportare l'inflazione verso l'obiettivo".

2, La crisi ha reso i salari più legati alla disoccupazione
Ma in realtà i salari sono sempre legati alla disoccupazione in senso inverso e ciò è un importante fattore di variazione conseguenziale dell'inflazione.

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Politiche deflattive come quelle perseguite in nome dell'Europa, cioè a partire dall'introduzione del "vincolo esterno", sono quelle che tendono a limitare per via fiscale la domanda, in particolare agendo sulla riduzione del deficit pubblico annuale (maggiori tasse e minore spesa pubblica reale) nonchè agendo sulla flessibilità del lavoro per via legislativa, (politiche note complessivamente come "riforme strutturali"): esse inducono un aumento della disoccupazione e della precarizzazione (che, in termini di potere di contrattare il salario ha effetti del tutto equivalenti). 

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Questo, secondo l'apposito indice OCSE, è il recupero di flessibilità del lavoro in Italia PRIMA del jobs act e della definitiva abolizione pressocchè integrale dell'art.18. Come vedete eravamo già strutturalmente convergenti sulla flessibilità tedesca, con un performace di flessibilizzazione e di potenziale "disoccupabilità" persino superiore a quella realizzata dalla Grecia, al 2013:
3. L'effetto di tali politiche deflattive, il cui scopo essenziale è l'aumento della competitività verso l'estero, è sempre stato quello di sfruttare il legame tra disoccupazione e calo dei salari reali: cioè un'ampia disoccupazione, indotta da tali politiche fiscali ("vincolate" dall'UEM), determina una crescita salariale inferiore alla produttività nominale (cioè alla stessa crescita del PIL complessivamente rilevata), a meno che rigidità contrattuali, cioè di regime giuridico del rapporto di lavoro, impediscano un'adeguata elasticità di tale effetto: da qui, l'esigenza di ulteriori riforme strutturali. Ma anche il costo sistemico di andare incontro all'alta instabilità economica - e finanziario-bancaria- determinata dall'equilibrio della sottoccupazione.


4. Risultato: l'obiettivo-target di inflazione, posto e mantenuto al 2% anche in costanza della fase successiva alla recessione mondiale - sempre per il mantenimento della competitività, essenziale alla sopravvivenza dei vari paesi all'interno dell'unione monetaria- è la causa implicita (ma nondimeno "istituzionale") della disoccupazione e della minor crescita o della stessa recessione, almeno quella registratasi successivamente all'esaurirsi, per l'€uropa, degli effetti della crisi finanziaria, a epicentro USA, del 2007-2008.
Tali effetti si erano esauriti, in Italia e in gran parte dell'eurozona, già nel 2010 (anno di ritorno alla crescita dopo la recessione circoscritta a 2008-2009): la recessione successiva è stata determinata appunto dalle politiche deflattive, dette di "austerità" e istituzionalizzate in €uropa dal fiscal compact, che hanno mandato la disoccupazione a livelli tutt'ora "fuori controllo", portando il calo della domanda (il potere di acquisto delle famiglie, in particolare i consumi), e pertanto della stessa inflazione, a livelli anch'essi "fuori controllo" (rispetto al target del 2%).

5. L'obiettivo, dunque non dovrebbe essere quello di rispettare un target di inflazione quanto, in termini di comune buon senso economico, quello di ripristinare un certo livello di disoccupazione e di conseguente crescita.
Solo che, e questo Visco non lo ha detto a Francoforte, questa maggior occupazione con conseguente variazione positiva dei livelli salariali reali, avrebbe a sua volta portato a non correggere, e anzi a perpetuare, gli squilibri commerciali e finanziari privati tra i paesi appartenenti all'eurozona, vanificando il funzionamento programmativo dell'eurozona.
Infatti, all'interno di quest'ultima, essendo vietati i trasferimenti a sostegno delle aree (Stati) che risultino indebitati verso altre aree (Stati) della stessa eurozona, allorché i flussi di capitale finanziario privato dai paesi creditori - per finanziare le loro stesse esportazioni ovvero per finanziare attività di investimento nei paesi a più alta inflazione, e dunque a tassi reali più convenienti per i sistemi creditizi dei paesi più "competitivi" (cioè che comunque in precedenza registravano un tasso di inflazione più basso, anche in violazione del target del 2%!)- si interrompano per via di una crisi finanziaria mondiale, come appunto quella del 2008, l'unico modo di ripristinare la solvibilità e la competitività dei paesi indebitati (a titolo privato, commerciale e di finanziamento), è quello di inaugurare una stagione di riforme strutturali accelerate. 
E queste sono appunto le riforme del lavoro, in senso flessibilizzante e precarizzante, nonché le politiche fiscali di taglio del deficit pubblico, che determinano un forte calo dell'inflazione relativa, rispetto ai paesi creditori. 

6. Una vecchia storia di cui s'è parlato in lungo e in largo, negli anni scorsi, e che Visco ribalta nei suoi meccanismi di causa-effetto, incentrando l'attenzione sull'inflazione quando, invece, la questione è di squilibri commerciali e finanziari interni all'area euro che, come sappiamo, sono preventivati come inevitabili, ma a cui, altrettanto inevitabilmente, si sopperisce tagliando la spesa pubblica e aumentando le imposte, tagliando in definitiva la domanda interna e riducendo così sia i salari che il loro effetto di "spesa", che equivale alle importazioni che, appunto, devono essere limitate fino a portare, possibilmente, in attivo i conti correnti con l'estero del paese debitore.

Del fatto che la faccenda stia in questi termini, e non esattamente in quelli esposti a Francoforte (cioè, improvvisa e quasi "sorprendente" correlazione tra disoccupazione e calo dei salari e quindi dell'inflazione, quando si tratta di un effetto programmativo delle politiche di correzione adottate forzatamente all'interno dell'UEM), Visco appare in qualche modo ammetterlo successivamente in una preannunziata intervista al Sole24ore, che dovrebbe uscire quest'oggi, dicendo:  
"In questa unione monetaria imperfetta, penso che alla fine mantenere per un lungo periodo la moneta senza uno Stato sia impossibile. (Non a caso, Otmar Issing, sopra linkato, è un deciso sostenitore dell'euro come strumento per arrivare alla denazionalizzazione della moneta, come via perenne alla stabilità monetaria, che sarebbe poi l'assenza di (variazione della) inflazione, in omaggio esplicito alle teorie hayekiane).
Salvo, però, aver prima detto, non senza una certa contraddizione sulla sostenibilità nel lungo periodo (che ormai è in buona parte già trascorso) delle stesse "riforme strutturali"
"La Bce, dice Visco in un'intervista sul Sole 24 Ore in edicola sabato, dovrà continuare ad agire “con decisione”, a fronte di un'inflazione che resta lontanissima dall'obiettivo di avvicinarsi al 2 percento, “comprando tempo” perché la politica fiscale e le riforme strutturali mostrino i loro effetti."

7. Insomma, l'importante è tenere sotto controllo l'inflazione al target: il resto, occupazione e crescita, sono solo strumenti da dosare sempre e e comunque per non compromettere la stabilità monetaria e finanziaria conseguenti.
Quindi, le riforme strutturali, che liberalizzano principalmente il mercato del lavoro, - dato che, per i restanti settori di mercato, gli oligopoli sono considerati intangibili stakeholders della stessa "stabilità"-, sono irrinunciabili: ma se è così, la crescita e l'occupazione sono perennemente sacrificabili, in nome del mantenimento dell'euro. 
Con buona pace della nostra Costituzione, e in buona parte delle altre, che, invece, predicano politiche economico-fiscali di piena occupazione per tutelare l'esistenza libera e dignitosa dei popoli di lavoratori, una volta sovrani e oggi assoggettati all'euro che infatti, secondo Carli (ma nel suo pensiero del 1974)avrebbe determinato quella esatta situazione che, oggi, Visco lamenta, cadendo in insanabile contraddizione (in quanto deve dire tutto e il contrario di tutto):
"Se in questo momento la lotta all’inflazione appare l’obiettivo prioritario, l’Unione monetaria europea non può tuttavia essere imperniata su un meccanismo che tenda a relegare verso il fondo della scala gli obiettivi dello sviluppo e della piena occupazione, cioè ad invertire le scelte accettate dalla generalità dei popoli e dei governi in questo dopoguerra".  

8. Ma questa contraddizione non nasce per caso: è la conseguenza del non poter dire mai la verità, sugli scopi dell'euro e sul costo di disoccupazione strutturale, e di controllo "mercificato" del mercato del lavoro e di calo dei salari, che esso è inteso a instaurare
Come confermaDraghi che individua nelle Costituzioni democratiche  l'ostacolo all'adozione e all'efficacia delle "riforme strutturali", consigliando, proprio ieri, ai portoghesi di "rivedere" la loro Costituzione.

Draghi sugeriu revisão da Constituição e das leis eleitorais

Forse, incidentalmente (a quanto pare), una moneta senza Stato per Visco non è indefinitamente sostenibile: ma di certo le riforme strutturali devono andare avanti. 
L'insanabile contraddizione segnalata da Carli può proseguire, in nome della pac€ e della fratellanza €uropea, fino al Maelstrom...
http://www.zengardner.com/wp-content/uploads/potc-maelstrom_6852.jpg

VINITALY E IL MISUNDERSTANDING DELLE FRONTIERE PERDUTE (SENZA LE QUALI NON ESISTE NEPPURE L'ESPORTAZIONE).

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In effetti, l'unica che si preoccupa veramente, e non solo nel proprio esclusivo interesse, di aspetti del genere (eccesso di credito da squilibri delle partite correnti interni all'eurozona, che diventa un problema per lo stesso creditore), è una tedesca atipica: Frauke Petry

Tutti gli altri governanti, €-tecnocrati e responsabili dei dicasteri economici, sono in preda all'alibi del sogno: "ci vuole più €uropa". Salvo che, i tedeschi, con ciò, intendono politiche e misure esattamente opposte a quelle invocate da tutti gli altri partner, che peraltro di questa incomunicabilità non paiono affatto preoccupati.
Il fatto è che la solidarietà di classe tra i vari oligarchi filo-euristi, (sia pure nelle loro gerarchie, che rendono vassalli minori gli spaghetti-€-liberisti) funziona ancora molto bene: al punto che tutti sono sicuri che, comunque, vadano le cose, a pagare i debiti saranno sempre le "luride" masse di lavoratori, precari, pensionati, vedove, mutuatari, piccoli correntisti, piccoli imprenditori, artigiani, e proprietari delle case di abitazione.

Anzi, nella di ESSI visione, tutti costoro, più pagano, più vengono riportati alla miseria che gli si addice per legge naturale (liberista), e più si realizza una vera giustizia divina (naturalmente il dio è il mercato: con la legge dell'offerta...e dell'offerta)

1. Nonostante le polemiche sui toni usati dal segretario della Lega per criticarle, le dichiarazioni del Presidente della Repubblica a Vinitaly, meritano qualche precisazione.
Mattarella ha infatti affermato che "Da prodotto antico a chiave di modernità, il vino italiano, col suo successo nell'export, conferma come il destino dell'Italia sia legato al superamento delle frontiere e non al loro ripristino".
Una prima lettura, basata sull'attribuzione di un senso logico alle parole del Capo dello Stato, porterebbe a individuare una serie di asserzioni intrecciate nell'unica dichiarazione:
a) il "superamento" delle frontiere ha portato al successo nell'export vinicolo;
b) assumendo in forma transitiva tale prima proposizione, il destino dell'Italia è estendere il successo del proprio export a tutti i possibili settori grazie all'abolizione delle frontiere.

2. Non è difficile scorgere una serie di contraddizioni concettuali di tipo tecnico-economico rispetto a queste implicazioni della dichiarazione del PdR.
L'esportazione, infatti, in sè, presuppone, necessariamente e indefettibilmente, l'esistenza delle frontiere: cioè in assenza di una distinzione tra diverse aree giuridicamente ed economicamente individuate proprio dalle frontiere, non sarebbe possibile effettuare un'operazione di esportazione, che consiste nella vendita di un bene o servizio prodotto all'interno di una certa "circoscrizione" territorialmente individuata dalle frontiere stesse, verso un'altra area individuata allo stesso modo.
Una volta che fossero abolite le frontiere, e quindi l'individuabilità di un territorio soggetto a un unico governo, costituzionalmente e economicamente legittimato a regolare tale territorio con le sue leggi, - quantomeno rispetto a uno o più altri territori che anch'essi rinuncino in condizioni di piena reciprocità alle proprie frontiere giuridico-economiche-, non solo verrebbe meno, rispetto a tali Stati coinvolti il concetto di esportazione, ma la stessa possibilità giuridico-economica di registrare una contabilità nazionale, che include il conto generale dell'insieme delle esportazioni (e importazioni) di beni e servizi all'interno delle partite correnti verso l'estero.

3. Sarebbe stato più esatto, da parte del Presidente della Repubblica, in tal senso, far riferimento al superamento delle "dogane", cioè a quella condizione per cui il passaggio attraverso la frontiera nazionale, in uscita verso le frontiere di un altro Stato "acquirente", non dà luogo a una tassazione specifica dell'operazione a titolo di dazio o altro diritto (posto a carico di quella stessa operazione di cessione che il paese acquirente classifica come "importazione" e che, a sua volta, presuppone il mantenimento delle frontiere rispettive e, dunque, il solo eliminare alcune delle conseguenze fiscali del flusso di esportazione e di corrispondente importazione). 

Ma è difficile dimostrare che dalla stessa abolizione dei dazi doganali, tra paesi che si accordino per un'unione doganale, ma che rimangono politicamente distinti sul piano del diritto internazionale, derivi automaticamente, e immancabilmente, un aumento delle esportazioni nette per ogni singolo paese che sia coinvolto
Da tale accordo, ancorchè esteso ad altri aspetti di apertura delle rispettive economie, (cioè ponendo obblighi giuridici di consentire anche la libera circolazione di capitali e forza lavoro, oltre che delle merci, rimuovendo, in quest'ultimo caso, anche ostacoli non tariffari, cioè non assimilabili ai dazi doganali, a tale libero reciproco commercio), non discende, nell'esperienza internazionale ed economica, un vantaggio univoco e simmetrico per tutti i paesi che lo concludano.
E parliamo di esportazioni nette, per significare che complessivamente, se non si verifica tale ipotesi, la maggior apertura dell'economia, sancita dai trattati di varia intensità di liberscambio, può condurre a (o aggravare) un saldo negativo che deprime la crescita del prodotto del paese che importi dall'estero più di quanto esporti; laddove tale situazione sia prolungata nel tempo, essa conduce a gravi problemi di crescita e di solvibilità finanziaria del paese stesso.

4. Anzi, è particolarmente facile dimostrare il contrario: e la prova molto concreta è che la reciproca apertura delle economie conseguente all'Unione economica e monetaria, (soprattutto monetaria),  la cui coesione oggi così tanto discussa, proprio perché la si considera gravemente in pericolo, è inficiata proprio dalla inevitabilità degli squilibri comerciali interni all'Unione, che a loro volta implicano un continuo e ossessivo monitoraggio di quella contabilità nazionale, cioè degli squilibri negativi sia del settore dei conti con l'estero, sia del settore dei conti pubblici, che presuppone proprio il formale, e altrettanto ossessivo, mantenimento delle frontiere.

Lo abbiamo visto nell'ultimo post, che dimostra come tutte le forme di correzione degli squilibri commerciali e finanziari tra Stati aderenti all'Unione monetaria, e quindi le riforme strutturali e il paradigma del pareggio di bilancio, implichino più che mai, da parte delle istituzioni europee, il mantenimento delle frontiere.
Un mantenimento, in senso economico e giuridico (oggetto della parte più importante della normativa dei trattati e del conseguente fiscal compact), che è l'altra faccia della medaglia della sistema istituzionale UE improntato al divieto di ogni forma di trasferimenti a favore degli Stati che siano in deficit commerciale e, come tali, obbligati ad adottare all'interno delle proprie frontiere, politiche durissime di limitazione del costo del lavoro e di instaurazione di un'alta disoccupazione strutturale: questa negli stessi reiterati enunciati delle principali istituzioni europee, è considerata precondizione essenziale per il recupero della competitività verso l'estero, inclusi specialmente i partners europei.

5. E' poi chiaro, o dovrebbe esserlo, che il problema dell'immigrazione, ben lungi dall'essere un problema di frontiere, da ripristinare o da abolire, è un problema di come e a quali condizioni, (compatibilmente con il dettato della Costituzioni democratiche), si ritenga tollerabile, socialmente ma anche dal punto di vista occupazionale e industriale, l'aggiungere, a tale alta disoccupazione strutturale, una quantità crescente, e praticamente illimitata, di forza lavoro, essenzialmente e principalmente determinata da migrazione economica.
In passato, come abbiamo visto, la soluzione di questo tipo di problemi era regolato da trattati bilaterali con i paesi d'origine degli immigrati, in modo da coordinare stabilmente le reciproche esigenze di bisogno di manodopera ovvero di eccesso della medesima.
Questo sistema, pur espressamente previsto dai trattati(p.9), è ora incomprensibilmente abbandonato, e l'assalto alle frontiere esterne dell'€uropa è solo la testimonianza eloquente che alle frontiere non si voglia rinunciare, dato che, abbandonato qualsiasi strumento di diritto internazionale teso alla disciplina programmata (p.8) dei flussi di manodopera dall'estero, si vuol perpetuare il più incivile e disperato sistema di ricatti e di propagazione della miseria, sia dei migranti che degli stessi cittadini dei paesi di destinazione, entrambi coinvolti in un flusso che prescinde dalla possibilità dei singoli Stati di graduare e coordinare l'eventuale accoglienza con i propri effettivi bisogni sociali ed economici

6. Questo meccanismo di super-enfatizzazione delle frontiere statali degli Stati aderenti all'eurozona, divenute, oggi più che mai, il criterio principale di individuazione delle correzioni relative del costo del lavoro e della produttività ad esso connessa, è il principale oggetto di ogni regolazione europea (inclusa la stessa unione bancaria).
Una cosa è dire "mercato unico", abolendo a certi fini, le conseguenze giuridico-economiche di frontiere che permangono, altra cosa è dire "Stato unico federale", che provveda indifferenziatamente per tutta l'area considerata ai diritti fondamentali di tutti i cittadini in esso residenti (area inclusiva di Stati che in precedenza disciplinavano da sè, essenzialmente in virtù della flessibilità del cambio, i proprio equilibri di conti con l'estero e, più ancora, gli squilibri sociali, occupazionali e produttivi interni al proprio territorio).
Ma quest'ultima soluzione è proprio quella che è vietata dai trattati
E finché questa situazione permane, l'esigenza, considerata prioritaria, (fino a divenire fine a se stessa) del mantenimento della moneta unica, fa sì che i saldi della contabilità nazionale, (cioè quella resa possibile dalla irrinunciabile considerazione delle frontiere), continuino a contare tanto da essere, oggi, la "ragione sociale" residua di ogni intervento delle istituzioni dell'unione monetaria.

7. Governo dei mercati, cioè economia di mercato fortemente competitiva, come espresso nella norma fondamentale dei trattati (art.3, par.3 TUE), significa una fortissima competizione tra sistemi-Stato, che si gioca nell'appropriazione delle reciproca domanda, cioè nel conquistare ad ogni costo porzioni della domanda altrui. 
Agli Stati, inseriti in questa realtà competitiva reciproca instaurata dall'eurozona, non rimane altro che perseguire le politiche deflazioniste che consentono, a costo dell'alta disoccupazione strutturale e della demolizione progressiva ma inesorabile dei diritti del welfare (pensioni, sanità pubblica e istruzione pubblica), di rimanere competitivi e di tentare (senza riuscirvi) di crescere esclusivamente a scapito degli altri Stati coinvolti in questo trattato che di cooperativo finisce per non avere nulla.


GIANROBERTO CASALEGGIO E LA DOMANDA DI UNA "NUOVA" DEMOCRAZIA: IL RETAGGIO DI DUE INTERROGATIVI

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1. La figura di Gianroberto Casaleggio è stata enormemente importante nella vita politica italiana degli ultimi dieci anni.
Comunque la si voglia valutare, cosa che sarà lasciata a futuri giudizi storici e politologici, non si può non considerare che egli abbia tentato di dare una risposta alla domanda di democrazia che, per vari e diversi motivi (molto più complessi di quanto non consenta di cogliere l'analisi correntemente fattane dal sistema mediatico in ogni sua forma), si è levata da parte di una larga componente del popolo italiano.
E' perciò pienamente comprensibile e legittimo che il ricordo a caldo sia espresso citando queste sue parole, da parte di chi in lui aveva trovato queste risposte.


2. Senza però voler muovere alcuna critica nel merito, il venir meno di una figura così importante e trainante, pone obiettivamente due interrogativi che, comunque, dovranno trovare risposta nei prossimi mesi. 
Li formulerò in modo generale e strettamente attinente al ricordo-epitaffio sopra riportato:
a) L'art.49 della Cost. recita: 
"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". 
Il grande problema che si pone tutt'ora, anzi oggi più che mai (proprio per l'ordine di problemi che vedremo esposti con il secondo quesito) è come sia concretamente realizzabile la "condizione" costituzionale, posta con la chiara indicazione del "metodo democratico" di formazione della volontà dell'associazione-partito
E' altresì noto che il costituzionalismo si è interrogato, e ancora adesso si interroga, se tale clausola della democrazia interna ai partiti, dovesse implicare l'intervento di una legge che ne stabilisse le forme e le modalità essenziali, in conformità al complesso dei valori della Costituzione.
ADDENDUM: Qualunque soluzione si debba dare a questo problema, essa passa per la comprensione degli stessi valori costituzionali: il che presuppone di conoscerli e condividerli. 
"Metodo democratico" non è qualsiasi sistema in cui "si voti": la democrazia costituzionale vive, anzitutto, nel suo fondamento lavoristico e nel principio della eguaglianza sostanziale, cioè nell'obbligo ricadente sulle istituzioni di rappresentanza politica di dover intervenire a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono a tutti i lavoratori la piena partecipazione all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

b) il secondo interrogativo riguarda l'affermazione relativa alla verità-affidabilità dell'informazione realizzabile attraverso la rete, posta in alternativa radicale ai media tradizionali, cioè a giornali e televisione.
Su tale secondo interrogativo mi limiterò a riportare i punti essenziali del dibattito che, in scienza della comunicazione e sul piano istituzionale, rimane fortemente aperto sul tema della natura "informativa" della rete:
b.1. Primo punto: il sistema complessivo dell'informazione si compone ormai anche della comunicazione generata della rete e, giocoforza, non sfugge al problema pregiudiziale dell'importanza del controllo mediatico come regolatore degli effettivi assetti di potere.
b.2. Secondo punto: quanto è realistico ritenere che, proprio per l'importanza enorme annessa dai poteri dell'ordine sovranazionale del mercato al controllo di "tutti i mezzi", la rete possa essere il luogo della "vera e buona" informazione?

