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USA FOR ITALY: LE RIFORME CHE PREPARANO IL TTIP E IL GLOBAL CAPITALISM...KEYNESIANO (?)- Parte prima

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USA for Italy



1. Una delle lamentele più frequenti di quella minoranza composita che cerca di comprendere la realtà della situazione italiana, magari nella legittima speranza che possa risolversi positivamente (e su cosa significhi ciò già iniziano divergenze non secondarie), è che l'Italia non abbia, neppure in passato, goduto di piena sovranità. 
Da qui partono tutta una serie di diagnosi, derivanti da diverse selezioni e valutazioni del dato storico, che si imperniano su un hard fact: gli USA avrebbero pesantemente condizionato, nel bene e nel male, gli assetti sociali e le politiche economiche e di sviluppo praticabili  in Italia, dato che questa, come potenza sconfitta nella seconda guerra mondiale, rimane in un certa misura in una dimensione (para)coloniale
Poi, su questo hard fact si fanno elaborazioni, più o meno ragionate, circa i termini innovativi di tale "colonizzazione" rispetto alla realtà geo-politica anteriore alla seconda guerra mondiale: non mi inoltrerò ulteriormente su questo versante del problema. 
Mi limito a dire che la mia idea è molto meno deterministica, e assolutoria delle responsabilità nazionali della nostra classe dirigente, ben evidenti anche nella fase anni '80 della costruzione €uropea, di quanto non derivi da questa vulgata, spesso asserita in preda alla sindrome di Dunning-Kruger.

2. Si può però convenire, per quanto anche ciò richieda una certa applicazione, spesso al di là dell'auto-convinzione di sapere già tutto, che la "costruzione (federale) europea" sia un sistema promosso e sviluppatosi sotto il controllo e per la convenienza degli Stati Uniti: in ogni sua fase, esso riflette sia l'esigenza storica, del dopoguerra, di un saldo ancoraggio all'economia di mercato dell'Europa occidentale, sia l'obiettivo di "purificazione"(da qualunque traccia di "socialismo" incarnato nel welfare costituzionale) di tale modello, successivamente intrapreso con la liberalizzazione dei capitali e la conseguente nuova globalizzazione.

Allo stato, dunque, ciò che i controllori politico-culturali USA ritengono appropriato per l'Italia diviene uno strumento essenziale di comprensione delle nostre prospettive sistemiche. Ed è essenziale, non paradossalmente, oggi più che in passato, nella misura in cui la dissoluzione della sovranità in ambito federale €uropeo risulta molto più intensa di quella legata all'obiettivo trade-off tra condizionamento politico, insito nell'adesione alla Nato, e vantaggio militare-difensivo che se ne traeva.

3. Posta la questione in questi termini sintetici (si potrebbero scrivere vari saggi in argomento, purché ci si serva con serietà degli strumenti offerti dalle scienze sociali),  cerchiamo di offrire un quadro della più recente valutazione della situazione italiana espressa dall'attuale establishment americano.
Una simile rilevazione, necessariamente indiziaria (sia perché la confusione regna sovrana su entrambe le sponde dell'oceano atlantico, sia perché si deve necessariamente procedere col punto di vista di "non.insider"), ci dice che l'Italia continua ad essere vista come un paese socialistoide-anarcoide gravato da un marchio irreversibile di pelandroneria dei suoi lavoratori e di "levantinismo", corrotto e sprecone, della sua classe politica, (al più macchiavellica, volendo l'analista USA nobilitare il luogocomune utilizzato); un marchio appena mitigato dal riconoscimento della creatività dei suoi imprenditori, accettabile però se predicata come settoriale e, possibilmente, delocalizzatrice da un lato, e aperta agli IDE, cioè all'acquisizione estera, dall'altro.   
Alan Friedman e Luttwak, probabilmente i più ascoltati commentatori ufficiali delle cose italiane, esprimono questa visione, immutata da decenni, avendo spazi mediatico-televisivi praticamente illimitati e, specialmente, incontrastati (più il primo dei due, in verità), allo scopo di radicare il frame dell'autorazzismo (nei nostri pedissequi commentatori autoctoni): questa etichettatura ossessiva agisce efficacemente come un "mantra", accuratamente svincolato dai dati economici relativi persino alla struttura dell'offerta italiana ed al suo effettivo mercato del lavoro, ammettendo piccolissime varianti.
Certo, la realtà, come vedremo dalle fonti che andremo a citare, è diversa dal mantra e, una volta collocata nella prospettiva del federalismo eurotrainato, rischia di fare dell'Italietta autorazzista uno strumento inefficace, anzi controproducente, rispetto all'aggressività di una Germania che sta prendendo la mano agli stessi controllori d'oltreoceano: mentre la Brexit rischia di rompere l'unità (confusa) del fronte anglosassone di re-imposizione del governo globale dei mercati (ragione sociale originaria e unica della costruzione €uropea culminante negli USE), assistiamo però di recente a una certa qual correzione del tiro (ma non hanno ben avvertito Alan Friedman...).

4. Intanto il New York Times, sezione business, ci dà atto che, nell'eurozona della ripresa debole, alcuni paesi stanno facendo "meglio" di altri: tra questi, parrebbe inclusa l'Italia cui sono riservate queste valutazioni:
"Poiché l'Italia è la terza maggior economia dell'eurozona, dopo Germania e Francia, i suoi problemi sono potenzialmente una minaccia più grande alla stabilità del blocco di quelli della relativamente piccola Grecia. L'economia italiana non è cresciuta significativamente negli anni, molte delle sue banche sono appena solvibili, e il debito pubblico come percentuale del PIL è tra i più alti al mondo. 
Probabilmente nessun paese ha beneficiato di più dell'Italia dalle recenti misure di stimolo della BCE. che hanno aiutato il governo a tenere basso il costo del prestito e hanno assicurato che le imprese italiane possano ancora ottenere del credito (???) nonostante la scarsa salute delle banche. Matteo Renzi, il primo ministro italiano orientato alle riforme, sta cercando di rendere il paese più adatto agli imprenditori. Nel corso di quest'anno gli italiani voteranno su "cambiamenti", proposti dal suo partito, al metodo decisionale attuale del suo Parlamento e per por fine alla sua cronica instabilità politica. Se Matteo Renzi avrà successo, gli "economisti" intravedono la speranza che l'Italia, che è forte in settori come la moda e la meccanica- possano ridurre la burocrazia e fare altri cambiamenti che incoraggino la crescita".
E questo è il New York Times, moderatamente espressione dell'establishment "progressista" USA: il pensiero unico supply side e l'ignoranza grossolana degli effetti, sul modello di specializzazione dell'economia italiana, delle riforme neo-liberiste, patrocinate dall'euro-appartenenza, appare talmente colossale che non si saprebbe da dove iniziare un'operazione di altrettanto moderata riconduzione alla realtà.

5. Ma rimane il fatto che l'appoggio convinto è apprestato, senza neppure rendersene ben conto (il luogocomune alberga a livelli di radicazione impressionanti), all'attuale linea dell'austerità espansiva, perché l'Italia, asseritamente affetta da contrarietà alla cultura dell'impresa e dalla immancabile burocrazia, invariabilmente eccessiva, sarebbe inefficiente nel decidere la giusta riduzione dello Stato e lo sprigionarsi benefico delle forze del mercato.
Semplicemente il NY Times, come Alan Friedman, si disinteressa dei dati pluridecennali degli effetti delle "riforme" (per loro pro-business) già prodottisi massicciamente e esclude a priori che in ciò possa risiedere il problemino.
Insomma, il primato mondiale di deregolazione del rapporto di lavoro a tempo intedeterminato, già raggiunto, secondo l'OCSE, nel 2008, non scalfisce i luoghi comuni del NYT:
6. E neppure la classifica, sempre OCSE, che, nel 2013, prima del jobs act, cioè dell'integrale abrogazione dell'art.18 fatidico, ci vedeva già giunti praticamente ai medesimi livelli di flessibilità della stessa Germania:
Allo stesso modo, è completamente ignota la realtà del principale indice di "burocratizzazione", quello più oggettivo e significativo, cioè la percentuale di pubblici dipendenti sulla popolazione, che vedrebbe gli USA molto più burocratizzati dell'Italia 
Questo il dettaglio OCSE sui numeri del 2011, ulteriormente ristretti dalle manovre di blocco del turn over degli anni successivi: notare, sul piano strettamente burocratico, gli addetti in senso stretto, rispettivi di Italia e USA, al settore amministrativo, che esclude i pubblici dipendenti addetti a servizi pubblici come ad es; il SSN. Il confronto, a favore dell'Italia, sul piano dei "puri burocrati", è addirittura impietoso:


7. Se tutto questo poi coincida, o meno, con il "meno Stato" che, sul piano delle procedure e delle strutture, parrebbero esserci additato come soluzione dal NYT, anche lì, ci sono indicatori, favorevoli all'Italia e sfavorevoli agli USA, proprio sul piano di una maggior realizzazione delle "riforme".

Prendiamo ad esempio il saldo primario pubblico, che, specie se mantenuto nel lungo periodo, indica una inevitabile destrutturazione del settore pubblico (che, appunto, per chi non l'avesse capito, se "risparmia", paga il debito pubblico e, ovviamente, non converte tale liquidità, rastrellata presso il reddito dei cittadini, in investimento in conto capitale sull'organizzazione pubblica che, altrettanto inevitabilmente, deperisce: magari anche nell'efficienza, ma al riguardo dovrebbero avvantaggiarsene i privati per via del crowding-out):


E questa realtà delle rispettive economie, e delle politiche fiscali e "di riforma", trova conferma nei rispettivi deficit pubblici complessivi, dato che gli US non realizzano mai, nello stesso periodo, un saldo attivo primario, pur scontando un onere del debito pubblico mediamente minore: ma da quando siamo dentro la moneta unica non c'è lotta, né con gli USA, né con UK e neppure con la "miracolosa" Irlanda, a cui non viene più chiesto di "fare le riforme":

8. La maggior efficienza italiana nel fare le riforme, trova anche una corrispondenza nei rispettivi andamenti della spesa pubblica: gli USA, già più "densi" di burocrati, hanno strabattuto l'Italia nell'aumento della spesa pubblica della fase post crisi. 
Magari l'hanno fatto per provvedere al benessere minimo della popolazione, mentre in Italia ciò non varrebbe, a sentire il NYT: chissà perché, visto che la nostra spesa viene contratta in modo...prociclico, a volersi attenere agli stessi criteri seguiti dall'Amministrazione USA:
Inserisco qui un solo dato comparato, che vede stravincere l'Italia sugli USA anche nel "meno Stato" (molti altri indicatori potrebbero confermare questa realtà e li trovate nel post appena linkato). USA batte Italia (in "più Stato": 5,7 a 1,4), nonostante i "costi sociali" della crisi del 2008:


Insomma, Alan Friedman e il NYT non ci paiono ben informati.

9. Un po' più aperturista, ma non necessariamente legato ai dati fiscali e macroeconomici, ci pare Anatole Kaletsky (Chief Economist and Co-Chairman of Gavekal Dragonomics. A former columnist at the Times of London, the International New York Times and the Financial Times, he is the author ofCapitalism 4.0, The Birth of a New Economy, which anticipated many of the post-crisis transformations) su Project Syndicate, che, in essenza, ci concede un quadro appena diverso, almeno nelle premesse.

Ci racconta che la Germania dice sempre no, stoppando le iniziative espansive di Mario Draghi, e ogni altra soluzione cooperativa, al punto da prendere atto che la Germania avrebbe deluso ogni aspettativa sulla sua capacità di svolgere una leadership in UE. Draghi trasforma la BCE nella banca centrale più "proattiva", capace di aggirare le regole di Maastricht e di spingersi ad essere, secondo il commentatore in questione, il primo  banchiere centrale che ha ipotizzato l'Helicopter Money, panacea di tanti mali (le cose, abbiamo visto, non stanno esattamente così).

Però l'analisi si spinge ad un'aperta lode di Padoan, capace di opporsi alle politiche economiche "pre-keynesiane" volute dalla Germania, - e lo dice senza però nominare il fiscal compact e il pareggio di bilancio, che rimangono l'obiettivo di risanamento e crescita, anche nei costanti enunciati dei governi italiani e, per la verità, anche della nostra Corte costituzionale...-, manifestando ciò nei Consigli europei. 
Tralasciando l'illustrazione di come ciò abbia portato a soluzioni pratiche, naturalmente "creative", nel tentativo di risolvere la situazione creatasi con l'avvento dell'Unione bancaria, Padoan, quale ex capo economista dell'OCSE, è indicato quale unico ministro dell'economia del G7 con un professional economics training
Da qui l'ipotesi di un "rinascimento" della leadership italiana, addirittura, in campo €uropeo, incarnata nell'attuale presidente del Consiglio, che, nonostante quello che pensa il NYT, ha infatti potuto attuare "riforme" nei settori del lavoro, delle pensioni e dell'amministrazione pubblica "impensabili in passato". 
Risultato auspicato: se l'Italia potrà assemblare una coalizione di Stati europei "pragmatici e progressisti" riuscirà forse a vincere le resistenze tedesche e a instaurare in €uropa il mitologico "new type of global capitalism, evolving out of the 2008 crisis".

10. Insomma, Italia in "renaissance", e detto da un "anglosassone", per quanto anomalo: Kaletsky è infatti nato a Mosca e si limita a "vivere tra UK e USA dal 1966", raggiungendo però una certa innegabile legittimazione radicata nella "cultura" USA, in virtù della nomina, nel 2012, a Chairman dello "Institute for New Economic Thinking", una fondazione nata dopo la crisi del 2008, con 200 milioni di donazioni apprestate, sentite bene,  George SorosPaul Volcker, William Janeway, Jim Balsillie e "altri eminenti finanzieri".

Dunque, nonostante qualche incomprensione sulla...realtà (quella non immaginaria dei luoghicomuni), "Italia sugli scudi"perché "fa le riforme" e le fa più degli USA (anche se non ci vuole molto), che, pure ce le impongono come soluzione "a prescindere" (dai fatti e dai dati).
Ma, a sentire i nostri media e a constatare l'indirizzo politico-internazionale italiano,  tutto ok: a condizione che ciò porti alla instaurazione del "global capitalism", che sarebbe una risposta ai problemi sollevati dalla crisi del 2008; anche se non si capisce perché mai, questa soluzione sarebbe diversa dal fiscal compact, dal "meno Stato" e dalla Unione bancaria nelle forme imposte dai tedeschi. 

11. Intanto, l'Italia si adegua con tutte le sue forze "ufficiali": siamo i più bravi anche se ci frustano con inerziali luoghi comuni. Rispettiamo tutto. 
Il fiscal compact, la nuova flessibilità, e anche l'adeguamento alla definitiva globalizzazione guidata dai mercati: ma democratica e progressista.
Questa contraddizione di fondo, non è l'unica: intanto si approvi il TTIP e il global capitalism sia realizzato in pieno, essendo "la" soluzione.
Solo che nel frattempo, le cose si sono un po' complicate...
Confermandosi che il tramonto dell'euro potrà essere solo "rabbioso". E anche un tantinello controverso (ma tanto, nel frattempo, gli USA si aspettano che approviamo la riforma costituzionale della stabilità di governo e della semplificazione istituzionale...nostra):


E dunque l'euro tramonta sfiammeggiando, nell'attesa che il Ttip si abbatta su di noi, mediante diritto internazionale autoapplicativoenforced da arbitri privati pagati dalle multinazionali, come ci avverte Stiglitz. Questo diritto internazionale autoapplicativo e bypassing le corti nazionali "in nome del popolo", viene elaborato ed approvato secondo una sorta di rito esotericosul quale i parlamenti non possono e non potranno dire nulla.In attesa del compimento del rito, dunque, l'euro, nel suo tramonto di rabbia (verso l'umanità), continuerà a costituire il mezzo di normalizzazione del lavoro-merce, divorando le Costituzioni democratiche.

Lo vedremo nella prossima puntata: ma non perché lo diciamo noi. Per quello che sta accadendo proprio sulla sponda americana dell'Atlantico...

USA FOR ITALY: GLI ITALPRETORIANI DELL'ELITE GLOBALISTA (Parte seconda)

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1. Dunque, come abbiamo visto nella parte prima, il global capitalism si fonde e si attualizza con il federalismo europeo e ci porta dritti al TTIP. Almeno in quella che pare la volontà, del momento, degli Stati Uniti.
I segnali di questa saldatura, di questa sorta di timing, che amplia e rinnova quello registratosi con la costruzione €uropea tra gli anni '80, Maastricht e gli sviluppi attualissimi, non mancano:
- il presidente emerito Napolitano - parlando di TINA all'approvazione della riforma costituzionale, dunque evidentemente, da lui stesso, correlata al tema-, ci illustra la volontà di Obama e liquida definitivamente la sovranità come un attrezzo "tribale" del passato: 
«Viviamo una grave crisi dell’unità europea e del processo di integrazione. Ma abbiamo appena vissuto un intervento storico del presidente degli Stati Uniti, che non è stato sottolineato abbastanza. Obama si è rivolto ai popoli europei e alle leadership. Ha fatto capire che gli Usa non vogliono più trattare con i singoli Stati europei, ma con l’Europa nel suo insieme. Ha detto che la relazione speciale tra Washington e Londra non avrebbe più senso se Londra non restasse nell’Ue. E ha usato un’espressione che mi ha colpito per la sua durezza: “È nella nostra natura umana l’istinto, quando il futuro appaia incerto, di ritrarsi nel senso di sicurezza e di conforto della propria tribù, della propria setta, della propria nazionalità». Insomma, Obama ha messo gli impulsi neonazionalistici sullo stesso piano degli istinti tribali».

- Padoan, per parte sua, ci rassicura - o meglio, obiettivamente rassicura la visione proveniente dagli USA- dicendo che gli ostacoli alla crescita italiana sono determinati dall'accumulo di ritardi strutturali, che esigono perciò "riforme strutturali", che sono la caratteristica fondamentale dell'azione del governo italiano (appunto): mentre le privatizzazioni continuano, e maggiore imposizione tributaria e ulteriori tagli della spesa pubblica promuoveranno la crescita...di lungo periodo (perché, dice, eviteranno l'applicazione immediata...delle misure di salvaguardia, solo loro depressive, a quanto pare), la trojka non arriverà perché siamo già abbastanza bravi a riformarci da soli;
- il nostro presidente del Consiglio, senza tentennamenti, ci dice che: “Il Ttip ha l’appoggio totale e incondizionato del governo Italiano”, auspicando che ne giunga l'approvazione "entro la fine del prossimo anno".

2. Siamo dunque a posto così: la linea è tracciata. Le riforme strutturali ci porteranno nel global capitalism in un futuro di crescita, radioso e circondato da una chiarezza di idee a quanto pare incrollabile. 
E' sufficiente che la sovranità nazionale sia abrogata mediante la sua cessione incondizionata ai mercati che, se "facciamo presto", magari saranno indulgenti. Come gli USA, se facciamo le riforme che non finiscono mai.
Se una cosa è inutile, tribale e guerrafondaia, non si deve neppure sapere cosa sia: se sia per caso contemplata dalla Costituzione e come. Basta liberarsene in fretta e il global capitalism penserà a noi, ma proprio a noi, inondandoci di investimenti esteri e di piena occupazione. La pace e la democrazia "vere" splenderanno per sempre.
Il segreto è quello di non parlare mai, nello stesso contesto della pace apportata dall'internazionalismo dei mercati, di questo fenomeno, peraltro ben programmato e inevitabile (non solo italiano, ma da noi particolarmente intenso e destabilizzante):
Questo secondo i dati della Commissione europea l'andamento della quota salari in Italia, in presenza degli effetti internazionalisti, e della "pace", del vincolo esterno:


3. In questo italico mondo di perfezione a portata di mano, e di soluzioni ben individuate senza ripensamenti, non c'è neppure spazio per i dubbi che mostrava Martin Wolf circa la natura "leggermente" elitaria di questa visione e gli inconvenienti che ciò starebbe manifestando (e non poco). Ciò che Wolf, sia pure a fini rafforzativi delle stesse elites, indica come problema, in Italia non esiste e comunque è sufficiente dire che non "deve" esistere (anche perché l'Italia è destinata alla leadership del processo €uropeo e comunque agli USA qualsiasi dubbio non dovrebbe piacere: è tribale e non rientra negli scopi della neo-sovranità mondialista dei mercati). 
In effetti, anzitutto, Wolf si preoccupa di questa questione di come possa votare la "gente": 
Anche i perdenti possono votare. La democrazia è questo, ed è giusto che sia così. Se si sentono sufficientemente imbrogliati e umiliati, voteranno per Donald Trump negli Stati Uniti, per Marine Le Pen in Francia o per Nigel Farage nel Regno Unito. 
Sono quelle persone, specialmente negli strati popolari autoctoni, che si lasciano sedurre dalle sirene di politici che mettono insieme il nativismo dell'estrema destra, lo statalismo dell'estrema sinistra e l'autoritarismo di entrambe.Sopra ogni altra cosa, queste persone rigettano le élite che dominano la vita economica e culturale dei loro Paesi: sono le stesse élite che la settimana scorsa si sono riunite a Davos per il Forum economico mondiale. Le possibili conseguenze fanno paura. Le élite devono elaborare risposte intelligenti, e potrebbe già essere troppo tardi...
Ma, per dire, Napolitano o Padoan, sanno già che le riforme strutturali e la cessione (massima possibile) della sovranità sono "risposte intelligenti" e dunque nelle urne, ove mai dovessero votare, a cominciare dal referendum costituzionale,  gli italiani sceglieranno le riforme strutturali e la più ampia cessione di sovranità ai mercati. Se si dovesse votare...
Dunque, in Italia, è scongiurato in partenza il timore evidenziato da Wolf: 
"I Paesi occidentali sono democrazie. Sono gli Stati che forniscono le fondamenta legali e istituzionali dell'ordine economico globaleSe le élite occidentali non terranno in alcun conto i timori di tanti, quei tanti ritireranno il loro consenso ai progetti dell'élite. Negli Stati Uniti, le élite di destra hanno seminato vento e stanno raccogliendo tempesta. Ma è potuto succedere solo perché le élite di sinistra hanno perso la fedeltà di ampi strati della classe media autoctona.Non da ultimo, democrazia significa governo di tutti i cittadini. Se i diritti di residenza, e ancor più di cittadinanza, non verranno tutelati, questo risentimento pericoloso crescerà. In molti posti è già cresciuto". 