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3. Sul primo punto (rete e controllo mediatico dei poteri economici dominanti).
Questo aspetto, come sappiamo, è una delle colonne portanti del paradigma di potere neo-liberista.
Per quanto più volte citato, non è mai sufficiente ripetere questo concetto hayekiano:
«Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi».
(F. von Hayek da "Verso la schiavitù", 1944).
3.1. Il corollario applicativo di questo principio è il seguente:

"L'autonomia (dell'opinione pubblica dal governo, in quanto espressione della "tirannica" maggioranza, ndr.) che intende difendere Hayek non va intesa come un spazio "processuale" democratico nell'ambito del quale possono essere elaborate le più diverse soluzioni e proposte politiche. 
Tale autonomia risulta meritevole di difesa solo in quanto il nostro ritiene che certi gruppi, che naturalmente si premura di individuare lui, siano depositari di una propensione al mantenimento dell'ordine spontaneo fondato su regole di pura condotta: una sorta di Volksgeist liberista, che dev'essere preservato dall'influenza culturale "costruttivista" (cioè dai processi normativi e di intervento pubblico, oggi, basati sulle Costituzioni democratiche, ndr.).
Ripeto però che questo comporta una nettissima clausola limitativa, in quanto l'ordine del mercato non può essere né progettato né discusso razionalmente, perché è esso stesso a produrre la ragione, salvo che questa decida "abusivamente" di allontanarsene. 
Ovvero l'autonomia di cui parla Hayek rappresenta semplicemente l'insieme delle strategie sociali e politiche (la famosa "demarchia") con cui intende portare avanti la sua agenda politica."
3.2. Quanto appena esposto sull'assetto di "potere dei mercati" in forma di controllo mediatizzato, va necessariamente combinato con  l'impossibilità di ignorare che la gran parte del potere sovrano è, in Italia come nel resto dell'eurozona, attualmente detenuto da un'organizzazione sovranazionale a orientamento "mercatista" come l'UE-UEM. 
Alla luce di tale realtà politica e istituzionale, oggi, il problema della democrazia diretta, in astratto realizzabile attraverso la rete, si pone in questi termini:
"...parlare di democrazia diretta in questa condizione di ridislocazione della sovranità, divenuta "processo" e fatto compiuti, è evidentemente un pura illusione.
Il popolo, nella sua interezza di corpo elettorale, si dovrebbe infatti esprimere su ogni possibile decisione di rilevanza generale, ma:a) le decisioni fondamentali sull'indirizzo politico generale, sono già contenute nei trattati;b) ogni altro fatto sopravvenuto, di carattere "essenziale", che possa manifestarsi per attualizzare l'esigenza di decisioni fondamentali, è regolato dal potere di eccezione, sempre dislocato all'interno delle forze (economico-finanziarie) che hanno instaurato l'ordine giuridico voluto da tali trattati (per lo più, come oggi, economici e, precisamente, volti a instaurare un libero scambismo internazionalizzato al massimo grado).
Cosa potrebbe decidere il corpo elettorale, nel suo continuo e defatigatorio consultarsi, se ogni decisione realmente essenziale sull'interesse pubblico è già assorbita in tale meccanismo dell'ordine sovranazionale dei mercati?"

4. Sul secondo punto (verità e credibilità dell'informazione sul web).
Un potere che predica di voler controllare tutti i fini e tutti i settori della vita sociale, per l'affermazione del "controllo economico" (oligarchico), e che dunque si pone, con successo, quale monopolista sia della tecnologia che dell'informazione, organizza naturalmente la totalità della comunicazione con ogni mezzo disponibile:

"Il sistema, è ormai cosa nota, gestisce l’informazione ma anche, in modi indiretti e spesso occultati, la stessa contro-informazione: per cui, il prodotto che giunge al cittadino medio è la disinformazione, cioè la famosa “verità ufficiale”, più efficacemente divulgata se contenente, al suo interno, un'apparente dialettica di versioni "opposte", provenienti però dalla stessa indistinta "fonte di divulgazione". 
...Il luogo comune che ha sempre accompagnato la nascita e la diffusione di Internet come canale di diffusione e propagazione dell’informazione è la sua intrinseca capacità di garantire una maggiore libertà di espressione. Web, blog, twitter, i contenuti viaggiano senza che nessuno possa realmente impedire che le voci vengano censurate.
Ma la verità è che Internet diventa un grande normalizzatore di stili di vita ed è il più grande strumento per colonizzare il pensiero di una moltitudine di persone che risiedono nei luoghi più diversi del pianeta.
Internet diviene infatti il "luogo" di legittimazione di una nuova "ufficialità", solo in apparenza estranea ai sistemi di formazione del dato-notizia propri dei media tradizionali. In ogni momento di discontinuità tecnologica che ha accompagnato l’evoluzione dei media si è sempre determinato un ordine di potere economico più ampio del precedente.
I padroni dell’industria mediatica sono oggi dei colossi che un tempo nessuno immaginava potessero esistere. Se da una parte i costi di accesso a internet rendono possibile a singoli e piccoli gruppi di portare la propria voce sulla rete è altresì vero che i capitali che possono garantire l’esercizio di un vero impero mediatico sono alla portata di pochissimi gruppi i quali tendono ad avere interessi plurimi in quella che è oggi diventata la comunicazione convergente video-dati-voce, declinata attraverso il controllo di più media, Internet-TV-Giornali.
In buona sostanza, significa essere nella possibilità di immettere sul mercato risorse di un ordine di grandezza tale da mettere a rischio l’esercizio di una libera informazione in quanto condiziona le dinamiche degli investimenti pubblicitari, fonte primaria di sostenibilità del giornalismo.
E nell’era dell’informazione su internet, il fattore egemonico diventa la tecnologia. Di fatto lo è sempre stata, ma oggi, rispettando la logica che ha finora ha mosso l’industria dell’informazione, lo diventa in modo ancor più evidente.
Piattaforme di distribuzione, infrastrutture di comunicazione sono gli elementi attraverso cui si esercita il nuovo oligopolio dell’industria mediatica. La disponibilità di capitali diventa prioritaria...
...E il rischio, o l’inevitabile conseguenza con cui dovremmo convivere e misurarci, è quello di una omologazione sempre più forte dei messaggi, in una cornice di novità e di contrapposizione al passato, abilmente ostentate ma che, in realtà, sono esclusivamente tese a evolvere, con maggior efficacia, il sistema di potere teso all'orientamento dei comportamenti della massa dei fruitori-consumatori della notizia e, in definitiva, del tipo di "prodotto" che essa inevitabilmente sottende.
5. Con questi problemi - democraticità effettiva dei partiti secondo il dettato costituzionale ed effettiva natura dell'informazione/comunicazione originate dalla rete-, il futuro politico italiano dovrà ora necessariamente confrontarsi: è questo, in fondo, il retaggio che ci lascia la figura di Gianroberto Casaleggio e il banco di prova della sua aspirazione al rinnovarsi della democrazia.

L'EQUIVOCO LIBERISTA SU RODRIK: IL TRILEMMA VALE UN DILEMMA (MOLTO RUMORE PER POCO)

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E se lo dice lui...

Questo post di Bazaar inquadra e riprende una serie di tematiche che convergono per focalizzare alcune verità offuscate: la democrazia sostanziale (cioè il benessere e lo sviluppo collettivo) è semplicemente incompatibile col "governo dei mercati" e quello che ne rimane (la versione idraulica) è un elaborato filosofico, (il pop della complessità, come fosse...antani), che prescinde dai fatti e dissimula il potere di un'oligarchia. Questa, beffardamente e potendo contare impunemente sulla non percezione di fatti ed effetti da  parte della "massa", intende la tanto sbandierata "libertà" (dallo Statocattivo) come un simulacro apparentemente accessibile a tutti i "benpensanti" ma, in realtà, a crescente concentrazione in pochi. Che divengono poi pochissimi. Col consenso entusiasta dei molti...
Raccordiamo il post con l'espressa citazione di un precedente post di Bazaar:
"Date queste premesse, si propone che il totalitarismo non è altro che la fase assoluta a cui tende il sistema capitalistico liberale – senza freni e limiti – nel momento in cui viene mercificato e monopolisticamente prezzato qualsiasi oggetto sensibile, da qualsiasi risorsa naturale, all'uomo, dalle norme morali, ai sentimenti.
...Vediamo ad esempio C. Friedrich e Z. Brzeziński (1956) sul significato storico di totalitarismo, proponendo già alcuni spunti di riflessione tra parentesi quadre:

a) un'ideologia onnicomprensiva che promette la piena realizzazione dell'umanità; [tipo il “mondialismo”?]
b) un partito unico di massa, per lo più guidato da un capo, che controlla l'apparato statale e si sovrappone a esso;
[tipo il “PUDE”, il “PUO” o il partito unico liberale con a capo il Grande Fratello, ovvero il Mercato?]
c) un monopolio quasi totale degli strumenti della comunicazione di massa;
d) un monopolio quasi totale degli strumenti di coercizione e della violenza armata;
e) un terrore poliziesco esercitato attraverso la
costrizione sia fisica sia psicologica, che si abbatte arbitrariamente su intere classi e gruppi della popolazione;
f) una direzione centralizzata dell'economia.
[Possiamo chiamare anche questo “monopolio” di un mercato massimamente concentrato che pianifica produzione e fissa i prezzi?].
 
...Se appare “assurdo” e “delirante” è perché non sembra rispondere a nessun tipo di necessità razionale, ma alla volontà di rendere superflue intere categorie di persone che con la loro semplice presenza disturbano il compimento del progetto totalitario (ndQ: "intere categorie di persone", come le vedove cui sottrarre la pensione di riversibilità o i disoccupati da "sostituire" attraverso l'immigrazione illimitata").
NB: da non perdere la comparazione del modello costituzionale italiano con quelli degli altri principali Stati aderenti all'UE: ciò conferma che, abbattuta la vera sostanza della Costituzione italiana, l'internazionalismo dei mercati non troverebbe soverchi ostacoli di "legalità" alla sua affermazione totalitaria...

Introduzione:  liberismo e globalizzazione, al di là del bene e del male.

 « Gesù disse ai suoi Giudei: “La legge era fatta per i servi, amate Dio come io lo amo, come suo figlio! Che importa della morale a noi figli di Dio!”» “Al di là del bene e del male”, Friedrich WilhelmNietzsche
Il Trilemma di Rodrikè sicuramente un potente strumento concettuale che modellizza ciò che dovrebbe essere ovvio ad una persona istruita: ovvero che il diffuso benessere sociale che l'effettività della democrazia comporta, è in contrapposizione con la deregolamentazione del movimento dei capitali che il liberoscambismo impone.

Punto.

Non ci sarebbe nulla da aggiungere, oltre che invitare a studiare la storia dell'economia politica: il dogma del laissez-fairenon è proprio né dei grandi economisti classici come Adam Smith né, tantomeno, di quelli un po' più “incolti” à laDavid Ricardo.

Il liberista così come lo conosciamo, è prodotto coscienziale di un marketinglegittimamente promosso e  lautamente finanziato dalle grandi oligarchie protagoniste dello sviluppo del capitalismo finanziario. Diffonde quindi proseliti che esulano, perlopiù, dalla scienza economica e, quando ciò non si verifica, la Storia li riscontra al di fuori delle prestigiose sale convegni, rigorosamente nella forma di immani catastrofi sociali; queste fallacie previsionali – oltre ad essere propedeutiche a ristrutturazioni sociali efficacissime nei loro effetti malthusiani  – hanno l'utile risvolto di  screditare la professione economica nel suo insieme,  in modo che chiunque – dall'esperto di diritto internazionale della finanza, al prestinaio– possa esprimere la sua democratica opinione su ciò che, non avendo empiricamente i presupposti di scientificità, ha egual diritto di comparire nelle discussioni al bar, o di essere pubblicata nelle colonne di prestigiosi quotidiani economici.  

(Non a caso le argomentazioni sono più o meno similmente argute: con una certa maggior raffinatezza tra gli avventori del Bar dello sport, grazie alla miglior predisposizione alla statistica e all'aritmetica, abilità perfezionate tra un bianchino e una Quaterna, e tra un conto della Primiera e un altro bianchino).

Tutto ciò è razionale, in quanto i monopoli finanziari possono consolidare rendite, quote e potere di mercato.

Nel viriledarwinismo globale tanto amato dai liberisti, “giusto” « è l'utile del più forte ». Il diritto internazionale non è altro che, quindi, assicurarsi che «a ognuno venga restituito il dovuto »: ossia«restituire il bene agli amici e il male ai nemici ».

Va da sé che per lo squalo della finanza – forte nel capitale – e per i moderati– forti nel numero –  lo Stato-nazione è Il Male.

Se un'economia di mercato è liberalizzata, è naturale che le divine forze della natura si sfoghino darwinisticamente, edificando un nuovo ordine etico e giuridico: in una società capitalistica, la logica propulsiva è quella del profitto e dell'accumulo, ed è legittimo che solo chi controlla una spropositata concentrazione economica possa comprare leggi, morale e – sputando per terra – creare l'uomo nuovo a propria immagine e somiglianza; pronto a servirlo e ad amarlo. Questo è con tutta evidenza il lavoro di Dio.

Il mercato della morale ha un nuovo soggetto in posizione dominante: il monopolio diventa monoteismo.


1 – La fioritura del liberalismo: modernità come reazione al progresso.


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« Una terribile moralità», Charles Baudelaire commenta il suo capolavoro, simbolo dell'art pour l’art, cioè del “liberalismo in letteratura[1].

Per quanto sia comprensibile che vivere come superuomini[2]– con “i dollari che scorrono a posto del sangue” – sia un'ebbrezza talmente appagante che non possa essere scambiata con nulla che valga la pena di essere – comparabilmente– vissuto, è altrettanto comprensibile che quella restante componente di ominidi – zerbini sottesi tra la bestia e l'uomo, pericolosamente sporti sull'abisso della rete fognaria– cerchi di organizzarsi per vivere in modo libero e dignitoso.

Nella realtà, come intuito dall'idealista di Stoccarda nell'analizzare la dialettica servo-signore, sarà più facile che il subalterno rinunci ai propri diritti, che il dominanterinunci ai propri privilegi: concetto ben rappresentato in via simbolica da Félicien Rops (1878):[3]

http://www.tigrazza.com/ladiesandgentlemen/wp-content/themes/benevolence/images/Felicien-Rops_Pornocrate.jpg 

Il signore è il servo del servo, e il servo è il signore del signore[4].
Insomma: sotto il loden niente.

Il sobrio rigore morale della tecnocrazia non è altro che la versione gesuitica della pornocrazia.
 
2 – Il dilemma del lemma nel Trilemma: breve patografia del senso democratico.

« Conviene che la riforma [costituzionale fascista] rispetti quanto è possibile le forme esistenti, rinnovando la sostanza. […] I modi sono infiniti, lo scopo è unico ed è di evadersi dalle ideologie democratiche della sovranità della maggioranza. A questa rimanga l’apparenza, ma vada la sostanza ad una élite, poiché è per il meglio oggettivamente. » Vilfredo Pareto

«Voi inorridite perché vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà privata è abolita per i nove decimi dei suoi membri; la proprietà privata esiste proprio per il fatto che per nove decimi non esiste. Dunque voi ci rimproverate di voler abolire una proprietà che presuppone come condizione necessaria la privazione della proprietà dell'enorme maggioranza della società.  In una parola, voi ci rimproverate di volere abolire la vostra proprietà.
Certo, questo vogliamo.» Carlo Marx
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese» Lelio Basso
A fare brillantemente il re nudo – che Dio ce ne scampi!– con uno di quegli schemini che piacciono tanto ai microliberisti american-style,è stato l'economista di Harvard Dani Rodrik.

Già Amartya Sen, sulla falsa riga del “teorema dell'impossibilità di Arrow”, aveva già dimostrato matematicamente come non fosse possibile realizzare nemmeno teoricamente il dogma del liberalismo classico,che postula indissolubilmente efficienza paretiana del mercato e rispetto delle libertà individuali. 
Sen dimostra che nessun sistema sociale può contemporaneamente:

1 – essere votato ad un senso minimo di libertà;

2 – rispettare l'efficienza allocativa così come formulata da Vilfredo Pareto;

3 – essere in grado di funzionare in qualsiasi società.

Era perciò matematico che un processo di mondializzazione strutturatosul dogma dell'efficienza allocativa liberista si traducesse nella barbarie della macelleria sociale e dell'inciviltà. D'altronde così è sempre stato.

Il Paradosso di Sen, chiamato anche Liberal paradox, è un “paradosso” solo per colui che non conosce la storia: in definitiva non fa altro che, usando gli strumenti dell'economia neoclassica stessa, utilizzare “raffinate” dimostrazioni matematiche per evidenziare che la “libertà” per i liberali classici è sempre – e solo – quella del mercato. La propria. 
Ovvero la struttura che viene imposta con il libero mercato non implica affatto sovrastrutture politiche e giuridiche che possano minimamente essere funzionali a tutelare la libertà dell'individuo. Soprattutto se questi non nasce già schifosamente ricco o non ha come obiettivo totalizzante della propria esistenza fare soldi a palate.

Grazie Amartya, ma lo aveva già detto Carletto Marx quasi due secoli fa, scritto su un best seller:
« [...] l'operaio vive solo allo scopo di accrescere il capitale, e vive solo quel tanto che esige l'interesse della classe dominante. […]
Nella società borghese il capitale è indipendente e personale, mentre l'individuo operante è dipendente e impersonale[5].
E la borghesia chiama abolizione della personalità e della libertà l'abolizione di questo rapporto! E a ragione: infatti, si tratta dell'abolizione della personalità, della indipendenza e della libertà del borghese.
Entro gli attuali rapporti di produzione borghesi per libertà s'intende il libero commercio, la libera compravendita.
[...] Le frasi sul libero traffico, come tutte le altre bravate sulla libertà della nostra borghesia, hanno senso, in genere, soltanto rispetto al traffico vincolato, rispetto al cittadino asservito del medioevo»

La libertà è una merce come tutte le altre, si vende e si compra. Da secoli.

2.1       Dani Rodrik estende il non-paradosso alla globalizzazione, sottolineando che solo due su tre delle seguenti proposizioni possono teoricamente realizzarsi con un certo grado di effettività:

(A)– costruire una profonda integrazione economica;

(B)– lasciare sostanzialmente inalterata la sovranità degli Stati nazionali;

(C)– perseguire politiche democratiche.

Infatti:

1 – (A Λ B) C– Un sistema monetario internazionale con cambi fissi tipo gold standard permette di integrare le economie e preservare formalmente le sovranità nazionali, ma, come dimostrato per l'ennesima volta dall'euro, “quote 90” e monete uniche si rivelano strumenti fascisti di repressione.

2 – (B Λ C) A–  Si rinuncia per l'ennesima volta alla globalizzazione e alla libera circolazione dei capitali, e si torna ai gloriosi anni di Bretton Woods.

3 – (A Λ C) B– Un federalismo globale kantiano – il Fogno!– eliminerebbe gli stati nazionali ma “preserverebbe la democrazia”... Hayek e Madison si stanno ancora sganasciando dalle risate.

(Tutto ciò è sensato ed è a prova di american-style-minded: quindi? Quindi basta intervistare un trumbè, che ha un cugino che lavora nella prestigiosissima istituzione e che gli ha detto « xxx xx xxx xx [quattro proposizioni sconnesse a caso] », e farlo pubblicare su un organo d'informazione di massa: la risposta a chi ha speso anni e anni di studio per formalizzare l'ovvio è stata data, quindi pari e patta, “la tua parola contro la mia”, l'economia non è una scienza, lo Stato è cattivo anche se lo Stato sei tu, l'austerità è brutta ma espansiva, quindi l'euro è bello... ecc.)

Tralasciamo che i simpatici architetti della globalizzazione auspicano (pardon, stando con Attali,  «prevedono») pure una moneta unica alla fine del processo di mondializzazione: siamo avviati in fretta e furia verso un dispotismo tirannico con tutta l'irresponsabilità tipica del mercato monopolistico. Proprio la conclusione a cui è giunto George Orwellrecensendo "The Road to Serfdom" di Hayek:

« Il professor Hayek ha anche probabilmente ragione nel dire che in questo paese gli intellettuali hanno un'attitudine mentale più totalitarista rispetto alla gente comune. Ma lui non vede, o non ammette, che un ritorno alla “libera” concorrenza significa per la grande massa di persone una tirannia probabilmente peggiore, perché più irresponsabile, rispetto a quella dello Stato. Il problema con la competizione è che qualcuno la vince. Il professor Hayek nega che il libero capitalismo porti necessariamente al monopolio, ma in pratica è lì che ha condotto, e dal momento che la stragrande maggioranza delle persone preferirebbe di gran lunga una stretta regolamentazione statale ai crolli e alla disoccupazione, la propensione verso il socialismo è destinata a continuare, se l'opinione pubblica ha qualche voce in capitolo.»

2.1 – Il “Lemma”                   
La letteratura che esiste sull'inconciliabilità tra laissez-faire e libertà individuale– con “libertà” intesa come qualcosa che non sia l'illimitata possibilità del più forte di « abbattere il proprio simile impunemente » – è sterminata: sorprendentemente “pop” a tutti i livelli è invece la cultura democratica, dove per Democraziasovrana– stando con Calamandrei–  si intende quella forma di governo per cui: 
« […] tutti i cittadini concorrono in misura giuridicamente uguale alla formazione della volontà dello Stato che si manifesta nelle leggi e in cui in misura giuridicamente uguale tutti i cittadini partecipano ai diritti e ai doveri che dalle leggi derivano [...]. D'altra parte, per aversi uno Stato sovrano ed indipendente è necessario che alla formazione della sua volontà concorrano soltanto, attraverso i congegni costituzionali a ciò preposti, le forze politiche interne: Stato democratico sovrano è quello le cui determinazioni dipendono soltanto dalla volontà collettiva del suo popolo, espressa in modo democratico, e non dalla volontà o da forze esterne, che stiano al di sopra del popolo e al di fuori dello Stato. »

Evocativa della cultura democratica al di fuori della tanto deprecata Repubblica Italiana, è la difesa di Rodrik nell'argomentare contro l'attacco portato dall'eurista– ovviamente filosofomoraleMartin Sandbu.