4. Dire che gli Stati forniscono le fondamenta dell'ordine economico globale, un principio di democrazia delle relazioni internazionali che è alla base dello stesso art.55 della Carta ONU, una volta trasposto nei termini della teoria politica ed economica assolutamente dominante in Italia, conduce inevitabilmente a una manifestazione estrema e paradossale di integralismo internazionalista: Wolf si becca pure lui, in sostanza, del tribalista dagli istinti belluini.
E non finisce qui, perché questo epiteto sprezzante, e comunque una inequivocabile qualificazione di inadeguatezza, sarebbe esteso a una parte crescente del popolo americano e persino a quei governi €uropei a cui l'Italia dovrebbe, secondo la versione americana, proporsi come "leader" al posto della Germania-che-dice-sempre-no. Ad esempio, l'Austria e la Francia, che sono i nostri principali confinanti terricoli, e coi quali occorrerebbe, secondo la più ovvia prudenza insita nelle pacifiche e cooperative relazioni internazionali, non assumere posizioni di radicale censura o interferenza, diretta o indiretta, coi processi democratici in base ai quali tali paesi manifestano il loro legittimo indirizzo politico sovrano. 
Insomma, se ci si compiace di disperdere la propria sovranità (nella superiore convenienza di "impersonali" mercati), ciò non autorizza la sistematica censura moralistica di quella altrui: un atteggiamento del genere è tipico degli imperialisti, che vogliono omologare eticamente a se stessi il mondo intero per dissimulare la propria convenienza economico-oligarchica. Cosa che, dati i risultati di questo atteggiamento finora conseguiti, non si addice certo all'Italia

5. Eppure non mancano i contro-segnali al granitico ital-pensiero: si moltiplicano potenti "avvertimenti" che mostrano come le riforme strutturali, e la cessione di sovranità ai mercati, non siano più esattamente ben accetti in un intero rinascente paradigma della comunità internazionale, espresso persino dalle sue più emblematiche espressioni economiche, per non parlare di quelle politiche più rilevanti.
"The Decline of the Dollar Is Not the Decline of the United States"
 detto da Stratfor, preannuncia che il ruolo dominante degli USA nei mercati finanziari non sarebbe in definitiva posto in pericolo dal graduale ritiro del dollaro dalla sua funzione di moneta di riserva e di pagamento nel commercio internazionale. 
Questa prospettiva, peraltro, consentirebbe al dollaro di potersi indebolire e consentire così agli USA di stabilizzare la propria economia conciliando la valorizzazione dei propri interessi produttivi nazionali, secondo tale assunto, con gli interessi del resto del mondo. 
Stiamo parlando dunque di un interesse statunitense molto statale e nazionale e, perciò, stando alle parole di Obama, squisitamente "tribale". E il TTIP sarebbe uno strumento di aggiustamento strutturale dei conti con l'estero degli Stati Uniti molto efficace, nelle stesse intenzioni dichiarate, come avevamo visto qui.

6. Solo che, nonostante il problema non appaia avvertito dai nostri governanti, questo strumento avrebbe il difetto di risultare, nei suoi effetti distributivi innegabili, elitario: che poi in pratica significa economicamente favorevole solo a una ristretta oligarchia finanziarizzata, agli occhi dello stesso popolo americano, che di globalizzazione finanziaria, e dei suoi effetti redistributivi dei redditi e della ricchezza, inizia ad averne veramente abbastanza
Anche perché, come da previsione, con grandi costi per i tribali cittadini non elitari degli USA, la popolazione messicana non si era certo avvantaggiata del liberoscambismo NAFTA, divenendo piuttosto un'economia esportatrice di...messicani.
Il che equivale a dire che questo globalismo economico, così amato dal mainstream italiano, nega il più importante dei diritti dei popoli e di ciascun individuo: quello di ricercare dignità e benessere nella terra dove si è nati, valorizzando la dimensione comunitaria e naturalmente affettiva e solidale dell'essere umano. Ciò che l'art.2 della Costituzione pone ai vertici dei valori immutabili della nostra Costituzione
Un ordine di problemi, e di valori, che, per i nostri governanti, appaiono non esistere. 

7. E invece la realtà conferma i timori di Wolf, condivisa, per parte sua, pure da i più importanti partner €uropei, versione ortodossa non lepenista.
Hollande, all'opposto di Renzi, preannuncia una decisa contrarietà al TTIP e lo fa per ragioni che dovrebbero essere definite "tribali"; considerato che la Francia rimane un paese fortemente agricolo e che tale interesse, economico e occupazionale e, pensate un po', "nazionale", non appare indifferente al suo Presidente della Repubblica. 
Che parla persino di non accettabilità di una non reciproca apertura (rispetto agli USA) dei rispettivi mercati pubblici. Tradotto per i governanti italiani, Hollande non accetta a priori che, ad esempio, il servizio sanitario (con il lucroso mercato dei farmaci) e quello previdenziale, pubblici e nazionali, possano in prospettiva divenire dominio incontrastato della finanza "globale" USA.

8. Intanto, un altro contro-segnale, connesso, arriva dal Fondo monetario internazionale, che discute di come vada riformato il sistema finanziario mondiale, che abbiamo visto poter scontare il graduale disimpegno del dollaro dal ruolo di mezzo di pagamento "universale", e lo si ipotizza rinunciando al mito della stabilità monetaria, raggiunta a colpi di politiche deflattive di matrice hayekiana, e einaudiana, internazionalista e liberoscambista (per la pace nel mondo globalizzato dai mercati, che rimane l'obiettivo unico che parrebbe giustificare ogni presa di posizione italiana). Infatti si discute di un punto basilare e prioritario, che è l'abbandono dei cambi fissi, che, in termini di fenomenologia mondiale, trova la sua massima espressione nell'euro.

A Padoan non può sfuggire, probabilmente con suo disappunto, che l'abbandono della mitologia dei cambi fissi, della supposta enormità del rischio di cambio, del mantenimento dell'inflazione a livelli bassissimi e stabili per acquisire la competitività estera agendo sui tassi di cambio reale, mette fuorigioco tutto l'armamentario delle riforme strutturali e del debito pubblico come urgenza assoluta a cui porre rimedio. E mette fuorigioco persino l'intoccabile dottrina delle banche centrali indipendenti. Magari sovranazionali e comunque che si appropriano di un pezzo fondamentale della sovranità popolare, sottraendo al gioco democratico i mezzi per raggiungere i fini della sovranità popolare nazionale, fini normalmente stabiliti dalle Costituzioni democratiche (che per il raggiungimento di tali finalità assumono un concetto di sovranità dello Stato democratico. Mica tribale).

9. Un colossale contro-segnale, che rischia di far ritrovare l'Italia piuttosto isolata, scaturisce anche dal fenomeno delle attuali primarie USA.Obama esporta l'epiteto di tribalismo settario ma, a quanto pare, gli elettori USA non sono d'accordo. Con le elites: i perdenti si ribellano, come temeva Wolf. E non si tratta del solo fenomeno Trump:

Trump-Sanders Phenomenon Signals an Oligarchy on the Brink of a Civilization-Threatening Collapse

Oligarchies win except when society enacts effective reforms

Traduciamo l'eloquente incipit dell'articolo di questa economista americana: "I media hanno creato una fiorente industria dalle analisi sulla correlazione tra le infrastrutture americane al collasso, i lavori in outsourcing, i salari stagnanti, la piccola borghesia (ndr; traduzione effettiva di middle-class, senza l'ipocrisia che, in Italia, fa chiamare "classe media" schiere di impiegati, operai e precari nei servizi, attribuendogli un precedente status di benessere sacrificabile in base al senso di colpa), che "evapora", e l'ascesa di candidati presidenziali anti-establishment, Donald Trump e Bernie Sanders". 
I media italiani non sono capaci di tali analisi peraltro, e infatti vanno velocemente a picco.
Certo il contro-segnale di Trump, il principale "tribalista", nei fatti (ignorati) pare essere piuttosto pacificatore, dato che si incontra coi toni di Hollande e dei sostenitori della Brexit, avvicinando, culturalmente e politicamente, piuttosto che allontanando le due sponde dell'Atlantico:

10. Il fatto che tutto ciò risulti "culturalmente" inaccettabile agli occhi dei nostri politici di governo, pare perdere rilevanza a grande velocità, a meno di non ostinarsi a voler attribuire ai cittadini USA, - che trovano incredibilmente importanti i propri salari e la propria prospettiva di vita dignitosa (per "vili" questioni di benessere e persino di sopravvivenza)-, una natura collettiva belluina e tribale: il che non pare appropriato, nell'ambito di una corretta linea diplomatica, nei confronti di un popolo certamente alleato e impegnato a tentare il recupero della propria sovranità pluriclasse.
E l'arrocamento delle elites italiane pare perdere rilevanza e senso di opportunità perché...

Usa, il sorpasso di Trump: dai sondaggi è in vantaggio di due punti sulla Clinton

Insomma, "in nomine euri" e delle cessioni di sovranità nonché delle "riforme strutturali" del lavoro che strozzano i popoli, immolandosi sull'altare dell'ortodossia ad un paradigma che è divenuto insostenibile laddove è nato, l'Italia dovrebbe diventare ostile e distonica rispetto agli stessi USA (e alla Francia; per citare un altro esempio eclatante)?
Se il global capitalism è insostenibile, e se ne stanno accorgendo i cittadini americani, sarebbe più prudente non voler assumere posizioni irreversibili, che ci isolerebbero sul piano internazionale
Il global capitalism rimarrebbe una faccenda per le elites, com'è sempre stata: basta iniziare a dire la verità e rammentare che le oligarchie la Costituzione impone(va) di limitarle non di acclamarle come sovrane.
E se proprio non si è più in grado di ritrovare la via della originaria democrazia costituzionale, perché non si può ormai perdere la faccia, magari si può consentire di governare a chi non sia irrimediabilmente compromesso col paradigma oligarchico, giunto al suo rabbioso tramonto.

11. Forse non accadrà, forse è troppo tardi.
Ma forse no. Magari sta accadendo quello che avevamo pronosticato in questi termini:
"Ora perché [nell'establishment USA] credono che un sistema incorreggibile possa andare avanti?
Per il semplice fatto che "possono"...farlo andare avanti. E' una questione di potere, esattamente come evidenziò Kalecky nel parlare della preferenza, da parte dei capitalisti, a rinunciare alla piena occupazione, ed ai maggiori profitti connessi, come obiettivo ben più appetibile della prospettiva, alternativa, della perdita della "disciplina nelle fabbriche" e del controllo delle istituzioni di governo.
Non hanno capito che, una volta accettato di non contestare il legame tra limitazioni del deficit pubblico e auspicata destrutturazione definitiva del welfare, le riforme strutturali provocano un effetto politico di rafforzamento delle tendenze mercantiliste che oggi vorrebbero combattere: si tratta sostanzialmente della sindrome "dell'apprendista stregone", (opposta a quella del "questa volta è diverso"). 
Una volta evocato il capitalismo sfrenato, non si può poi fermarlo a piacimento: il "lavoro-merce" diviene un problema di arretramento oltre gli stessi desiderata dell'improvvido apprendista.
Riusciranno a fermare tutto questo, se veramente sono interessati a questo tipo di "recupero" delle potenzialità dei mercati UEM?
Per farlo devono comprendere le ragioni profonde della loro stessa crisi sistemica: il neo-liberismo, non è buono se legato alle "nuove" politiche monetarie, mentre diviene "cattivo" se trasposto in Europa in forma di ordoliberismo a matrice mercantilista tedesca.
Il free-market liberoscambista è un blocco unico di tendenze politiche che in Europa poteva affermarsi solo nella forma attuale: diversamente non sarebbe stato possibile fronteggiare in modo vincente decenni di applicazione delle Costituzioni democratiche. 
Non si può volere la botte piena e la moglie ubriaca.
Ma non è possibile ritenere che un ripensamento di questo genere avvenga, da parte loro, in tempi accettabilmente brevi e senza traumi al loro stesso interno.

Se il "trauma" risultasse essere solo l'elezione di Trump e un suo qual certo nazionalismo e populismo, potremmo ritenerci fortunati.
Ogni altra ipotesi, di esito elettorale, avrebbe peraltro ripercussioni molto peggiori: specialmente sull'Italia. Il gran tacchino che si mette in forno da solo

DRAGHI E LA TRAPPOLA PER SCIMMIE (DELLA HAZARD CIRCULAR)

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LA TRAPPOLA PER SCIMMIE


1. L'ennesima, ma sempre più giustificata dall'attualità, spiegazione del pantano in cui ci ha ficcato la schiera delirante dei sostenitori della stabilità monetaria e quindi della stabilità deflazionistica dei prezzi, come garanzia della "crescita sostenibile", idea di Hayek e Einaudi, intrecciati tra loro nella costruzione €uropea fin dagli anni '40 del secolo scorso,  -  ce la fornisce il post odierno di Alberto Bagnai. Di cui riporto il passaggio che ci interessa per approfondire il discorso sul piano storico-economico e, naturalmente, istituzionale:
"Ovviamente Draghi così scarica la responsabilità del suo fallimento (da noi annunciato) sui governi che non fanno le "riforme strutturali" (parola per tutte le stagioni). Ma l'unico che governa nell'Eurozona è lui, perché lui tiene i cordoni della borsa. E così, dopo aver per anni fatto il poliziotto cattivo a beneficio del sistema finanziario (sappiamo dove sono finiti i soldi del "salvataggio" della Grecia), ecco che improvvisamente la sua gang si accorge che, ops, purtroppissimo le riforme che lei aveva chiesto abbassano i salari, e quindi riveste i panni del poliziotto buono: fate la deflazione, ma non abbassate i salari!

Ma che bella questa Banca centrale che improvvisamente, ora che la mia spiegazione della crisi dell'Eurozona è diventata mainstream, e ora che mi fanno dire sui media chi è il nemico politico della nostra prosperità e della nostra pace, scopre questa vocazione da Robin Hood: vuole lanciare soldi dagli elicotteri, si preoccupa del calo dei salari...".

2. Sui presupposti economici-ideologici di Draghi avevamo fatto un'analisi dettagliata: non li può rinnegare, né ora nè mai, perché farlo significa dare le dimissioni ammettendo che la contraddizione evidenziata da Alberto non è correggibile all'interno del quadro normativo €uropeo che non appare oggetto di alcuna possibile negoziazione
Di quell'analisi ci limitiamo a riportare alcune conclusioni salienti, che descrivono l'immobilismo del pantano e la sua totale mancanza di prospettive risolutive, che certo non si concretizzano nel fare contraddittorie quanto inutili ammissioni del problema che si è voluto creare: e che non si vuole neppure lontanamente correggere, se non vagheggiando di Helicopter Money, in modo del tutto ambiguo e sempre rimesso a condizioni politiche a realizzazione congiunta impossibile:
"...- notare che, implicito in questo discorso, è che la crisi non sia da domanda ma strutturale: cioè Draghi legge la situazione come sostanzialmente svincolata dall'andamento del PIL (UEM o di singole nazioni), considerato un problema  "aggiustabile" nell'ambito della ristrutturazione da sempre auspicata. Cioè, con la sola lente dell'obiettivo di preservare la moneta unica, in quanto strumento che "vincola", cioè rende ineludibile rimuovere gli ostacoli al pieno ripristino del mercato del lavoro(-merce) che viene considerato essenziale per il funzionamento dell'effetto saldi reali, ovvero dello stesso spiazzamento espansivo verso gli investimenti privati.
- insomma, la chiave di tutto, come sempre è il mercato del lavoro, la cuiflessibilizzazione, viene presumibilmente vista come la precondizione per la praticabilità e l'efficacia delle stesse politiche di taglio della spesa pubblica: finchè la prima non viene pienamente realizzata, le seconde rischiano di provocare un problema di deflazione e di non poter sbloccare la rigidità della curva degli investimenti.

Su questi punti la Germania non sembra volerlo seguire: torniamo alle ben note implicazioni mercantilistiche congegnate nei trattati. Alla fine, QE insieme con riforme (definitive) flessibilizzanti del lavoro applicate per "POI arrivare al" e, quindi, "prima del" taglio intensivo della spesa pubblica, ai tedeschi non interessano
E non perché non abbiano in effetti già raggiunto in gran parte questi obiettivi, cioè pareggio di bilancio e flessibilità dei salari, anzi. Ma perché a loro dell'effetto spiazzamento realizzabile dagli altri partner UEM non interessa nulla; semplicemente perché operano in una situazione di vantaggio da surplus commerciale che gli consente di accumulare risparmio che non si traduce, come risulta dai dati, in una corrispondente  elasticità degli investimenti, di cui non sono certo dei campioni. "

3. E, riallacciandoci alla premessa, stiamo parlando dei principi fondativi fondamentalissimi di Maastricht scolpiti nella pietra dell'attuale art.3, par.3 del Trattato UE. Quindi di una scelta istituzionale che, da un lato pretende assertivamente di essere superiore alle odiate Costituzioni del welfare, dall'altro, nel negare con ciò la sovranità degli Stati democratici instauratisi (tendenzialmente) dopo la seconda guerra mondiale, assume come irrinunciabile soluzione la devoluzione ulteriore della residua sovranità (praticamente già oggi un simulacro), agevolata dalla riduzione del Parlamento a "mera assemblea ratificante" delle decisioni assunte dai governi, intesi come sub-holding in nome dell'UEM, la quale, a sua volta, già accentra ogni essenziale determinazione monetaria e fiscale nel quadro dell'intensificata realizzazione di ogni possibile manovra nazionale in vista del pareggio di bilancio.

La questione dell'irrinunciabilità dell'ordine istituzionale, e di "valori", instaurato in UEM, impedisce ogni soluzione alla crisi persino nel momento in cui questa colpisce mortalmente persino il sistema degli interessi bancari, a base nazionale, che ha promosso incondizionatamente l'UEM; tale aspetto è, ovviamente, anche una "questione politica della massima importanza", come sottolineava Kalecky, e ha a che vedere con la concezione arcaica del potere insita nel capitalismo lasciato in mano ai neo-liberisti.

4. Sul punto mi riallaccio a questo stralcio di Bazaar: 

"Secondo la "teoria del circuito monetario" (ndr: chiunque la formuli, i suoi effetti strutturali, divengono istituzionalizzabili solo a condizione di negare la sovranità monetaria e statale in genere, accettando la logica normativa dei mercati sovranazionali) lavoratori e famiglie non possono accedere al "credito", altrettanto correttamente inteso come quello "in avvio del circuito": lo può fare solo l'imprenditore; e il credito - in coerenza con il "carattere soggettivo" del valore secondo tradizione reazionaria - dipende dalla "fiducia" che il banchiere concede all'imprenditore. (cfr. JP Morgan al processo sulla "nascita" della Fed)".

Da cui, in risposta, questa ulteriore specificazione (in parte integrata):
Il "circuito monetario"è già idea di una super-etica che pone la creazione di valore, nello svolgimento di qualsiasi attività socio-economica, (in realtà, ormai, anche del mero atto di"consumo") alla mercé di chi ha accumulato, in precedenza e con qualunque mezzo (senza alcuna esclusione, in termini di, pur mutevole, sua liceità) "oro e terra" e tenderà sempre a farne un uso rafforzativo della sua posizione (di "proprietario" allo stato più puro e tradizionale: cioè esattamente il punto di partenza di Hayek di tutto il resto della sua analisi economica e ordinamentale).

Attraverso l'elargizione della fiducia -che contiene in sé sia il concetto di scarsità di risorse (l'accumulo di oro-terra, per quanto enorme è pur sempre un "dato"), che quello di allocazione "efficiente" delle stesse (il fine conservativo è insito nell'equilibrio micro-economico del singolo affare, che diviene parametro unico dell'equilibrio generale dell'economia)-, decisa dal concedente (la fiducia) - si costruisce in profondità, sul piano etico-sociale, il perno morale (praticamente incontestato) di ogni altro valore concepibile (persino la Chiesa vi si è sempre sottomessa e lo stesso rapporto socio-biologico uomo-donna viene posto su questo piano).

La moneta fiduciaria comunitaria (cioè sovrana)è già in sé una leva scardinante questo modello, introiettato automaticamente da "noi", per via di quel controllo culturale totalitario "di tutti i mezzi" (di comunicazione) che predica Hayek: ed è scardinante sia perché ri-disloca nello Stato la titolarità originaria del potere di concedere la fiducia (cioè di avviare ogni processo creativo di ricchezza senza dover perseguire un equilibrio allocativo intrinsecamente conservativo della "data" distribuzione della ricchezza e del potere connesso),, sia perché inevitabilmente abolisce la legittimazione data dal possesso di "oro e terra" rispetto alla titolarità privata ed esclusiva, del potere di concedere la fiducia
L'effetto naturale di questa soluzione sovrana, e pubblicistica nella sostanza economica, al problema monetario, è la funzionalizzazione pubblica dell'intermediazione bancaria, come prescriverebbe l'art.47 della nostra Costituzione.
I banchieri cercheranno sempre di eliminare, istituzionalmente o fisicamente, chi propugni una simile idea...
Naturalmente: qualsiasi operatore economico che, attraverso la creazione di valore (e dunque attraverso il lavoro-merce), abbia accumulato abbastanza "oro e terra" (e poche cose possono dirsi averne preso il posto pur nell'avanzamento tecnologico), tenderà a trasformarsi in banchiere, se è abbastanza lungimirante.

Anche non essendolo (lungimirante, cioè non mirando a divenire finanziere, cosa sempre più rara), peraltro, finché gli affari prosperano, tenderà a volere il gold-standard e a conquistarsi un monopolio, per sperare di governare il problema dell'obsolescenza tecnologica del suo "valore", in quanto organizzatore.

Mentre il valore del lavoro, paradossalmente permarrà, perché intrinsecamente dotato di maggior, seppure non illimitata, mobilità funzionale e fisica: e ciò conferma che la teoria del valore in senso allocativo e marginalista è un'idea statica, incapace di reggere a qualsiasi formulazione di "equilibrio" fondato su di esso."

5. Possiamo dunque dire che la sovranità è la titolarità, da parte di un ente, esponenziale di una certa comunità, - superiorem non recognoscens, cioè che assume di essere libero da condizionamenti da parte di altre entità più "generali"-, del potere di perseguire i propri fini espressamente enunciati come comunitari, (concetto di Westfalia, che non esclude che titolare dell'istituzione che ne consegue sia un monarca ovvero una serie di istituzioni elettive, essendo comunque, ogni possibile titolare, in astratto, legittimato dal perseguimento di tali interessi comunitari).

Ma l'essenza libera, ed effettivamente superiorem non recognoscens, di tale sovranità, la si raggiunge solo svincolando il "tesoriere" del sovrano, comunque "organizzato" o "entificato", dal condizionamento deteminato dal legame della moneta col precedente accumulo privato di terra o oro: in assenza di questa condizione, la sovranità degli enti territoriali è invariabilmente assoggettata alla condizionalità del creditore privato, come mostrano anche le ancora attuali vicende anteriori alla instaurazione del capitalismo produttivo, laddove il principio è che il debito pubblico, verso i privati, ci "debba" essere (e con ciò la necessità di reinstaurare la banca centrale indipendente).
E per esserci, occorre un gold standard o una soluzione monetaria equivalente. 

Da qui l'idea, - che non entra in testa ai filosofi della democrazia, per cui va bene "qualunque" veste e contenuto costituzionale-, che o si ha la sovranità, e questa può esprimersi legittimamente nel perseguire i fini della comunità avendone i mezzi effettivi, o si ha il gold standard, cioè l'euro, e la sovranità popolare (in senso proprio e non pre-moderno) è automaticamente dissolta.

6. Di queste osservazioni, che possono apparire complesse, specie se non si segue il discorso complessivo del blog (che cerco però di riprendere proprio ponendo i links sui vari passaggi), abbiamo una conferma che, come è sempre preferibile, arriva dalla fonte confessoria di chi propugna l'idea proprietaria privata, e strettamente derivante dall'arcaico concetto di detentore di "terra e oro", del privilegio monetario di indirizzare integralmente ogni attività socio-economica e l'assetto che ne consegue (fulcro del potere dell'ancien regime, ma, nella sua evoluzione successiva capitalistica, indifferente, al tramonto della classe feudale-militare come titolare del malloppo delle risorse "date").

Si tratta della famosa (almeno in certi ambiti) Hazard Circular, di cui è agevole accertare l'attendibilità come fonte storicamente attribuibile agli ambienti bancari anglosassoni di fine '800, tanto che il premio di 100 dollari "in oro", attribuibile a chi fosse in grado di attestarne la falsità ideologica e la contraffazione (sulla provenienza), non fu mai riscosso da alcuno. 
Ecco cosa afferma, nei suoi passaggi salienti tale "circolare" (che in base alla fonte sopra linkata fu accompagnata anche da una più ufficiale, e riservata, circolare "bancaria" inviata ai banchieri dell'epoca): 
"Pare che lo schiavismo sarà abolito in conseguenza della guerra [civile americana], e la schiavitù spazzata via. Io e i miei amici europei siamo in favore di questo sviluppo degli eventi, poiché lo schiavismo altro non è che il possesso del lavoro e porta con sé la cura del lavoratore, mentre il piano europeo, indicato dall'Inghilterra, prevede il controllo del capitale sul lavoro mediante il controllo dei salari.Questo risultato può essere raggiunto avendo il controllo sull['emissione dell]a moneta. Il grosso debito risultante dallo sforzo bellico, la cui contrazione i capitalisti si accerteranno che abbia luogo, deve essere utilizzata quale misura per il controllo del volume di moneta [in circolazione]; per ottenere ciò le obbligazioni devono essere utilizzate in qualità di base bancaria. Stiamo ora aspettando che il Segretario del Tesoro faccia una siffatta raccomandazione al Congresso. Non sarà opportuno consentire che il "greenback" [il dollaro emesso negli anni della Guerra civile dal governo americano, slegato da oro e argento], come è chiamato, resti in circolo un solo secondo di più, giacché non possiamo controllarne l'emissione, ma siamo in grado di controllare l'emissione di obbligazioni, e attraverso queste ultime di risolvere il problema bancario....Se tale criminale politica finanziaria, che ha le sue origine nel Nord America, si consolidasse come una pustola, allora il Governo sarà provvisto di proprio denaro senza alcun costo. Potrà ripagare i debiti e agire senza averne.  Avrà tutto il denaro necessario per portare avanti la propria attività economica. Diventerà prospero in un modo senza precedenti nella storia del mondo.Un tale Governo deve essere distrutto, o distruggerà ogni monarchia del globo".

7. A questo punto del discorso parrebbe inutile precisare che la "distruzione di ogni monarchia", siamo nella seconda metà del XIX secolo, è una previsione che riposa sul fatto che la monarchia, come sistema istituzionale, risultava pienamente già controllata, nella sua sovranità, dall'adozione del gold standard, sicché essa è identificata come il sistema di governo che agevolava maggiormente il controllo del sistema bancario-monetario privatizzato su qualsiasi istituzione

Questa visione implica il controllo istituzionale dell'assetto sociale, proprio dell'economia neo-classica, e muove sempre dall'arcaico presupposto implicito sopra evidenziato (conservativo e allocativo di risorse già "date" e incrementabili solo a danno di altre comunità sociali. mediante l'esportazione netta in regime di vantaggi comparati, teoria inevitabilmente alla base dell'attuale TTIP);  di questo controllo istituzionale cerca soltanto una giustificazione attraverso la matematizzazione scientista (che non convinse i nostri Costituenti che rigettarono esplicitamente tale "scienza dell'800"),  arrivando a esplicitare l'idea che il controllo sull'emissione della moneta sia più efficace, rispetto al fine di controllare il livello dei salari, cioè dei costi da attribuire al mantenimento in vita della forza lavoro, dello stesso schiavismo (gestito nell'ottica manutentiva del proprietario e non del contraente-datore del contratto di lavoro apparentemente concluso da parti in posizione formale di parità).

8. Senza ulteriormente approfondire il discorso, opera che Bazaar ha in vari post abbondamente  compiuto, pare a questo punto comprensibile come Draghi non sia in grado di offrire soluzioni ma solo di denunciare i problemi che derivano da una visione immutabile, alle condizioni politiche attuali.

Esattamente come gli economisti neo-classici nel periodo seguente alla crisi del 1929, che dovevano o affermare che le crisi del sistema dei mercati, determinate da "scarsità della domanda", non possono per definizione determinarsi, o che queste hanno la positiva funzione di costituire un'opportunità di "sano aggiustamento" (accedendosi, esattamente come oggi, nell'idea del pareggio strutturale del bilancio pubblico). 
Salvo sbagliare costantemente ogni calcolo e trovarsi di fronte alla stagnazione secolare. E alla seconda guerra mondiale...






TTIP: IL PROBLEMA NON E' LA PRASSI DEL "CATTIVO" GLOBAL CAPITALISM MA LA COMPETENZA UE.

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1. Riprendendo l'esposizione in precedenza già fatta (e legata, in quel caso, al non trascurabile aspetto valutario e monetario dell'eventuale conclusione del TTIP), ci pare opportuno rammentare quale sia il quadro delle norme dei trattati europei circa la conclusione di accordi commerciali c.d. di "libero scambio". E lo faremo ripetendo più volte concetti già esposti, dato che repetita iuvant, specialmente nel caso in cui ci si ostini a sbagliare  
E' importante capire questo sistema normativo, perché solo in base a tale comprensione è possibile avere la consapevolezza di quale sia il livello di mutamenti dell'assetto sociale previsto in precedenza dalla Costituzione (perché questo dovrebbe essere il problema prioritario di cui rendersi conto), al quale siamo esposti per il mero fatto di aver aderito all'Unione europea.

In altri termini, non è, di per sé, la prassi internazionale negoziale imposta dalle forze del mercato globalizzato che costituisce la minaccia alla democrazia costituzionale del welfare, ma è, piuttosto, la legittimazione, - vincolante e assorbita nelle competenze tecnocratiche delle istituzioni non elettive UE-, che il trattato UE dà all'introduzione di tali prassi negoziali: sono i trattati che eliminano la valutazione autonoma delle istituzioni democratiche dei singoli Stati membri e che prevedono una "superiore" competenza a concludere trattati commerciali previsti, sempre dai trattati UE, come insieme di regole direttamente vincolanti nella realtà sociale degli Stati aderenti all'Unione.

2. Se dunque non ci fossero le norme dei trattati europei che consentono all'Unione certi oggetti di negoziazione e con certe procedure esclusivamente "europee", i cui esiti sono immediatamente vincolanti per i cittadini dei singoli Stati, la conclusione di accordi di libero scambio sarebbe soggetta alla competenza dei singoli Stati che dovrebbero singolarmente negoziare trattati di tale tipologia
Ma i singoli Stati dovrebbero necessariamente esercitare tale competenza sottoponendo la conclusione di tali trattati alle condizioni che dettano le norme costituzionali nazionali circa i possibili contenuti considerati legittimi alla luce di un interesse nazionale.
Ciò, per quanto riguarda il nostro ordinamento, è reso evidente avendo riguardo al testo dell'art.11 Cost.; tale norma, (rientrante fra i principi costituzionali non soggetti neppure a revisione ex art.138 Cost.), secondo l'inequivoca lettura datane dai lavori dell''Assemblea Costituente, rende in radice molto difficile giustificare la conclusione di accordi puramente economico-commerciali che non siano direttamente e obiettivamente legati alla "pace e alla giustizia fra le Nazioni""in condizioni di parità con gli altri Stati".

3. Schematizzando la intenzionale verbosità e oscurità delle previsioni dei trattati, emerge che, in base all'art.216 del TFUE, "Gli accordi conclusi dall'Unione vincolano le istituzioni dell'Unione e gli Stati membri...qualora i trattati lo prevedano...".

In materia di  "politica commerciale comune" i trattati lo prevedono: precisamente all'art.207 del TFUE, innescando l'incombente vincolo diretto derivante da trattati in materia "commerciale" per gli Stati e, di conseguenza, per gli stessi cittadini europei. 
E quali oggetti rientrano in tali potenziali trattati che l'UE può concludere (con procedure speciali e, ribadiamo, direttamente vincolanti), sempre in base allo stesso art.207?
E' presto detto. Si tratta di: 
"accordi tariffari e commerciali relativi agli scambi di merci e servizi, e gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale‚ gli investimenti esteri diretti, l'uniformazione delle misure di liberalizzazione‚ la politica di esportazione e le misure di protezione commerciale‚ tra cui quelle da adottarsi nei casi di dumping e di sovvenzioni."

4. Prima immediata conseguenza di tale competenza attribuita all'UE e auto-sottrattasi dagli Stati aderenti è che tutti gli oggetti di scambio e gli obiettivi di "liberalizzazione" posti dalla norma europea sono divenuti non solo "legittimi" ma proprio doverosi
E questo prescindendosi dal vero e dimenticato problema, che è quello se questa "autosottrazione" di sovranità sia conforme ai principi costituzionali fondamentali, la cui violazione abrogativa avrebbe impedito di aderire a un trattato contenente una simile devoluzione "in bianco" di poteri negoziali sovrani: proprio in quanto relativi al perseguimento di diritti fondamentali di prestazione sociale, cioè attinenti ai doveri costituzionalmente sanciti dello Stato di diritto costituzonale. 

L'obiettivo della politica economica internazionale dei singoli Stati, a seguito dell'istituzione dell'UE, è perciò irrevocabilmente mutato in deroga ad ogni eventuale diversa previsione delle Costituzioni nazionali, non solo in tema di conclusioni di trattati, ma proprio con riguardo alle norme, sempre costituzionali, che, per certi settori di produzione di merci e specialmente di "servizi", possano imporre regole improntate all'interesse pubblico (nel caso italiano, fondamentalmente per la proiezione del principio lavoristico che caratterizza, in termini di tutela del lavoro e di perseguimento della piena occupazione, tutto il sistema costituzionale).

5. Questa competenza devoluta all'UE, - e affermata come vincolante, con pretesa prevalenza sui limiti costituzionali di liceità dei trattati internazionali rispetto alle norme ordinatrici fondamentali dell'assetto socio-economico nazionale-, è ben precisata anche con riguardo ai "servizi" considerati fonte di prestazioni pubbliche a tutela di diritti fondamentali quali la salute, cioè il sistema del servizio sanitario pubblico universale, la previdenza, cioè il sistema pensionistico pubblico, e l'istruzione, come organizzazione scolastica universale erogata dall'organizzazione pubblica.
Se qualcuno avesse dei dubbi su tale effetto, scaturente appunto dalla mera adesione al trattato UE, basta leggersi il paragrafo 4, secondo alinea, dello stesso art.207 (poniamo in neretto la parte chiaramente attributiva del potere negoziale all'UE). 

Per introdurre norme vincolanti che privatizzino, cioè "liberalizzino", i settori in questione, ponendoli sotto il controllo produttivo delle multinazionali finanziarie, l'unico limite è quello dell'unanimità in sede di Consiglio UE (cosa che, sull'esperienza finora avutasi delle regole fiscali "austere" che hanno devastato la crescita e l'occupazione in €uropa, non pare un grande ostacolo): 
"Il Consiglio delibera all'unanimità anche per la negoziazione e la conclusione di accordi:
a) nel settore degli scambi di servizi culturali e audiovisivi, qualora tali accordi rischino di arrecare pregiudizio alla diversità culturale e linguistica dell'Unione;
b) nel settore degli scambi di servizi nell'ambito sociale, dell'istruzione e della sanità, qualora tali accordi rischino di perturbare seriamente l'organizzazione nazionale di tali servizi e di arrecare pregiudizio alla competenza degli Stati membri riguardo alla loro prestazione."

Attenzione. Il rischio di "perturbare seriamente l'organizzazione nazionale di tali servizi" non è fonte di alcun obbligo istituzionale di giustificazione e ponderata motivazione circa i presupposti per cui intraprendere tali privatizzazioni, magari da sottoporre al vaglio dei singoli elettorati: è solo il presupposto che autorizza il metodo dell'unanimità in seno al Consiglio da cui scaturisce, senza alcuna altra formalità deliberativa, il vincolo per i singoli Stati.

6. Dunque, non è esatto, dal punto di vista giuridico e politico, che il pericolo dell'abolizione privatizzatrice di sanità, pensioni e istruzione pubbliche, gestite dagli Stati in nome di superiori (in precedenza) norme costituzionali fondamentali, scaturisca dalla "prassi" definitoria adottata nelle precedenti negoziazioni di liberoscambio relativa ai cosa debba intendersi per servizio pubblico (si dice: "L’escamotage risiede nella definizione di «servizio pubblico» adottata in questi accordi. Una definizione che si basa su due negazioni: 
a) non è servizio pubblico, quello la cui erogazione può essere effettuata anche da soggetti diversi dall’autorità di governo; 
b) non è servizio pubblico, quello per la cui erogazione è previsto un corrispettivo economico, anche una tantum. 
Da queste designazioni emerge chiaramente come l’istruzione e la sanità non vanno considerate servizi pubblici, in quanto possono essere erogati anche da soggetti privati, così come l’acqua, l’energia, i rifiuti e il trasporto pubblico, in quanto per la loro erogazione è previsto il pagamento di una tariffa.).

7. Una volta attribuita la competenza alle istituzioni UE, nei termini inequivoci sopra riportati, basta l'unanimità del Consiglio a superare ogni ostacolo.
Rimane una sola via praticabile di "resistenza"a questo mutamento liberoscambista dell'assetto socio-economico: quella di respingere la norma del trattato sulla competenza UE, per la sua illegittimità costituzionale, in base alla inderogabilità delle norme costituzionali interne, quale affermata nella "teoria dei controlimiti" dalla nostra Corte costituzionale: è questa norma che risulta pregiudizialmente illegittima, non l'inevitabile assetto negoziale che, aderendo al trattato UE, si è inteso rendere immediatamente vincolante per gli Stati aderenti, accettando quei contenuti di legittima negoziazione attribuita all'UE.

8. Questo assetto negoziale, infatti, una volta assunto nella competenza UE, può essere contestato solo per l'eventuale contrarietà al trattato. 
Che però, come dovrebbe essere evidente, non contiene norme fondamentali impeditive di tali privatizzazioni di servizi, subordinando ogni altro principio, ammesso che esista (e non esiste), alla instaurazione di una economia sociale di mercato fortemente competitiva.

Per chi avesse dei dubbi invitiamo a leggersi l'art.218 del TFUE, che specifica la procedura prevista dall'art.207 cit. per la conclusione degli accordi commerciali, e che, confermando il solo limite procedurale dell'unanimità in seno al Consiglio:
a)  include una "approvazione" del Parlamento europeo (che in effetti risulterebbe già nel caso  coinvolto, ancorché l'art.207 parrebbe derogare a tale onere procedurale) (art.218, par.6);
b) consente al singolo Stato di opporsi alla conclusione del trattato (e della sua diretta vincolatività per gli Stati) facendo mancare l'unanimità e sottoponendo alla Corte di giustizia UE la questione della compatibilità del nuovo trattato commerciale con il quadro degli stessi trattati europei (art.218, parr.8 e 11). 
Esclusa dunque ogni eccezione relativa alla incompatibilità del nuovo trattato "commerciale" con le norme fondamentali delle rispettive Costituzioni.

LA TEORIA DELLA DISOCCUPAZIONE TECNOLOGICA E LE SUE "INCREDIBILI" CONDIZIONI DI VALIDITA'

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1. L'argomento è tra i più sdrucciolevoli e ingannevoli. Se non si ha ben saldo il concetto di democrazia e di mercato del lavoro come oggetto della tutela dello Stato per evitarne la mercificazione, se non si comprende più la lezione keynesiana, ci si cade con tutte le scarpe, come si suol dire.
Sentite questo ragionamento, ("Il web sta uccidendo la classe media"), che risulta della massima efficacia per distogliere l'attenzione dal problema del conflitto sociale, determinato dalla istituzionalizzazione del controllo neo-liberista o "offertista" sugli Stati ex-sovrani:
"...Negozi che muoiono, asfaltati da Amazon e le sue sorelle. Lavoratori che assistono all'inabissamento dei loro salari, prima parametrati ai cinesi, ora al software. Conclusione (sofferta e provvisoria): «Per quanto mi faccia male dirlo, potremo anche sopravvivere distruggendo solo la classe media composta da musicisti, giornalisti e fotografi. Ciò che non è sostenibile è la distruzione di quella che lavora nei trasporti, nella manifattura, nel settore energetico, nell'educazione e nella sanità, oltre che nel terziario. E una tale distruzione accadrà, a meno che le idee dominanti sull'economia dell'informazione non facciano dei passi avanti». Fine dell'innocenza. La reazione immediata a questo atto d'accusa è una scrollata di spalle: è il progresso, bellezza! Nella prima rivoluzione industriale i telai hanno fatto fuori gli operai tessili, oggi i computer rimpiazzano professionisti d'ogni ordine e grado. Ma ci sono differenze sostanziali.
Quando si è passati dalla carrozza all'auto c'era sempre un uomo al volante, mentre l'imminente driverless car farà a meno anche di lui. Prima i robot alleviavano il lavoro pesante dei colletti blu, ora l'algoritmo rende superfluo quello leggero e creativo dei colletti bianchi. E poi, fino a una certa data, più efficienza (dovuta largamente all'automazione) significava un'economia più florida. Magari uno perdeva il posto in manifattura e ne trovava un altro nei servizi. Neppure quelli sono più un rifugio. Un dato da mandare a memoria: dal dopoguerra al 2000 produttività e occupazione crescono di pari passo. Dopo, la seconda curva si affloscia perché le macchine corrono troppo in fretta, hanno bisogno di meno uomini e questi non ce la fanno ad acquisire le competenze per star loro dietro
È il Grande Disaccoppiamento di cui parlano Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, due professori del Mit, in The Second Machine Age . Il Pil complessivo cresce, il salario medio no. Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, docenti a Oxford, hanno calcolato che il 47 per cento dei mestieri attuali negli Stati Uniti è a rischio estinzione per l'informatizzazione. Lo strappo è violento e rapido. Lanier è tra i primi a infrangere il tabù per cui internet e benessere economico".

2. Dovrebbe essere evidente che un ragionamento del genere riposa su alcune premesse istituzionalizzate che, una volta verificate, lo smentiscono radicalmente e ne rivelano l'implicita premessa, che è poi il paradigma che si vorrebbe affermare, con l'aria di volerlo combattere.
Queste premesse sono le seguenti:
a) che il settore manifatturiero sia illimitatamente robotizzabile, in base ad uno sviluppo di crescenti investimenti innovativi, sempre più convenienti, che farebbero salire la produttività a scapito dell'occupazione;
b) che i settori "energetico", dei trasporti, dell'educazione e della sanità, possano soltanto essere settori di mercato privato e, in aggiunta, integralmente erogabili, nella decisione lasciata a operatori privati, mediante la "tecnologia dell'informazione"; cioè essenzialmente trasformando la prestazione umana di utilità, in cui consistono, in informazioni trasmissibili mediante la rete. Parliamo, per capirci, della diagnosi medica e della terapia ovvero dell'assistenza ospedaliera, della trasmissione progressiva di conoscenza secondo un percorso di cui occorre scegliere i contenuti e i gradi di crescente complessità, dello spostamento fisico delle persone che può rispondere a bisogni lavorativi essenziali o invece solo di impiego leisure del tempo libero;
c) in sintesi, che l'effettuazione degli investimenti sia indipendente dalla domanda aggregata effettiva; e, quindi, dal livello diffuso del reddito della comunità sociale di cui si ristruttura, secondo le nuove "inarrestabili" tecnologie, produttive di questi asseritamente "identici" prodotti o servizi, il mercato del lavoro;
d) che, dunque, in modo sostanzialmente lineare, l'applicazione del capitale tecnologico sia sempre cresciuta;
d) infine, che questa crescita "lineare" si sia verificata sempre e comunque per effetto della spontanea evoluzione della produzione privata, nei vari settori di mercato.