Il lemma “democrazia” nel vocabolario del liberale (filosofo) è un concetto indubbiamente esoterico[6]: secondo Rodrik:
«le democrazie hanno vari meccanismi per limitare l'autonomia e lo spazio politico dei decisori. Ad esempio, i parlamenti democraticamente eletti spesso delegano il potere a organismi autonomi indipendenti o quasi-indipendenti. Le banche centrali sono spesso indipendenti e ci sono vari altri tipi di pesi e contrappesi nelle democrazie costituzionali. Allo stesso modo, le regole globali possono rendere più facile alle democrazie nazionali il raggiungere gli obiettivi che si prefiggono, anche se queste comportano alcune restrizioni in termini di autonomia. Keohane at al. discutono tre meccanismi specifici: le regole globali possono migliorare la democrazia  controbilanciando i sezionalismi, tutelando i diritti delle minoranze, sia migliorando la qualità delle scelte democratiche».

Questo sarebbe vero nelle situazioni “ottimistiche” come, ad esempio, « il caso in cui il governo affronta un problema di "incoerenza temporale"[la teoria dei giochi!, ndt]. Questo vorrebbe votarsi al libero scambio o al consolidamento fiscale, ma si rende conto che col tempo cederà alle pressioni e devierà da ciò che ex ante è la sua politica ottimale. Così sceglie di legarsi le mani attraverso la disciplina esterna. In questo modo, quando i protezionisti e grandi spendaccioni [big spender] si presentano alla sua porta, il governo dice: "Mi dispiace, l'OMC e il FMI non mi permette di farlo."È meglio per tutti [“paretianamente efficiente”, ndt], tranne che per i lobbisti e gli interessi particolari [tra cui quelli dei lavoratori, titolari della sovranità democratica, ndt]. Questo è un  buon caso di delega e di disciplina esterna»

Questo è un professore democratico di Harvard: la più prestigiosa università al mondo con sede nel Paese che proclama di essere modello di democrazia.

Il danno che ha fatto l'economia neoclassica alle scienze sociali, cercando di piegarle a quelle naturali, è pari solo al danno che ha fatto alla democrazia e al sano internazionalismo che questa impone.

Insomma, dopo quasi dieci anni, riscontriamo che il famoso Trilemma  sulla globalizzazione è stato formulato da un economista che crede al potenziale benefico della banca centrale indipendente e della disciplina esterna per la democrazia stessa: si pensi al senso democratico dei Pasdaran del mondialismo che lo criticano!

Almeno i nostri despoti e traditori della Patria ci hanno detto chiaro e tondo che il vincolo esternoè necessario per disciplinarci, visto che siamo plebei irresponsabili, non sappiamo governarci, e la democrazia non la meritiamo: meritiamo solo « la durezza del vivere».

3 – Fenomenologia del liberale: coscienza democratica e sua riduzione eidetica (trilemma di Bazaar).


«Tutta l'opera di un artista può servire allo scopo di occultare se stesso», a proposito di  Johann Wolfgang von Goethe, Sigmund Freud
«Tutta l'opera di un liberale può servire allo scopo di occultare se stesso», a proposito del liberista, Bazaar
L'occasione che ha avuto Rodrik di asfaltare pubblicamente Sandbu sul Financial Times, evidenziandone – magari – la preoccupante assenza  di quelle minime risorse culturali che permettono di parlare con cognita causa di “democrazia”, è stata parzialmente sprecata, come costernati constatiamo, da un certo deficit di cultura democratica che sapevamo già essere insito nei principi fondanti della Costituzione statunitense.

Ad un esame approfondito ci potremmo rendere conto anche delle distanze  siderali che pare ci siano state tra la cultura democratica dei nostri maggiori padri costituenti e quella di chi ha prodotto (è il caso evidente della Spagna laddove si faccia un'analisi comparata della struttura di tale Costiuzione con quella italiana, ndQ.)  le Carte anche più moderne[7].

Cercando nei Paesi dell'Unione Europea non troveremmo granché di meglio: anche se per motivi storici diversi, Francia e Germania non sono dotate di una costituzione economica che imponga inderogabilmente un modello di azione di governo di matrice keynesiana, risolvendo il conflitto sociale tramite lo Stato sociale. Né, tantomeno, sono dotate di un “art.11 Cost.” che permetterebbe di “far fronte comune” in caso si dovesse negoziare livello internazionale per la risoluzione dei Trattati liberoscambisti.

Meglio delle prime costituzioni rigide o di quelle più moderne di stampo ordoliberale, è – a questo punto – il modello degli inglesi, che sono privi di una costituzione scritta e hanno maggiori margini di discrezionalità (il che è attestato dalla profondità riformatrice che potè assumente il Rapporto Beveridge, con un'attitudine che è sempre riespandibile, ndQ.).
Notevole è la conclusione di Beveridge, riportata da Villari: L’abolizione del bisogno non può essere imposta né regalata ad una democrazia, la quale deve sapersela guadagnare avendo fede, coraggio e sentimento di unità nazionale”.

Se una costituzione rigida ha – come nel caso eclatante di quella americana – lo scopo effettivo di proteggere gli interessi delle oligarchie dalle pretese democratiche dei lavoratori, tanto meglio per le classi subalterne non aver vincoli fondamentali che, in ultimo, tutelano gli interessi delle facoltose minoranze.

Questo ci porta realisticamente a rivalutare al ribasso le effettive possibilità di una riaffermazione delle democrazie sociali in Europa.

E, al contempo, considerando che questi sono incredibilmente gli unici spazi in cui si ha la possibilità di acquisire effettiva consapevolezza democratica in Italia, ci troviamo di fronte – con un senso di orgoglioso sbigottimento – ad una grande responsabilità.

Ad ora ci si limiterà ad illustrare l'ipotesi per cui la genesi del “batterio pop” – che trasforma qualsiasi argomentazione fondamentale sull'ordine sociale, in un vociare ubriaco da Bar dello Sport – sta nel liberalismo stesso.

Per dimostrarlo, si propone il seguente trilemma, che illustra come l'homo politicus non possa essere al contempo:

(A) – Democratico; 

(B)– Liberale;

(C)– Statista[8].

( (A ΛB) C ) Λ ( (A ΛB) C ) Λ  ( (A ΛC) B )

Chi comincia ad avere un po' più chiari i principi di analisi economica istituzionalista, depurati intenzionalmentedai retaggi ideologici tramite un approccio epistemologico multidisciplinare –  ovvero sgomberando in primistutte quelle sovrastrutture“pop” che non sono altro che falsa coscienza – può cimentarsi nel tentativo di falsificarequesto trilemma con degli esempi storici.

(Inizierei con Keynes e Calamandrei, tenendo bene in mente l'evoluzione del loro pensiero)

4- Conclusioni. Modernità, mondialismo liberale e narcosi atonale: “la fine della storia” come eterna adolescenza.


« ...studiando la struttura tonale imparai a leggere meglio gli spartiti. […] Di qui mi nacque anche un odio per la musica moderna e per tutto quello che non è musica classica. »
« ...l'uso frequente di frasi fatte testimonia infatti una mente incapace di creare qualcosa. […] Una trascuratezza di stile è molto più perdonabile di un'idea confusa. […]
La gioventù, cui mancano ancora pensieri propri, cerca di nascondere il suo vuoto mentale dietro uno stile mutevole e luccicante. Non è in ciò la poesia simile alla musica moderna? Allo stesso modo essa diverrà presto la poesia dell'avvenire. Si parlerà con le immagini più strane; si maschereranno pensieri confusi con argomentazioni oscure ma dal suono elevato, in breve si scriveranno opere nello stile di Faust (seconda parte), solo che mancheranno le idee di quella tragedia. Dixi!!!! »  Friedrich WilhelmNietzsche, 1858, “Come si diventa ciò che si è”



[1]      Cit. Michael Hamburger
[2]      Un Nietzsche ancora poco più che fanciullo argomentava che «...anche Napoleone era infatti come un'aquila di carta. Se si toglieva la luce che lo illuminava da dietro, anche lui era solo un povero pezzo di carta che finiva relegato in un angolo! », 1858, “Come si diventa ciò che si é”
[3]      Notare le arti che vengono calpestate: liberalismocome “trionfo della banalità e della cazzata”.
[4]      Un cappello a cilindro sul porcellino potrebbe contribuire ad attualizzarne la potenza espressiva: notare la cultura, rappresentata dalle arti che vengono calpestate dalla élite pornocratica.
[5]      Risorsa umana, o come si dice in Goldman Sachs, « capitale umano».
[7]      Cfr. l'art.40 Cost. spagnola, per collocazione e formulazione, con la chiarezza e la collocazione degli artt.3 cpv, 4 e 36 Cost. italiana.
[8]      Statista nell'effettività dell'accezione di: “abile nella prassi politica in quanto consapevole teoreticamente dell'essenza tanto della politica democratica, quanto di quella liberale”.

KALDOR, KEYNES, CAFFE': LA TRILATERAL E LA COSTITUZIONE DEL LAVORO

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1. Ringraziando Flavio per la citazione e Winston per la traduzione, ci pare opportuno non disperdere, nell'ormai vastissimo spazio dei commenti, questo passaggio di Kaldor: lo riportiamo, scansionandolo in periodi più nettamente evidenziati:
«In un recente articolo dedicato alle 'Cause di crescita e recessione nel commercio mondiale', T. F. Cripps ha dimostrato che un Paese non è sottoposto a vincolo da bilancia dei pagamenti se le sue importazioni in condizioni di pieno impiego, M*, sono inferiori alla sua capacità di importazione M̅ (per quanto risulti dai suoi ricavi derivanti da esportazioni). 
Tale Paese è libero di scegliere il livello di domanda interna considerato ottimale in base alle proprie condizioni, mentre gli altri Paesi per cui M*>M̅ devono, in stato di libero commercio, contrarre i loro livelli di produzione e di occupazione rispetto alla situazione di pieno impiego, e limitarsi a importare solo quanto in grado di finanziare [con i proventi delle esportazioni, ndw]. 
Successivamente, egli dimostra che la somma delle importazioni dei Paesi privi del suddetto vincolo determina i livelli di produzione e occupazione raggiungibili da parte dei Paesi "vincolati" e che il rimedio per questa situazione esige misure atte a incrementare il livello delle importazioni in condizioni di pieno impiego oppure a ridurre la quota delle esportazioni dei Paesi "svincolati". 
Le "regole del gioco" che renderebbero possibile il conseguimento di crescita e stabilità nel commercio internazionale, e il ripristino della produzione dei Paesi "vincolati" a livelli di pieno impiego potrebbero richiedere l'adozione di misure discriminatorie sui controlli delle importazioni, del tipo prospettato nella famosa "clausola della moneta scarsa" dagli accordi di Bretton Woods. 

In assenza di simili misure tutti i Paesi, e non solo il gruppo di Paesi la cui attività economica è sottoposta a vincolo da bilancia dei pagamenti, potrebbero venire a subire un tasso di crescita più basso e un inferiore livello di produzione e occupazione. 
Ciò si verifica perché anche le esportazioni dei Paesi in surplus saranno soggette a un decremento per via della contrazione dei traffici commerciali a livello mondiale, e questi Paesi potrebbero non riuscire a controbilanciare questa perdita (o comunque non in maniera sufficiente) attraverso misure reflazionarie interne che garantiscano un decremento anche delle importazioni.
A patto che le norme sulle importazioni introdotte facciano riferimento alle tendenze all'importazione (vale a dire il rapporto fra le importazioni e la produzione interna) e non alla quantità in valore assoluto delle importazioni, proprio il fatto che tali misure produrranno un incremento del traffico commerciale, della produzione e dell'occupazione dei Paesi "vincolati" comporterà un aumento corrispondente del volume delle esportazioni e degli utili interni dei Paesi "svincolati", nonostante la revisione al ribasso delle loro quote di esportazione a livello mondiale.»

2. Ovviamente si può sempre abolire ogni confine e ogni Stato e quindi ogni rilevanza della contabilità nazionale che certifichi gli squilibri territoriali delle importazioni rispetto alle esportazioni: ma ciò non esclude che, nella realtà effettuale dei singoli territori che rimarrebbero fisicamente esistenti, - comunque li si voglia contraddistinguere e circoscrivere-, continuino a registrarsi tali squilibri: e quindi, anche se di fatto, si continuerebbe comunque a porre il problema sociale dell'indebitamento, non restituibile, di interi gruppi di popolazione verso quelli delle aree "creditrici". 
Per impedire che vi siano forme di tragedia collettiva, quali la perdita dell'occupazione, dell'abitazione e della stessa minima capacità di sopravvivenza, delle popolazioni debitrici, occorrerebbe pur sempre una forma di governo che gestisse interventi finanziari di solidarietà e perequazione, nonché di correzione delle divergenze della struttura economica.
Ma che un governo mondialista voglia assumere queste funzioni solidali e perequative è escluso nelle stesse consolidate teorizzazioni di chi lo propugna (e i trattati europei, come esperimento-pilota del "governo sovranazionale dei mercati", ne sono la prova vivente).

3. A questa iniziale premessa, che potrà forse apparire tecnicamente complessa, aggiungeremmo, come sintetico chiarimento semplificatore, questa citazione di Caffè a commento del pensiero di Keynes:
"Keynes, considerando come presupposto di un "capitalismo intelligente" l'allargamento delle funzioni e degli scopi dello Stato, includeva tra le decisioni più importanti della politica pubblica quelle riguardanti "ciò che dovrà essere prodotto nel Paese e ciò che dovrà essere ottenuto in cambio dall'estero". 
...
Del resto anche D.H. Robertson, uno dei più saggi economisti di ogni tempo, contrappone alla stabilità  dello "scambio di ghiaccio contro carbone tra Nordlandia e Infernia" le "oscillazioni confuse" di "scambi soggetti a particolareggiate modificazioni tecniche" (cfr; "Saggi di teoria monetaria", Firenze, 1956, pp.237 e ss.). 
Coloro che non siano esaltatori acritici dello sviluppo degli scambi internazionali, per motivi da collegare appunto alla loro composizione o alle conseguenze interne...formano di frequente oggetto di addebiti saccenti
In quanto questi addebiti rivelano, in coloro che li manifestano, un'insufficiente conoscenza della storia del pensiero economico,...non può sorprendere che gli addebiti stessi si traducano in forme di aggressione polemica di pretenziosa arroganza".

4. Ne emerge, se pure non fosse già chiaro, l'esplicita identificazione di Caffè con il modo in cui le "funzioni e gli scopi dello Stato",  - vale a dire il contenuto della sovranità (che è il potere di perseguire effettivamente tali scopi, proprio esercitando tali funzioni)- devono essere indirizzati nella visione keynesiana; e al contempo, la coscienza di quanta aggressiva opposizione, a tale visione, abbiano sempre esercitato gli "esaltatori acritici dello sviluppo degli scambi internazionali" 



Posta in questi termini,la disputa potrebbe essere vista "solo" come teorica, cioè tra scuole economiche e relativa ai conseguenti modelli politici di organizzazione della società (quelli che Mortati definiva "forme di Stato", allargabili, secondo il mondialismo liberoscambista, ben al di là di qualsiasi deprecata "identità nazionale").

5. Ma ridurre tale contrapposizione alla sfera meramente scientifico-economica, e di teorie istituzionali non risulta un'operazione culturalmente legittima.,

Rammentiamo in proposito alcuni fatti rilevanti dal punto di vista costituzionale, cioè dal punto di vista della legalità del supremo diritto positivo della Repubblica italiana (finché tale entità, almeno per coloro che ne incarnano le supreme istituzioni, sia ritenuta ancora vivente ed effettiva).
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"Sul piano (giuridico)costituzionale, come ben illustrava Meuccio Ruini, ciò ha delle inequivoche conseguenze che risultano agli atti della Costituente, proprio nel dibattito sull'art.11 Cost. e che hanno poi avuto una qualche (timida) eco e reiminiscenza anche nel costituzionalismo successivo italiano :
a) "Accettiamo, invece di «reciprocità» e «uguaglianza», l'espressione «in condizione di parità con gli altri Stati». 
Non avremmo nessuna difficoltà ad accogliere la proposta Zagari: «favorisce la creazione e lo sviluppo di organizzazioni internazionali». Ma qualcuno ha chiesto: di quali organizzazioni internazionali si tratta? 
Non si può prescindere dalla indicazione dello scopo. Vi possono essere organizzazioni internazionali contrarie alla giustizia ed alla pace. L'onorevole Zagari ha ragione nel sottolineare che non basta limitare la sovranità nazionale; occorre promuovere, favorire l'ordinamento comune a cui aspira la nuova internazionale dei popoli..." (Meuccio Ruini, in assemblea costituente, cfr; pag.268 de "La Costituzione nella palude");

b) "La prospettiva costituzionale richiede di essere recuperata anche là dove, di fatto, al di là del formale ossequio alla dottrina dei controlimiti, la si è sterilizzata: nellaprospettiva della integrazione sovranazionale.
Non tutti i cammelli europei possono passare per la cruna dell'art.11 della Costituzione, il cui significato essenziale è che il posto dell'Italia in Europa (e comunque in tutte le istituzioni create da accordi internazionali) deve deciderlo l'Italia, perché quale che sia la prospettiva che si assume è nella Costituzione (nelle singole Costituzioni degli Stati membri) che giace la legittimazione delle istituzioni sovranazionali, non viceversa (Massimo Luciani, "La Costituzione nella palude", pagg. 131-132: inutile dire che questa affermazione consequenziale al dettato costituzionale è in urto irriducibile col Manifesto di Ventotene e col sogno di Spinelli).

6. Su un piano più strettamente aderente a quello che deve considerarsi il modello economico legale-costituzionale, va riportato questo ulteriore nucleo di fatti storici che chiariscono la portata dell'enunciato di Federico Caffè (perfettamente allineato con l'orientamento costituzionalistico appena riportato):

"Ruini fu nominato Ministro per la ricostruzione nel 1945 (nel governo Parri: poco prima era stato nominato Presidente del Consiglio di Stato, a "riparazione" della sua estromissione dall'Istituto dovuta alla sua opposizione al fascismo...) e scelse come segretario particolare e capo di gabinetto il giovane Caffè, proveniente dal servizio studi della Banca d'Italia (dove si occupava proprio di finanza e scambi internazionali...).
Quando Ruini viene eletto deputato nell'Assemblea Costituente, nel 1946 (appunto: il 2 giugno), fu subito nominato Presidente della Commissione dei 75, a cui è nella sostanza dovuto il lavoro di messa a punto del modello economico-sociale recepito dalla nostra Costituzione. 
Negli stessi anni, Caffè era a sua volta nominato consulente presso il Ministero apposito "per la Costituente"; e, non a caso, Caffè, con un ruolo di supporto istituzionale alla stessa Commissione dei 75 la cui importanza non può sfuggire, proseguì a dare il suo contributo  come componente della sotto-commissione "moneta e commercio con l'estero" della Commissione economica della Costituente
E certamente svolgere un ruolo di expertise in tali materie, dato anche il profondo rapporto con Ruini, non fu estraneo alla formulazione della Costituzione economica e dello stesso art.11 Cost."

7. Questo insieme di premesse storiche e concettuali, ci consentono di comprendere (dalla stessa fonte), quanto esposto da una monografia dedicata al Caffè "costituente".
Le sue parole ricalcano, anche qui non a caso, quanto espresso da un celebre discorso "sulla Costituzione" dello stesso Calamandrei, riassunto alle pagg.62-63 de "La Costituzione nella palude" (condiviso, ovviamente, da Ruini).
"[Caffè] esortava i responsabili della politica economica a ricordare che "E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini"...mentre "oggi ci si trastulla nominalisticamente nella ricerca di un nuovo modello di sviluppo e si continua a ignorare che esso, nelle ispirazioni ideali, è racchiuso nella Costituzione; nelle sue condizioni tecniche è illustrato nell'insieme degli studi della Commissione economica per la Costituente (1978)...".
8. Se questa è la cornice della legalità costituzionale, il liberoscambismo illimitato, quand'anche imposto da un trattato internazionale, non può essere considerato un'opzione incondizionatamente legittima, predicando il venire meno di quei fini e di quelle funzioni dello Stato che devono preservare quella decisione su"ciò che dovrà essere prodotto nel Paese e ciò che dovrà essere ottenuto in cambio dall'estero",  che in concreto determina il livello di occupazione di pieno impiego.
Vale a dire, non si può considerare un'opzione acriticamente legittima ciò che viene sintetizzato, a cuor leggero, nella formula "cessione di sovranità" (dimenticando in cosa consista tale sovranità e la responsabilità che essa comporta per chi ne incarni le istituzioni).

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https://seeker401.wordpress.com/2014/10/25/the-trilateral-commission-and-technocracy/

Meno che mai, dunque, mostrare di aderire senza riserve a tale pensiero può ritenersi legittimo, e opportuno, rispetto a associazioni private che propugnino il mondialismo attraverso la globalizzazione economica, quando, come sta accadendo, essa sia portata al livello di considerare prioritariamente sacrificabile lo stesso livello di occupazione in nome della libera competizione sui prezzi.

Occorre rammentare le responsabilità che derivano dal giuramento di fedeltà ad una Costituzione "fondata sul lavoro" e ai suoi principi immodificabili. Almeno, professando, in ogni sede, e di fronte ad ogni interlocutore, la propria profonda e doverosa consapevolezza di questi problemi

IL MONDIALISMO ANTISOLIDALE DEL FATTO COMPIUTO E L'IMMIGRAZIONE: I RIMPATRI CHE NON CI POSSIAMO PERMETTERE

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Avvertenza: per problemi con la piattaforma questo post è stato ripubblicato una seconda volta. Risulta perciò leggermente diverso, in alcune parti, dalla prima versione andata perduta. Ci scusiamo coi lettori che avessero avuto la ventura di aver tentato di leggerlo e si fossero trovati di fronte a una "pagina non trovata".

1. La questione dell'immigrazione non è ovviamente solo €uropea. Certo, la progressione dei numeri degli ultimi anni è impressionante: ma solo perché, come abbiamo visto, è gestita attraverso un sostanziale lassez-faire, in cui l'emergenza umanitaria dei rifugiati è utilizzata per "scudare", nel teatrino mediatico, la ristrutturazione sociale e del mercato del lavoro progettata nella €uropean-way
Abbiamo infatti visto come persino secondo i trattati i vari Stati avrebbero potuto e, anzi, avendo tutt'ora una riconosciuta sovranità di policies in tema di immigrazione, "dovuto" gestire il problema in tutt'altro modo: cioè, a fronte di un'immigrazione essenzialmente economica, ogni Stato, proprio in base al principio di sussidiarietà operante negli stessi trattati, avrebbe potuto concludere opportuni trattati bilaterali con gli Stati "di partenza", non troppo difficilmente individuabili in base alla conoscenza della composizione dei flussi migratori effettivi.

2. La conclusione dei trattati bilaterali, infatti, risponde anche a espresse previsioni dei trattati europei oltre che al sistema più razionale e consensuale seguito in passato all'interno dell'Europa (pre-federalismo e liberoscambismo), e non solo:
"Va infatti ricordato che l'art.78 TFUE  sopra citato, se letto in buona fede, si riferisce chiaramente a flussi peculiari, cioè determinati da eccezionali e imprevedibili eventi circoscritti a uno "Stato terzo" manifestamente in stato emergenziale, e non coinvolgenti in modo stabile e prolungato, data l'evidente ratio di eccezionalità della normativa, intere aree continentali o addirittura interi continenti.

Ce lo conferma lo stesso trattato: al successivo art.79, infatti, l'Unione nel configurare una "politica comune" di gestione dei flussi migratori:
a) si pone, al par.1, l'obiettivo prioritario del "contrasto rafforzato alla immigrazione illegale e alla tratta degli esseri umani". 
E dov'è tale azione comune di contrasto rafforzato, che è evidentemente diversa dal principio del "non respingimento" e della protezione sussidiaria e dei rifugiati, che riguarda situazioni eccezionali e imprevedibili?;
b) enuncia il seguente fondamentale principio (par.5): "Il presente articolo non incide sul diritto degli Stati membri di determinare il volume di ingresso nel territorio dei cittadini di paesi terzi, provenienti da paesi terzi, allo scopo di cercarvi un lavoro indipendente o autonomo";
c) infine, volendo attribuire alla normativa europea una certa previdenza sugli esiti emergenziali dei principi dell'art.78, lo stesso art.79, al par.3, mostra come la degenerazione, fuori dai suoi presupposti giustificativi nel trattato, di una fase emergenziale non si risolva con la permamente apertura delle frontiere che, anzi, fuori dalla condizione di imprevedibiltà, origine circoscritta ed eccezionalità, (caratteri che la dimensione e la durata attuale del fenomeno ormai smentiscono), deve considerarsi non consentita e da correggere. 
Ed infatti, il par.3 così prevede:
"L'Unione può concludere con i paesi terzi accordi ai fini della riammissione, nei paesi di origine o di provenienza, di cittadini di paesi terzi che non soddisfano o non soddisfano più le condizioni per l'ingresso, la presenza o il soggiorno nel territorio di uno degli Stati membri". 
E dove sono, dopo anni e anni di incremento vertiginoso del fenomeno della immigrazione illegale (ce lo dicono le statistiche) questi accordi, coi ben identificabili paesi terzi, per il rimpatrio di coloro che non soddisfano ora e poi le condizioni di ingresso in €uropa?" 

3. Ben si potevano considerare, infatti, quei dati agevolmente accessibili che, al di là della retorica del "fuggono dalla guerra, dalla fame, e dalla distruzione", ci raccontano di un travaso migratorio essenzialmente dovuto al tentativo de facto di aprire le frontiere del mondo intero, in particolare europee, per realizzare una mobilità della forza lavoro che funzioni da acceleratore della deflazione salariale e della destrutturazione del welfare dei paesi "riceventi", in modo da equalizzare la "competitività" del costo del lavoro tra ex-paesi ricchi e paesi del terzo mondo o, comunque, in via di sviluppo.

In proposito riportiamo alcuni dati salienti riguardanti la realtà italiana, riferita al 2014:
Si consideri che, quanto al 2014, ad esempio"su 36.270 stranieri richiedenti lo status di rifugiato (circa il 20% del totale degli immigrati annuali), il 10% (3.641) l'ha ottenuto, il 23% ha ricevuto protezione sussidiaria, il 28% quella umanitaria. Pari al 39% le domande respinte". 
E questa statistica, quindi, esclude dal computo quegli immigrati che non hanno inoltrato alcuna domanda di asilo o assimilabile, che sono la grande maggioranza, considerando che, nello stesso 2014, gli arrivi sono ammontati a circa 170.000 persone. Dunque, l'80% non chiede neppure di esperire una procedura che si richiami ai "motivi umanitari", già più ampi dello status di rifugiato; e, anche avendo esperito tali procedure, circa l'88% risulta essere immigrato illegale, cui attribuire una prevalente giustificazione di mera immigrazione economica.

NB: I dati della tabella sottostante riguardano, nei vari Stati interessati, l'esito delle pratiche attivate dai richiedenti uno status di profugo o similare, non il numero totale degli immigrati in arrivo, che è molto maggiore: quelli che non fanno richiesta, infatti, sono, per loro stessa ammissione, degli immigrati "illegali" ai sensi dell'art.79 TFUE, cioè espressione del fenomeno che tale norma imporrebbe all'Unione di contrastare:




4. Ma da dove nasce il sistema, o meglio la strategia, dell'immigrazione illegale di massa, cioè della tendenza al fatto compiuto nella "dimenticanza" di difendere le frontiere mediante tutti gli strumenti delle leggi già vigenti (compresa la Costituzione)? 
Da dove nasce il fenomeno dell'immigrazione mediante assalto alle frontiere (illegale per definizione) volutamente non regolato, instauratosi in base a circostanze considerate "emergenze imprevedibili" ed epocali, ma in realtà in atto da decenni? 
Da dove nasce l'assenza di qualunque tentativo di affrontare e risolvere le cause degli squilibri economici e sociali nei paesi di origine,  e la volontà di trasformare la pressione demografica dei paesi impoveriti nella imposizione della forza lavoro "importata" alle comunità sociali statali
Da dove nasce questa tecnica dell'occultamento dell'idea - autenticamente solidale sul piano della comunità internazionale- della risolvibilità delle cause della migrazione economica mediante politiche di promozione del benessere nei paesi d'origine (p.8-9)? 
Dalla ovvia considerazione che i cittadini, una volta colpevolizzati, da orchestrate campagne mediatiche, posti di fronte al manifestarsi del "fatto compiuto", costituiscono un elettorato a cui non si può dire apertamente la verità su questo punto.
Perché non gli si può dire quella verità che emergerebbe, nel pubblico dibattito e nella trasparenza, se si dovesse votare, e, forse, far effettivamente rispettare, una legge di cui fossero comprensibili gli obiettivi di mutamento demografico e dell'assetto dell'offerta del lavoro e, ancor più, i presupposti obiettivi, derivanti dalla rilevazione e dalla stima di un'effettiva esigenza di sopperire a carenze di disponibilità di determinate tipologie di lavoratori.

5. Non è difficile affermare che tale tecnica di variazione demografica e di incremento di fatto dell'offerta di lavoro (cosa che ne deprime naturalmente il prezzo-compenso retributivo, secondo una ben nota legge del mercato che i decidenti di fatto conoscono benissimo e fanno finta di ignorare appellandosi "sorpresi" al dramma umanitario, debitamente provocato), nasca negli USA.
L'ammissione di ciò l'avevamo avuta esaminando l'analisi dell'offerta politico-partitica degli stessi Stati Uniti compiuta da un autentico esperto del globalismo economico: Martin Wolf. Egli così ci descrive il mercato politico USA, senza nascondere che si tratti di un paradigma, sempre più, valido per il più ampio "mondo occidentale":

"Risulta estremamente interessante la sua definizione di ala destra e ala sinistra delle "elites": primo perché ci indica i termini sostanzialmente omogenei delle due versioni di politica economicapoi perché ribadisce ciò che al lettore non deve mai sfuggire e che abbiamo appena illustrato. Cioè che il governo della società, al di là del processo elettorale, spetta comunque alle elites.
Perché termini sostanzialmente omogenei?
Chiederselo, e capirlo, è estremamente utile, anche in termini di comprensione della situazione italiana ed €uropea.
Dunque, la destra (delle elites) perseguealiquote fiscali basse, apertura all'immigrazione, globalizzazione, limitazione dei costosi programmi di welfare, deregolamentazione del mercato del lavoro e massimizzazione del valore per l'azionista.
La sinistra (delle elites) invece:  apertura all'immigrazione (di nuovo), multiculturalismo, laicismo, diversità, libertà di scelta sull'aborto e uguaglianza di razza e di genere.
La differenza tra queste due versioni è particolarmente sfuggente in termini di interessi materiali del popolo che costituisce la maggioranza schiacciante del corpo elettorale
Wolf stesso evidenzia particolarmente che entrambe le fazioni sono sostenitrici dell'apertura alla immigrazione. Almeno, parrebbe, negli USA: questo implica necessariamente, diremmo indefettibilmente, una particolare concezione del mercato del lavoro, cioè l'instaurazione del lavoro-merce caratterizzato dalla perfetta flessibilità, che, a sua volta, ha il suo punto di appoggio necessitato, cioè creativo dello "stato di eccezione" che ne impone la necessità, nella globalizzazione finanziaria, che equivale a dire la liberalizzazione della circolazione dei capitali.

6. Questo schema, dunque, lega indissolubilmente la liberalizzazione dei capitali al mercato del lavoro e, a sua volta, alla immigrazione di fatto non regolamentata dal fisiologico sistema dei trattati internazionali bilaterali. 

Tale sistema viene abbandonato  rigorosamente "all'insaputa" dei rispettivi elettorati: e ciò considerando che, appunto, l'attuale sistema dell'assalto alle frontiere, ripetiamo, non passa per le deliberazioni dei parlamenti e della loro legislazione ma per la "registrazione" di una serie di "stati di eccezione" extraordinem. 
Questo far subire alle popolazioni di tutto il mondo gli effetti di eventi definiti inevitabili e incontrollabili, ma solo celandone le precise cause economiche e geopolitiche, è perfettamente in linea con le strategie del governo globale dei mercati e con l'abolizione della sovranità statale che esso si prefigge

Una serie di trattati conclusi da uno Stato che voglia regolare l'aspetto demografico del proprio assetto sociale e del mercato del lavoro, implica infatti il rinnovato riconoscimento della sovranità di tale Stato e, per simmetria, di quella degli Stati controparte di questi stessi trattati, individuati in modo trasparente e legalitario
Tale riaffermazione di sovranità, sempre de facto, va invece accuratamente evitata: 
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7. Il problema della destrutturazione de facto della sovranità si propone in termini relativamente semplici: si attribuisce all'Esecutivo una discrezionalità nell'applicazione della legge in materia di immigrazione, che sia tanto più ampia quanto più lo "stato di eccezione " (programmato), sia conseguente alla vastità del fenomeno di fatto
Poi, di fronte, appunto, alla vastità del fenomeno (che è il fatto compiuto extra ordinem) si pone l'attenzione non sulle sue cause generatrici - cosa che implicherebbe l'individuazione di originarie e permanenti responsabilità politiche sull'applicazione passata della legge- ma sui limiti finanziari dell'applicazione effettiva della legge stessa
Si pone cioè l'attenzione sul costo dell'enforcement: lo stato di eccezione diviene così privo di alternative, un TINA, perché applicare la legge sull'immigrazione e, in modo indiretto ma implicito, quelle sulla tutela del lavoro e sulla sostenibilità del welfare, nella loro originaria portata e finalità di tutela dell'interesse della comunità-elettorato, "non ce lo possiamo permettere"

La piena conferma di questo schema di "governo della ristrutturazione", delle sovranità e delle stesse comunità sociali che questa dovrebbe tutelare, l'abbiamo da un articolo dell'International New York Times odierno (pag.11, Immigration Law and Obama); tenendo appunto presente che la stampa anglosassone, pur svolgendo lo stesso ruolo di legittimazione del frame mondialista di quella italiana, lo fa in maniera più discreta e più fedele nella esposizione dei fatti rilevanti. 
Vale a dire, i fatti non scompaiono completamente dall'esposizione a favore di slogan che assurgono, come in Italia, al ruolo di fattoidi incontestabili e circondati da un moralismo ricattatorio che colpevolizza il cittadino di ogni pulsione di naturale autodifesa del proprio benessere e di aspettativa fondata sulla conformità alle leggi dell'azione dei pubblici poteri.

8. La questione, nell'articolo citato, viene subito affrontata nei suoi termini legali: 
"La controversia legale che investe le politiche di enforcement delle leggi sull'immigrazione dell'amministrazione Obama, sarà risolta dai giudici della Corte Suprema, nell'udienza programmata il 18 aprile, pronunciandosi sul caso Stati Uniti vs. Texas. Il Texas sostiene che le decisioni dell'esecutivo presidenziale difettino della "sanzione legale" del Congresso ed abbiano danneggiato o Stato (del Texas).Obama...ha comunque operato nell'ambito di risalenti e perduranti previsioni della legge che conferiscono all'Esecutivo una discrezionealità nell'enforcement. Una prerogativa presidenziale già riconosciuta dalla Corte Suprema. Inoltre, la natura dell'enforcement in tema di immigrazione e le risorse (o la mancanza di esse) apprestate dal Congresso esigevano esattamente le scelte che il Presidente ha compiuto.Il Congresso ha ripetutamente accordato all'Esecutivo un ampio potere nell'applicazione delle leggi sull'immigrazione. La legge del 2002, istitutiva del Dipartimento della Sicurezza Interna (Homeland Security), afferma esplicitamente che l'Esecutivo debba stabilire "le politiche e le priorità nazionali di enforcement dell'immigrazione". La Corte Suprema ha riconosciuto gli spazi che il Congresso lascia all'Esecutivo nelle "deportazioni" (ndr: ciò che in UE viene denominato "rimpatri"). La Corte Suprema...ha rilevato che "una caratteristica centrale del sistema di rimpatri (removal) è l'ampia discrezione esercitata dai funzionari dell'immigrazione" inclusa la decisione "se sia ragionevole (finanziariamente, come vedremo, ndr.) la stessa effettuazione del rimpatrio".
...La Corte Suprema riconosce da lungo tempo tale discrezionalità, non potendo il Congresso prevedere ogni tipo di situazione. Già nel 1950 ha affermato che le leggi sull'immigrazione sono un'area dove "la flessibilità e l'adattamento delle politiche del Congresso a condizioni infinitamente variabili, costituiscono l'essenza del programma".Le immense conseguenze morali e legali di una campagna di deportazioni che abbia a bersaglio gli 11 milioni di immigranti privi di documenti sono ovvie. Persino gli americani la cui frustrazione per tale stato di cose ha superato la "compassione", portandoli a sostenere le più drastiche applicazioni coattive della legge, sarebbero propensi a riconsiderarle se assistessero effettivamente al compimento delle operazioni da intraprendere.Un gigantesco rastrellamento come quello necessario richiederebbe un'eccezionale espansione delle capacità di "polizia-enforcement" e risulterebbe in una massiccia intrusione nel tessuto sociale americano.Ma (ed è questo il punto cruciale della connessione tra discrezione crescente a posteriori dallo stato di fatto compiuto, e mancato enforcement come soluzione TINA, cioè che "non ci si può più permettere", ndr.) non c'è prospettiva per una tale campagna di enforcement, perché il Congresso non ha reso disponibile che una frazione del finanziamento necessario della spesa necessaria.Questo è il perché, per sua natura, l'enforcement in materia di immigrazione, richiede la discrezionalità dell'Esecutivo".

9. E così il cerchio si chiude: gli squilibri strutturali, economici e sociali, dei paesi più poveri sono un remoto problema affidato alla logica delle "riforme" (ferocemente neo-liberiste) previamente imposte da FMI e World Bank. 
L'irrompere di fatto delle masse dei migranti sono, allo stesso modo, un acceleratore dei presupposti per poter giustificare le riforme stesse nei paesi d'arrivo.
L'emergenza occupazionale, già creata dai vincoli esterni sui paesi delle democrazie europee, si sposa con lo stato di eccezione migratorio, sfruttando la sovraofferta di lavoro a basso costo: nonostante la sua illegalità, questa situazione consente di arrivare a rendere indubitabile l'onerosità del mantenimento di qualunque forma di welfare, che "non ci possiamo più permettere" in una tale situazione di emergenza programmatica.

L'idea è più Africa per tutti (o più Messico per tutti).
Senza la sovranità, obsoleto retaggio del mondo dei cittadini per un attimo divenuti popolo sovrano di lavoratori: end of democracy.
Benvenuti nel mondo della globalizzazione denazionalizzata e anti-statuale: a vostra insaputa, ma è questo che vi potete permettere...

LA "MANO INVISIBILE" CHE AFFIDA LA SOVRANITA' AI LIBERI MERCANTI. IERI, OGGI, DOMANI

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1. Abbiamo già citato la trilogia di romanzi, sul tema della guerra dell'oppio (contro la Cina) e della colonizzazione inglese in India, scritti da un autore indiano di cultura anglosassone, Amitav Ghosh.
Dal romanzo centrale della trilogia, traiamo alcune interessanti "conversazioni" che illustrano perfettamente la cultura dei tai-pan, cioè dei mercanti imbevuti della neo-religione del libero mercato seguita alla "rivelazione" di Adam Smith. Per lo meno nel modo in cui fu intesa nei decenni successivi alla sua opera maggiore, "La ricchezza delle nazioni": un modo, a rigore filologico e "scientifico", discutibile e controverso, ma che, non di meno, è divenuto poi una vulgata ampiamente diffusa e appunto circondata da un'adesione acritica e fideistica di tipo essenzialmente religioso (una religione, come evidenzia Galbraith, che si fonda sul supremo "piacere di vincere in un gioco in cui molti perdono").

2. Sull'attendibilità delle conversazioni che vi riporterò, sotto il profilo della loro capacità di riflettere fedelmente questo "credo", aderendo in modo diretto al pensiero ed alle parole dei protagonisti del tempo, Ghosh ci rassicura, fornendo un'appendice poderosa sulle fonti utilizzate (pagg.383-386 de "Il fiume dell'oppio"): le conversazioni, infatti, sono riprese da dichiarazioni e "editoriali", a commento dei fatti storici narrati, pubblicati sui giornali inglesi editi a Canton in quegli stessi anni (nel 1838-39, alla vigilia e durante lo svolgimento stesso del conflitto, cioè la prima guerra dell'oppio, che vide l'Inghilterra attaccare con la sua flotta Canton). 

3. I brani che riporterò richiedono una certa premessa sul contesto in cui si collocano. 
La Compagnia (britannica) delle Indie Orientali (ne esistettero anche una francese e una olandese, che ebbero la peggio nello scontro, per il dominio colonial-mercantilista, con la prima),  aveva stabilito che la coltivazione dell'oppio in India, e in particolare nel Bengala (ma non solo), dovesse divenire il suo "core business". 
L'Inghilterra, infatti, si trovava nella scomoda posizione di essere in costante deficit degli scambi con la Cina, che produceva merci pregiate che erano effettivamente molto, troppo, richieste nel resto dei territori dell'Impero britannico.
Per non depauperare le proprie risorse finanziarie, dato che, adottando il gold standard, non poteva permettersi un costante saldo negativo (equivalente a un'emorragia di oro verso il paese creditore commerciale) con la più importante economia mondiale del tempo (appunto la Cina), stabilì di incrementare al massimo possibile la coltivazione e la lavorazione dell'oppio. Con conseguenze socio-economiche distruttive per i territori indiani sotto il loro dominio.
Tra queste conseguenze, la sistematica deportazione (oggi diremmo "arrivo di migranti"), a Sri-Lanka e nelle Mauritius - e servendosi delle navi già utilizzate per il traffico degli schiavi-, della manodopera agricola divenuta eccedente, una volta instaurata una monocultura con obbligo di una produttività "minima". Infatti,  accadeva che, ove non fosse raggiunta la quantità di prodotto prestabilita, e pagata a prezzi irrisori, all'agricoltore indiano venisse sottratta la proprietà del terreno, mediante una rapida escussione della garanzia del debito contratto forzatamente con la Compagnia. 
L'esecuzione forzata era assicurata sotto il controllo di giudici inglesi, che erano sostanzialmente dei dipendenti della Compagnia delle Indie, (dato che esercitava anche le funzioni sovrane di amministrazione di giustizia e ordine pubblico sui territori indiani). 
La Compagnia in tal modo estendeva notevolmente la diretta proprietà dei terreni utili e dediti alla coltivazione e, agendo da monopolista, tendeva a ridurre i salari e la stessa capacità di sopravvivenza dei contadini bengalesi (già resa critica dall'esistenza di una monocultura forzata). Da cui l'ulteriore ampliamento dell'ondata di deportazioni, ben controllata dal funzionamento strutturale dell'economia nel paese di partenza, e che doveva apparire come un evento quasi meteorologico nelle terre di arrivo...

3.1. L'oppio raccolto dai produttori veniva quindi raffinato nei giganteschi stabilimenti di proprietà della Compagnia e poi venduto in apposite aste a "liberi mercanti" inglesi, americani, olandesi e anche indiani; in particolare appartenenti all'etnia "parsi" (antichi mercanti persiani, ancora seguaci del culto di Zoroastro, trasferitisi, tra l'altro, nei territori indiani, in particolare nella zona di Calcutta).
I liberi mercanti erano anche armatori di navi che arrivavano principalmente a Canton (unico approdo ove era consentito il commercio in entrata dalle autorità imperiali cinesi e, tradizionalmente, un polo commerciale con "l'occidente" sviluppatosi per millenni).

4. Lo scrittore ci riporta (pagg. 191-192 di "Il fiume dell'oppio") questa sorta di resoconto fatto allo stesso Napoleone (in esilio a S.Elena), da uno dei mercanti di oppio parsi:
"Dalla metà del secolo scorso, in Gran Bretagna e in America, la domanda di tè cineseè cresciuta a tal punto che attualmente si tratta della principale fonte di profitto per la Compagnia delle Indie orientali. Le tasse sul tè sono pari a un decimo delle entrate complessive della Gran Bretagna. Se a ciò si aggiungono beni come la seta, le porcellane e gli oggetti in legno laccato,è chiaro che la domanda europea di prodotti cinesi è insaziabileIn Cina invece c'è scarso interesse per le esportazioni europee: i cinesi sono convinti che i loro prodotti, al pari del loro cibo e dei loro costumi, siano superiori a tutti gli altri. Negli anni passati ciò costituiva un grave problema per i britannici, perché una bilancia commerciale così squilibrata comportava per la Gran Bretagna un enorme salasso finanziario. Ecco perché hanno iniziato a esportare l'oppio in Cina....Il commercio dell'oppio era appena un rivolo fino a una sessantina di anni fa (siamo nel 1818, ndr.), quando la Compagnia delle Indie vi ricorse come mezzo per porre rimedio al deflusso di capitali...Il flusso monetario si è invertito e scorre ora dalla Cina verso la Gran Bretagna, l'America e l'Europa."