3. Sul punto a), proprio in relazione alla realtà economica USA, ci giunge invece questa smentita: dopo il 2000 gli investimenti in capitale produttivo non aumentano, ma anzi, essenzialmente, crescono meno del PIL:


Quella che aumenta, invece, è proprio l'occupazione nel settore dei servizi e a scapito di quella nel settore manifatturiero, la cui "decimazione" non pare poter essere legata, appunto, a presunti massicci investimenti innovativi, che non risultano essere effettuati (come vedremo meglio poi parlando del settore dei servizi a "salario minimo"):


Tanto più che, negli USA, a partire dagli anni '50 (!), l'andamento decrescente dell'occupazione manifatturiera assume un carattere alquanto costante che smentisce una sua correlazione, in termini di significativa contrazione, con le innovazioni tecnologiche 2.0:
4. E infatti, questo è l'andamento del contributo del manifatturiero USA al PIL, a partire dagli anni '60, che descrive una tendenza che precede di gran lunga, in modo del tutto autonomo, la information technology:


"Curiosamente", l'innovazione tecnologica più recente, che pure non dovrebbe essere mancata, nel settore dei macchinari agricoli e della chimica nonché, degli stessi OGM, non ha determinatoproprio negli ultimi decenni del secolo scorso, un'equivalente riduzione dell'occupazione nel settore agricolo (che infatti si assesta, arrestando il suo precedente declino, proprio nel periodo di inizio della "nuova" rivoluzione tecnologica):
5. Ma quel che è più interessante, per verificare la validità della teoria supply side che ci offre, appunto, lo scenario della robotizzazione-informatizzazione del mercato del lavoro, è il riscontro delle prospettive occupazionali più recenti del mercato del lavoro USA, conseguente alla crisi del 2008. 
Lo scenario che ne emerge racconta tutt'altro, rispetto alla teoria della robotizzazione:

Costruzioni, manifatturiero di beni non durevoli (quelli che risentono appunto maggiormente della concorrenza dei paesi a più basso costo della manodopera), e impiego pubblico, incluso quello "educativo", sono i settori più colpiti dalla crisi: e non pare certo perché si sia inserita la information-tecnology, dato che si tratta di contrazioni verificatesi più intensamente dopo la recessione, e obiettivamente accoppiate al calo dei redditi da lavoro che si accompagna alla espansione dell'occupazione nel settore dei servizi più "elementari"(addetti al settore del cibo e della distribuzione a bassi prezzi).
Cioè al perseguimento di un aumento della produttività che è quanto di più arcaico e tradizionale nello schema della teoria del valore neo-classica (pp. 5-6).
Abbiamo infatti l'espansione dell'occupazione nel settore meno tecnologico e meno "informatizzato" possibile, in cui sono state notoriamente riassorbite categorie di lavoratori che, in precedenza, avevano dignità di "impiegati", presso il governo o presso imprese...manifatturiere (che però hanno chiuso o delocalizzato: non si sono certo robotizzate).

6. Il problema secondo indicazioni più scientificamente fondate, sta nel mercato del lavoro incentrato sulla deflazione salariale, determinata da delocalizzazioni e precarizzazione, cioè dalla liberalizzazione dei capitali e dalla finanziarizzazione dei consumi (che devono trainare il PIL ma fruttare come "debito delle famiglie"). 
Il sistema si complementa con la valvola di sicurezza del salario minimo per (tentare di) riassorbire la domanda perduta, con la "strisciante" (sempre meno) de-scolarizzazione di massa, e la prospettiva di insolvenza finanziaria legata all'equilibrio della sotto-occupazione, ma con uno spiazzamento degli investimenti che è l'esatto opposto di quello assunto dalla teoria della robotizzazione e dell'innovazione 2.0

"Significa che cresceranno proprio quei lavori (nei servizi destinati a consumatori di medio-basso reddito) che sono incentivati dal tipo di domanda aggiuntiva che genera tale aumento salariale "d'autorità"; una domanda orientata ai consumi sui servizi a bassa intensità di capitale, con un evidente spiazzamento degli investimenti, sempre più legati ad un settore che non risolve il problema della competitività e dei conti con l'estero.. Lo si può vedere qui:
http://www.massbudget.org/reports/images/836/image1.png

7. Insomma, il mito della varie "intelligenze artificiali" che rendono superfluo l'uomo, non regge neppure al riscontro dei fatti addotti per giustificarlo, mentre le altre condizioni, sopra viste, che esso presuppone, non sono prese seriamente in considerazione neppure dai più seri e qualificati economisti USA, come avevamo visto qui:

In realtà, il fenomeno della perdita di posti di lavoro non più ricreabili, nel nuovo presunto trend di ripresa economica, investirebbe, per la verità da decenni, anzitutto il settore manifatturiero, (prima ancora dei "servizi"), laddove cioè la robotica ha spiegato i suoi primari effetti. 
Ma le ragioni di questa perdita di posti di lavoro, se correttamente connesse a delocalizzazione deflazione salariale, come evidenziano Stiglitz e Krugman, e come in realtà sottointende laYellen, (quindi, in definitiva alla liberalizzazione del mercato dei capitali), sono rinvenibili in fattori che incidono essenzialmente e gravemente sulla domanda; cioè la disoccupazione strutturale è dovuta a quell'output-gap che discende dall'idea che la diffusione della disoccupazione sia un "sano" elemento che rende elastico verso il basso, e quindi "virtuoso", il mercato del lavoro e che a ciò debba essere strettamente funzionale la limitazione dell'intervento-deficit pubblico.

Su questa idea rigidamente neo-classica, in ultima analisi, la versione dei fatti qui criticata, insiste come implicita necessità: dallo small business diffuso in dissoluzione, alla stessa scarsa (se non sprezzante) considerazione delle utilità (merit goods) che solo il settore pubblico può fornire, tutta la ideologia economica neo-classica congiura per una visione del mercato del lavoro e della domanda aggregata esclusivamente asservita al criterio della competitività realizzabile solo dai privati, accompagnata alla negazione di ogni valore dei beni e dell'interesse collettivi: che importa se gli USA, pieni di intelligenza artificiale, vanno in tilt ad ogni forte nevicata, per non parlare dei vari tornados?
Vogliono forse gli "zotici", per di più inadeguati professionalmente alle nuove frontiere della tecnologia, essere tenuti sempre al riparo dalla "durezza del vivere", anche nelle sue più, asseritamente naturali manifestazioni? 

Stiglitz e la Yellen, più che guardare all'economia del tempo libero e agli standards normativi impositivi di forme di protezione ambientale (da riversare poi mediante traslazione sui prezzi), sanno perfettamente quale sia il valore da attribuire al ritardo di adeguamento delle infrastrutture pubbliche ed all'indebolimento delle "funzioni pubbliche" di presidio minimo del territorio, cose che nei capitalismi avanzati - invariabilmente neo-liberisti, se non tea-party- o sono intese come occasione di vantaggio del business privato, con costi crescenti per i cittadini-utenti, o semplicemente non sono più prese in considerazione come oggetto di politiche di spesa pubblica.

8. E ci piace riproporre, da quello stesso post, la sottolineatura di Cesare Pozzi, circa la prevalenza del fattore istituzionale, cioè delle decisioni politiche di chi "controlla" lo Stato, rispetto all'aspetto occupazionale:
D. Si sostiene che l'attuale disoccupazione diffusa, nei paesi a capitalismo "maturo", è essenzialmente dovuta agli effetti dell'applicazione delle nuove tecnologie nei modelli di impresa evolutisi negli ultimi anni: è una valutazione realistica o fuorviante?
R. La domanda sottende uno dei principali "bachi" della teoria ortodossa.
L'economia di mercato che la maggior parte dell'Umanità ha in cuore - perché è liberale, quindi non vincola il destino terreno dell'uomo alla sua dotazione iniziale di diritti, e promette un benessere diffuso su una quota mai raggiunta della popolazione di ogni Comunità - si basa su una particolare declinazione del capitale che ne enfatizza la dimensione artificiale e perciò può essere detta "capitalistica". Su questa falsariga se l'applicazione di nuove tecnologie riduce la necessità di occupare in alcuni mercati, apre lo spazio per nuovi mercati e per l'aumento del tempo libero


Il problema della disoccupazione si crea a causa degli assetti istituzionali, quando sono il risultato di teorie normative che discendono da teorie economiche non coerenti con i propri presupposti (se si spacciano per liberali) e quindi male regolano tutti gli aspetti critici che si vengono a creare, comunità per comunità, lungo il tempo storico

D. Se esiste una correlazione stimabile, rispetto all'intero mercato del lavoro, tra la diminuzione degli occupati e l'applicazione delle innovazioni tecnologiche, questo effetto non dovrebbe rallentare in un periodo in cui una vasta e prolungata recessione, dovuta a cause iniziali essenzialmente finanziarie e poi a politiche fiscali restrittive, determina naturalmente una caduta degli investimenti produttivi (lamentata in tutte le aree, dall'UE al Giappone)?
Il fatto che non ci sia questo rallentamento è il segnale che alla nostra crisi strutturale si sta rispondendo in questa fase generando la maggior pressione possibile sul lavoro in modo da consolidare l'idea che sia tornato una merce. Quando la situazione di rassegnazione si sarà affermata si cercherà di arrivare a un assetto di occupazione diffusa a basso reddito. E' significativo in questo senso l'enfasi che si è posta sui dati italiani relativi alla distribuzione del reddito (che sono tra i meno diseguali nel Mondo occidentale) rispetto al silenzio sul fatto che 85 persone possiedono quanto la metà più povera dell'umanità (che mi sembra in linea con quanto dico).

9. Che è poi, in termini più generali, quello che riportava il post Flags of Our Fathers- 3, nel sottoriportato passaggio del giurista americano John W. Whitehead sull'Huffington post (edizione USA). 
Se il territorio, e la stessa dimensione comunitaria della società che su di esso vive, con la sua necessità "indivisibile" di infrastrutture legate al benessere essenziale dei cittadini, viene abbandonato dalla mano pubblica e governato da quella "invisibile", se cioè si privatizzano, nella loro parte preponderante, sanità, istruzione, utilities e trasporti, non viene solo a mancare il benessere, ma la disoccupazione e la sottoccupazione divengono un fattore strutturale di controllo sociale, che non ha mai avuto bisogno delle presunte rivoluzioni tecnologiche per affermarsi:

[...] Oggi viviamo in un sistema a due livelli di giustizia e di governance. Ci sono due tipi di leggi: uno per il governo e le imprese, e un altro per voi e per me (…) le leggi che si applicano alla maggior parte della popolazione consentono al governo di fare cose come controllarvi il retto durante una sosta lungo la strada, o ascoltare le vostre telefonate e leggere tutti i messaggi e-mail, o incarcerarvi a tempo indeterminato in una cella di detenzione militare (…) poi ci sono le leggi costruite per l'élite, che permettono ai banchieri che fanno cadere l'economia di camminare liberi [...]” un pensiero al quale è accomunato anche il giurista di Harvard Larry Lessig, quando scrive che viviamo in un mondo in cui gli architetti della crisi finanziaria cenano regolarmente alla Casa Bianca". 



WOLF E LA MANCATA COMPRENSIONE DELLA DEFLAZIONE E DELL'ORDOLIBERISMO €UROPEO: NON SOLO TEDESCO

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1. Un articolo di Martin Wolf sul Financial Times, almeno nelle sue premesse, parrebbe avvalorare (in buona parte), sul piano storico ed economico, l'analisi compiuta su questo blog e, più ampiamente, ne "La Costituzione nella palude".
Wolf, dopo aver sintetizzato lo scontento tedesco per le politiche BCE di QE e di interessi negativi, evidenziandone la natura essenzialmente politica, e la contraddittorietà se non l'infondatezza sul piano economico (almeno nell'evidenziare le effettive responsabilità per la deflazione, o mancata re-flazione, nell'eurozona), soggiunge
"Tutto ciò si accorda con la visione convenzionale tedesca. Come argomenta Peter Bofinger, un membro "eretico" del Consiglio di esperti economici della Germania, tale tradizione risale a Walter Eucken, l'influente padre dell'ordoliberismo del dopoguerra. In questo approccio, la macroeconomica ideale ha tre elementi: pareggio di bilancio in (quasi) ogni periodo; stabilità dei prezzi (con una preferenza simmetrica per la deflazione); e flessibilità dei prezzi.Questo è un approccio ragionevole per una piccola economia aperta. Risulta praticabile per un un paese più grande, come la Germania, con delle industrie altamente competitive di beni esportabili. Ma non può essere generalizzato all'economia di un intero continente, come l'eurozona. Ciò che funziona per la Germania, può non funzionare per un'economia tre volte più grande e molto più chiusa al commercio estero (ndr; supponiamo intenda "molto meno orientata alle esportazioni").Da notare che nell'ultimo trimestre 2015, la domanda effettiva nell'eurozona è stata del 2% più bassa che nel primo trimestre del 2008, laddove la domanda USA è risultata del 10% più alta. Questa forte debolezza della domanda latita dalla maggior parte delle lamentele tedesche. La BCE sta giustamente tentando di impedire una spirale deflattiva in un'economia sofferente di debolezza cronica della domanda..."

2. Vi risparmio l''ulteriore sviluppo di questi argomenti, che si incentrano sulla insostenibilità di un'intera eurozona che si trasforma in un "Germania più debole" (dal punto di vista della capacità mercantilistica), e sul conseguente surplus di risparmio che, mediamente (in una non troppo affidabile considerazione globale dell'eurozona), è raggiunto dal settore pubblico, da quello produttivo e dalle stesse famiglie, e che non si traduce in investimenti. 
In sostanza, con un evidente bias implicito monetarista e post-keynesiano, (come abbiamo visto qui, p.2), Wolf descrive la secular stagnation, più correttamente aveva analizzata da Hansen, incentrando la sua analisi sul fenomeno deflattivo, o meglio della bassa inflazione: solo che poi ritiene un successo, sebbene parziale, il presunto livello, prossimo all'1%, dell'inflazione che avrebbe ottenuto Draghi con le sue policies monetarie espansive. 

3. E qui, si scolla dalla realtà, sopravvalutando l'effetto BCE e dimenticando le cause strutturali della deflazione nell'eurozona, cioè definendo una debolezza della domanda focalizzata solo sulla "domanda di investimenti"(cioè sul riflesso della teoria supply side) e dimenticando il mercato del lavoro che, infatti, non menziona mai neppure per un momento (per non parlare dei commentatori che si abbandonano a un festival dell'illustrazione della legge dell'offerta&dell'offerta, arrivando a lodare la Germania, perché non è colpa sua se i PIIGS non sanno investire e far fruttare gli investimenti esteri degli altruisti tedeschi!). Infatti, alla faccia del parziale successo richiamato da Wolf, questa è la situazione, aggiornata all'intero 2015, dell'inflazione nell'eurozona (rilevazione Eurostat):


4. Il fatto è che Wolf si basa su questo modello previsionale, che attribuisce molta parte della causazione della deflazione ai prezzi dei prodotti petroliferi-energetici (per cui eliminata la fase dei minimi, l'inflazione del 2016 dovrebbe approssimarsi all'1%); un modello che già a maggio 2015 aveva fatto "strillare" al ritorno dell'inflazione gli incauti ma interessati operatori finanziari:

Cosa che gli avrebbe imposto di cercare ragioni molto diverse per spiegare le dinamiche dell'economia, dell'occupazione e degli investimenti dell'eurozona, constringendolo a esaminare gli effetti delle "riforme strutturali" (certo imposte dalla Germania, nella contingenza storico-politica, ma imputabili all'oggettiva applicazione dei trattati e alla concorde volontà applicativa di tutti gli Stati dell'eurozona). Proviamo a suggerirgli che la domanda effettiva, neppure limitandola alla sola considerazione degli investimenti, non può dipendere da politiche espansive della moneta da parte della Banca centrale che, come ammette ormai lo stesso Draghi, non si trasmette all'economia reale, se non ammettendo l'errore delle "riforme strutturali", fiscali e del mercato del lavoro. Una "dritta": se non c'è domanda, gli impianti produttivi sono crescentemente sottoutilizzati e la domanda di energia, inesorabilmente, cala:

"Main statistical findings

Euro area annual inflation is expected to be -0.2 % in April 2016, down from 0.0 % in March.
Looking at the main components of euro area inflation, services is expected to have the highest annual rate in April (0.9 %, compared with 1.4 % in March), followed by food, alcohol & tobacco (0.7 %, stable compared with March), non-energy industrial goods (0.5 %, stable compared with March) and energy (-8.6 %, compared with -8.7 % in March).
File:Euro area annual inflation and its main components, 2006-April-2016 e rev1.png
5. Concludendo il discorso: non basta accusare l'ordoliberismo di inadeguatezza e farne l'oggetto della critica ad una politica "sbagliata", per l'intera eurozona, addossabile alla sola Germania.

L'ordoliberismo è, in realtà, il sub-strato essenziale di tutto l'assetto normativo e istituzionale dell'eurozona: anzi dell'intera impalcatura dei trattati "almeno" da Maastricht in poi: esso va molto al di là dei 3-principi-3 richiamati da Wolf e si riassume in un'idea della forte competizione (commerciale) tra gli Stati dell'Unione, e a maggior ragione dell'eurozona, improntata sulla stabilità monetaria - interna all'eurozona, su cui non influisce minimamente la svalutazione esterna perseguita da Draghi con il QE- e alla stabilità dei prezzi unita all'idea della "piena occupazione" in senso neo-classico: cioè raggiunta attraverso la piena flessibilità verso il basso delle retribuzioni e, quindi, implicante qualsiasi, ma proprio qualsiasi, livello di disoccupazione compatibile col target inflattivo perseguito come "sano" e di equilibrio.

6. Forse Wolf dovrebbe sapere che, secondo lo stesso Draghi, l'area valutaria fondata sulla (sola) banca centrale indipendente, è fermamente fondata sui principi dell'ordolibersismo medesimo (che secondo lo stesso Roepke, non avrebbe una funzione politica diversa da quella della restaurazione strategica di un assetto istituzionale fondato sui mercati e sul sistema dei prezzi, cioè neo-liberista tout-court). 
Infatti: 
Questa conclusione sul ruolo dell'ordoliberismo (alquanto lineare per un osservatore non superficiale) può trovare un'autorevole interpretazione autentica nelle stesse complessive parole di Draghi:
"In this context, it is worth recalling that the monetary constitution of the ECB is firmly grounded in the principles of ‘ordoliberalism’, particularly two of its central tenets:
  • First, a clear separation of power and objectives between authorities; 
  •  And second, adherence to the principles of an open market economy with free competition, favouring an efficient allocation of resources."
- sia nel costante e significativo invito all'effettuazione di riforme strutturali che altro che non sono che il completamento del mercato del lavoro auspicato come "essenza autosufficiente" della rivendicazione liberista.

7. Insomma, l'intero assetto istituzionale dell'eurozona è un manuale per la restaurazione della secular stagnation e l'esito deflattivo odierno ne è solo una conseguenza programmatica, imprudentemente data per scontata; la "colpa" della Germania non può perciò essere fatta consistere nel fatto che gli altri paesi-partners, che hanno dato vita a questo assetto fondamentale dei trattati europei, abbiano incondizionatamente e coscientemente aderito a tale visione. Cioè all'ordoliberismo.
Se questo è un problema, la BCE ne è magna pars. E la Germania solo uno degli attori principali che inscenano questo assetto istituzionale; ma né lei né gli altri, manifestano né la consapevolezza nè la volontà di por fine alla "recita". 


L'ANTICA INCOMPRENSIONE DELL'€UROPA E L'ITALIA INDIFESA DI OGGI

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1. Il commento di Bazaar che precede ci offre una chiave di lettura generale del problema che stiamo per affrontare.
Ovverosia, cosa sia stata, da sempre, la costruzione europea e quali forze l'abbiano costantemente guidata e sospinta verso l'esito attuale. Naturalmente questa questione è affrontata ne "La Costituzione nella palude": ma appare utile tornarci su, in quanto i dati storici e istituzionali che risultano rilevanti nel definirla sono talmente numerosi che sarebbe stato impossibile racchiuderli in un unico libro (passabilmente) divulgativo, a pena di esporre il lettore a una sovralimentazione di elementi attinti dalla scienza economica, politica e soprattutto dalla giurisprudenza. 
Una continua ed ulteriore elaborazione arricchita di nuovi dati e conseguenti approfondimenti dell'analisi è in fondo il senso di questo blog (almeno finché rimarrà operativo, grazie anche al contributo di commentatori così attenti e profondi da divenire co-autori del discorso, esattamente come si auspicava fin dall'inizio della vita del blog).

2. Ora, è altrettanto vero che la comprensione del "problema €uropa"è soggetta alla individuazione di diversi livelli di lettura, che solo in forza di un'ormai complessa e difficile ricostruzione storica "multidisciplinare" può rendere fruttuosa l'applicazione delle conoscenze scientifiche proprie dell'economia o del diritto (assumendole come scienze sociali principalmente coinvolte nel processo ricostruttivo dell'attuale situazione).
Di questa complessiva difficoltà "cognitiva", che spiega anche perché la reazione all'instaurarsi in forma "orwelliana" del paradigma €uropeo sia stata agevolmente depotenziata e ritardata fino al momento in cui tale paradigma si era ormai fortemente consolidato, ci dà atto Claudio Borghi con una dimostrazione di rara onestà intellettuale:

3. Lo stesso Claudio, in linea con questa imparziale capacità di ricerca e di giudizio, procede alla ricognizione di un fenomeno drammatico, che, peraltro, in questo blog è stato spesso oggetto di discussione. E cioè, come la legge di esecuzione e ratifica di Maastricht fosse stata a suo tempo affidata a un parlamento complessivamente non in grado di comprenderne e anticiparne la reale portata in termini costituzionali.
Va detto per inciso: ne "La Costituzione nella palude", - non a caso e grazie al contributo filologico e critico di Arturo-, vengono riportate la analisi relative a natura ed effetti del trattato, quasi coeve a tale votazione parlamentare, che compì il prof. Guarino con (ormai desueta) chiarezza; almeno, rispetto alla comprensione giuridico-economica che, fin da allora, era affidata a uno schematismo in cui l'accademia ratificava, nei fatti, una preponderante vulgata mediatica, secondo un fenomeno di euro-conformismo già, a suo tempo, evidenziato da Luigi Spaventa in sede di approvazione, nel 1978, dello SME (egli parlò, per la precisione, di terrorismo ideologico europeistico).
Dunque, Claudio fa una valutazione storico-critica, drammatica, dicendoci che, dopo aver esaminato gli atti del dibattito parlamentare, l'unico che avesse compiuto un intervento rivelatore di una "profetica" consapevolezza, era risultato Lucio Magri (poi magari Arturo ci porterà l'esempio di altri analoghi interventi...):
4. Dai commenti al precedente post emerge, tra l'altro, la ricostruzione, offerta dal "solito" Arturo, della vicenda relativa alla prevalenza "selettiva" del diritto "comunitario" sulle fonti di livello costituzionale nazionali, quale affermato dalla Corte di giustizia europea già nel 1964 e seguito dall'adeguamento empirico, e apparentemente pragmatico, della nostra Corte costituzionale (in più fasi e fino ai nostri giorni). 
Su questo "adeguamento" rinviamo ai suoi interventi; ma il punto più importante e oggi straordinariamente attuale, è che il successivo ampliamento delle "attribuzioni" della Comunità europea, fino a Maastricht, e alla di poco successiva trasformazione in Unione europea, avrebbero posto l'esigenza di rivedere, nelle sue stesse premesse, il passaggio fondamentale con cui la Corte nazionale cedette il terreno, in modo praticamente irreversibile, alla prevalenza, contraddittoriamente selettiva, del diritto europeo sulla Costituzione.
Se dunque, - ma solo in una visione statica e non attenta, come vedremo, agli inevitabili effetti che sarebbero derivati dall'adozione dei modelli socio-economici contenuti nei trattati-, la regola empirica, un po'"a occhio", rigidamente nominalistica, fino a costituire una "petizione di principio", che un trattato economico incida per definizione "solo" sui "rapporti economici" e non su quelli sociali e politici, aveva una certa sostenibilità, approssimativa e temporanea, all'inizio degli anni '70, lo stesso non si può dire per i contenuti del "vincolo esterno" che parte dallo SME, passa per l'Atto Unico e arriva al "Maastricht" dell'unione monetaria

5. Più ancora, questo empirismo nominalistico della Corte denota la perdita, già negli anni '70, della consapevolezza circa l'inscindibilità, - affermata dai vari Ruini, Ghidini, Basso, Mortati, Calamandrei, in sede costituente- tra principi fondamentali della persona, al cui vertice assoluto è normativamente posto quello lavoristico, e Costituzione "economica", come previsione di strumenti che non sono eventuali e potenziali per l'azione politico-economica dello Stato, ma oggetto di un obbligo il cui mancato assolvimento vanifica proprio i diritti fondamentali della persona, quali intesi dai Costituenti e con gli effetti molto concreti che indica il post di Bazaar riportato all'inizio.

Arturo sulle origini della vicenda storico-giurisprudenziale in questione ci rammenta una serie di significativi elementi:
a) il caso "Costa contro Enel" scaturì dal ricorso proposto da due giuristi italiani, il professore di diritto costituzionale Giangaleazzo Stendardi e l'avvocato Flaminio Costa. 
Ci pare storicamente molto interessante tradurre quanto riferito, dalla fonte citata, sulla visione teorico-scientifca del primo: Stendardi aveva teorizzato il ruolo dell'attivismo legale davanti alle Corti come un quasi-sostituto della "responsabilità politica", in particolare al livello europeo. In vari scritti, prima e dopo il caso "Costa", sosteneva che "non è necessario avere un parlamento direttamente eletto dal popolo per realizzare la protezione dei cittadini; si richiedeva soltanto l'esistenza di una procedura idonea a proteggere gli individui direttamente di fronte alla organizzazione [europea]...Questo forte "credo" nella "Legge"come sommo strumento di protezione dei cittadini (persino più importante dell'esercizio del voto), fu naturalmente attivato in tale contesto contro la legge italiana di nazionalizzazione [del settore elettrico]. Stendardi, che era stato professore aggiunto alla scuola milanese "Bocconi" negli anni '50, e al tempo era un membro attivo del partito liberale italiano a Milano, era fortemente critico sul progressivo processo delle nazionalizzazioni in Italia".

b) In tempi praticamente coevi alla sentenza "Costa contro Enel", la nostra Corte costituzionale arrivò a enunciare i presupposti della prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale e sulla stessa fonte costituzionale...a certe condizioni. Sul punto commenta Arturo

E fu così che i liberali, che in Assemblea Costituente erano "quattro noci in un sacco", come ebbe a dire efficacemente il vecchio Togliatti, riuscirono a piantare un virus di portata europea in Costituzione, rispetto ai cui effetti devastanti la Corte Costituzionale ha dimostrato negli anni una cecità che si commenta da sola (basti ricordare la sent. 183 del 1973, in cui si ritiene estremamente improbabile ”l’ipotesi di un regolamento comunitario che possa incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con di­sposizioni contrastanti con la Costituzione italiana”, in quanto la ”competenza normativa degli organi della CEE è prevista dall’art. 189 del trattato di Roma” è limitata “a materie concernenti i rapporti economici”. Ah, beh, se si tratta "solo" di rapporti economici allora siamo tranquilli... 
6. Dal complesso delle fonti che abbiamo finora messo insieme, possiamo trarre alcune conclusioni, che servano possibilmente da chiarimento per individuare un filo conduttore in un insieme di dati storici e di concetti che, altrimenti, rischiano di sfuggire nella loro coerenza unitaria: questa, infatti, emerge se proiettata nel corso dei decenni, nei quali si collocano gli antecedenti ora riassunti ed in coordinamento con altri elementi sopravvenuti, ma fin dall'origine rispondenti ad un disegno iniziale, a realizzazione "progressiva" (temi già analizzati in questa sede)
a) l'idea, fatta propria dalla Corte costituzionale, che un trattato (parliamo di quello di Roma del 1957), che predicasse la creazione di un "mercato comune", promuovendo espressamente la libera circolazione "delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali", cioè un trattato di sostanziale liberoscambio, non avesse influenza sui "rapporti civili, etico-sociali e politici", è non solo manifestamente illogica dal punto di vista della attendibilità economica, ma contraria agli stessi espressi enunciati del trattato stesso (intediamo quello c.d. di Roma). Traiamo dalla fonte ufficiale (UE) appena linkata
"Dopo il fallimento della CED, il settore economico, meno soggetto alle resistenze nazionali rispetto ad altri settori, diventa il campo consensuale della cooperazione sovranazionale. Con l'istituzione della CEE e la creazione del mercato comune si vogliono raggiungere due obiettivi. Il primo consiste nella trasformazione delle condizioni economiche degli scambi e della produzione nella Comunità. Il secondo, più politico, vede nella CEE un contributo alla costruzione funzionale dell'Europa politica e un passo verso un'unificazione più ampia dell'Europa".

b) dunque, le stesse istituzioni UE hanno sempre e costantemente inteso il trattato (già quello del 1957) come avente uno scopo politico a cui l'approccio economico era essenzialmente strumentale: ma tale strumento si connotava, fin da allora, in senso liberoscambista e, co-essenzialmente, improntato all'idea neo-liberista della libertà di concorrenza come ipotesi macroeconomica di prevalenza del sistema dei prezzi, affidati alle dinamiche dell'economia privata non ostacolata dall'intervento dello Stato nel raggiungere l'efficienza allocativa. Quest'ultima non è univocamente volta a "crescita e sviluppo", ma subordina dichiaratamente entrambi alle condizioni della stabilità dei prezzi nonché della preferenza per la flessibilità verso il basso dei prezzi relativi ai costi d'impresa (in primis i salari), che consentono l'ipotizzata efficienza allocativa della singola impresa, automaticamente estensibile a equilibrio generale: cioè l'idea del liberismo neo-classico, superata esplicitamente dalla nostra Costituzione. Postulato, ossessivamente esplicitato, è che l'attività economica si esplichi in condizione di "libera concorrenza"e che ciò sia ostacolato dall'intervento dello Stato sulle dinamiche del mercato. Citiamo ancora per sottolineare la dichiarata chiarezza di questa concezione secondo la stessa fonte istituzionale europea:
"Il mercato comune si basa sulle famose "quattro libertà": libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali.
Esso crea uno spazio economico unificato che permette la libera concorrenzatra le imprese, e pone le basi per ravvicinare le condizioni di scambio dei prodotti e dei servizi che non sono già coperti dagli altri trattati (CECA e Euratom).
L'articolo 8 del trattato CEE prevede che la realizzazione del mercato comune si compia nel corso di un periodo transitorio di dodici anni, diviso in tre tappe di quattro anni ciascuna. Per ogni tappa è previsto un complesso di azioni che devono essere intraprese e condotte insieme. Fatte salve le eccezioni o deroghe previste dal trattato, la fine del periodo transitorio costituisce il termine per l'entrata in vigore di tutte le norme relative all'instaurazione del mercato comune.
Poiché il mercato è fondato sul principio della libera concorrenza, il trattato vieta le intese tra imprese e gli aiuti di Stato (salvo deroghe previste dal trattato) che possono influire sugli scambi tra Stati membri e che hanno per oggetto o effetto di impedire, limitare o falsare la concorrenza.
c) La Corte già disponeva di questo quadro di interpretazione autentica e vincolante dei trattati. L'influenza delle politiche tese ad instaurare la "libera concorrenza tra le imprese" su: a) livello dell'occupazione; b) livello dei salari; c) livello delle inevitabilmente connesse prestazioni previdenziali (e, più in generale, di ogni altra forma pubblica erogatrice di salario indiretto o differito, tra cui spiccano le prestazioni dell'istruzione e della sanità pubbliche), era obiettivamente conoscibile e prevedibile: non come questione scientifico-economica ma come effetto inevitabilmente predicato sul piano normativo dai trattati
d) E ciò era possibile, fin dagli anni '70, assumendo come riferimento interpretativo, certamente accessibile sul piano del dovuto chiarimento delle norme, le teorie economiche che predicano l'equilibrio del sistema sulla base dell'ipotesi (propria dei trattati) di vigenza e promozione della libera concorrenza: questa operazione nei lavori dell'Assemblea Costituente era stato compiuta per respingere proprio tali teorie, come viene ampiamente evidenziato ne "La Costituzione nella palude"
Era solo questione di tempo perché gli effetti sociali, cioè sul mondo del lavoro, sul livello di occupazione e sul benessere diffuso, di questa impostazione economica, che è in sé una forte scelta politica, si facessero sentire e iniziassero a modificare, nell'evidenza dei fatti, gli stessi rapporti politici
E la gradualità e estensione pervasiva delle relative politiche era espressamente prevista dal trattato del 1957, come abbiamo appena visto. 
e) Ma non solo: lo svolgimento di politiche coinvolgenti un numero crescente di settori economici a forte impatto sociale (al "minimo" agricoltura e trasporti) era altrettanto previsto, fino al punto di includervi tout-court, ed espressamente, la "politica industriale"che, come ci descrive Caffè, è il perno della sovranità effettiva di uno Stato, cioè la ragion d'essere delle "funzioni e gli scopi dello Stato": essa attiene infatti al problema di decisione politica, preliminare ad ogni altra, di cosa e quanto produrre e cosa scambiare con gli altri paesi. 
Da questa scelta, infatti, dipende il livello del reddito nazionale e della conseguente occupazione, laddove, com'è altrettanto notorio, un trattato liberoscambista, basato sull'inevitabile ipotesi delle funzioni economiche dello Stato come ostacolo principale all'allocazione efficiente delle risorse, assume come prioritaria l'azione del mercato secondo il principio allocativo dei "vantaggi comparati": tale meccanismo insito nel liberoscambio crea inevitabilmente una competizione commerciale e industriale tesa a instaurare una gerarchia tra gli Stati aderenti, con pochi vincitori e molti perdenti nella stessa competizione
6. L'implicito estendersi in progressione del meccanismo dei "vantaggi comparati"è anch'esso enunciato nel trattato del 1957, e preannuncia, senza equivoci, che le "politiche" che si assumeva l'istituzione CEE consistevano in "condizionalità" a carico degli Stati - e dei loro scopi e funzioni costituzionalmente sanciti...in precedenza- per consentire la riallocazione propria degli stessi vantaggi comparati:
Alcune politiche sono previste formalmente dal trattato, come la politica agricola comune (articoli 38-47), la politica commerciale comune (articoli 110-116) e la politica comune dei trasporti (articoli 74-84).
Altre possono essere intraprese a seconda delle necessità, come previsto all'articolo 235, secondo cui "quando un'azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il presente Trattato abbia previsto i poteri d'azione a tal uopo richiesti, il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato l'Assemblea, prende le disposizioni del caso".
Sin dal vertice di Parigi dell'ottobre 1972, il ricorso a tale articolo ha permesso alla Comunità di sviluppare azioni nei settori della politica ambientale, regionale, sociale e industriale.
Oltre allo sviluppo di tali politiche viene creato il Fondo sociale europeo, diretto a migliorare le possibilità di occupazione dei lavoratori e il loro tenore di vita, e istituita una Banca europea per gli investimenti, destinata ad agevolare l'espansione economica della Comunità attraverso la creazione di nuove risorse".

7. Oggi noi sappiamo che la Corte si trova a fronteggiare direttamente un problema, posto dalla disciplina europea, che, solo in apparenza, appare esplicitamente incidente, rispetto al passato, sui rapporti politici, sociali e civili: quello del pareggio di bilancio.
Di questo aspetto ci siamo già occupati sia in "Euro e(o?) democrazia costituzionale" che ne "La Costituzione nella palude".
Richiamiamo qui dei post che ne sono parte fondamentale:

COSTITUZIONALITA' DELLE MANOVRE FINANZIARIE. UN DUBBIO INTERNO ALLA STESSA COSTITUZIONE


Nel secondo di tali post avevamo commentato un articolo di Federico Fubini che esprimeva il seguente concetto:"...il conflitto fra interpretazione della Costituzione italiana, regole europee e risorse è più acuto che mai. Lo è al tal punto che, in ambienti del governo, sta emergendo una tentazione: chiedere un rinvio del caso alla Corte di giustizia europea, per chiarire se la sentenza della Consulta italiana sia coerente con gli impegni di bilancio firmati a Bruxelles. 
Il nuovo Patto di stabilità (il “Six Pack” e il “Two Pack”) sono inclusi nel Trattato, dunque hanno rango costituzionale e il diritto europeo fa premio su quello nazionale. Il governo italiano potrebbe chiedere alla Corte di Lussemburgo se la sentenza dei giudici di Roma sia compatibile con essi."

A questo perentorio assunto del "fa premio su quello nazionale" (di diritto costituzionale) avevamo opposto la sentenza della Corte costituzionale n.238/2014, dove era ribadita la vigenza dei controlimiti, cioè della invalicabilità dei diritti fondamentali previsti nella Costituzione, nei confronti di qualunque fonte europea. Questa consolidata affermazione basterebbe perché l'affermazione gerarchico-militare di Fubini fosse già confutata. La sentenza della Corte costituzionale in materia di "adeguamento pensionistico" ne è una traccia, ma, come abbiamo evidenziato, indiretta.

8. Questo perché, in quella occasione, la Corte in realtà aveva aggirato l'ostacolo ponendosi in "mezzo al guado" di un compromesso tra due soluzioni inconciliabili, che l'hanno, allo stato, arrestata sulle soglie di un problema diverso da quello del sindacato sulla compatibilità costituzionale dei trattati:
"Mi limito a suggerire una direzione di indagine:   - è più "equo" accorgersi degli effetti di restituzione retroattiva delle sentenze della Corte in vigenza dell'art.81 Cost.- cioè del pareggio di bilancio- per impedire una successiva redistribuzione punitiva derivante dalle esigenze di costante copertura appunto in pareggio di bilancio (caso della sentenza n.10), ovvero "ignorare" che, vigendo l'art.81 Cost. attuale, e il fiscal compact, qualcuno dovrà comunque pagare quella apparente restituzione e, dunque, l'intero sistema economico subire (per via fiscale) una equivalente contrazione (esattamente compensativa di quella dichiarata incostituzionale) di consumi, investimenti e occupazione?"
In sostanza, la Corte riaffermava il diritto fondamentale, ma ne subordinava la tutela effettiva, cioè il pieno ripristino sotto il profilo della eliminazione delle "lesioni" che il diritto stesso aveva subito nel corso del periodo di applicazione della norma illegittima, ad una ricercata compatibilità col principio del pareggio di bilancio.
Con ciò, da un lato, rifiutando di metterne in discussione la effettiva connessione coi pretesi scopi di "risanamento economico" e di promozione della crescita enunciati verbalmente come suo "titolo" giustificativo nominalistico, scopi che esso certamente non persegue (e nessuno lo afferma nemmeno più, neppure tra i massimi responsabili della politica economica), dall'altro, evitando di affrontare il cuore del problema: cioè cercare di spiegare quali siano le cause effettive della crisi economica italiana, sviluppatasi, dopo il 2011 in dipendenza delle politiche fiscali imposte dal mero scopo di mantenere in vita l'euro a detrimento del livello di occupazione e salariale.

9. Ebbene, l'impossibilità di risolvere questo genere di problemi in modo logico e conforme al dettato costituzionale, - che non dovrebbe mai consentire una norma, di qualsiasi origine, che in concreto, e per "fatto notorio", non potendosi ignorare l'impatto delle misure di consolidamento fiscale, sia limitativa dell'occupazione-, discende dalla scelta contraddittoria operata con le prime sentenze del 1973 e seguenti: deriva cioè dall'illusione di poter considerare in qualche modo "neutrale" la sovrapposizione del sistema neo-liberista rafforzato dal trattato di Maastricht rispetto alla questione fondamentale di quali siano "i fini e le funzioni dello Stato", per usare le parole di Caffè, previsti dalla Costituzione in rapporto alle politiche economiche e fiscali
Queste ultime non possono continuare a essere considerate un "qualcos'altro" rispetto alla tutela dei diritti fondamentali della persona.
L'alternativa al recepire in pieno questa interconnessione, voluta dai Costituenti in un'armonia complessa (come disse Basso in un celebre intervento in Costituente), sarebbe quella di separare da tali diritti fondamentali il diritto al lavoro, arrivando però a ratificarne quel carattere di "mero enunciato enfatico" (oggi tanto di moda), che non solo fu respinto come formula dagli stessi Costituenti, ma la cui accettazione ridisegna definitivamente, in senso profondamente modificativo, l'insieme dei diritti fondamentali concepiti nella Costituzione del 1948.

10. La Corte, come abbiamo già visto, assume come aprioristicamente attendibile ciò che è invece fortemente e ragionevolmente dubitabile: e cioè che gli obblighi assunti verso l'UE e che hanno portato alle politiche dettate dal fiscal compact, (inclusi i patti di stabilità interna che tanto incidono sul livello minimo essenziale delle prestazioni ad ogni livello di governo territoriale), siano stati contratti per superare la crisi economica italiana e "tornare alla crescita".
Ma nel far ciò si limita ad accettare come incontestabile questo enunciato puramente nominale, cioè a ritenere che siccome una fonte europea - e la legislazione conseguente che l'Italia è costretta ad adottare- enuncia un fine, questo sia indubitabilmente rispondente al vero: e, per di più insindacabile, non solo alla luce dei suoi effetti, - completamente contraddittori, scaturenti da tali fonti (europea e nazionale pedissequa), cioè alla luce della irrisolvibile recessione e stagnazione che derivano dall'applicazione delle politiche finanziarie imposte dall'UEM-, ma anche alla luce degli stessi presupposti giustificativi del fiscal compact assunti dalle istituzioni europee che l'hanno imposto
Con questo, in pratica, chiudendosi in un mondo di enunciati inerziali e fuori dal dibattito politico-ecomico che agita l'intera UEM, che ha reso ormai di pubblico dominio gli scopi effettivi del fiscal compact: la correzione degli squilibri commerciali e finanziari scaturenti dal meccanismo della moneta unica al fine esclusivo di mantenere in vita quest'ultima.

Questa presunzione assoluta di veridicità delle "intitolazioni" strategiche delle fonti europee, scisse dai loro scopi effettivi, facilmente accertabili in base a imponenti analisi e giustificazioni provenienti da dichiarazioni formali delle più importanti istituzioni europee, pare un vecchio punto debole della nostra Corte.
Un punto debole che si riverbera sulla operatività dei più autentici principi fondamentali della Costituzione del 1948 e che denuncia ormai un difettoso approccio culturale e interpretativo che ha superato i quaranta anni.

IL MITO DEI MINIJOBS E DELLA REFLAZIONE COOPERATIVA TEDESCA AL REDDE RATIONEM

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Alla base di questo aumento, la "piena occupazione", l'introduzione del salario minimo, buone prospettive di crescita e la bassa inflazione. A fronte di aumenti nominali (medi) dei salari contrattualizzati pari al 2,8%, stante un'inflazione media 2015 allo 0,3%, l'aumento dei salari reali risulterebbe del 2,5%.
I mini jobs calerebbero, "per effetto del salario minimo", posto sulla soglia di 8,50 euro (e "imposto" dai socialdemocratici alla Merkel): infatti poiché sarebbero aumentati del 2,5% i lavori soggetti a contribuzione previdenziale "regolare", se ne deduce la corrispondente diminuzione dei mini-jobs. 
Questi ultimi, infatti, aggiungiamo per chiarire i fatti, sono a contribuzione ridotta, per le minori aliquote corrisposte dal datore, riflettendosi comunque in un futuro trattamento pensionistico molto ridotto: tanto più se la base contributiva (massima) è quella dei fatidici 450 euro mensili. Ma bisogna anche tenere conto che una parte rilevante dei minijobs sono a termine di "breve durata" e, in tal caso, il datore di lavoro è esentato dai versamenti previdenziali e assicurativi.
Conclude il Sole, in ogni modo, che questo insieme di elementi avrebbe portato al risultato che la crescita del PIL tedesco dell'1,7 del 2015, sia stata dovuta per 1,5 punti all'aumento di consumi privati e spesa pubblica: "quest'anno il fenomeno dovrebbe accentuarsi mettendo sempre più in secondo piano il commercio con l'estero". Vedremo come questa ipotesi sia smentita dalle stesse fonti produttive tedesche...