Prima guerra dell'oppio in Cina. Apertura di nuovi porti per il commercio con l'Europa e cessione di Hong Kong all'Inghilterra- 1839
4.1. Il libro (pag.246), riporta pure una relazione all'Imperatore cinese, pubblicata sui giornali in lingua inglese, fatta dai mandarini che si occupavano della gestione dell'economia. Ne estraggo i passi salienti:
"...il paese subisce ogni anno un salasso (ndr; in importazione di oppio, pagata attraverso valuta principalmente in argento: all'epoca la più pregiata ed accettata era il dollaro d'argento spagnolo, il famoso "pezzo da otto" dei romanzi dei pirati) di trenta milioni di tael d'argento (valuta cinese del valore grosso modo corrispondente al dollaro spagnolo, ndr.), se non di più. Il valore del commercio legale, sotto forma di importazione di lane e orologi e di esportazione di tè, rabarbaro e seta, ammonta a meno di dieci milioni all'anno e il profitto che se ne ricava (saldo positivo di tale partita di scambio con l'estero) non supera i pochi milioni all'anno. Il valore complessivo del commercio legale (in termini di attivo delle partite correnti con l'estero) equivale dunque a un decimo o a un dodicesimo degli introiti del traffico di oppio. Questo fiume di ricchezze si riversa fuori dalla Cina...".

fumatori d'oppio cinesi

5. I mercanti "occidentali" (prevalentemente inglesi e americani) trasportavano l'oppio sulle navi di cui erano armatori: questo poi veniva "ceduto" a intermediari cinesi, organizzati in corporazioni di grandi mercanti (Co-hong), che provvedevano a prelevarlo dalle stesse navi ancorate al largo di Canton, mediante una rete di veloci barche a remi (chiamate granchi); formalmente, dunque, i liberi mercanti occidentali non erano gli effettivi importatori illegali della droga proibita.
Ma tali mercanti sorvegliavano le operazioni e concludevano i necessari accordi con la Co-hong, stando a Canton, in particolare in un "enclave", detta Fanqui Town (città degli stranieri, in senso spregiativo), dove erano state edificate delle "factories", dei magazzini che funzionavano anche da "Camere di commercio" e residenze degli occidentali: queste camere di commercio governavano, di fatto, medianti comitati auto-eletti, le rispettive comunità straniere, stabilitesi per ogni principale nazione mercantile (Olanda, Gran Bretagna, naturalmente, Olanda, Francia, Belgio, Stati Uniti ecc.): i tai-pan (mercanti nel gergo franco di Canton) non potevano però oltrepassare i confini dell'enclave ed entrare nelle mura di Canton, e nel territorio cinese in generale (come e perché si giunse a tale drastica soluzione, alla fine del '600, è oggetto di un'altra interessante storia narrata nel libro).

6. In questo contesto, l'imperatore Manchù (e già questo era, in quell'epoca, un problema che si rivelò fatale nella seconda guerra dell'oppio), non aveva dunque molta scelta nel tentare di fermare il traffico illegale di oppio, distruttivo dell'altrimenti florida economia cinese (per via di "vincolo esterno" della bilancia dei pagamenti in situazione di moneta-merce pregiata, allora prevalente).
A tal fine, nominò un nuovo governatore con poteri straordinari per la città di Canton e iniziò a far effettivamente applicare le leggi proibizioniste, inizialmente arrestando gli intermediari e i trafficanti cinesi, ma agendo con perquisizioni e irruzioni anche all'interno dell'enclave.


7. L'allarme che ciò portò nell'ambiente dei liberi mercanti divenne ben presto una sdegnata rivendicazione delle leggi del libero mercato, accusando di ipocrisia e, naturalmente, corruzione e tirannia, il governo cinese.
Alla vigilia dello scoppio delle ostilità, i mercanti, impegnati a reclamare l'intervento militare della Corona inglese a tutela del "libero mercato", si esprimono in termini che appaiono assolutamente coincidenti con le argomentazioni odierne pro-mercato degli espertologi filo-europeisti e delle stesse istituzioni europee
Sempre rammentando che, in base alle fonti accuratamente indicate, l'autore assume di aver trasposto in dialoghi dei personaggi (storicamente esistiti), quanto dagli stessi dichiarato o scritto sui giornali in lingua inglese di Canton.

9. Un convinto seguace di Smith, ad esempio (pag.260), si mostra perplesso circa la soluzione militare:
"...parlano di libero mercato ma hanno intenzione di chiedere l'intervento armato di Sua Maestà. A me non sembra solo una contraddizione, ma un farsi beffe dei principi del libero mercato...ogniqualvolta i governi cercano di imbrigliare la Mano Invisibile, ogniqualvolta cercano di piegare al proprio volere l'andamento del mercato, è allora che gli uomini liberi devono temere per le proprie libertàIn simili circostanze, sappiamo infatti di trovarci in presenza di un potere che pretende di trattarci come dei bambini, di una forza che pretende di usurpare la sovranità che Dio ha conferito in ugual misura a tutti noi". 
Notare: questa è la premessa da cui esplicitamente muove la mission che si è prefissa la Trilateral nel diffondere il mondialismo free-trade...
Prosegue il libero mercante (mr Dent), inizialmente diffidente verso la necessità dell'intervento militare del governo britannico (come vedremo, poi cambierà idea):
"Il mio piano è confidare nell'Onnipotente e lasciare il resto alle leggi di natura. Non ci vorrà molto perché la naturale cupidigia del genere umano riprenda il sopravvento. A mio avviso si tratta del più potente e nobile fra gli istinti dell'uomo, nulla può contrastarlo. E' solo questione di tempo, ma farà piazza pulita di chi cerca di governarlo dall'alto" (ndr: sia questi l'imperatore cinese o la stessa Regina d'Inghilterra...).

8. Ma, come rivelano i successivi svolgimenti, questa sovranità ("conferita da Dio", attraverso l'azione naturale della Mano Invisibile) aveva comunque bisogno di un decisivo "aiutino" militare-navale del deprecato "governo". 
Per potere conciliare ciò con la divina e superiore "sovranità" attribuita ai "liberi mercanti", occorre uno strumento, naturalmente conforme alla "volontà di Dio" che la innesti nel regime parlamentare britannico del tempo.
Ecco che l'occasione è fornita dal ritorno in Gran Bretagna del presidente della Camera di commercio-factory inglese a Canton, Mr Jardine: 
"..la presenza di Mr Jardine a Londra sarà per noi un grosso punto di forza. E' dotato di un tatto straordinario, saprà senz'altro farsi ascoltare da Lord Palmerston (ministro degli esteri britannico dell'epoca, ndr.). E saprà esercitare la sua influenza sul governo anche in altri modi: Jardine sa come spendere i suoi soldi e ha molti amici in Parlamento"
E con queste pragmatiche osservazioni, sono ben indicati il ruolo di governo e parlamento secondo i "sovrani" del free-trade internazionale (anglosassone). 
La risposta a tale auspicio di intervento presso governo e parlamento è una delle più folgoranti ed eloquenti descrizioni della democrazia idraulica:
"La democrazia è una cosa magnifica...E' un magnifico "tamasha" (show, spettacolo) che tiene occupata la gente comune in modo che le persone come noi possano occuparci di tutte le questioni importanti...".

10. Prevalsa l'ipotesi di invocare e mobilitare la forza militare imperiale, seguono trionfali enunciazioni di augurio e di auto-legittimazione in base alle leggi naturali, stabilite dalla Divina Ragione, nei termini più espliciti:
"Molto si è detto sul fatto che la Compagnia delle Indie orientali ci abbia indicato la via della Cina; ciò è senz'altro vero, ma è stata una mera questione di tempo, di epoca; qualcuno vuol forse affermare che se la Compagnia non fosse mai esistita lo spirito del libero mercato non avrebbe trovato la sua strada fin qui? No!...Perché lo spirito del libero mercato si espande, cresce e fiorisce in modo autonomo e autosufficiente!"
Segue il brindisi (è lo stesso che libero mercante che in precedenza confidava nella Mano Invisibile, id est. nell'Onnipotente, ma poi cambia evidentemente idea): 
"Al libero mercato, signori! E' la corrente purificatrice che spazzerà via tutti i tiranni, grandi e piccoli!"

11. Ed ecco gli effetti della "corrente purificatrice" dello "spirito" del libero mercato affidato alla volontà superiore dell'Onnipotente, che poi trova il suo concreto agire nella Mano Invisibile, sospinta dal "più nobile degli istinti umani" (la cupidigia). 
La "Mano", come lo Spirito Santo, riafferma l'ordine e la volontà divina che legittima la vera "sovranità dei mercati". Come testimoniano queste, tra le prime foto di guerra (in occasione della seconda guerra dell'Oppio: ma gli effetti della prima, data la superiorità tecnologica delle artiglierie e delle navi occidentali non era stata da meno...):

Soldati cinesi uccisi nella presa del forte Taku

EUROPEAN FISCAL BOARD: L'INDIPENDENZA AL CONTRARIO NELLO "STATO DI DIRITTO"€UROPEO

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"La Commissione europea ha aperto la procedura per le manifestazioni di interesse per la selezione dei membri dell'European Fiscal Board, l'organismo di supporto alla governance economica per la zona euro per la valutazione delle politiche di bilancio, la cooperazione con gli organismi indipendenti nazionali che vagliano le scelte di bilancio degli stati e di fornire consigli e orientamenti su richiesta del presidente dell'esecutivo europeo".

Detto in soldoni, si tratta di un organismo che raffozerà e inasprirà l'applicazione del fiscal compact, sotto lo scudo cosmetico dell'apparente "buona intenzione" di"fornire alla Commissione una valutazione dell'attuazione del quadro di bilancio Ue, in particolare per quanto riguarda la coerenza delle decisioni e l'attuazione della sorveglianza di bilancio, i casi particolarmente gravi di inosservanza delle norme e l'adeguatezza dell'effettivo orientamento di bilancio a livello nazionale e della zona euro. Nell'ambito di tale valutazione il Comitato puo' anche formulare proposte per la futura evoluzione del quadro di bilancio dell'Unione, fornire pareri alla Commissione circa un adeguato orientamento di bilancio per il futuro per l'intera zona euro, sulla base di un'analisi economica".

2. Il core businessè dunque quello della "rigorosa" coerenza delle decisioni nell'attuazione della sorveglianza di bilancio dei singoli Stati, in particolari quelli sottoposti al fiscal compact
Dunque, una sorveglianza più tecnica ed efficace, cioè inevitabilmente più "austera", nel modulare la sorveglianza di bilancio attuativa del fiscal compact: ciò in quanto, tutt'oggi, si accusa la Commissione di attuare tale sorveglianza, - nell'ambito del c.d. twopacks, cioè in sede di approvazione dei bilanci e delle manovre finanziarie annuali, nonché in sede dei vari monitoraggi trimestrali (o aggiustati tatticamente in un accorta serie di rinvii, negoziati sottobanco coi vari Stati PIGS)-, in modo troppo accomodante; cioè, facendosi influenzare da un'eccessiva cautela nel non forzare gli equilibri politici interni dei paesi a cui imporre l'inasprimento delle manovre di (sempre) drastico consolidamento fiscale in vista del raggiungimento del pareggio di bilancio strutturale.

Considerata la natura misteriosa delle differenze di trattamento imposte ai vari €uro-membri, che viene giustificata col criterio (in astratto dettato da una complessa formula matematica, mai verificata nella sua attendibilità nel promuovere la "crescita" e mai pienamente connotata dall'ostensione di trasparenti dati statistici ed attuali, delle varie realtà economiche), dell'out-put gap derivante dal livello di rispettiva disoccupazione: quest'ultima, a sua volta, ci si dimentica costantemente di collegarla all'adozione delle precedenti misure di "riforma", cioè prioritariamente di flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, funzionale alla deflazione salariale che ogni paese dell'eurozona dovrebbe, più o meno rapidamente, raggiungere per allinearsi alla competitività (Costo del lavoro per unità produttiva-CLUP, come ribadisce Flassbeck)) del bench-mark tedesco

Il bench-mark tedesco, è infatti divenuto, per fatto compiuto, estremo di eccellenza della corsa alla competitività in danno degli altri euro-Stati, grazie alle riforme Hartz: a loro tempo, adottate non solo in violazione degli obblighi, gravanti sulla stessa Commissione, come sui singoli Stati, di coordinamento delle politiche economiche e del lavoro, ma anche dei limiti di bilancio al tempo vigenti; che furono allegramente sforati dai tedeschi, per finanziare il neo-welfare (hayekiano o ordoliberista, a scelta) legato ai circa 10 milioni di lavoratori super-precari (mini e midi-jobs), sotto-pagati e privati di future coperture previdenziali di minima dignità. Almeno rispetto agli standard del precedente ordinamento socio-economico comune ai paesi della Comunità europea, e, all'interno della stessa Germania, rispetto ai livelli, divenuti fortemente dualistici, degli addetti alla grande industria esportatrice, e tutt'ora tutelati dalla contrattazione collettiva sindacale tedesca.

3. Tale azione sindacale, a costo di instaurare un drammatico e irreversibile dualismo del mercato del lavoro tedesco, risultava già di per sé fortemente collaborativa col grande disegno mercantilista teutonico, per definizione anticooperativo nell'ambito di un trattato multilaterale di liberoscambio, che, invece, avrebbe dovuto giustificarsi ai sensi dell'art.11 Cost, cioè come volto alla pace e alla giustizia tra le Nazioni, in condizioni di parità. 
Tali condizioni, presupposto legale-costituzionale inaggirabile, per i nostri principi inderogabili della Carta (ma anche presupposto implicito di un "giusto" diritto diritto dei trattati secondo il diritto internazionale "generale" quale codificato dalla Convenzione di Vienna e conforme all'art.55 della Carta ONU),  sono alterate per definizione:
a) sia dai differenti oneri del debito pubblico tra i vari Stati, all'entrata e durante la vita della moneta unica, in relazione agli effetti macroeconomici della manovre fiscali rispettivamente rese necessarie dal criterio limitativo del deficit (fino all'estremo del pareggio di bilancio), - e quindi dall'iniziale verificarsi di gravi divergenze di out-put gap determinate, inevitabilmente, dal raggiungimento di diversi, e spesso distruttivi, livelli di saldo primario di bilancio pubblico;
b) sia dai differenziali di inflazione, originari e poi generatisi in conseguenza dell'unilaterale - e mai sanzionata- violazione tedesca delle norme teoricamente cooperative del trattato: i livelli di inflazione, per rendere minimamente funzionale (almeno inizialmente) e non portatrice di squilibri commerciali e finanziari privati, l'eurozona, avrebbero dovuto, PRIMA DELL'INTRODUZIONE DELLA MONETA UNICA, essere stabilmente collimanti, e non semplicemente divergenti entro un'amplissima forchetta del + o - 1,5%, quale prevista dai frettolosi e approssimativi criteri di convergenza verso la creazione dell'eurozona.

4. Senza dilungarsi su questi presupposti, che appaiono del tutto dimenticati dalle autorità comunitarie - come la stessa questione degli "aiuti di Stato" ai rispettivi sistemi bancari dopo la crisi del 2008, giunti a un sudden stop, come al solito, "su misura" per l'Italia-, dovrebbe essere chiaro che il nuovo organismo di tecnicizzazione della sorveglianza delle politiche di bilancio degli Stati, appare riguardare soprattutto l'Italia, il bersaglio grosso delle politiche "tecniche" di pareggio strutturale di bilancio, finalizzate dai controllori di fatto, cioè in base ai meri rapporti di forza commerciali e finanziari inevitabilmente creatisi (grazie anche alle segnalate gravi violazioni dei trattati sopra riassunte), alla eliminazione del principale concorrente, manifatturiero ed esportatore, della stessa Germania sul mercato interno dell'eurozona.

I rapporti di forza, così determinatisi a favore della Germania, fanno "andare in prescrizione" ogni violazione precedente dei trattati posta in essere dalla stessa Germania, e rendono, sempre di fatto, lecita la costante perpetuazione del mega-surplus della partite correnti tedesche.
Questi squilibri risultano esiziali per la sostenibilità della moneta unica,  ma nessuna istituzione UEM si azzarderebbe mai a sanzionarli come dovrebbe in base alle (molto blande e del tutto inadeguate, e non a caso) disposizioni vigenti e, infine, in base alle sempre più evidenti dinamiche proprie dei trattati liberoscambisti multilaterali, fanno risaltare come il Fiscal Board null'altro sarà che un organismo di (più) intransigente applicazione del "rigore dei conti" nei confronti essenzialmente dell'Italia. Dunque, servente l'obiettivo finale tedesco di destrutturazione industriale (e bancaria) italiana, fino all'esito della sostanziale colonizzazione, col passaggio in mani estere del controllo del sistema sia bancario che industriale nazionale.

5. Per concludere l'analisi di questo fosco scenario, che sempre più incombe sull'Italia, sottolineiamo la "curiosa" concezione dell'indipendenza e dello "Stato di diritto" che contraddistingue l'UEM in genere e, in particolare, il sistema di istituzione e reclutamento dei componenti del Board

Questo dovrebbe essere "indipendente", ma l'indipendenza in senso organizzativo e istituzionale, è neutralità rispetto all'indirizzo politico della parte più forte delle istituzioni di governo della realtà sociale considerata (nel caso l'intera popolazione dell'eurozona). 
Dunque, l'indipendenza è indipendenza dai rapporti di forza che privilegiano la visione dell'Esecutivo: questo, nel caso dell'UEM, è ora inevitabilmente sotto il controllo della Germania, e per di più, completamente privo persino della legittimazione elettorale, (di tale "esecutivo") di cui, a maggior ragione, si dovrebbe evitare la visione necessariamente di parte. 
Evitando, quindi, di ampliare la logica dei bruti rapporti di forza che, come abbiamo tante volte evidenziato, governano la vita dei trattati economici (inevitabilmente neo-liberisti, cioè tesi a destrutturare ogni azione solidaristica degli Stati).
L'indipendenza, per essere quindi tale, implica una necessaria "insulation" dalla linea dell'Esecutivo, che, in UEM, per quanto riguarda le competenze attribuite dai trattati in materia di sorveglianza di bilancio, spettano alla Commissione.
Dunque, il Board dovrebbe essere garantito nella sua indipendenza mediante insulation dalla stessa Commissione, in modo da rendere (tecnicamente) neutrali, rispetto agli interessi incumbent che essa si trova di fatto e inevitabilmente a perseguire (quelli tedeschi, detto in soldoni), i pareri che dovrebbe rendere alla Commissione e la guida che dovrebbe esercitare rispetto agli indirizzi fiscali dei singoli Stati.

5.1. Invece: 
- la procedura è unilateralmente indetta proprio dalla Commissione europea, alla stregua di un qualsiasi reclutamento di propri funzionari;
- l'indipendenza è dichiaratamente connotata in partenza come "controbilanciamento" della eccessiva flessibilità della Commissione stessa, predeterminandosi non una neutralità, neppure tecnica, dell'organismo, sebbene una sua forte discrezionalità fortemente preorientata ad un più intenso rigore fiscale;
- la nomina che segue alla procedura indetta dalla Commissione (cioè il potere in senso lato politico da cui il Board dovrebbe essere "insulated")è effettuata dalla stessa Commissione;
- la procedura selettiva si limita alla fissazione di genericissimi e quasi del tutto arbitrari requisiti di nominabilità, apprezzati in totale discrezionalità dallo stesso esecutivo-Commissione. Infatti: per farne parte occorre avere almeno 15 anni di esperienza post-laurea, ci cui almeno 10 in ambiti pertinenti alla politica macroeconomica;
- lungi dal tentare, anche solo formalmente, di compiere la verifica, in senso meritocratico, imparziale ed oggettivato, di tali vaghi requisiti, - come ad esempio attraverso la valutazione di eventuali prove scritte e dell'attività scientifica e professionale dei candidati, in base a criteri e oggetti dettagliati e rigorosamente predeterminati già al momento dell'invito a proporre le varie "manifestazioni" di interesse-, ci si limiterà a un semplice colloquio da parte dei responsaibili della stessa Commissione: quanto di più corrispondente ad una sostanziale fiduciarietà con l'indirizzo discrezionale apertamente predeterminato (più austerità) della Commissione, e dunque, quanto di più contrario alla insulation e alla indipendenza correttamente intese.

Risultato pratico: il Board sarà un braccio armato della Commissione, e delle forze di fatto tedesche che ne dominano ogni policy.
In tal modo, risulterà inevitabilmente servente della cosmesi di far apparire "tecnico e neutrale" ciò che è invece un inasprimento dell'enforcement del fiscal compact che la Commissione stessa non riesce a svolgere in prima persona: per non far saltare l'eurozona sul piano politico, deresponsabilizzandosi in nome del tecnicismo di una discrezionalità...molto politica, e molto poco cooperativa, che inasprirà i caratteri asimmetrici dell'eurozona e la totale assenza di democraticità della sua folle gestione ordoliberista.



COSTITUZIONE, GIUSTIZIA E LIBERTA': LETTERA DI UN LIBERISTA DAL FUTURO

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa "lettera di un liberista dal futuro". 
Sia che si parli di euro, cioè di pace senza confini, che di immigrazione, cioè di benessere senza confini, che di corruzione, cioè di onestà senza confini, non bisogna mai dimenticare la "doppia verità". 
Ogni credo religioso che assuma di fondare un assetto sociale e ogni paradigma di scientificità (pop) dell'equilibrio economico, si fonda opportunamente sull'affermazione, paludata di ragionevolezza, di proposizioni complementari a realizzazione congiunta impossibile
Poiché questa programmata e dissimulata contraddittorietà conduce a uno stato di altrettanto programmata "crisi" (e di stato di eccezione conseguente), ciò implica che le proposizioni-guida della società così formulate abbiano una e una sola soluzione: quella tecnicae corrispondente a "leggi naturali", già voluta, fin dall'inizio, da chi formula le proposizioni a realizzazione congiunta impossibile.
L'utile e la giustizia, sono dunque solo apparentemente in conflitto: la nostra pecca imperdonabile è credere che la giustizia sia un'azione praticabile dai "giusti", mentre, nel mondo delle "leggi naturali", la conciliazione degli opposti si ha nel fatto che la giustizia è una prerogativa del "più forte". Se si accetta la naturale prevalenza di questi (ESSI), l'ingiusto diviene il più utile e degno degli uomini. 
Col solo piccolo inconveniente, che passa costantemente inosservato, che gli (altri) uomini, nel loro complesso, debbano, in tale processo, divenire schiavi: inevitabilmente e razionalmente, in omaggio a una "legge naturale" (la volontà dell'Onnipotente o dei mercati, trascendente e imperscrutabile, coi limitati mezzi della ragione di chi non essendo forte è tanto temerario e blasfemo da invocare la giustizia). 



Costituzione, Giustizia e Libertà: lettera di un liberista dal futuro.

« tutte le cose religiose sono false e sono finte dai principi per istruire l'ingenua plebe affinché, dove non può giungere la ragione, almeno conduca la religione», Giulio Cesare Vanini sul pensiero di Machiavelli


Li: quarto secolo dopo Sun Myung Moon, Atene

Oggetto:Il “nuovo” ordine mondiale (alias, “oggi c'è la Cina”)


Sapiente Quarantotto,

« sei tanto fuori strada da ignorare che la giustizia e il giusto sono in realtà un bene di altri, un utile di chi è più forte e governa, ma un danno proprio di chi obbedisce e serve;  che l'ingiustizia è l'opposto e comanda a quegli autentici ingenui che sono i giusti; e che i sudditi fanno l'utile di chi è più forte e lo rendono felice servendolo, mentre non riescono assolutamente a rendere felici se stessi. E devi poi tenere presente questo, semplicione di un Quarantotto, che in qualunque modo un uomo giusto ci perde rispetto ad un ingiusto.

Ciò vale anzitutto nei contratti d'affari: ogni volta che  si associano un giusto ed un ingiusto, non troverai mai che allo sciogliersi della società il giusto ci guadagna sull'ingiusto, bensì che ci perde. Poi, nei rapporti con lo Stato: quando ci siano dei tributi da pagare, il giusto a parità di condizioni paga di più, l'altro di meno; e quando c'è da ricevere, l'uno non guadagna nulla e l'altro molto.

Quando l'uno e l'altro ricoprono una carica pubblica, al giusto succede, anche se non gli capitano altri guai, di veder andare sempre peggio i propri affari, non potendosene occupare, e di non ricavare dalla cosa pubblica profitto alcuno, a causa della sua giustizia; e di venire poi in odio ai familiari e ai conoscenti se non vuole favorirli per rispettare la giustizia. All'ingiusto accade tutto l'opposto. Mi riferisco a chi dicevo poco fa, a chi è assai abile a soverchiare.

Ed è a questi che devi guardare, se è vero che vuoi giudicare quanto maggior utile egli ritragga dalla ingiustizia che dalla giustizia. Lo comprenderai senza fatica se ti spingerai fino a realizzare l'ingiustizia assoluta, che rende sommamente felice chi la commette e sommamente infelice chi la subisce e rifugge dal commeterla.

Parlo della tirannide, che con inganno e violenza porta via i beni altrui, sacri e profani, privati e pubblici, non un po' alla volta, ma tutti in un colpo: e quando in ciascuno di questi àmbiti uno viene sorpreso a commettere un atto contro giustizia, non solo viene punito, ma riceve anche i titoli più disonorevoli. A coloro che, ciascuno nel proprio àmbito, si rendono colpevoli di simili misfatti contro giustizia si dà il nome di sacrileghi, di schiavisti, di sfondamuri, di rapinatori, di ladri.

Ma quando uno, oltre che delle sostanze dei cittadini, s'impadronisce delle loro persone e se ne serve come di schiavi, anziché ricevere questi turpi titoli, ecco che è chiamato felice e beato non soltanto dai concittadini, ma anche quanti vengono a sapere che ha realizzato l'ingiustizia assoluta.

Chi biasima l'ingiustizia lo fa non perché tema di commettere le azioni ingiuste, ma perché teme di patirle. E così, Quarantotto, sempre che sia realizzata in misura adeguata, l'ingiustizia è più forte e più degna di un uomo libero e di un signore di quanto lo sia la giustizia; e, come dicevo fin da principio, la giustizia consiste nell'utile del più forte, e l'ingiustizia in ciò che comporta vantaggio e utile personale. »[1]

Cordiali saluti,

Trasimaco





[1]      Platone, La Repubblica, I, 343c - 344c – [Dopo aver ovviamente sostituito  “Quarantotto” con “Socrate”...] 

L'ULTIMO 25 APRILE? A CHI NON PIACE IL VERO SENSO DELLA "LIBERAZIONE"?

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1. Costituisce ormai una sorta di tradizione di questo blog dedicare un post alla ricorrenza del 25 aprile.
Quale sia il valore da attribuire a questa occasione di celebrazione della Repubblica democratica italiana, fondata sul lavoro fin dal suo art.1, lo abbiamo precisato in passato.
Abbiamo cioè cercato di focalizzare la unicità della conquista generata dalla Liberazione.
Questa, infatti, si è rivelata come presupposto indispensabile, cioè necessario e sufficiente - fortunatamente per noi, e a differenza delle altre potenze "sconfitte" nella seconda guerra mondiale-, per innescare il processo Costituente sfociato nella Carta del 1948: una  conquista che si è concretizzata e che, sia pure forse ancora per poco, vive nel nostro patrimonio di cittadini italiani, al di là di qualsiasi "ombra" che possa essere proiettata alla luce sia della successiva conduzione della politica economica del paese, sia del sopravvenire, per certi versi inevitabile, del quadro di vincoli di politica estera nello specifico settore strategico della difesa. 

E' ovvio che facciamo riferimento al trattato NATO che tanta parte gioca come presupposto geopolitico nella stessa costruzione europea (p.5), al di là degli slogan di circostanza (sulla mitologia propagandistica relativa all'improbabile finalità della costruzione €uropea di affrancarci dall'influenza politico-economica degli Stati Uniti), se solo si abbia riguardo al testo del trattato europeo (p.6)

2. Sta di fatto, che l'ordinamento costituzionale, è valso e vale tutt'ora, cioè fino a che la sua identità sistematica rimanga intatta - e come ciò sia ancora sostenibile a pieno titolo, lo abbiamo visto ne "La Costituzione nella palude"- a stabilire un obbligo di perseguimento della democrazia sostanziale (e non di quella filosofica-formale, scissa dal dato delle fonti di diritto immodificabili), a carico delle istituzioni di governo e di tutti i "pubblici poteri"
Questo obbligo, a Costituzione (ancora) vigente, trova il suo valore pregnante, nel fatto che la democrazia sostanziale, quella che afferma l'intangibilità del modello socio-economico fondato sul lavoro (abbiamo visto nel senso specifico di pieno impiego keynesiano) non potesse, e non possa, essere più soggetta ai capricci di qualsiasi esito elettorale e, a maggior ragione, delle contingenti scelte di politica estera perseguita mediante la conclusione di trattati internazionali di qualunque natura

3. Questo chiaro, almeno un tempo, modello di giustizia sociale che la nostra democrazia è riuscita a conquistarsi, - nonostante la sostanziale sconfitta nel secondo conflitto mondiale, e nonostante le conseguenze in termini di piena sovranità che ciò ha indubbiamente determinato, e le scorie polemiche (mai sopite) della guerra civile che si intrecciò con la guerra di Liberazione dall'occupante tedesco-, è dunque il valore inscindibile insito nel 25 aprile, che priva di senso qualsiasi altra ragione di protratta polemica o dissidio politico.
Anzitutto perché questo tipo di dissidi rimane, a rigore di legalità, subordinato alla priorità unificante della Costituzione stessa; detto in altri termini, chi dimentica di difendere la conquista della Costituzione, (purché l'abbia voluta comprendere), per abbandonarsi alle polemiche politiche contingenti derivate dalla guerra civile, lo fa in modo miope, culturalmente deficitario e autolesionista.
Infatti, sul piano dell'intelligenza delle cose, un valore comune a tutti e, indubbiamente superiore ad ogni altro, come la democrazia e il benessere dell'intero popolo sovrano, va difeso e perseguito al di là di ogni appartenenza politica
Sarebbe ottuso pensarla diversamente e perdere di vista qualcosa che appartiene a tutti e di cui tutti possono, o avrebbero potuto, avvantaggiarsi, per lo meno disponendo di una cultura storica, economica e giuridica sufficiente a resistere agli spettacolini annualmente inscenati per distrarci, insensatamente (e probabilmente in modo orchestrato), da questo esito positivo e condiviso della Liberazione.

4. Una precisazione storica: se il partito comunista si fosse realmente appropriato a titolo esclusivo della lotta per la Liberazione, strumentalizzandola al punto da aver pretesamente condizionato il processo costituente, - conclusione che la lettura dei lavori della stessa Costituente smentisce in modo clamoroso- come si spiega che questi (che vedete sotto riportati) fossero gli equilibri politici, non certo favorevoli al partito comunista, all'interno della stessa Assemblea? 
E come si spiega che questa - secondo la sopra riportata valutazione di Caffè, che prese parte alla stessa redazione della fondamentale Costituzione economica e dunque sapeva quel che diceva- abbia adottato quel modello keynesiano che è, in sé, il principale strumento politico di ostacolo (lo ammette lo stesso Popper), all'affermazione e alla progressione verso la rivoluzione propugnata dai marxisti?
Per smentire questa estenuante, tristemente strumentale, e incolta ri-qualificazione ex post della Costituzione come prodotto dei "nipotini di Stalin", basta verificare alcuni semplici dati storici (e magari cercarsene altri, a conferma, sempre che si abbia la voglia di leggersi la Costituzione nella palude, inter alia...):


Assemblea costituente 02/06/1946 - Italia[1]
Elettori: 28 005 449 - Votanti: 24 947 187 (89,08%)
Liste/GruppiVoti %Seggi
Democrazia Cristiana (DC)8 101 00435,21207
Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP)4 758 12920,68115
Partito Comunista Italiano (PCI)4 356 68618,93104
Unione Democratica Nazionale (UDN)1 560 6386,7841
Fronte dell'Uomo Qualunque (UQ)1 211 9565,2730
Partito Repubblicano Italiano (PRI)1 003 0074,3623
Blocco Nazionale della Libertà (BNL)637 3282,7716
Partito d'Azione (Pd'A)334 7481,457
Movimento Indipendentista Siciliano (MIS)171 2010,744
Concentrazione Democratica Repubblicana97 6900,422
Partito Sardo d'Azione78 5540,342
Partito dei Contadini d'Italia102 3930,441
Movimento Unionista Italiano71 0210,311
Partito Cristiano Sociale51 0880,221
Partito Democratico del Lavoro40 6330,181
Fronte Democratico Progressista Repubblicano21 8530,091
ALTRE LISTE412 5501,790
TOTALI VOTI VALIDI23 010 479100,00556
SCHEDE NULLE1 936 708
DI CUI BIANCHE643 067
TOTALE VOTANTI24 947 187
I tre maggiori raggruppamenti furono quello della Democrazia Cristiana, che ottenne 207 seggi, e il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, con 115 e il Partito Comunista Italiano, con 104.
Il 25 giugno 1946 venne insediata l'Assemblea Costituente con Giuseppe Saragat alla presidenza. Come suo primo atto, il 28 giugno elesse come Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola. Su 504 votanti, De Nicola (PLI) ottenne 396 voti, Cipriano Facchinetti (PRI) 40, Ottavia Penna Buscemi (UQ) 32, Vittorio Emanuele Orlando (sin.storica) 12, Carlo Sforza (PRI) 2, Alcide De Gasperi (DC) 1, Alfredo Proja (DC) 1. Le schede bianche furono 14, le nulle 6."
Basti vedere come questa assemblea di nipotini (o figli) di Stalin abbia eletto come primo presidente della Repubblica un liberale e, poi, basta verificare come la effettiva e decisiva redazione della Costituzione fosse affidata alla presidenza di Meuccio Ruini (secondo le vicende e le modalità sopra linkate), della Commissione dei 75.
5. La premessa e i richiami finora introdotti meritano l'insistenza che ho ritenuto di proporre e che può così sintetizzarsi:
"E dunque, comparando la situazione di Giappone e Germania alla vicenda della Costituente italiana, si può percepire come quest'ultima sia risultata una effettiva concretizzazione della indipendenza riconquistata dal nostro Paese: la effettiva esplicitazione di quella nuova sovranità democratica, sostanziata dall'obbligatorio perseguimento dei diritti fondamentali sociali dei suoi cittadini come obiettivo primario e irrinunciabile.
Questa indipendenza, politico-culturale, di paese che fece emergere una eccezionale (e forse transitoria) vitalità democraticaattestata dall'alto livello di libertà e di profondità del dibattito in Costituente; e quindi, questa sovranità democratica (nell'attuazione obbligato per le istituzioni che comunque vi fu), non solo consentì un periodo di prosperità crescente e senza precedenti ai cittadini italiani, ma demarcano una vittoria. Forse non piena, parzialmente irrealizzata alla luce della realtà che ne seguì, ma non di meno tangibile.

Il senso più profondo e vitale del 25 aprile sta dunque nella sua successiva trasformazione nel processo Costituente, cioè la parte del manifestarsi dello Spirito del popolo italiano che, realmente, per quel momento, si convertì in una vittoria: sulle ragioni della fallimentare esperienza della dittatura ma, ancora più, sulle sue cause prime. Che precedono storicamente la stessa "non casuale" parentesi fascista.
Questo, e dunque la Costituzione, è ciò che dovremmo celebrare consapevolmente il 25 aprile.
Questa vittoria, della democrazia sostanziale e dell'Umanesimo, in un raro momento di grazia collettiva, dovremmo sempre difendere".

6. Quest'anno, nel 2016, peraltro, la miopia autolesionista delle polemiche sul 25 aprile è particolarmente dannosa, perché si vota un referendum relativo a una vasta riforma costituzionale.
Delle problematiche che da tale riforma derivano abbiamo parlato in questo post. Sono numerose e particolarmente "insidiose", in modo quasi irrisolvibile, ove si volesse preservare il senso stesso della Costituzione e del suo modello socio-economico di democrazia sovrana.
Noi sappiamo, o dovremmo sapere, che in base all'art.139 Cost, la "forma repubblicana" non è soggetta a revisione costituzionale

Come e perché questa riforma (ma non solo, anche quelle passate, tentate o realizzate) ponga in pericolo il vero senso di tale "forma repubblicana", lo possiamo comprendere dal modo in cui la dottrina costituzionalista (del passato, quella direttamente scaturente dalla partecipazione alla Costituente) e la stessa Corte costituzionale abbiano colmato la lacuna di significato che avrebbe potuto generarsi su questa formula. 
La forma repubblicana, intangibile da qualsiasi potere di revisione, infatti, almeno secondo la logica giuridica più coerente con i principi interpretativi che una volta erano il patrimonio comune della civiltà giuridica, consiste, secondo Mortati:
"...in tutti i principi fondamentali, sia organizzativi che materiali, o scritti o impliciti, della costituzione: sicchè la sottrazione dell'esercizio di alcune competenze costituzionalmente spettanti al parlamento, al governo, alla giurisdizione,...de'essere tale da non indurre alterazioni del nostro stato come stato di diritto democratico e sociale (il che renderebbe fortemente dubbia la stessa ratificabilità del trattato di Maastricht e poi di Lisbona, ndr). Non è possibile distinguere, fra le disposizioni costituzionali, quelle che riguardino i diritti e i doveri dei cittadini e le altre attinenti all'organizzazione, poichè vi è tutta una serie di diritti rispetto a cui le norme organizzative si presentano come strumentali alla loro tutela (rappresentatività delle assembleee legiferanti; precostituzione del giudice, organizzazione della giurisdizione tale da assicurare la pienezza del diritto di difesa ecc.). Pertanto il trasferimento di competenze dagli organi interni a quelli comunitari in tanto deve ritenersi ammissibile in quanto appaia sussistente, non già un'identità di struttura tra gli uni e gli altri, ma il loro sostanziale informarsi ad analoghi criteri in modo che risultino soddisfatte le esigenze caratterizzanti il nostro tipo di stato".

A sua volta la Corte costituzionale si attiene, con tutte le ambiguità che abbiamo più volte evidenziato, a una formula essenzialmente derivata da quella di Mortati (per ora...e in linea di astratta teoria):
"Non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un «limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione» (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n.170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale(artt. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988)."  

7. La forma repubblicana, e cioè l'area di intangibilità del modello democratico di tutela dei diritti essenziali, in particolare socio-economici, che caratterizza la nostra Costituzione - e che è il frutto della "concordia" e dell'armonia che in occasione del 25 aprile avremmo interesse a difendere sopra ad ogni altra priorità -, ne risulta sufficientemente determinata, dissipando i dubbi che al riguardo aveva sollevato Calamandrei in sede di assemblea Costituente. 
Alla luce di questo "diritto vivente" supremo (almeno nella perdurante giurisprudenza della Corte costituzionale), dovrebbe preoccuparci, ora e in occasione della ricorrenza del 25 aprile, che la riforma costituzionale determini un effetto di sbilanciamento sull'Esecutivo di decisioni che non solo sfuggiranno sempre più all'autonoma deliberazione parlamentare e alla indipendenza di giudizio degli organi costituzionali di garanzia, ma che sono assunte, in modo crescente e divorante, in sede sovranazionale, e quindi al di fuori del circuito di deliberazione dell'indirizzo elettorale, democratico e costituzionale:


"Insomma il SONDAGGISMO arriva a sostituirsi al Potere Costituente primigenio, nato dalla Resistenza, rafforzando un "potere costituito- cioè di revisione in via solo derivata della Costituzione, che, a rigore, sarebbe invece fortemente condizionato dall'attenersi necessariamente a interventi "puntuali"- il cui unico scopo è agevolare I TAGLI ALLA SPESA PUBBLICA
E quindi quello di ACCELERARE LO SMANTELLAMENTO DELLA CAPACITA' DI INTERVENTO DELLO STATO A PROTEZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI SOCIALI, QUELLI NON REVISIONABILI E PREVISTI NELLA PRIMA PARTE DELLA COSTITUZIONE.
Questa è la posta in gioco, non un semplice anti-parlamentarismo come atteggiamento politico di intolleranza alla discussione arricchita da vari punti di vista.
Oggi come oggi, tutta la classe politica presente in parlamento, abbraccia senza apparenti dubbi (e senza dar segno di capire) la logica dello smantellamento dell'intervento dello Stato, quale previsto nei principi fondamentali della Costituzione (anche l'opposizione che avversa la riforma per le ragioni sbagliate, cioè avulse dal denunciare la predeterminazione dell'indirizzo politico, e persino costituzionale, in sede sovranazionale)."

8. Tornano perciò di particolare attualità, oggi più che mai - se si sanno mettere da parte le orchestrazioni contrappositive che obiettivamente servono a distrarre l'opinione di massa dalla "vera posta in gioco"- gli avvertimenti fatti da Calamandrei rispetto alla modifica della parte non revisionabile della Costituzione, una volta chiarita, come abbiamo visto, la portata effettiva della clausola sulla "forma repubblicana": 
"Dunque, la forma repubblicana non si potrà cambiare: è eterna, è immutabile. Che cosa vuol dire questa che può parere una ingenuità illuministica in urto colle incognite della storia futura? Vuol dire semplicemente questo: che, se domani l'Assemblea nazionale nella sua maggioranza, magari nella sua unanimità, abolisse la forma repubblicana, la Costituzione non sarebbe semplicemente modificata, ma sarebbe distrutta; si ritornerebbe, cioè, allo stato di fatto, allo stato meramente politico in cui le forze politiche sarebbero di nuovo in libertà senza avere più nessuna costrizione di carattere legalitario, e in cui quindi i cittadini, anche se ridotti ad una esigua minoranza di ribelli alle deliberazioni quasi unanimi della Assemblea nazionale, potrebbero valersi di quel diritto di resistenza che l'articolo 30 del progetto riconosce come arma estrema contro le infrazioni alla Costituzione."

Ed allora, in termini socio-economici, istituzionali e storicamente giustificabili, - che si richiamano cioè all'autentico patrimonio comune e unificante della festa della Liberazione-, quello che stiamo oggi vivendo potrebbe essere l'ultimo 25 aprile.
Dopo di questo, infatti, la definitiva distruzione (quale limpidamente descritta da Calamandrei) della Costituzione originaria del 1948, potrebbe riportarci allo stato di fatto meramente politico, in cui le forze politiche sarebbero di nuovo in libertà senza avere più nessuna costrizione di carattere legalitario
Solo che queste stesse forze politiche "in libertà" e prive di una superiore cornice legalitaria sovrana, consegnerebbero, in pratica, il paese alla prevalenza di interessi politici ed economici neppure propri di una parte delle forze politiche e di soggetti nazionali (per quanto minoritari) bensì a quelli impostici dalle prevalenti forze "dei mercati" sovranazionali.  

LA COSTITUZIONE PATAFISICA NELL'ERA DEL SONDAGGISMO= LEGALITA' ACEFALA= DIRITTO SENZA GIUSTIZIA

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1. In margine al "tradizionale" post del 25 aprile, raccolgo e riverbero (in fondo a questa mia "ispirata" introduzione) un commento di Francesco Maimone che merita di non essere disperso.
Il suo commento mi appare particolarmente capace di riflettere una serie di problematiche essenziali che sono così attuali e drammaticamente riflesse nelle nostre vite, pur laddove, come cittadini "comuni", ignorassimo alcuni principi fondamentali della scienza giuridica che, nei tempi moderni, ha dato luogo alle soluzioni di "giustizia nel diritto" e alla stessa idea del "costituzionalismo": cioè all'idea di una società garantita dall'assunzione, da parte delle costruzioni costituzionali, del ruolo di condurre un processo di democrazia partecipata e pluriclasse che non fosse soggetto alla continua revisionabilità o al continuo "stato di eccezione" imposto da poteri di fatto, cioè dai poteri economici prevalenti.
Cioè ESSI, se volete...

2. A introduzione del commento-post di Francesco, ribadisco i termini della questione "giustizia e diritto" quali analizzati in un post degli "inizi" di questo blog: mi conforta, tra l'altro, sapere che, a distanza di anni, qualche segnale di vita mi confermi di non essere più del tutto solo (Arturo e Bazaar, naturalmente voi siete eccettuati, come pure Sofia, perché da lungo tempo "corresponsabili" del blog e immersi nella mia stessa solitudine):
"Il problema è, mi accorgo, che questo non è un tempo per i Calamandrei, i Carnelutti, i Basso, i Ruini e i Mortati
E forse ciò nasce dal fatto che le ideologie "borghesi" non sono più indotte alla "mediazione", cioè ad una concezione "redistributiva" reale, per assenza della minaccia del marxismo-leninismo-stalinismo, che certamente aveva sospinto le "elites liberali" che avevano combattuto il nazi-fascismo a prevenire la prospettiva di una nuova dittatura.

Però, rimane il fatto che un diritto "senza valori", intendendoli come qualcosa che si è consolidato e chiarito in conseguenza di lotte e sofferenze che hanno avuto, in forme più estreme, avversari non dissimili da quelli di oggi, rinuncia alla funzione di "giustizia" propria delle sue definizioni più alte.
Definizioni come quelle offerteci da uno dei massimi pensatori giuridici, Thomas Viehwegnel già menzionato "Topica e giurisprudenza" (cap. VIII, pagg.118 ss.); citando, a sua volta, Josef Esser, uno dei fondatori della "giurisprudenza degli interessi", corrente di reazione al giuspositivismo e alla sua "neutralità" apparente, che si era prestata a legittimare persino il nazismo. 