2. Va detto che, calcolando la sfera di applicazione "mista" dei minijobs (cioè quelli retribuiti esattamente intorno alla loro soglia massima sommati con quelli integrati, "anche" sul piano salariale, dall'assistenza pubblica, cioè in cui sono corrisposte retribuzioni notevolmente sotto la soglia dei 450 euro mensili), i minijobbers passerebbero da circa 7,3 milioni a 7,11 milioni o, comunque, intorno ai 7 milioni anche utilizzando i dati aggiornati che vedremo più oltre: il che, considerando che la prima cifra era rimasta sostanzialmente stabile all'incirca dal 2003, e che il sistema era dichiaratamente volto a un riassorbimento provvisorio della disoccupazione meno qualificata e in vista di un'evoluzione verso lavori "regolari", non pare obiettivamente un rilevante progresso strutturale del mercato del lavoro tedesco; cioè non pare un significativo mutamento verso un dualismo meno accentuato e meno drammatico (che è una spaccatura sociale inevitabile nei suoi effetti futuri, dato che non coinvolge solo gli studenti coi "lavoretti", come si vorrebbe far credere, ma ha strutturato l'occupazione e la retribuzione-tipo di una parte molto rilevante del lavoro femminile, dei lavoratori stranieri e di una consistente componente dei lavoratori della ex-Germania est...).

3. Il fenomeno, nelle sue dinamiche, pare infatti essere un po' differente da come lo "accerta" il Sole: in generale, rispetto ai picchi del 2004, i minijobs sono andati comunque sottilmente diminuendo, a prescindere dall'introduzione del salario minimo, che, in realtà non può aver spiegato consistenti effetti modificativi di questa tendenza alla leggera diminuzione "fisiologica" dei minijobs nel 2015: anche perché, va ribadito, tale salario minimo andrà in realtà effettivamente a regime tra il 2016 e il 2017.

Ma la realtà "statistica" rilevata (dalla fonte appena linkata) ci racconta una diversa spiegazione: "il salario minimo sarà applicato anche ai c.d. mini-jobs, criticati per essere considerati una forma di sottooccupazione e a volte di sfruttamento dei lavoratori a causa di compensi orari alquanto bassi", ma i suoi effetti nel 2015, infatti, non paiono aver modificato il trend "fisiologico" sopra segnalato.

4. E questo, nonostante i timori degli "economisti", in Germania (gli ordoliberisti sono sempre molto preoccupati dell'alterazione del fisiologico e superiore sistema dei prezzi nel campo retributivo), per l'aumento repentino del costo del lavoro, ancora al di là da venire: sappiamo in realtà che il salario minimo ha un effetto spiazzante degli investimenti verso i settori dove l'occupazione è a bassa qualificazione e a costo ridotto, con la sola creazione di posti di lavoro nei servizi a bassa intensità di capitali. Cioè i minijobbers saranno, in parte sostituiti, da lavoratori precari e sottopagati che consentono a grandi imprese di servizi di rivolgersi a consumatori a basso reddito, cioè alla stessa massa crescente di lavoratori marginali (comunque disciplinati), perpetuando il sistema di crescita della produttività non legata a corrispondenti aumenti salariali, diffusi e distribuiti sulla parte più importante del mercato del lavoro.
Più in generale però, "al 30 giugno 2014 i mini-jobbers erano 7,2 milioni, di cui 6,9 nel settore commerciale e il resto presso i privati (lavoro domestico). Il numero dei lavoratori marginali sul totale dei lavoratori subordinati, benché abbastanza elevato, è tuttavia tendenzialmente costante negli ultimi dieci anni. Infatti, se a dicembre 2004 la quota dei mini-jobbers sul totale dei lavoratori dipendenti era il 20%, a dicembre 2013 è calcolato al 18,9%. In valore assoluto il loro numero è aumentato di circa 280 mila unità, ma gli occupati sono cresciuti di oltre 3 milioni nello stesso periodo di tempo". 
Insomma, il lavoro marginale cambia solo nome e solo in parte: dai soli minijobbers ai lavoratori "mimimun wage" ben noti nei paesi anglosassoni: ma sempre marginali rimangono, nonostante i "timori"e sempre di riduzione della sfera di lavoro tutelata dalla contrattazione collettiva si tratta.

5. A parte, dunque, la scarsa importanza, in termini di mutamento effettivo del mercato del lavoro, della "sostituzione" dei salariati minimi ai minijobers, ci pare però discutibile che sia sia verificato un aumento della spesa pubblica in Germania. Questa è la dinamica aggiornata della spesa pubblica tedesca in rapporto al PIL che, per il 2015, appare decisamente contraddire quanto riportato dal Sole:

Germany Government Spending to GDP

Sui consumi, abbiamo invece un certo riscontro positivo, ma la dinamica non appare di dimensione tale da correggere, appunto mediante l'espansione della domanda interna, gli squilibri commerciali interni all'eurozona: appare piuttosto che si sia verificato un fisiologico aumento dei consumi, all'interno di una propensione marginale costante, rapportato ad una situazione di crescita del PIL di dimensioni non certo eccezionali (e cioè non tali da giustificare un ruolo di "locomotiva" dell'economia tedesca, da sempre sbandierato come mito smentito dai fatti di un'economia fortemente mercantilistica).

6. In effetti, in coerenza con tale quadro sostanzialmente inalterato, la dinamica dell'inflazione in Germania, anche e proprio nel 2015-2016, appare molto modesta e con un differenziale, rispetto alla media UEM, che non autorizza l'attribuzione di un ruolo creativo di domanda (mediante importazioni) per il resto dell'eurozona
"Inflation rose from a flat reading in February to 0.3% in March. Meanwhile, annual average inflation in March came in at 0.3%, matching February’s reading. Harmonized consumer prices rose 0.1% annually in March, which contrasted February’s 0.2% decrease. Average HICP inflation remained at 0.2% in March":

Questo il dato inflattivo aggiornato dell'eurozona (visto qui, come attestante il fallimento del QE sotto questo profilo: laddove non pare nemmeno particolarmente coronato da successo nell'indurre la Germania a reflazionare in misura utile ad una correzione non esclusivamente deflattiva nel resto dell'eurozona):

File:Euro area annual inflation and its main components, 2006-April-2016 e rev1.png

7. E di questo quadro di prosecuzione tedesca su una fisiologia (o "patologia") del traino mercantilistico-esportativo non è difficile avere conferme
Anzitutto, in pieno contrasto con gli sbandierati aumenti salariali in "azione" dal 2015 e proposti come inarrestabile crescita reale anche nel 2016 (infatti differita a partire da luglio e scaglionata prudentemente sul 2017), il dato di aprile dell'inflazione tedesca, è di nuovo negativo

L'inflazione annuale tedesca, in aprile, risulta dello 0,1, rendendo del tutto aleatorio il preteso target dell'1,2% previsto dal governo della Merkel per il 2016. 
Se ne deduce che qualcosa non sta andando come ci viene raccontato sul fronte del presunto aumento dei consumi, cioè della domanda interna, in Germania: e questo non può prescindere da un'ostinazione a seguire politiche di svalutazione reale interna, operata sui livelli salariali complessivamente intesi, e non certo eliminata dagli aumenti retributivi concessi nei numericamente decrescenti comparti soggetti alla contrattazione collettiva, erosi sempre più dalla contrattazione aziendale, oltre che dal peso permanente se non, in prospettiva, crescente, del mercato del lavoro marginale dei minijobs, da aggiungere - e non da sottrarre-  ora anche ai (futuri) minimum wagers.

8. Ma non basta, come conferma della invarianza delle complessive policies tedesche sul mercato del lavoro (solo appena rimodulate): il saldo commerciale positivo della Germania, in aprile, risulta in realtà ancora in crescita, rafforzandosi rispetto alla già "squilibrata" situazione mostrata da questo andamento registrato fino a febbraio:
Germany Trade12m February 2016

La cosa più "interessante", e in realtà più contrastante col trend che si cerca di offrire in Italia, - cioè reflazione tedesca, aumento dei consumi interni e, si implica, tendenza a importare di più dai partners dell'eurozona, in presunta correzione degli squilibri commerciali, che aiuterebbe la sopravvivenza dell'euro-, è che la rafforzata crescita esportativa della Germania, secondo le stesse fonti rappresentative delle imprese operanti nel settore, si rivolge ("di nuovo") proprio verso l'eurozona!
Infatti:"in una recente dichiarazione (di aprile), la Federazione tedesca dei commercianti all'ingrosso e del commercio con l'estero (BGA)  ha rilevato che dopo una partenza debole a inizio anno, le esportazioni sono ora tornate su un sentiero di crescita. La BGA ha sottolineato che la Germania beneficia in particolare del commercio coi suoi vicini europei, mentre gli scambi coi paesi non-europei è "attenuato", nonostante le politiche monetarie espansive della BCE". 

9. Ora, la questione appare ancora una volta di "informazione".
Non si possono domare i fatti per raccontare di una storia di cooperazione tedesca alla sostenibilità dell'eurozona che in realtà appare smentita da un'eloquente realtà, che, per di più, indica l'irrilevanza delle mere misure monetarie intraprese dalla BCE, sia sui livelli inflattivi e occupazionali, sia sulla possibilità di indurre la Germania a un cambio di segno delle politiche di aggressivo mercantilismo che erano scontate, cioè garantite, nella stessa intelaiatura antisolidale dell'eurozona .

Senza contare che tali misure monetarie, in sovrapprezzo, sono ormai oggetto di sempre più numerose iniziative tedesche per denunciarne la illegittimità costituzionale, violata dall'applicazione distorta dei trattati asseritamente compiuta dalla BCE.
Ma raccontare di un immaginario quadro cooperativo, realizzabile all'interno dei trattati e delle policies da essi consentite alle istituzioni UE-M, ci pare ormai alimentare una mitologia che può servire solo a nascondere agli italiani la crisi irreversibile dell'eurozona: una crisi che discende, però, dalla sua iniziale e programmatica insostenibilità antisolidale che sta costando al popolo italiano una distruzione sistematica del suo sistema sociale, industriale e previdenziale.
Il problema, ormai, non è raccontare che l'euro sia sostenibile, ma come fare a nascondere ulteriormente l'inevitabilità di un (euro)redde rationem esplosivo.
Sul versante del "tacchino italiano", naturalmente.




LA FLESSIBILITA' SUL FISCAL COMPACT COME LO SPREAD: BREXIT DELIRIUM...TREMENS

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La notizia sarebbe che la Commissione UE ha generosamente (e persino ingiustamente, secondo varie voci rigoriste italiche) concesso la "flessibilità" dello 0,85% all'Italia: questo scostamento autorizzato dall'obiettivo intermedio di deficit per il 2016, all'interno del percorso verso il raggiungimento del pareggio di bilancio, si ottiene sommando tutto il sommabile per le immancabili "riforme" (essenzialmente: accelerazione delle privatizzazioni e aumento della tassazione indiretta e sul patrimonio e consuete riforme della giustizia "accelerata" e della governance della p.a., nonché incremento della concorrenza), incluso uno 0,1 di varie ed eventuali, a titolo di lotta al terrorismo e di immigrazione incrementale sulla nuova "rotta" ital-mediterranea.
Quello che non dice l'eccitatissima informazione italiana, - impegnata a sottolineare sia lo straordinario risultato pro-Italia sia la lungimiranza e la "serietà" degli impegni comunque richiesti dalla Commissione per il 2017- è che, praticamente nelle stesse ore, la Commissione UE ha in definitiva stabilito di chiudere le procedure di deficit eccessivo per  Cipro (!), Slovenia e soprattutto Irlanda.
Nessuno di questi tre paesi ha mai rispettato, a partire dall'apertura della procedura di infrazione, non diciamo i termini del fiscal compact, dato che il rapporto debito su PIL dei tre paesi è aumentato ben più che in Italia, nello stesso periodo considerato, - e proprio applicando le indicazioni fiscali della Commissione-, ma neppure lontanamente il limite del 3% del precedente patto di stabilità. Cosa che è proseguita anche nel 2015.

Rimangono sotto la medesima procedura di infrazione, aperta nel 2011 contro 24 Stati su 27 aderenti all'UE, "Croatia, France, Greece, Portugal, Spain and the UK".
 
Va notato, non troppo "fantascientificamente" e incidentalmente, che se gli USA fossero aderenti l'eurozona, o comunque sottoposti alle stesse regole fiscali applicate in essa applicate, la Commissione UE (o un entità sovranazionale equivalente) dovrebbe fortemente "raccomandargli" ampie riforme, dopo aver aperto una procedura di infrazione: gli stessi USA sarebbero nella situazione di perdurante osservazione pre-sanzionatoria in cui tuttora si trovano Francia e UK.
Ovviamente, gli Stati Uniti non si farebbero mai e poi mai privare della sovranità monetaria e, conseguentemente, di quella fiscale, e neppure, a monte, aderirebbero perciò a un trattato multilaterale di liberoscambio che non fosse ritenuto conveniente per migliorare i propri saldi con l'estero.
Ma al fine di comprendere il paradosso politico di un'area valutaria in cui la conservazione della moneta comune diviene un fine politico più importante della crescita e del benessere della maggior parte delle comunità statali aderenti, e dunque continuando nell'ipotesi fantascientifica (as if, gli USA fossero un paese assimilabile a quelli, pur una volta "importanti" all'interno delle economie occidentali, aderenti all'UE), basti  vedere i saldi settoriali USA aggiornati al 2015, per commisurarli ipoteticamente alle conseguenze che avrebbero secondo il sistema del fiscal compact.
Da notare il peggioramento recente del saldo del settore pubblico, a conferma che le strategie pre-elettorali sono "universali" e che bisogna in qualche modo scontare il peggioramento del deficit estero, se non altro per poter proseguire una crescita basata sui consumi...a debito (il cui incremento è ben superiore al flusso annuale del risparmio privato, dato che quelli, pochi, che risparmiano non coincidono con i tantissimi americani che per consumare si indebitano...):
 
 
Ma, pur avvertendo che la procedura di infrazione nei confronti del Regno Unito non ha le stesse conseguenze a cui sono esposti i paesi dell'eurozona (v. qui, p.5), si può vedere come la situazione britannica sia assimilabile, quanto ai saldi settoriali, a quella statunitense: deficit pubblico "abbondante" e, ancora più, prolungato e crescente saldo negativo con l'estero. Laddove poi, cause strutturali, attinenti al paradigma economico oggi dominante, determinano anche un aumento storicamente record del debito pubblico:
 
 
 
Insomma, la Commissione non fa abiti comodi su misura per l'Italia.
Piuttosto, svicolando tra misure e procedure sanzionatorie, che non verranno mai a compimento per i paesi politicamente "forti", pare stimare le proprie stesse capacità...di mantenimento in esistenza: cioè tollera e "flessibilizza" esattamente nello stesso senso in cui gli spread 2011-2012 segnalavano una scommessa, dei mercati, sulla fine dell'eurozona.
E tutto questo si materializza in un nome, circondato da timori e sondaggi (accuratamente aggiustati), nonché oggetto di quotazione per gli scommettitori (ove, infatti, il c.d. Bremainè in netto vantaggio):
 
 
 

L'ARTICOLO 1 DELLA COSTITUZIONE: BREVE STORIA DI "QUELLI CHE NON CREDONO NELLE COSTITUZIONI"

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1. Finora abbiamo svolto il discorso facendo riferimento al rapporto dei "principi fondamentali" (artt.1-12) con la Costituzione economica (art.36-47): quest'ultima, in base ai lavori dell'Assemblea Costituente fornisce gli strumenti per attribuire, ai diritti enunciati nei principi fondamentali, quella effettività senza la quale ne viene meno la stessa giuridicità. 
L'attivazione degli strumenti di politica economica, fiscale e industriale (in senso esteso), previsti dalla Costituzione economica, definisce l'oggetto degli obblighi che rendono concreta ed effettiva la posizione di generale obbligo giuridico, incombente sulle istituzioni di governo della Repubblica italiana, in base all'art.3, comma 2, della Carta, che è la norma chiave per definirne la normatività come fonte superiore ad ogni altra e la cui formulazione è principalmente doviuta a Lelio Basso

2. Su tale natura di norma chiave, aveva, del resto, convenuto Calamandrei, con il grande merito di avere, attraverso il confronto con gli altri componenti dell'Assemblea Costituente, ampliato e reso concreta questa idea proprio sul piano politico-economico, assunto come strumentale al principio-cardine lavoristico (dalla fonte linkata: se vera democrazia può aversi soltanto là dove ogni cittadino sia in grado di [...] poter contribuire effettivamente alla vita della comunità, non basta assicurargli teoricamente le libertà politiche, ma bisogna metterlo in condizione di potersene praticamente servire”, e per far ciò occorre garantire a tutti “quel minimo di benessere economico”, far sì che le libertà cessino di essere dei “vuoti schemi giuridici e si riempiano di sostanza economica”, ossia che “le libertà politiche siano integrate da quel minimo di giustizia sociale, che è condizione di esse, e la cui mancanza equivale per l’indigente alla loro soppressione politica”.
“Ma il problema vero non è quello della enumerazione di questi diritti: il problema vero è quello di predisporre i mezzi pratici per soddisfarli, di trovare il sistema economico che permetta di soddisfarli. Questo è, in tanta miseria che ci attornia, l’interrogativo tragico della ricostruzione sociale e politica italiana", da "Costituente e questione sociale", p.152; notare: un discorso sul quale Bazaar, parlando dei diritti civili a radice internazionalizzata, ormai cosmetici, ha più volte insistito).

3. Ed è questo il nodo centrale della Costituzione, che si è andato perdendo sotto i colpi dell'€uropeismo restauratore dell'ordine internazionale dei mercati: perché tutti questi strumenti di politica economica, fiscale e industriale si imperniano, a loro volta, sulla tutela del lavoro. Basti pensare che, con l'UE e la sua Carta di Nizza dei diritti, siamo tornati al punto che il problema non è più la "soddisfazione" dei diritti sociali, ma persino la loro stessa "enumerazione": dato che la limitata attenzione dedicata ai diritti sociali e alla tutela del lavoro, soffre anche di formulazioni generiche e obiettivamente restrittive rispetto alla Costituzione del 1948.

Per i nostri Costituenti questa tutela è invece il fondamento stesso della Repubblica, sancito dall'art.1 Cost.; e aver scelto quegli strumenti, e non altri, è il frutto di una scelta consapevole, e ampiamente dibattuta (come illustra il secondo capitolo de "La Costituzione nella palude"), che aveva respinto l'idea di mercato autoregolantesi propria del liberismo, e dunque quella di lavoro-merce in essa insita, definendo l'economica liberista neo-classica "la scienza dell'800", a sottolinearne la natura fallimentare posta alla base delle crisi, economiche, sociali e politiche, che erano sfociate nelle tragedie belliche del '900.

4. Tratteggiato questo quadro generale sul corretto intendimento della Costituzione, più volte esposto, cerchiamo di portare l'attenzione sull'art.1. Esso, come premessa necessaria e sufficiente, secondo le parole dei Costituenti che esamineremo, proietta e rende logicamente consequenziale, lo sviluppo sistematico che abbiamo appena riassunto.
Premettiamo ulteriormente  una rapida precisazione, necessaria in quanto, in questi tempi di scarso studio e di cieca fede nell'effetto mediatizzato degli slogan emozionali e tecno-pop, si tende alla estrapolazione suggestiva per piegare il pensiero dei Costituenti alle più bizzare e contigenti esigenze di politiche, del tutto estranee al disegno del Potere Costituente primigenio. Tale potere veramente "originario", fino alla instaurazione di un nuovo ordinamento, necessariamente extraordinem e traumatica,rimane la fonte di diritto superiore ad ogni altra, sia di natura internazionale, sia posta in essere nell'esercizio del potere "costituito", e quindi derivato, di revisione costituzionale.
La premessa è che, per lo più, anche quando un membro della Costituente, - nel plenum, come in una delle Commissioni interne a quella dei 75 (l'organismo cui si deve la parte maggiore del lavoro di effettiva redazione del testo)-,  esprime un dissenso rispetto ad una soluzione poi deliberata in via definitiva, tendenzialmente lo fa per spingere verso una finalità condivisa, nello spirito di una realizzazione più stringente di idee e concetti che, nella sostanza della visione socio-economica, erano comunque largamente condivisi; questo eccettuati alcuni componenti, in testa il solito Einaudi, che parlavano un linguaggio, ed erano portatori di valori, antagonisti rispetto all'amplissima maggioranza dell'Assemblea.

5. In questo contesto storico e di cultura delle Istituzioni, è interessante vedere come il Presidente della Commissione (dei "75") per la Costituzione, Ruini, introdusse, nella sua relazione al plenum, l'art.1:
[Dalla relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini che accompagna il Progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della relazione.]

Era necessario che la Carta della nuova Italia si aprisse con l'affermazione della sua, ormai definitiva, forma repubblicana. Il primo articolo determina alcuni punti essenziali. Non si comprende una costituzione democratica, se non si richiama alla fonte della sovranità, che risiede nel popolo: tutti i poteri emanano dal popolo e sono esercitati nelle forme e nei limiti della costituzione e delle leggi; nel che sta l'altra esigenza dello «Stato di diritto». Bisogna poi essere ciechi per non vedere che è oggi in corso un processo storico secondo il quale, per lo stesso sviluppo della sovranità popolare, il lavoro si pone quale forza propulsiva e dirigente in una società che tende ad essere di liberi ed eguali. Molti della Commissione avrebbero consentito a chiamare l'Italia «repubblica di lavoratori» se queste parole non servissero in altre costituzioni a designare forme di economia che non corrispondono alla realtà italiana. Si è quindi affermato, che l'organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica ha per fondamento essenziale — con la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori — il lavoro: il lavoro di tutti, non solo manuale ma in ogni sua forma di espressione umana.

6. Particolarmente interessante è il dibattito che si svolse nel plenum sullo stesso art.1, in particolare nella seduta del 22 marzo 1947. La lettura di questa intensa sessione pomeridiana è estremamente significativa. 
Ci limiteremo a riportare, sulla scorta della premessa sopra fatta del prevalente spirito di comune linguaggio e visione, l'intervento dell'on.Lucifero, un liberale (fu anche presidente del partito negli anni immediatamente seguenti alla Costituente), ma non un "antagonista" del processo costituente in senso democratico-sostanziale (cioè i "liberali", in pratica, non erano tutti uguali...)
La questione lessicale che si poneva e se la sovranità "risiedesse", "promanasse", o "appartenesse" al popolo: la sua preoccupazione era che, comunque, fosse chiaro anche in futuro che il popolo italiano non ne potesse mai essere "spossessato".
Non a caso, nella sopra riportata Relazione di Ruini, ovviamente anteriore al dibattito in plenum(ad esito emendativo), viene utilizzato il termini "risiede".
Nell'argomentare sul punto, Lucifero svolge alcuni chiarimenti oggi attualissimi e ci consegna dei timori "profetici":
Lucifero. "...trovai un riscontro nelle affermazioni dell'onorevole Togliatti, che in un primo momento a questo mio emendamento non si era dimostrato favorevole, e tanto più poi che nelle successive formule che sono state già presentate, vi è stato un passo verso il concetto che io sostengo trasformando quell'«emana» (che secondo l'onorevole Conti sapeva di profumo) nel termine «appartiene», che è più esatto.

Può sembrare la questione sottile, ma è una questione concettuale; e diventa una questione sostanziale quando si pensa alla esperienza dalla quale siamo usciti, cioè quando si pensa che ad un certo punto ci siamo trovati di fronte a gente che si è sentita delegare dei poteri popolari, li ha assunti e non li ha restituiti più se non attraverso quella tragedia che abbiamo tutti vissuto. Quindi credo che la Costituzione democratica debba chiaramente sancire il concetto che la sovranità, cioè il potere, non solo appartiene al popolo, ma nel popolo costantemente risiede. Ed allora bisogna impedire qualunque interpretazione che un giorno possa far pensare a sovranità trasferite o comunque delegate. Ecco perché al termine «appartiene», come pure al termine «emana», preferisco il termine «risiede».

Gli organi attraverso i quali la sovranità e i poteri si esercitano nella vita di un popolo, sono organi i quali agiscono in nome del popolo, ma che non hanno la sovranità, perché questa deve restare al popolo. Ecco perché è preferibile il termine «risiede» in confronto a quello di «appartiene».

Quell'«emana», originario, dà il senso di una sovranità che si può trasferire agli organi i quali la esercitano; quell'«appartiene» dà un senso di proprietà; mentre il termine «risiede» consolida il possesso; non la proprietà. Il popolo, cioè, rimane possessore di questa che è la suprema potestà democratica.

Può sembrare una sottigliezza, ma sottigliezza non è. La verità è un'altra. Esistono fra gli uomini due categorie di persone di fronte ai problemi costituzionali: quelli che credono nelle Costituzioni e quelli che non credono nelle Costituzioni
Per quelli che non credono nelle Costituzioni, cioè che pensano che il giorno che avessero la maggioranza farebbero quello che vogliono, un'affermazione di principio può sembrare una sfumatura, e non ha importanza; ma per coloro che, come me, credono profondamente nelle Costituzioni e nelle leggi, ogni parola ha il suo peso e la sua importanza per il legislatore di domani.
Noi ci dobbiamo preoccupare del documento che facciamo, guardando verso l'avvenire, cioè dando norme sicure ai legislatori di domani, in modo che la volontà di oggi non possa essere violata per improprietà di linguaggio, voluta o non voluta che sia.
7. L'esigenza di prevenire qualunque interpretazione "che un giorno possa far pensare a sovranità trasferite o comunque delegate"era straordinariamente corretta. 
Ma forse era, come in fondo abbiamo imparato (a nostre spese), non una semplice profezia, ma la consapevolezza, già attuale, che non solo, come si potrebbe affermare con una certa faciloneria, l'imperialismo sovietico, travestito da internazionalismo, potesse affermare la sua irreversibile presa di potere in Italia (un timore molto sentito all'epoca, ma anche molto più remoto di quanto non si credesse, alla luce di Yalta). L'accenno alla esigenza di preservare la "volontà" dell'oggi contro coloro che non credono nelle Costituzioni,  rivela la preoccupazione che forze estranee allo Stato di diritto, e quindi alle Istituzioni democratiche, portassero al trasferimento della sovranità dal popolo italiano ad altre "entità" (espresse presumibilmente dai mercati, che incarnano la maggior forza di fatto che la Costituzione ha inteso limitare: quindi, per definizione, forze estranee al fondamento del "lavoro" sancito dall'art.1 Cost.).

8. Un campanello d'allarme in tal senso, lo aveva fatto suonareproprio, indovinate un po', Einaudi, nella stessa sede dell'Assemblea Costituente. 
Nella discussione sull'art.1, nella seduta del 27 settembre 1946, ci aveva infatti anticipato questa dotta disquisizione giuridico-epistemologica, che allude in modo più che trasparente alla superiorità, su qualsiasi "Legislazione", inclusa la Costituzione, della "Legge" naturale avente fondamento scientifico (egli era in fondo, pur sempre, un laureato in giurisprudenza). La perplessità di Einaudi sull'art.1 è radicale; egli contesta la stessa legittimità scientifico-teorica del concetto di sovranità popolare, negando in definitiva la stessa opportunità di inserirlo in Costituzione. Ogni altra specificazione della sovranità popolare su cui si sono affaccendati il resto dei Costituenti, diviene così superflua; il carattere democratico, le sue forme e limiti, e, ovviamente, la sua base eretta sul "lavoro". Egli ne ammette solo una "utilità" funzionale e storicamente transitoria. Il vento della Storia può sempre cambiare...:  
Einaudi. [...] Scendendo al campo dottrinale, osserva, a proposito della premessa (dalla quale parte sempre l'onorevole La Rocca nelle sue osservazioni) del rispetto della volontà popolare e della sovranità popolare, che oggi effettivamente non c'è altra formula dalla quale partire; ma si tratta soltanto di una formula e non di una verità scientificamente dimostrabile. Essa appartiene al novero di quei concetti che si chiamano miti, che sono, in sostanza, formule empiriche, accettabili in vista di determinati scopi (per esempio: trovare il migliore governo, stabilire un clima di libertà, evitare qualunque tipo di tirannia) ma che possono anche cambiare. In altri termini la formula della sovranità popolare non appartiene al novero delle verità scientifiche, indiscutibili, dimostrabili, che risultano dalla evidenza medesima delle cose; è piuttosto un principio di fede, e le verità di fede sono discutibili, non si impongono alla mente, ma solo al cuore e alla immaginazione. Il mito della sovranità popolare, che trae origine dal contatto sociale di J. J. Rousseau, è quindi utile per il raggiungimento di determinate finalità pratiche e non si può prescinderne nella vita politica attuale, ma occorre tener bene presente che non è una verità scientifica."

Naturalmente "verità scientifiche", cioè Leggi naturali, sono solo quelle del mercato: e raggiunti certi "scopi", storicamente contingenti, la sovranità popolare può essere anche "cambiata".
La connessione stessa tra sovranità popolare e democrazia rimane così subordinata al principio di sua utilità rispetto alla realizzazione della Legge naturale, del mercato, assunta come verità scientifica: per questo, anche se la "appartenenza" al popolo della sovranità è scritta nella Costituzione, questa non è scientificamente "vera" ed è quindi soggetta ai cambiamenti dettati dalla "Legge naturale" (del mercato).
Il futuro covava già le uova del sovranazionalismo, beneficiario delle "cessioni" di sovranità, in chi apparteneva alla categoria di coloro che non credono nelle Costituzioni, come ci dice Lucifero. 
Tant'è che, intrapresa la strada del sovranazionalismo, sarebbero inevitabilmente giunti "quelli che non credono nelle Costituzioni, cioè che pensano che il giorno che avessero la maggioranza farebbero quello che vogliono".

BENE COMUNE, BENI COMUNI: MERCATO E PRIVATIZZAZIONI

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Sculture provenienti dall'Abbazia di Cluny

1. Parliamo di "bene comune" e di "beni comuni": sul piano lessicale questi concetti si riferiscono, rispettivamente, all'interesse condiviso da parte di ciascuno e dell'insieme dei componenti di una comunità umana a perseguire il proprio "bene"collettivo, ed alla particolarità di alcune cose o "utilità" di essere fruibili in modo indiviso da parte di una collettività più o meno ampia di persone.
Di fronte a questi concetti, a seguito dell'ordinaria esperienza della vita sociale, possono venire in mente, fenomeni come il condominio degli immobili abitativi (quanto alla gestione della parti di proprietà comune), ovvero certe usanze dell'economia agricola nell'uso di determinati fondi (tipicamente, boschi e pascoli), o, ancora, a livello di immediato senso comune, i beni e i servizi pubblici di ogni tipo.
Su quest'ultima categoria si incentra il problema che deriva dall'uso, sempre più diffuso, della terminologia "bene o beni comuni". 
Laddove, infatti, i rapporti di diritto privato rendano praticamente e agevolmente delimitabile la comunità cui il bene in proprietà e gestione comune è strumentale (al miglior godimento della proprietà individuale), il problema dell'uso del termine "pubblico", non si pone. Siamo di fronte a riflessi necessitati, in base ad un'esperienza sociale ultramillennaria, del modo di essere di alcune proprietà private.
2. Ma in generale, l'uso del termine "bene comune" diventa un problema politico-giuridico allorché divenga sostitutivo del termine "bene pubblico": viene allora da chiedersi da dove origine questa diffusa "sostituzione", quali siano le sue origini e, dunque, gli scopi effettivi di questa scelta terminologica.
La risposta sintetica a queste domande, è che si voglia eliminare l'uso del termine"pubblico", in quanto si abbia la volontà di affermare la inadeguatezza, la insufficienzae la inefficacia(a fini da precisare), del regime di proprietà e di gestione pubblica di determinati beni che, - via via che si sono affermate le democrazie rappresentative e solidali-, erano ascritti alla sfera dello Stato o degli enti pubblici territoriali (cioè quelli che, comunque, nella Costituzione dello stesso Stato, trovano una disciplina di riconoscimento).

Cominciamo con la disciplina della proprietà contenuta nella Costituzione, che trova la sua previsione fondamentale nell'art.42:
"La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.
La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale.
La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità."
3. Come vedete, il concetto di "bene comune" non figura in Costituzione: la proprietà è o privata o pubblica, cioè intrinsecamente "comune" in quanto l'ente pubblico proprietario (a cominciare dallo Stato, come ci dice il primo comma), è considerato normalmente, e per via di altri fondamentali articoli della Costituzione, un'organizzazione comune "a fini generali", rappresentativa di una vasta comunità (identificata per lingua e tradizione culturale comuni, in relazione ad un determinato territorio ove ciò sia storicamente riscontrabile): vale a dire, lo Stato è l'ente (comune) rappresentativo del popolo italiano detentore della sovranità, popolo che la Costituzione si preoccupa di dichiarare "effettivamente" partecipante alla vita dello Stato, impegnando le istituzioni di indirizzo politico, a loro volta necessariamente rappresentative, a svolgere un'azione che ampli e garantisca nel tempo questa partecipazione effettiva.
Il bene comune non statale, o comunque non appartenente ad un ente pubblico territoriale (esponenziale di una comunità che comunque si armonizza nel più ampio popolo sovrano, articolandosi in funzione di certe realtà territoriali considerate "naturali" e come tali riconosciute dalla Repubblica; cfr; art.5 Cost.),è dunque un bene privato.
Il regime della proprietà corrispondente alla legalità costituzionale è chiaro su questo punto.

4. Perché dunque si vuole sempre più utilizzare una categoria propria del regime dei beni privati per sostituirla a quella di "bene pubblico" (e al concetto di "interesse pubblico")?
La risposta più agevole è quella che si rivela dall'effetto sostitutivo appena descritto: al fine di poter affermare che una proprietà e una gestione private, di beni ascrivibili alle comunità territoriali, siano equiparabili a quelle pubbliche. Più precisamente, questa estensione di categorie del diritto privato pare rispondere all'esigenza di generare la convizione che sia indifferente, dato il mantenimento della qualificazione di "comune", che proprietà e gestione del bene, (in precedenza) gestito e utilizzato dallo Stato a favore della comunità dei cittadini, siano in mani pubbliche o private.

Il busillis va dunque spiegato cercando di capire cosa si voglia intendere per "comune", riferendolo al "bene" (cioè all'interesse generale perseguito da una comunità), o ai "beni" (cioè agli oggetti di proprietà, a fruizione o uso collettivo, pubblica o privata).

5. In termini storico-giuridici, la principale fonte di questa aspirazione all'indifferenza terminologica tra "comune" (anche se a titolarità preferenzialmente privata) e pubblico, origina da dottrine provenienti dalla Chiesa.
Sul "bene comune", inteso come aspirazione al benessere della collettività (sostitutivo dell'interesse pubblico), suggeriamo questa fonte riassuntiva contenuta nella Treccani.
Andiamo per sommi capi, partendo dalla diatriba sull'obbligo, o meno, di lavoro dei monaci, che animò la rivalità tra "cluniacensi e cistercensi". Certamente, in assenza dello Stato di diritto in senso moderno, cioè di un'organizzazione comune a fini generali corrispondenti, nei suoi effetti obbligatori, al perseguimento dell'interesse indifferenziato di un'intera comunità territoriale, monaci che si attivavano per procurarsi i mezzi di sopravvivenza e rifiutavano di farsi servire dai "secolari" (essenzialmente servi della gleba, legati alla proprietà immobiliare posseduta dal monastero o ad esso affidata in base a regole canoniche o di diritto feudale, che lavoravano per i monaci o ad essi corrispondevano una "decima"), avevano una credibilità maggiore agli occhi dei potenziali donatori e autori testamentari:
"Mentre la Regola di Benedetto affidava all’abate il possesso di tutti i beni (individuali e collettivi) con i quali questi doveva provvedere ai bisogni dei monaci, i cistercensi rifiutavano ogni possesso, persino quello di chiese e altari. La Carta caritatis, uno dei testi più significativi ai fini degli sviluppi del discorso economico successivo (la versione finale del testo risale al 1147), è su tale punto di una fermezza irremovibile (Stercal 2007; Zamagni 2009). Quale la conseguenza, certamente non voluta, né prevista, di tale duplice atteggiamento? Che lo stile di vita dei cistercensi, ben lontano dal lusso dei cluniacensi e improntato a rigore e povertà estrema, finì per attirare l’attenzione della gente che, persuasa del buon uso che delle liberalità costoro avrebbero fatto, inondò di donazioni i loro monasteri. Accadde così che, nel giro di pochi decenni, i seguaci di Bernardo si trovarono prigionieri della contraddizione che scaturiva dalla loro stessa spiritualità: vita sobria (e quindi bassi consumi) e lavoro produttivo – il sovrappiù agricolo che riuscivano a ottenere era superiore a quello realizzato nelle imprese tradizionali – avevano creato ‘l’imbarazzo della ricchezza’ (Milis 2002; cfr. Pacaut 1970, sulla vita all’interno dei monasteri cluniacensi e sulle difficoltà gravi che tale stile di vita andò a creare a partire dall’11° sec.)".  

6. Ed è qui che, sempre prima dell'irrompere del concetto di Stato e della sua sottoposizione a norme vincolanti a provvedere al benessere della comunità, si colloca la novità e l'evoluzione storicamente legata al concetto di produzione e commercio:

"Ai francescani il merito di aver individuato la via d’uscita dall’imbarazzo della ricchezza con l’invenzione di quel modello di ordine sociale che sarà poi l’economia di mercato. Francesco, fondatore di un movimento eremitico, trasformatosi, con uno sviluppo folgorante, in ordine mendicante, recepisce da Bernardo sia il principio secondo cui i contemplantes devono essere anche laborantes, sia la regola per la quale i frati dovevano rinunciare anche alla proprietà comune. 
Se ne distacca però su un punto fondamentale: se si vuole trovare uno sbocco al sovrappiù generato in agricoltura e nella mercatura, e così superare l’imbarazzo della ricchezza, occorre dilatare lo spazio dell’attività economica facendo in modo che tutti possano almeno potenzialmente parteciparvi. Occorre cioè trovare il modo di far circolare la ricchezza prodotta, onde evitare che essa ristagni nelle mani di pochi.
Come Giacomo Todeschini (2007) ha autorevolmente messo in luce, il convincimento in base al quale vi sarebbe un’insanabile inconciliabilità tra «economia di profitto» ed «economia di carità» è privo di solido fondamento. 
Ecco perché carità e profitto potevano apparire ai magistri francescani (Pietro di Giovanni Olivi, Bernardino da Siena, Bernardino da Feltre, Bonaventura da Bagnoregio, Guglielmo di Occam e altri ancora) e ai più attenti commentatori del modello della civiltà cittadina come le due facce della medesima realtà economica
Asse portante – anche se non unico – della civiltà cittadina è l’economia di mercato, intesa quale struttura di governo delle transazioni economiche (i mercati come luoghi degli scambi già esistevano in epoca greco-romana). I suoi tre principi regolativi discendono tutti, in qualche modo, dal pensiero francescano, prima vera e propria scuola di pensiero economico, come lo stesso Joseph Schumpeter ha riconosciuto nella sua monumentale History of economic analysis (1954). Due sono le novità che il francescanesimo introdusse nell’orizzonte culturale dell’epoca. La prima è che se usare dei beni e delle ricchezze è necessario, possedere è superfluo. Il che porta a concludere che «grazie alla povertà, poteva essere più facile usare e far circolare la ricchezza» (Todeschini 2004, p. 74). La seconda novità è che, se si vuole che la povertà come virtù possa essere concretamente praticata, è necessario che sia sostenibile, cioè possa durare nel tempo. Occorre dunque imparare a gestire il denaro, creando apposite istituzioni finanziarie". 

7. Di questi problemi di origine, interna alla dottrina della Chiesa, della teorizzazione della "economia di mercato"abbiamo già parlato qui, con ampi approfondimenti nei commenti
Quello che più conta sono le conclusioni cui ci conduce la (autorevole) fonte qui adottata. Nelle successive elaborazioni, e nel confronto con l'inevitabile strutturarsi dell'economia mercantilista e, successivamente capitalista, il bene comune diviene una sorta di precondizione di conciliazione tra "economia di mercato" e elemento solidaristico; quest'ultimo, in essenza, è definito, a sua volta, da due elementi: la carità, cioè l'elargizione del minimo per la sopravvivenza a chi, per qualsiasi ragione ne sia privo, e la tendenza a temperare la spinta al profitto, cioè la facoltà attribuita a chi sia impegnato nella produzione e nello scambio, di non massimizzare il guadagno personale in funzione del riconoscimento di legami solidaristici con altri membri della propria sfera sociale di appartenenza.
Entrambi questi elementi, come si può scorgere, al di là della loro funzionalità effettiva a massimizzare il benessere collettivo, si affidano però ad una volontà di "bene" (comune, cioè che riconosce l'altrui interesse come limite alla propria tendenza personale ed esclusiva all'accumulo di ricchezza), che nasce esclusivamente dalla coscienza e dalla spontanea adesione individuale. 
Non è prevista una regola che "imponga" di fare la carità e, specialmente, in quale misura, né esiste un obbligo giuridico (diremmo di diritto positivo) a limitare la spinta al profitto in funzione di legami comunitari e solidaristici. Nondimeno, su queste basi, di "coscienza" e di volontarismo spontaneo (che reggono sull'ipotesi di una comune etica cristiana, per di più intesa in un modo storicamente ben determinato, cioè proprio delle "correnti", prima cistercensi e poi francescane), si assume tutt'ora la possibilità di sostenere sia la preferenza per l'economia di mercato, sia la coesistenza immanente di questa col perseguimento del benessere collettivo.

8. Il capitalismo persegue il "bene totale" e non il bene comune, e, in questo senso, va guidato e corretto in funzione di questa esortazione alla solidarietà volontaristica, ma, comunque ritenuta incoericibile, in base all'interferenza di regole dello Stato:
"La concorrenza, attraverso il meccanismo emulativo, stimola la propensione a intraprendere e induce al calcolo razionale. Dove c’è concorrenza non ci sono posizioni di rendita e quindi privilegi di sorta. Certo, la concorrenza è costosa, ma migliora la qualità, perché induce a ‘individualizzare’ di più i prodotti; a conferire a essi un’identità. Come accade in politica, dove la democrazia comporta bensì costi elevati, ma evita il peggioramento della qualità del vivere civile. 
D’altro canto, come insiste con forza Bernardino da Siena nelle sue Prediche volgari del 1427, se il fine per cui si fa impresa è quello del bene comune, i costi sociali della concorrenza non saranno mai eccessivamente elevati. Nella predica XXXVIII, intitolata De’ mercanti e de’ maestri e come si deve fare la mercantia, si legge: «Per lo ben comune si die esercitare la mercantia» (Prediche volgari sul Campo di Siena, 1427, a cura di C. Delcorno, 1989, p. 1101) e più avanti:
Cosa necessaria a una Città o Comunità si è che bisogna che vi siano di quelli che mutino [lavorino] la mercantia per altro modo; come s’è la lana che se ne fanno: lecito è che il lanaiolo ne guadagni. Ognuno di costoro possono e debbono guadagnare, ma pure con discrezione. Con questo inteso sempre, che in ciò che tu t’eserciti, tu non facci altro che a drittura. Non vi debbi mai usare niuna malizia; non falsar mai niuna mercantia, tu lo debbi far buono e, se non lo sai fare, innanzi la debbi lasciar stare e lasciarla esercitare a un altro che lo facci bene, e allora è lecito guadagno (p. 1138).
Dunque, se il mercante usa la sua ricchezza in vista del bene comune, la sua attività è non solo lecita, ma virtuosa. Si rammenti che è a Bernardino da Siena che si deve la prima sistematica definizione di bene comune dal punto di vista economico (Bazzichi 2010)."