Viehweg chiarisce:
"...anche dei concetti che in apparenza sono di mera tecnica giuridica. dei semplici "elementi costruttivi", della giurisprudenza, ricevono il loro significato semplicemente dalla questione della giustizia. 
...Per esempio nel quadro della determinazione concettuale "dichiarazione di volontà (concetto giuridico fondamentale, che vale per i contratti come per i trattati internazionali ndr.), è comprensibile soltanto se significa "la fissazione dei principi di giustizia nella questione del vincolo negoziale e della lealtà negoziale"
E questa giustizia si connota nella tutela dell'affidamento generato nei destinatari della dichiarazione e nella costante tutela della libertà di espressione della "volontà", esente da errori nonché da raggiri posti in essere dal "dichiarante" .
E' dunque questa la cornice in cui ha senso comprendere la questione del "vincolo esterno", acriticamente accettata dalla comunità dei giuristi italiani: quale libera volontà, esente da errori e raggiri, ha potuto esprimere la comunità nazionale su cui il vincolo è stato imposto? 
Come si è veramente tenuto conto dell'affidamento in essa creato, cioè il "fogno" di pace e prosperità dei popoli europei, drammaticamente contradetto fino alle più estreme evidenze di sua negazione?"



3. Ecco dunque il commento di Francesco (che muove da un passaggio del post di ieri):
“Sta di fatto, che l'ordinamento costituzionale, è valso e vale tutt'ora, cioè fino a che la sua identità sistematica rimanga intatta - e come ciò sia ancora sostenibile a pieno titolo, lo abbiamo visto ne "La Costituzione nella palude"- a stabilire un obbligo di perseguimento della democrazia sostanziale (e non di quella filosofica-formale, scissa dal dato delle fonti di diritto immodificabili), a carico delle istituzioni di governo e di tutti i "pubblici poteri".

Il post tocca un punto fondamentale, un "a priori" che si riteneva fosse patrimonio ormai acquisito anche nella c.d. sfera laica (cioè anche di chi non è esperto di diritto) di un qualsiasi cittadino medio, ma che invece sembra (almeno dalle mie quotidiane esperienze) non abbia attecchito abbastanza nell'organo cerebrale. 
Il dissolvimento dell’impianto sistematico della Costituzione (intesa come la più alta manifestazione giuridica di un ordinamento) trae infatti origine da una progressiva e foraggiata de-alfabetizzazione giuridica di cui il “sondaggismo” ne è la più compiuta espressione a valle. 

Concetti quali diritto oggettivo, precettività di una norma giuridica (anche e soprattutto costituzionale, almeno dal 1956), vincolo giuridico, obbligatorietà ed efficacia del diritto vigente sono divenuti materia di “opinione”, in nome – s’intende – della libertà di un pensiero inesistente. Con il risultato che una qualunque norma nel codice della strada potrebbe essere avvertita come più vincolante di una norma costituzionale (che, si presume, veicoli interessi un ciccinin più importanti). 

E’ davvero un rompicapo: un ordinamento giuridico decapitato ove il corpo pretende di sopravvivere senza la testa in disfacimento, un edificio che pretende di stare in piedi senza fondamenta, una legalità acefala

E cos’è il sondaggismo se non un soggettivismo che termina nel nichilismo logico ed etico? Perfettamente congruente (e non per mera coincidenza, mi pare ovvio) con l’individualismo metodologico di Carl Menger e sodali. 
Se la conoscenza è necessariamente frammentaria, parziale, se gli oggetti non hanno qualità intrinseche, ma il loro valore è il risultato di una proiezione delle credenze umane su di essi,allora ogni teoria sociale che sostenga la possibilità di ‘costruire’ una società orientata al perseguimento di un fine dato è destinata a fallire, perché ogni teoria sociale è (deve essere) riducibile ad una teoria dell’azione individuale (Hayek). 

Una neo-sofistica in cui la Costituzione diviene oggetto di opinione, e non di necessaria applicazione (in quanto DIRITTO VIGENTE, EFFICACE, OBBLIGATORIO E VINCOLANTE), di carotaggio ad uso mediatico, e non di fedele osservanza da parte di TUTTI i consociati, legittima (com’è avvenuto ieri nelle dichiarazioni di alcune figure istituzionali) ad “opinare” a ruota libera anche su quello che è stata la Resistenza. 
I diritti costituzionali fondamentali non abitano il mondo dell'opinabile così come non è opinabile l'assunzione di un farmaco salva vita. Discussione chiusa.
Tant'è, in principio fu la fisica, poi fu la metafisica ed oggi viviamo nel regno della patafisica."

HELICOPTER MONEY. LE SOLUZIONI NASCOSTE, MA NON TROPPO, NEI "POTERI IMPLICITI"

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(Questo post potrà avere altre versioni ove dovesse essere pubblicato in altre sedi, più scientifiche o più divulgative....)
1. Ho conosciuto Carlo Clericetti all'ultimo Goofynomics-4 e mi ha fatto un'ottima impressione, riferendosi al panorama "tipico" dei giornalisti italiani di economia e finanza.
Clericetti, in un articolo su Repubblica.it, (il che è tutto dire), commenta l'uscita di Tabellini relativa all'adozione, da parte della BCE, della "estrema misura" (reflattiva, ma non si deve dire "troppo") contemplata dalla teoria monetarista: lo "Helicopter Money", secondo la celebre metafora usata dallo stesso Milton Friedman (e endorsed by Ben Bernanke", tanto da farlo definire "Helicopter Ben").
L'articolo ci ragguaglia sulla portata concreta della proposta appoggiata da Tabellini e si attesta su una visione pragmatica, confortata dalla citazione di questo post di Alberto Bagnai, circa il fatto che la monetizzazione non è causa di inflazione incontrollata (l'ennesima mitologia tecno-pop che ha fornito la corda cui si sono volentieri impiccati i governi dell'eurozona).

D'altra parte, "il dibattito"è palesemente già aperto sul punto: il che è indice di una certa qual disperazione nel campo dei neo-liberisti in cerca di affannose conferme che se le cose non vanno è perché non si sono fatte abbastanza riforme deflattive del lavoro e "liberalizzatrici" sul lato dell'offerta (che provvede immancabilmente a se stessa, secondo l'augusta legge di Say).
Aveva dato il via, almeno nella risonanza mediatica, la nostra vecchia conoscenza Peter Praet (quello che negava che la deflazione fosse una minaccia attuale, avendo poi, peraltro, una incrollabile fiducia nel QE), che essendo un membro del Board della BCE, non può dirsi un estraneo che dà fuoco alle polveri:

qe for people

3. Ma pure il FMI, nel suo "piccolo", pone all'ordine del giorno una proposta di taglio della pressione tributaria finanziata dall'elicotterismo, formulata da Adair Turner. L'idea è che l'alternativa di lasciare alle polveri bagnate delle politiche monetarie non convenzionali delle BC, e ai tassi di interesse in territorio negativo, la soluzione (fallita) dei problemi, presenti ormai dei rischi di instabilità finanziaria più che temibili.
Krugman, a sua volta, nel considerare l'ipotesi ci ha già regalato un'icastica formula descrittiva delle sue ("BC credibilmente irresponsabili", in relazione all'esigenza che l'allargamento della base monetaria, rifornendo direttamente gli Stati, debba essere necessariamente permanente, cioè, appunto, una monetizzazione attuata non solo acquistando i titoli, ma rinnovando gli acquisti, per tale ammontare, ad ogni futura scadenza) e ne parlano apertamente anche i commentatori del Wall Street Journal.

4. Sia detto subito che, anche voci orientate alla contrarietà teorica su misure del genere, suggeriscono che l'acquisto, corredato dalla sua permanenza, potrebbe essere effettuato dalla BCE, quale banca centrale indipendente "pura", sul mercato secondario, cioè senza violare il divieto di acquisto diretto all'emissione posto dall'art.123 TFUE.
Tenendo conto di questo quadro di opinioni qualificate (per la loro provenienza dal campo avverso alle teorie keynesiane) già assommatesi sul punto, l'articolo di Clericetti descrive, per lo statuto giuridico dell'eurozona, uno scenario di difficoltà quasi del tutto insormontabili. Sicuramente dal punto di vista politico, dato che ci si dovrebbe imbarcare in una modifica dei trattati: persino l'aggiramento formale dell'art.123, con l'acquisto sul mercato secondario, avrebbe difficoltà a essere attuato, dato che il board BCE che delibera l'avvio del programma di acquisto, non può garantire la continuità di questo orientamento alle varie scadenze, che sarebbero affidate, per non vanificare l'effetto di una vera monetizzazione, alla composizione, impronosticabile, di futuri board successori dell'attuale, che non sarebbero normativamente obbligati a confermare la decisione intrapresa in precedenza.

5. Clericetti, riassume le difficoltà tecnico-normative evidenziate da Tabellini e poi conclude con una nota, certamente sensata, di scetticismo:
"...ci sono due problemi. Il primo è che così la banca centrale sconfinerebbe nella politica fiscale, che non è tra i suoi compiti; e il secondo è che ciò le farebbe perdere la sua indipendenza. Ma "l’indipendenza e legittimità della banca centrale possono essere pienamente preservate, in questo modo: in circostanze eccezionali, la banca centrale può dichiarare che ha esaurito gli strumenti convenzionali, e che pertanto effettuerà un trasferimento permanente a favore del governo (o dei governi nell’area euro). L’importo trasferito è scelto discrezionalmente dalla banca centrale, può essere diluito nel tempo, ed è motivato dalle circostanze economiche. Il governo (o i governi) non possono in alcun modo interferire con la decisione unilaterale della banca centrale, ma scelgono liberamente come disporre della somma trasferita: se e come distribuirla ai cittadini, se usarla per finanziare particolari voci di spesa, o per ritirare debito pubblico o semplicemente se accantonarla per il futuro. Naturalmente, se davvero le circostanze sono eccezionali, la pressione politica costringerebbe i governi a distribuire o spendere questa somma, raggiungendo così l’obiettivo di un effettivo coordinamento tra politica monetaria e fiscale". Tutto ciò richiederebbe una modifica del Trattato di Maastricht, ma, conclude Tabellini, non c'è una ragione valida per non cambiarlo.
"...Comunque questi "elicotteristi" sanno di parlare al vento. La proposta, chiamata col suo nome e realizzata come si deve, sarebbe più che sensata, ma questo non le dà più probabilità di essere adottata delle tante altre proposte sensate che sono state fatte negli ultimi anni e di cui non s'è fatto nulla per l'opposizione della Germania e dei suoi satelliti. I tedeschi hanno in testa la loro idea di come debba funzionare l'Unione europea e non ci rinunciano, non cedono di un millimetro e anzi rilanciano con nuove proposte deleterie per evitare ogni più lontano rischio che si crei una situazione che richieda un intervento solidale dei paesi membri, cioè di usare anche "i loro soldi". Certo, in questo modo rendono sempre più probabile che si arrivi a una rottura traumatica, ma evidentemente sono convinti di avere da perdere, in quel caso, meno degli altri. Continuiamo così ad andare avanti tra i proclami che ci vuole "più Europa" mentre stiamo facendo di tutto per distruggere quella che c'è."

6. Nonostante questa conclusione sia in linea di massima quasi obbligata e ampiamente condivisa ("la Germania si sa..."), potremmo fare due obiezioni. La prima è interna alla riferita opinione dominante, di scetticismo sulla realizzabilità della monetizzazione per via del divieto, o sulle difficoltà normative comunque e senza dubbio insite nei trattati.
E cioè, affermare che i trattati siano o meno veramente immodificabili, politicamente, è qualcosa che presuppone una verifica che, però, non giunge mai a concretizzarsi: e cioè presuppone che qualcuno, cioè uno o più Stati-membri dell'eurozona, attivi il relativo procedimento di revisione

Nessuno impedisce di farlo all'Italia, alla Francia o alla Spagna (anche messe insieme come proponenti congiunte): la formazione di maggioranza, come abbiamo visto, non basta, occorrendo l'unanimità, ma nondimeno, questa volontà maggioritaria avrebbe effetti notevoli, potendo innescare un processo di "conta" che, a sua volta, se veramente lo si sostenesse con queste ferme intenzioni, potrebbe condurre la Germania a più miti consigli. 
Se non altro perché la ripresa dei redditi e dei consumi interni, andando proporzionalmente alla stessa Germania la fetta più grande di liquidità "regalata dall'elicottero" (cosa che, tra l'altro, la farebbe rientrare in deficit spending rispetto alla situazione attuale), certo non farebbe male né alla sua domanda interna né alle sue esportazioni; anche se forse farebbe "meglio" alle importazioni dagli altri Stati in Germania
Oppure, magari, il ritrovarsi in stabile minoranza di fronte ai partners più importanti (rispetto al suo ostinato mercantilismo), potrebbe condurla a prendere atto di "non capirsi" con tutti gli altri €uropei e a lasciare l'eurozona con un ragionevole negoziato.

7. Ma la seconda alle predette conclusioni obiezione è più pratica.
In realtà, di fronte a una forte volontà politica, - chiamiamola così e non fingiamo che l'indipendenza della banca centrale sia "apolitica", laddove è piuttosto solo avulsa dal processo elettorale (cioè democratico)-, la cosa potrebbe rivelarsi attuabile sfruttando le già esistenti prese di posizione di quello che, in chiave di ordinamento UE, è l'organo che, secondo la (pur atipica) rule of law dell'eurozona ha l'ultima parola e che, in qualche modo, l'ha già espressa. Cioè la Corte di giustizia UE.

Difatti, come abbiamo visto nel post a commento della sentenza CGUE sulla OMT, la Corte ha affermato due cose in sé non proprio coerenti tra di loro, ma che hanno il pregio di essere state affermate, cioè di costituire uno stare decisis che l'ordinamento europeo considera di livello normativo, cioè integrante le stesse fonti del proprio "diritto".
La Corte, in un complesso viluppo di argomentazioni, certamente soggette a una buona dose di incertezza interpretativa (ma tale "vaghezza"è una sua strategica e consolidata tradizione), ha sostanzialmente già affermato, abbiamo detto, due cose (le riassumo con un certo riduzionismo, consapevole che una lettura completa esige una consapevole conoscenza delle teorie economiche e dell'ordinamento giuridico europeo, che difficilmente sono compresenti in qualsiasi interprete, perciò vi dovrete fidare delle mie conclusioni):
a) che le politiche monetarie rientrano (abbastanza ovviamente) nella competenza esclusiva della BCE ma che, ed è questo il "punto forte" del ragionamento desumibile dalla sentenza, esse includono il garantire l'efficacia dei meccanismi di trasmissione monetaria e, quindi, è obiettivamente desumibile una serie di poteri impliciti della BCE (implied powers che sono una prerogativa "ontologica", secondo altre pronunce della Corte, insita nella mission di ogni istituzione europea), che travalicano le forme comuni e "convenzionali" di politica monetaria; 
b) che, comunque, anche se così non fosse, sul piano del rigore delle norme dello Statuto BCE, misure eccezionali per garantire i meccanismi di trasmissione monetaria, sono adottabili in un quadro di accordo congiunto degli organi europei competenti
Infatti:
"Le caratteristiche specifiche del programma OMT non consentono di affermare che esso sia equiparabile a una misura di politica economica. 
Per quanto riguarda il fatto che l’attuazione del programma OMT è subordinata al rispetto integrale, da parte degli Stati membri interessati, di programmi di aggiustamento macroeconomico del Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) o del Meccanismo europeo di stabilità (MES), non si può certo escludere che tale caratteristica abbia incidenze indirette sulla realizzazione di taluni obiettivi di politica economica. Tuttavia, simili incidenze indirette non possono implicare che il programma OMT debba essere considerato come
una misura di politica economica, poiché risulta dai Trattati dell’Unione che, fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il SEBC contribuisce alle politiche economiche generali nell’Unione".

8. Per quanto riguarda il primo punto, cioè il concetto "mobile", o meglio "espandibile" di politica monetaria, il limite della coerenza con la scienza economica, - che in pratica è quello di un univoco intendimento della teoria monetarista, che appare obiettivamente richiamata dalla Corte, essendo alla base della concezione della BCE e dei trattati-, non ha ormai soverchia importanza: le politiche monetarie, per Friedman, coincidono essenzialmente con le politiche economiche, avendo il solo complemento esterno di limitati interventi supply side da parte degli Stati, ma poco importa. 
Ormai, l'OMT (che è un atipico QE che rompe l'unità centralizzata della politica monetaria affidata alla BCE), nonostante la sua sostanziale inattuazione, è stata definita nell'alveo delle politiche monetarie e, d'altra parte, questa lettura vale a ricomprendere, per espressa affermazione (normativa) della CGUE, l'intera attivazione della gamma composita dei meccanismi di trasmissione monetaria
Tra questi meccanismi, indubbiamente, per quanto circondato da una definizione "pittoresca" e da una certa ironia crepuscolare sullo stesso monetarismo, rientra l'escogitazione dell'Helicopter Money: operabile, col precisato carattere di permanenza, sul mercato secondario per non violare l'art.123 fatidico.

9. Circa il secondo punto b) (adozione di misure "monetarie" in accordo con le istituzioni competenti), è qui che la sentenza della CGUE rivela il suo carattere aperturista alla monetizzazione: una volta entrata (con non meno diritto dell'OMT) nell'alveo delle politiche monetarie, la sua attuazione dipende, non tanto, e in modo abbastanza ovvio, dalla conformità ai programmi di aggiustamento FESF o MES, che non entrano per definizione in gioco in questo caso, ma dall'orientamento che, su questi programmi, volessero assumere gli organi comunitari che predeterminano i contenuti di tali programmi (cioè da parte degli effettivi decidenti). 
In pratica è raggiungibile, senza dover intraprendere alcuna procedura di revisione dei trattati, un accordo coordinato tra BCE, raggiungendosi nel suo Board la dovuta maggioranza, Eurogruppo, che in base al combinato disposto degli artt.136 e 238, par.3, lett.a) del TFUE può deliberare in modo vincolante con la maggioranza del 55% dei voti ponderati dei membri dell'eurozona purché rappresentino il 65% della popolazione interessata, e Commissione (sempre che questa possa raggiungere una maggioranza in contrasto con la volontà della Germania).

10. Si tratta evidentemente di un accordo che richiede una forte convinzione e coesione degli Stati maggioritari (per voto ponderato e per popolazione), tale da riflettersi coerentemente, ma non impossibilmente, in tutte e tre tali sedi istituzionali.
Il presupposto, esplicitato dalla CGUE, è peraltro che tali organismi, tutti insieme, decidano che i programmi di aggiustamento macroeconomico, - dettati dalla varie decisioni del Consiglio e dell'Eurogruppo, ribaditi nel monitoraggio sui bilanci da parte della Commissione, e di frequente apertamente "consigliati" dalla BCE (in "lettere" e dichiarazioni pubbliche)-, siano considerati sufficientemente rispettati e non ulteriormente inaspribili: almeno nel senso che la monetizzazione sia, allo stato, considerata una misura politico-monetaria e fiscale prioritaria su ogni altra, nel garantire un meccanismo di trasmissione della politica monetaria ritenuto a questo punto indispensabile.

11. Insomma, volendo, dipende tutto da "loro": se si mettessero d'accordo e volessero intraprendere una via emergenziale, dovrebbero soltanto ammettere che questa è alternativa alla prosecuzione dell'applicazione "condizionale" del fiscal compact
Certo, sconfessando se stessi in modo piuttosto evidente: ed è questo forse il principale ostacolo psicologico e culturale. Cioè politico: ammettere di essersi sbagliati, per fare qualcosa che, però, salvi l'eurozona
Uno strano dilemma, che esige di agire "come se" le Costituzioni e la democrazia esistessero, coi loro vincoli sostanziali, ma dandogli una veste che non rinneghi il monetarismo (e non riaffermi la democrazia). Correrebbero mai questo rischio?
Forse, se lo facessero prima altre banche centrali importanti, come la Fed o la BOE...



METAFISICA E MERCATO

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1. Pubblicare i post di Bazaar è sempre un piacere. Ma, a mio parere, le sue vette le raggiunge (sempre più, segnando una crescita della ricerca molto positiva) nei commenti: cioè quando esprime con immediatezza il suo pensiero brillantemente sintetico e capace di spaziare nella interdisciplinarità (carattere della conoscenza che su questo blog, tentiamo di fornire).
Mi pare perciò molto utile riportare, ai consueti fini di miglior preservazione, i due principali commenti da lui prodotti in margine al precedente post.
Li modificherò leggermente, per separarne il senso pregnante dall'occasione "dialettica" che ha dato spunto al secondo di essi, ("occasio" che non risulta essenziale alla comprensione). Semmai integrerò in premessa alcuni passaggi per raccordarli con concetti che, nel complesso del blog, sono stati già esposti.

2. Parlando dell'ostacolo concreto alla reintroduzione della monetizzazione dell'indebitamento del settore pubblico, - idea che, comunque prospettata, risulta preannunziare una svolta epocale comparabile a quella, di opposto senso socio-economico, del monetarismo e della banche centrali indipendenti- avevamo detto che questo stava nel dover ammettere di essersi sbagliati.
La questione non è ovviamente da poco: alla fine degli anni '70, coloro che imposero, in tutto l'Occidente (democratico) il mutamento di paradigma delle politiche economiche e fiscali, non ammisero di essersi sbagliati, ma accusarono di errore, irreversibile e insanabile, chi aveva, sia pure con incertezze e ambiguità, adottato il modello politico-economico keynesiano

3. Si poté riaffermare così che l'inflazione è il "male unico", la disoccupazione uno stato transitorio, prevalentemente determinato da soggettive frizioni volontarie contrarie all'adeguamento riequilibratore (del livello salariale), le crisi sono solo delle fasi di opportuna riconduzione, alla razionalità naturale del mercato, di situazioni socialmente "perturbate" (un sano aggiustamento), la moneta e il deficit pubblico sono neutrali, sicché, il pareggio di bilancio e la privatizzazione bancaria della moneta, costituiscono i perni del naturale equilibrio allocativo cui deve tendere la società (meglio se governata a livello mondiale, e con una moneta privata totalmente denazionalizzata).
Insomma, si trattò allora di un avvicendamento, talora graduale, talora brutale, di classi dirigenti formalmente decidenti (da quelle della politica nazionale delle democrazie sovrane a quella impersonale espressa a livello sovranazionale dai "mercati"): alcuni di coloro che seguivano il precedente paradigma, poterono rimanere nella classe dirigente solo a condizione di cambiare radicalmente la propria opinione, e facendolo entro un tempo ragionevole (oltre il quale non gli sarebbe più risultato utile a fini autoconservativi).
Abbiamo avuto dunque la rivoluzione, deflazionista e post-fordista (nel senso proprio di concezione del valore e del potere d'acquisto del "lavoro"), del tecnicismo-pop.

4. Oggi, invece, la ricalibratura del paradigma, finora accennata, ma che rischia di divenire un processo tumultuoso - dovendo prevenire un crack finanziario ed economico mondiale incontrollabile, per il ripresentarsi di "secular stagnation" e di debt-deflation senza rimedi istituzionali efficaci a disposizione-, proviene dagli stessi che devono ammettere l'errore; e non solo, ma che, proprio grazie a ciò, pretendono di mantenere la propria qualità di decidenti formali, cioè di titolari di istituzioni di governo che tendono naturalmente a preservare se stesse, e cercano così di continuare a riflettere la classe decidente sostanziale per conto della quale hanno finora agito.
Quindi: il potere, formale-istituzionale, appare intraprendere una correzione a fini di conservazione della classe dirigente sostanziale.
Normalmente, nella Storia, operazioni di questo tipo non riescono
Per ragioni molto pratiche e radicate nella natura umana (almeno da qualche millennio...): la permanenza al potere, (specialmente quello sostanziale, non esposto cioè alla visibilità e agli strali della democrazia elettorale, ancorché idraulica), porta di per sé a mal tollerare i compromessi e tende a far ritenere "eccezionale", in base a una stima di costi/benefici comunque a proprio vantaggio, ogni concessione.
Il potere, in altri termini, difficilmente si autoriforma, ma accetta solo compromessi transitori e dettati dal criterio della stretta utilità alla propria stabilizzazione (rammentiamo, ove ce ne fosse bisogno, quanto è scritto nella homepage sotto il titolo del blog).

5. Ed è questo, a ben vedere, lo sviluppo che chiarisce Bazaar nei commenti che riportiamo. Come e perché, dunque, non ci sia da essere ottimisti sulla prospettiva di un ragionevole e indolore correzione politica, economica e culturale:

"L'ostacolo «psicologico e culturale» è peggiore di quello che può sembrare.

Dietro alla legge di Say e all'offertismo si cela una forma di sociopatia che trascende gli interessi materiali della classe redditiera e finanziaria: si nasconde quel mostro mentale e psichiatrico da cui è stato abortito il razzismo. Il classismo

Il classista, ovvero il liberista, giustifica ogni sua infantile incontinenza come espressione di libertà nei confronti della massa parassitaria.

Sì, "parassitaria", visto che gli esseri inferiori che formano le classi subalterne vivono grazie alla magnanimità dei dominanti, che han concesso loro l'ingiusto privilegio di non vivere come bestie tramite la progressività delle imposte e tramite lo Stato sociale. 

E qui entra in gioco la teoria del valore.

Se il valore fosse prodotto dai proprietari, dai padroni, da chi controlla il capitale - tali perché axiologicamente "superiori", "migliori" - allora la legge di Say non può non essere valida: la volontà di produrre - oltre che distruggere! - valore deve spettare a questa classe, senza il minus habens che deve lavorare per vivere.

Gli esseri inferiori vivono grazie all'elemosina del padrone, fintanto che non si riproducano troppo e non sporchino: altrimenti è necessario - come per tutte le bestie - abbatterli.

Se è invece la domanda a fare l'offerta - e la domanda dipende dal livello dei salari - allora è il lavoro a creare valore. Lo stesso imprenditore lo crea in quanto lavoratore.

Ma, se fosse così - ossia la legge di Say, come il monetarismo, non è valida - allora parassite sono le classi dominanti.

È un bel dilemma: queste, proprietarie dei mezzi di produzione e di repressione - dopo aver distrutto completamente la massima forma di umanità quale è l'Arte - pensano di sostituire il lavoro umano con quelle delle macchine, più o meno consapevoli che, quando il lavoratore salariato sarà sostituito completamente da robot - le macchine potranno fare anche a meno dei padroni.

Ma staranno sicuramente già pensando come ibridarsi con la nuova tecnologica classe dominante....

Il problema del conflitto distributivo nella post-modernità è soprattutto un problema psichiatrico."


6. La teoria del valore si pone, lo ricordiamo, il problema, sempre presente in ogni fase storica della società organizzata, di come remunerare le varie categorie di partecipanti al processo produttivo (inevitabile data la compresente "materialità" della natura umana), cercando di individuare, (secondo visioni storicamente mutevoli), i criteri di ripartizione e attribuzione della quota di valore che ciascuna categoria aggiungerebbe.

Naturalmente, poiché nella società capitalista la creazione di valore scaturisce da processi di produzione sempre più "potenti" e sempre più velocemente e diversificatamente trasformativi, rimane sempre impalpabile il quantificare il valore da attribuire al ruolo creativo, all'ideazione trasformativa del "reale" (materiale), cioè all'attività di primo impulso (l'investimento e l'organizzazione della produzione) affidata a quella elusiva figura che è "l'imprenditore"; sempre più spesso, non più coincidente con il proprietario dell'impresa (cioè dei mezzi della produzione).  

Ma questo non sarebbe un problema normativamente (cioè per l'ordinata convivenza sociale) insormontabile, se si volesse accedere all'idea che quello che sappiamo con certezza è che una volta fissata la regola di ripartizione, cioè riconosciuta stabilmente l'esistenza della quota del lavoro, questo sia legato alla dignità e al benessere dell'essere umano come valore supremo (interno alla stessa fissazione della regola). Ed è ciò che, nell'attuale esperienza storica, tentavano di stabilire le Costituzioni democratiche (intrinsecamente pluriclasse, perché ogni classe di esseri umani è considerata in ragione del valore del proprio apporto di lavoro).

Perciò, anche la figura del "proprietario" e "dell'ideatore della produzione", rientrano in tale categoria: cioè gli esseri umani, assumono ciascuno un ruolo attivo e coordinato (ad un livello necessariamente superiore alla singola unità produttiva), che consiste in un apporto di lavoro conforme alle proprie specifiche capacità; queste possono essere riconosciute anche come molto elevate, ma non possono mai condurre a disconoscere il valore dell'altrui apporto, e quindi del' altrui ricomprensione nella stessa categoria di "esseri umani".
Tutti sono comunque socialmente impegnati nella comune esperienza della vita terrena (che a livello di ogni individuo ha un termine e impone di confrontarsi con questa realtà, parificatrice di ogni possibile esistenza).

7. Questo ordine di pensieri, che consente di regolare la società, preservare il senso comune di umanità, e riservare il meglio (qualitativo) delle proprie forze alla comprensione dell'esperienza esistenziale, è palesemente legato alla metafisica: ma non nel senso che postula necessariamente una divinità intenzionale, e precisamente individuabile (al punto di poterci entrare metodologicamente in rapporto), che sia ordinatrice del mondo e della Vita, quanto nel senso che la fenomenologia della vita stessa è ricerca (o anche "testimonianza") di significato trascendente l'esperienza sensoriale diretta; ogni essere umano, invariabilmente è portatore di un pensiero che si concretizza in una descrizione sintattico-verbale della realtà che facciamo incessantemente a noi stessi (provate a fermare il flusso del pensiero che ci racconta di ciò che stiamo vivendo, ben al di là ci cosa stiamo sensorialmente percependo...).

La nostra esperienza esistenziale, come esseri umani, è così connotata proprio dalla compresenza di una personale "intenzionalità", ben più vasta dell'accumulo di dati sensoriali, (e persino di memorie emotive: ma non voglio estendere il discorso), che ci rinvia a realtà "astratte", come principale oggetto della rappresentazione del mondo e del tempo (non abbiamo mai direttamente visto il centro della Galassia-Via Lattea, e neppure Kuala Lumpur, e neppure la Casa Bianca, per sapere che esistono e che, date certe condizioni, la loro esistenza influenza la nostra, in modi che, tra l'altro, non sono anticipatamente prevedibili dal punto di vista personale: senza questo agire dell'intenzionalità, neppure le scienze naturali sarebbero state estendibili oltre un mero livello classificatorio e descrittivo empirico, e saremmo fermi a tassonomie che priverebbero l'intuizione del suo ruolo sintetico di propulsione cognitiva).

8. Dunque, la metafisica, o altrimenti detto, (a mio parere), la fenomenologia intenzionale dell'esistenza, sono coessenziali a qualsiasi autodefinizione di sè, per qualunque essere umano: cioè coessenziali a quella consapevolezza in cui consiste la stessa percezione di esistere (che non potrà mai essere limitata dalla mera percezione dei soli dati sensibili). 
La percezione, dunque, è attività di interpretazione (ermeneutica) che, grazie alla intenzionalità (rappresentativa) trascendente i più ristretti dati sensoriali, ci consente di (tentare di) comprendere l'esistenza come fenomenologia complessa, sociale ma, ove non si fosse  privati del proprio benessere essenziale, anche astratta, cioè rapportata al senso del tempo come modalità dell'Infinito.

In questo ordine di idee,è illuminante il secondo commento di Bazaar che, in fondo, ci dice perché non possiamo non dirci keynesiani, (ove ci ponessimo a definire, come punto di partenza del processo cognitivo, i fenomeni sociali ed economici).
Senza una metafisica, cioè senza l'intenzionalità astratta che consente di definire il senso condiviso dell'esistenza, comune a noi tutti esseri umani, l'individualismo metodologico e la negazione della fenomenologia del "sociale", ci priverebbero di ogni possibile "allineamento"utile, ma, prima ancora, significativo,  tra individui della stessa specie: non parleremmo di nulla che sia effettivamente comunicabile a parole e il linguaggio sarebbe una finzione che dissimula l'attesa opportunistica  dell'aggressione allo scopo di sottomettere qualsiasi "oggetto"(anche un essere umano) che risulti al momento utile
Certo, contraddicendoci, esprimeremmo questa visione a parole, ma ogni regola sociale, ogni affermazione verbale, sarebbe solo autoriferita e soggetta alla selvaggia tensione all'affermazione del nostro immediato e concreto responso sensoriale

Nulla potrebbe de-legittimare la cieca aggressività dell'uomo sull'uomo e ogni individuo sarebbe autorizzato alla illimitata affermazione di sé fino al solo limite del rapporto di forza (necessariamente soggetto all'equilibrio del tempo: anche i più forti invecchiano). La società ne verrebbe distrutta, e infatti ne viene distrutta, e il senso dell'esistenza sarebbe ridotto a una serie brutale di reazioni automatiche alle spinte istintive e sensoriali, salvo pentirsene non appena si diviene inevitabilmente troppo deboli per affermare le proprie ragioni con la forza:

"...a differenza della vulgata empirista e positivista, il pensiero umano in quanto tale implica una metafisica.

La Domanda e l'Offerta sono due concetti metafisici che hanno una propria fenomenologia e di cui è possibile rilevare empiricamente le manifestazioni ontiche.

I concetti "singolare" e "plurale" sono concetti metafisici.

Il liberista, come da tradizione anglosassone ed empirista, nega la metafisica per imporre l'individualismo metodologico, in modo da negare l'esistenza del concetto di società, che - altrimenti - avrebbe un insieme di proprietà che non corrispondono alla somma di quelle dei singoli individui.

Questo è il motivo per cui i neoclassici cercano in tutti i modi di "microfondare" l'economia.

E questo è il motivo per cui di fatto Keynes si distacca dal liberalismo per proporre una forma di socialismo solo apparentemente non anti-caiptalista, come notava Röpke, a proposito di fantomatiche "terze vie" ed economie "miste".

La "fallacia di composizione"è la morte tanto dell'economia di Marshall quanto della filosofia di Smith e Paley, nel momento in cui esiste una scienza che descrive la fenomenologia di un oggetto metafisico come la società non come somma di singole individualità razionali: la macroeconomia.

Questa è basilare teoria dei sistemi complessi.

Ora: la polemica...come al solito, nasce dalla mancata comprensione della doppia natura delle nostre disavventure.

Da una parte esiste una crassa ignoranza nelle materie economiche, risolvibile teoricamente con la divulgazione scientifica, dall'altra esiste un gigantesco problema di carattere culturale ed ideologico (che lei si ostina a chiamare "antropologico").

In questo relativismo nichilista, grufolano i porci della grande finanza e la schiera di leccaculo in conflitto di interessi per definizione, quindi, in malafede.

Basta insegnare la macroeconomia e Keynes?No.

Perché esiste a priori un gravissimo problema ideologico e culturale di carattere totalitaristico, tanto a "destra" quanto a "sinistra" della falsa dialettica politica.

Questo è parte del lavoro che si prova a fare segnatamente in questi spazi (e, anche se in modo più velato, su Goofynomics)". 

  

LA COSMESI DEL 1° MAGGIO E LA QUINTA COLONNA DEI MERCATI

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Festa del lavoro nel mondo

Nei seguenti paesi la Festa del lavoro è festa ufficiale nazionale. In alcuni paesi, come nei Paesi Bassi e Danimarca, non è festa ufficiale nonostante esistano alcune celebrazioni in occasione del Primo maggio.
Africa
Americhe
Asia
Europa
Oceania


1. Oggi è il primo maggio e, si dice, ricorre la festa del lavoro.
La cosa singolare è che, pur essendo divenuta una festa "istituzionale" (cioè prevista da qualche tipo di norma, v.sopra) nella maggior parte dei paesi del mondo, ci troviamo di fronte a una delle più imponenti manifestazioni cosmetiche del paradigma neo-liberista di controllo culturale totalitario: proprio perché questo si è impadronito stabilmente delle istituzioni formali e sociali.
L'€uropa, la più vasta e "ricca" (ancora per poco) entità territoriale caratterizzata da un centro di potere politico unificato, è fermamente governata dalla formula suprema della "economia sociale di mercato", cioè da quello che è stato definito un bio-potere antidemocratico di riduzione dell'ordinamento sociale al sistema dei prezzi. 
Gli Stati Uniti sono governati dalla elite raffigurabile negli interessi di Wall Street e dalla sua banca centrale, che tenta di mantenere una facciata di interesse pubblico nel suo mandato "duale" di perseguire la piena occupazione "insieme" alla stabilità dei prezzi
Il resto del mondo, vive sulla capacità di resistere alla nuova fonte suprema di diritto: le lettere di intenti e le condizionalità, nonché gli indici e le classifiche, imposte dal FMI e dalla World Bank, dall'OCSE, dalla BCE e dalla Commissione UE (p.6), che, a loro volta, riflettono le policies elaborate all'interno delle elites che governano USA e UE.

2. La festa del lavoro viene così celebrata mentre un intero sistema mediatico e di governo è imperniato su questo paradigma istituzionalizzato, da completare con l'instaurazione di un omogeneo governo mondiale dei mercati: senza indugio e senza alcuna rilevanza attribuibile al concetto di tutela del lavoro.
Nel mondo della sovranità sovranazionale da attribuire alle istituzioni rappresentative dei "mercati internazionali", il lavoro viene piuttosto fatto oggetto di riforme, a carico degli Stati ex-sovrani, la cui attuazione è riscontata in classifiche di competitività misurata esclusivamente sulla maggior flessibilizzazione salariale, sulla facilità di licenziare e sulla minor costosità della normativa di sicurezza sul lavoro:

"Dunque la ricetta per una globalizzazione intelligente sarebbe un ritorno agli Stati nazionali? Rosa Lastra, docente di International Financial and Monetary Law alla Queen Mary University of London, non è per nulla d’accordo. 
«Secondo me la dicotomia tra mercati internazionali e leggi nazionali può essere meglio affrontata proprio attraverso l’internazionalizzazione delle regole e delle istituzioni che governano i mercati mondiali - spiega - . 
La risposta è quella di più leggi internazionali e meno nazionali». Quindi una strada opposta rispetto a quella indicata da Rodrik. L’eccessiva fiducia nelle leggi nazionali accompagnata da deboli standard normativi internazionali è stata anzi una delle cause della crisi finanziaria globale, spiega ancora Lastra. Ma chi può gestire il cambiamento? «Il Fondo monetario internazionale, istituzione al centro del sistema monetario e finanziario internazionale, è nella miglior posizione per diventare uno “sceriffo globale” della stabilità», conclude la studiosa. Con buona pace del trilemma".

3. Ora, date tutte queste premesse, che sono mere registrazioni storiche, cioè prese d'atto dell'assetto istituzionalizzato di governo a cui dovremmo essere, senza eccezione, assoggettati, -e questo nelle affermazioni delle stesse massime cariche istituzionali italiane- il concetto stesso di istituzione, cioè di organizzazione legittimata stabilmente a dettare le norme effettivamente vincolanti, e quindi a determinare il destino del "lavoro" che, a parole, si intende "festeggiare", è riducibile all'unico concetto coerente con il paradigma di governo dei mercati che si propugna: 
I lavoratori, per definizione, nel "governo sovranazionale dei mercati", non sono i padroni del gioco e le istituzioni, divenute volontariamente riflesso di questo paradigma - quand'anche attraverso lo schermo formale di trattati economici "cooperativi"che conducono espressamente a tale risultato- , si riducono a garantire l'accettazione idealizzata di questo stato di cose.

4. Per questo la festa del lavoro, celebrata in questa cornice politico-economica sovranazionale, diviene una cosmesi inscenata da istituzioni democratiche ormai naviganti nelle acque dei "meri rapporti" politici di fatto, allo stato puro; la cosmesi discende dallo stato di eccezione permanente imposto dai mercati, che consente solo di enunciare una realtà di facciata a dispetto della incoerenza con l'effettiva linea politica, in altre sedi propugnata.
La istituzioni democratiche stesse devono, senza alternative (e probabilmente senza consapevolezza) abbracciare un sistema di enunciati complementari a realizzazione congiunta tecnicamente impossibile, risolvibili solo con la predeterminazione autoritaria dell'unica soluzione anticipatamente voluta, non essendo più in grado di denunciare la realtà dei rapporti di forza neo-istituzionalizzati:

"Possiamo quindi individuare tre gruppi sociali distinti in cui rapporti di produzione determinano una  subordinazione, interessi contrapposti ed una conflittualità:
1 – le banche, ovvero gli istituti di credito: valutano la (ri)concessione o meno del credito e del relativo tasso di interesse;
2 – le imprese: decidono quantità e livello dei prezzi delle merci;
3 – i lavoratori salariati: subiscono l'esito del conflitto tra banche ed imprese".
Istituzioni che siano allineate all'idea della cessione di sovranità verso le organizzazioni internazionali imperniate sulla governance dei mercati, dunque, sono nella sostanza inserite, come terminale di comunicazione di ultimo grado, nel processo normativo composto da "riforme" e "classifiche" dettate dalle organizzazioni internazionali tributarie di questa sovranità.
Le vecchie istituzioni costituzionali, quindi, sono riqualificate dal ruolo di meri "nunci" del nuovo costituzionalismo sovranazionale e la tutela del lavoro si dissolve di pari passo con la devoluzione della sovranità

4.1. Infatti:
"Se il popolo è democraticamente sovrano (art.1 Cost.), la rigidità salariale congiunta ad un intervento pubblico di spesa a deficit, contribuisce alla stabilità del sistema economico: il sistema delle famiglie e delle imprese possono estinguere i debiti inizialmente contratti con gli istituti di credito.
La rigidità salariale viene garantita da una forte azione sindacale (art.39 Cost.) e da una decisa politica in difesa della stabilità lavorativa e del potere di acquisto salariale (artt. 35,36,37 Cost.)

L'intervento pubblico di spesa deve essere volto a favorire la piena occupazione (artt. 1,3,4 Cost.), l'erogazione di redditi indiretti in forma di Stato sociale (artt. 31,32,34,38 Cost.) e l'assorbimento della sovrapproduzione causata dal sottoconsumo.

A supporto del perseguimento degli obiettivi (costituzionali e democratici), la Banca Centrale – secondo le direttive dell'Esecutivo nella forma istituzionale del dipartimento del Tesoro del ministero dell'Economia e delle Finanze – adeguerà politica valutaria (per mezzo della gestione delle riserve in valuta pregiata – vedi X-M) e, in primismonetaria (fissando il costo del denaro, ovvero il tasso di sconto) al fine del raggiungimento degli obblighi costituzionali medesimi.

Se “sovrana” è un'oligarchia bancariala spesa pubblica verrà tagliata, l'imposizione fiscale verrà aumentata (tendenzialmente gravando maggiormente sulle classi subalterne con minor capacità di elusione, oltre che contributiva), redditi (C) e risparmi (S) verranno compressi, gli investimenti (I) crolleranno e  lo Stato sociale verrà smantellato. (Punti 1 e 2)
L'unico sistema produttivo che potrà sopravvivere sarà quello che riuscirà ad esportare secondo la logica dei vantaggi comparati."

5. La conclusione che trarremo da quanto precede, in occasione di questo primo maggio, potrà forse non sembrare pienamente consequenziale a chi non seguisse con autentica partecipazione questo blog.
Ma la "cosmesi" della festa del lavoro divenuta espressione orwelliana di bis-linguaggio, dovrebbe far comprendere chiaramente la correlazione che tutto ciò ha con l'argomento trattato nel precedente post e che, grazie all'arricchimento dei vari commentatori, è sintetizzabile in questo commento (leggermente integrato per renderlo più esauriente):

"Purtroppo siamo costretti a dare spazio alla confutazione del pensiero neo-liberista perché nel negare la metafisica, cioè il pensiero, esso si insinua nel pensiero umano con estrema efficacia (ed efficienza: cioè col minimo sforzo. ESSI VIVONO). 

Ciò pone persino l'esigenza preliminare di una scrupolosa comprensione fenomenologica di tale interferenza: più esattamente ci si rende conto di un "altro" fenomeno, diverso da quello, - altrimenti centrale ed espressione dell'autentica libertà spirituale umana-, della qualità intenzionale del percettore, cioè dell'essere umano dotato di intenzionalità astratta e capace di esprimere la realtà attraverso il pensiero (tant'è vero che seguendo tale interferenza, si finisce per accettare il concetto di "umano" come bruto, in assenza della civilizzazione imposta dal capitalismo sfrenato, proiettando tale assunto su tutta la Storia umana!).

Ma allora dovremmo prendere atto che la sostanza del pensiero è alterabile. Cioè, è possibile la massiccia contaminazione dell'essere umano con un pensiero "inessenziale", e del tutto preclusivo delle sue capacità cognitive, ma atto a schermare le qualità essenziali di ogni oggetto naturale.

In sintesi: nel metabolismo del grande albero della conoscenza, che coincide con l'essenza dell'Umanità, è introducibile un parassita e questo può proliferare fino a divenire un organismo che sostituisce lo stesso albero

E tutto questo, senza che la struttura biologica originaria sia più in grado di possedere gli strumenti per "ricordare" la propria essenza autonoma.
Il punto terminale di una malattia...

Questo è il conflitto, interno all'Umanità, in quanto invasa da una Quinta Colonna di parassiti mimetizzati (nel pensiero), che dobbiamo fronteggiare".


E sì, ha ragione Bazaar: si tratta dello stesso "fenomeno" di cui parlava Giordano Bruno:







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