9. In estrema sintesi fenomenologica, l'ipotesi che legittima il sostegno all'economia di mercato è dunque la "fraternità", intesa come patrimonio morale spontaneo della comunità e di ciascun individuo:
"Non c’è modo più semplice per convincersi che il fine del profitto di per sé non è costitutivo dell’economia di mercato che quello di riferirsi agli scritti degli umanisti civili (da Leonardo Bruni a Matteo Palmieri, da Antonino da Firenze a Bernardino da Feltre) e agli autori dell’economia civile del Settecento (Antonio Genovesi, Giacinto Dragonetti, Cesare Beccaria, Pietro Verri, Giandomenico Romagnosi).
La costante che ricorre in tutte le loro opere è che le attività di mercato vanno orientate al bene comune, dal quale solamente esse traggono la loro giustificazione ultima. Una delle prime trattazioni della nozione di bene comune è il De bono communi (1302) del domenicano fiorentino Remigio de’ Girolami. L’idea centrale che il testo sviluppa è che non si dà il bene della parte senza il bene del tutto in cui la parte è inserita: senza l’orientamento al bene comune, la società si distrugge e con essa i singoli individui (cfr. Bruni 2003 per una pregevole ricostruzione storica della nozione di bene comune come opposta a quella di bene particolare, dal Convivio di Dante a Francesco Guicciardini).
Ma in cosa precisamente consiste la differenza tra bene comune e bene totale? Una metafora chiarisce il punto. 
Mentre il bene totale può essere reso con l’immagine di una sommatoria, i cui addendi rappresentano il bene dei singoli, il bene comune è piuttosto assimilabile a un prodotto, i cui fattori rappresentano il bene dei singoli. È chiaro il senso della metafora: in una somma se alcuni degli addendi si annullano la somma totale resta comunque positiva. Anzi, può addirittura accadere che se l’obiettivo è quello di massimizzare il bene totale convenga ‘annullare’ il bene (o benessere) di qualcuno a condizione che il guadagno di benessere di qualcun altro aumenti in misura sufficiente per la compensazione. 
Non così, invece, con un prodotto, perché l’annullamento anche di un solo fattore azzera l’intero prodotto. 
Detto in altri termini, quella del bene comune è una logica che non ammette sostituibilità: non si può sacrificare il bene di qualcuno – quale che ne sia la situazione di vita o la configurazione sociale – per migliorare il bene di qualcun altro e ciò per la fondamentale ragione che quel qualcuno è pur sempre un portatore di diritti umani fondamentali. 
Per la logica del bene totale, invece, quel qualcuno è un individuo, cioè un soggetto identificato da una particolare funzione di utilità e le utilità – come si sa – si possono tranquillamente sommare (o confrontare), perché non hanno volto, non esprimono un’identità, né una storia. Essendo comune, il bene comune non riguarda la persona presa nella sua singolarità, ma in quanto è in relazione con altre persone. Esso è dunque il bene della relazione stessa fra persone; è il bene proprio della vita in comune. È comune ciò che non è solo proprio – così accade invece con il bene privato – e ciò che non è di tutti indistintamente – così accade con il bene pubblico.
La chiave attorno alla quale ruota il discorso sulla legittimità etica dell’attività economica di mercato è dunque la fraternità."

10. Questo insieme di lodevoli propositi, che certamente presuppongono una sforzo ideale e etico, constantemente ritrovabile nell'intera comunità sociale, (dato che la stessa teoria postula che se anche uno solo se ne tira fuori, rischia di azzerarsi il vantaggio di ogni possibile "bene comune"), viene dunque contrapposto all'interesse pubblico incarnato dalle norme dello Stato: inevitabilmente, se lo Stato limita il "libero mercato", da un lato nega la precondizione di diffusione del bene comune, dato che gli individui non potranno più liberamente esercitare la loro spinta solidaristica coessenziale all'iniziativa economica (secondo questa visione, ovviamente), dall'altro, disconosce il carattere esclusivamente privato, e funzionale al bene comune, della stessa illimitata disponibilità e trasmissione della proprietà mediante il "mercato" (se non altro lo Stato vorrà tassare e appropriarsi di una parte della proprietà delle ricchezza prodotta e deciderà di intestarsi  alcuni beni per ragioni di interesse statale, stabilite da norme pubblicistiche). 
Questi elementi, molto più del riscontro degli effetti storico-sociali concreti della teorizzazione, divengono il carattere fondante della teoria del "bene comune".

11. In questo concetto di bene comune, infatti, la scommessa etica della solidarietà insita naturalmente in ogni individuo impegnato a dar vita all'attività di mercato, è data come "vinta", per definizione, e lo Stato finisce per essere oggetto di una presunzione assoluta di intervento distorsivo. Tracce evidenti di questo ordine di pensiero le abbiamo in Roepke (ne trattiamo in "La Costituzione nella palude" pagg.185-186, nota 78) e, in generale, negli ordoliberisti a ispirazione cristiana (che, com'è noto, ammettono l'azione dello Stato in quanto garante e esecutore con regole di "polizia", del libero gioco del mercato e del sistema dei prezzi).
Traendo dalla fonte sopra citata (su relazioni tra "economia sociale di mercato" e dottrina sociale della Chiesa), si ha la conferma della piena attualità di questa visione in aderenza alle sue origini, ma pure della"realistica" consapevolezza, derivante dall'esperienza proprio dello svolgersi delle vicende storiche legate all'economica di mercato, del limite volontaristico, ineludibile, delle "personali" virtù umanistiche e solidaristiche, come tali incoercibili dallo Stato rispetto a qualsivoglia "individuo":
"Che cos'è il liberalismo?", si domanda il nostro autore (Roepke). 
"Esso è umanistico. Ciò significa: esso parte dalla premessa che la natura dell'uomo è capace di bene e che si compie soltanto nella comunità, che la sua destinazione tende al di sopra della sua esistenza materiale e che siamo debitori di rispetto ad ogni singolo, in quanto uomo nella sua unicità, che ci vieta di abbassarlo a semplice mezzo. Esso è perciò individualistico oppure, se si preferisce, personalistico". Dalla definizione di Röpke emerge una nozione di liberalismo che lo sgancia da un'idea dogmatica e rigida dello stesso, evidenziando i connotati di un pensiero umanistico, in quanto non condivide né l'idea pessimistica hobbesiana di un uomo per natura egoista, né quella ottimistica di Rousseau. Il liberalismo di Röpke fa proprio il principio caro alla tradizione dell'antiperfettismo e del realismo cristiano, di Agostino, di Pascal, di Rosmini, di Sturzo, fino ad arrivare a Giovanni Palo II, per il quale l'uomo, benché tenda verso il bene è pur sempre capace di male. Esso è personalistico, poiché "in conformità alla dottrina cristiana, per cui ogni anima umana è immediatamente dinanzi a Dio e rientra in lui come un tutto, la realtà ultima è la singola persona umana non già la società, per quanto l'uomo possa trovare il proprio adempimento soltanto nella comunità". Esso, inoltre, è antiautoritario, rendendo a Cesare quello che è di Cesare, ma riservando a Dio ciò che qualifica il suo rapporto con l'Assoluto: per il cristianesimo è la coscienza individuale che giudica il potere e non viceversa; esso, dunque, rifugge da ogni forma di nazionalismo, razzismo e imperialismo; in breve, è universale. Allora, il liberale per Röpke è "l'avvocato della divisione dei poteri, del federalismo, della libertà comunale, delle sfere indipendenti dello Stato, dei ‘corps intermédiaires' (Montesquieu), della libertà spirituale, della proprietà come forma normale dell'esistenza economica dell'uomo, della decentralizzazione economica e sociale, del piccolo e del medio, della gara economica e spirituale, dei piccoli stati, della famiglia, dell'universalità della Chiesa e dell'articolazione".
...In questa prospettiva andrebbe considerato anche il suo profondo convincimento in ordine alla contiguità ideale tra liberalismo e cristianesimo. In uno dei suoi scritti più celebri afferma: "il liberalismo non è [...] nella sua essenza abbandono del Cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale, e soltanto una straordinaria riduzione delle prospettive storiche può indurre a scambiare il liberalismo con il libertinismo. Esso incarna piuttosto nel campo della filosofia sociale quanto di meglio ci hanno potuto tramandare tre millenni del pensiero occidentale, l'idea di umanità, il diritto di natura, la cultura della persona e il senso dell'universalità". Per Röpke, l'eredità spirituale che il cristianesimo ha tramandato al liberalismo è rappresentata dalla difesa della dignità di ogni singola persona umana contro tutte le forme di statalismo. Il fatto che esistano correnti di pensiero che mettono in discussione tale eredità spirituale, sostenendo, sul versante religioso, l'incompatibilità del cristianesimo con il liberalismo e, sul versante laico, l'incompatibilità delle istituzioni liberali con la fede cristiana, sarebbe il frutto, rispettivamente, di un "moralismo ignorante" e di un "economismo ottuso": "Un moralismo dilettantistico nell'economia nazionale è altrettanto scoraggiante quanto un economicismo moralmente indifferente, e purtroppo il primo è diffuso quanto il secondo".

12. Riteniamo che siano ora chiarite origini e portata del concetto di "bene comune", e che quindi risulti  verificato, nella coerenza del relativo pensiero, come esso sia alternativo e, in termini molto pratici, oppositivo a quello di interesse pubblico generale incarnato dallo Stato costituzionale democratico.
Questa concezione, incentrata sulla virtuosità etica (inevitabile) dell'economia di mercato, fornisce la naturale cornice concettuale del concetto di "beni comuni". In assunto, che verificheremo: il "bene comune" prescinde e si legittima indipendentemente dalla proprietà e dalla gestione pubblica, assoggettata a norme che ne garantiscano la rispondenza all'interesse pubblico (considerato un'interferenza inefficiente sul prodotto finale delle forze del mercato). 
La proprietà privata del bene ad uso collettivo (cioè "comune), - per la sua natura di bene indivisibile o a causa della precedente regolazione statale che considerava prioritario l'interesse pubblico alla proprietà ed alla gestione del bene-,  diviene superflua: quello che conta è l'attitudine solidaristica che, in base alla spontanea virtù dell'operatore privato, tale gestione può sviluppare.
Non si nasconde che tale virtù spontanea possa non esserci e che quindi qualche norma dello stesso Stato possa imporre dei limiti ad un uso volto esclusivamente alla massimizzazione del profitto nella gestione del bene comune; ma quello che, in questa visione, così spesso richiamata dalla politica e dalle giustificazioni del legislatore (essenzialmente dedicatori all'attuazione di direttive europee),  assume carattere di gran lunga prevalente è la sottolineatura della inefficienza dello Stato, della sua corruzione e degenerazione morale e della conseguente maggior legittimazione morale dell'operatore privato sia a gestire con maggiori efficienza, "onestà" e trasparenza il "bene comune". Ovviamente, in questo caso, si parla degli ex beni pubblici, dato che i "beni comuni" già appartenenti naturalmente alla sfera del diritto privato, non avrebbero bisogno di questa dottrina e di queste premesse "etiche" per essere sottratti, quantomeno, alla gestione pubblica.
In tal senso la formale proprietà pubblica rimane un dettaglio secondario: l'importante è che la gestione sia stabilmente e senza possibilità di alternative affidata alle forze del mercato, cioè ad operatori privati.

13. A riscontro di questa sostanziale funzione del concetto di "bene comune", affermativa di un regime privato di gestione, al più volontaristicamente "temperato", riportiamo quanto ci illustra Pietro Folena in suo scritto del 2005. Parte da una spiegazione "didattica" del concetto di bene comune, (ricorrendo poi al ben noto esempio del pascolo ad uso civico ed ai problemi di reciproca limitazione dell'uso individuale consentito ai vari "legittimati"):
"Il concetto di “beni comuni” (“common goods”), in economia, indica originariamente quei beni quali le risorse naturali (acqua, la fauna, ecc.) esauribili, ma dal cui sfruttamento nessuno può essere escluso. I beni comuni sono anche definiti più precisamente come “beni di proprietà comune” – il che non va confuso con la proprietà pubblica, cioè dello Stato o altra istituzione pubblica. Si tratta di una distinzione non secondaria, di cui parleremo più avanti, perché presuppone un diverso modello di gestione, al di là della “mera proprietà”. Il problema originario dei beni comuni era (ed è) quello di stabilire delle regole che permettessero lo sfruttamento tendenzialmente universale della risorsa prevenendone l’esaurimento."
Com'è evidente, la "proprietà comune" non va "confusa con la proprietà pubblica", e quel che è più importante è che è il "diverso modello di gestione, al di là della "mera proprietà".
14. Sulle modalità di gestione lo scritto ci spiega che ne esistono una "liberista" e una "statalista". La prima viene fatta oggetto di una critica, che riporterò solo in parte ma che appare piuttosto confusa, in quanto si incentra su obiezioni non più relative al bene ad uso collettivo o indiviso, ma a distorsioni normali della gestione di proprietà private individuali e, comunque, non risulta del tutto coerente con quanto viene poi affermato (a sostegno della teoria del "bene comune". cioè la "terza via", quella "migliore"):
"...Alla provocazione di Hardin si è risposto con la formazione di due scuole di pensiero. La prima, quella che chiameremo liberista, sostiene che la soluzione della tragedia va ricercata nel mercato. Privatizzare i beni comuni, si sostiene, costituisce un freno all’eccesso di sfruttamento. Riprendendo l’esempio del pascolo, si potrebbe privatizzare il terreno, magari dividendolo tra i diversi allevatori. Nessuno di loro, quindi, potrà depauperare le risorse dell’altro e il pascolo rimarrà in equilibrio. E’ facile però obiettare che nessuno assicura che tutti gli allevatori sfrutteranno la loro parte oltre il limite di sopportazione sistema-pascolo. Può al contrario accadere facilmente che uno di loro decida di farvi pascolare 100 capi. Per un breve periodo, fin quando il pascolo non si sarà esaurito, l’allevatore “rampante” guadagnerà dieci volte il profitto dei suoi concorrenti i quali, a loro volta, saranno indotti a comportarsi alla stessa maniera, distruggendo l’intera risorsa. La natura della proprietà, quindi, non pare essere un freno alla “cupidigia” dei singoli.

Inoltre c’è una questione che non viene affrontata: quando il terreno era un bene comune, in ogni momento un nuovo allevatore poteva decidere di farvi pascolare la propria mandria ma, una volta diviso tra gli allevatori originari, solo loro e i loro eredi potranno sfruttare l’erba che vi cresce. Del resto “privato” non è forse il participio passato di “privare”? Si potrebbe anche pensare che il terreno, stavolta indiviso, venga acquistato da una persona esterna al gruppo di allevatori, la quale potrebbe affittare per l’uso pastorizio a chiunque. In tal modo – sostiene la scuola liberista – il proprietario si comporterà in modo tale che il pascolo rimanga sempre florido, poiché esso è la sua fonte di profitto e sarà suo interesse evitarne il depauperamento. Evidentemente non si può pensare che il proprietario ceda gratuitamente l’uso della risorsa, poiché non guadagnandoci nulla sarebbe indotto a lasciarla deperire...
...La maggiore criticità attualmente è rappresentata dall’acqua, bene comune per eccellenza in quanto assolutamente indispensabile alla vita. Difatti, sebbene ovviamente nessuno abbia mai proposto la privatizzazione della risorsa in sé, i processi di privatizzazione che coinvolgono le reti idriche nei fatti compromettono lo status di bene comune: dove gli acquedotti sono stati privatizzati, infatti, la logica del profitto ha portato a consistenti aumenti delle tariffe, ad un peggioramento della qualità dell’acqua erogata, all’esclusione dei morosi e delle fasce sociali più deboli. Inoltre nei paesi più poveri l’accesso all’acqua è divenuto motivo di conflitti armati (“le guerre dell’acqua”).
15. Insomma, una volta privatizzato il bene, esso è in qualche modo di proprietà individuale e perde ogni connotato il problema della massimizzazione del bene collettivo: se si verificano gli inconvenienti che egli segnala, questi attengono ai normali problemi gestionali della proprietà privata e, in generale, ai c.d. "fallimenti del mercato". Si tratta in definitiva di un attacco alla funzionalità della proprietà privata operabile rispetto a qualsiasi bene suscettibile di utilizzazione economica in regime di mercato (problema che è proprio affrontato dal sopra citato, e dimenticato, art.42 Cost. che, infatti, affida alla legge dello Stato di assicurare la "funzione sociale" della proprietà).

Vediamo invece perché la proprietà e, quel che è più importante, la gestione pubblica non andrebbero più bene come rimedi ai fallimenti del mercato:
"La seconda scuola è quella che potremmo definire socialdemocratica classica. Essa sostiene che il bene comune va semplicemente statalizzato. Sarà infatti lo Stato a dare in concessione il pascolo ai diversi allevatori, in condizione di parità di accesso, o comunque lo sfrutterà per il bene di tutta la comunità. Non è forse lo Stato (almeno in un regime democratico) il più autentico rappresentante degli interessi generali? Vi sono molte ragioni per sostenere questa tesi, né è il caso qui di preoccuparsi di confutarla in nuce. E, tuttavia va rilevato come l’attuale crisi della democrazia rappresentativa, la sfiducia verso la politica di strati sempre maggiori della popolazione, la corruzione, e altri fenomeni degenerativi che in Italia abbiamo conosciuto fin troppo bene pongono qualche interrogativo sulla sufficienza di un controllo statale dei beni comuni. Né è possibile pensare che ognuno di questi possa essere efficacemente gestito attraverso concessioni che mettono in moto innumerevoli ingranaggi burocratici. La soluzione – che nasce dall’esperienza della democrazia partecipativa – come vedremo più avanti, è un’originale mix di autogoverno e socialdemocrazia. Una “terza via” tra il “privato” e lo “statale” che disegna una nuova idea di “pubblico” in cui lo Stato è uno degli attori, non l’unico". 
16. Insomma, lo Stato democratico è in crisi "rappresentativa" per corruzione e altri fenomeni degenerativi. Quindi, non è più in grado di concedere "il pascolo" e garantirne l'uso collettivo in modo  da non suscitare la "sfiducia" dei cittadini e senza "ingranaggi burocratici".
Fatta una ricognizione delle "criticità", poste da vincoli internazionali, che imporrebbero la privatizzazione dei servizi pubblici, inclusa sanità e istruzione, nonchè legate all'allargamento del concetto di "bene comune" ai beni immateriali (qui la spiegazione si fa confusa perché non si comprende più il confine con il "bene privato di pubblico interesse", che, un tempo, era il titolo di un intervento legislativo di tutela statale, ma che ora è affidato alla superiore volontà dei trattati internazionali free-trade, tra i quali viene citata anche la direttiva Bolkenstein), ci offre la soluzione:
"Si è detto che vi sono due modi “classici” per gestire i beni comuni: uno liberista e l’altro “statalista”. Ma l’esperienza della democrazia partecipativa, in particolare del bilancio partecipato, ci dà una terza possibilità: quella che prevede, accanto alle istituzioni pubbliche, comitati di cittadini e associazioni che dicano la loro sulle regole e sulle scelte concrete riguardanti la gestione del bene. Non si tratta di una novità tout court. Qualcosa di simile avveniva sin da Medioevo, soprattutto nei paesi anglosassoni, dove il concetto di “beni comuni” (i “commons”) ha valenza giuridica. Ma anche in Italia esiste una tradizione, che oggi va sotto il nome di “usi civici”. Terreni agricoli e pastorali che appartengono a comunità, gestiti da comitati di cittadini interessati al loro utilizzo, spesso in collegamento con l’istituzione del luogo. Un esempio sono le cosiddette “Regole trentine”, riformate in peius recentemente. Ad esempio, negli Ambiti Territoriali Ottimali per i servizi idrici, è possibile introdurre, accanto al comitato di gestione istituzionale, un comitato formato da cittadini e rappresentanti di associazioni con poteri effettivi di co-decisione. In tal modo il bene acqua cessa di essere un bene “statale” e ritorna alla sua natura di bene “comune”, “comunitario”.
17. La soluzione appare attraente: accanto agli enti pubblici (le istituzioni), si suggerisce l'arricchimento con la partecipazione attiva di "comitati di cittadini e associazioni" che dicano la loro sulle scelte relative alla "gestione del bene".
Ed è proprio questo il punto: se andiamo a vedere cosa è accaduto per i "servizi idrici", non è che poi, né le istituzioni che rimangono formali proprietarie del bene ad uso pubblico, nè questi comitati e associazioni, abbiano molta scelta. 
La forma unica e obbligatoria di gestione del bene pubblico, nel caso l'acqua e le reti e le funzioni varie di pubblica utilità che si accompagnano alla loro distribuzione, è vincolata: l'affidamento a una società privata. Con tutti i problemi, segnalati dallo stesso Folena, di fallimenti del mercato e di "inefficienze" dettate dalla posizione naturale di monopolista "locale" acquisita dal gestore privato e, duque, di tendenza all'instaurazione di una rendita e di contrazione dei costi e della qualità del servizio.
Si verifica cioè nella sua sostanza, e senza differenziazioni rilevanti, esattamente la soluzione liberista che veniva poco sopra criticata: al riguardo basti vedere la disciplina via via introdotta durante gli ultimi anni.

18. Stabiliti gli ambiti territoriali ottimali per una gestione che, in assunto, consenta economie di scala nella gestione delle reti, si finisce per supporre (juris et de jure) che queste economie di scala ci siano e che i gestori privati, stimolati dagli enti istituzionali e dagli eventuali comitati e associazioni che compongono quella che si riduce ad essere una "stazione appaltante", siano effettivamente indotti a politiche di investimenti, manutenzione e trasparenza, nonché tariffarie, "solidali e umanitarie": cioè che appunto tengano conto della prefissazione, in sede di affidamento, di principi regolatori quali 
• la prevenzione dell’esaurimento; 
• il mantenimento della qualità originaria; • il mantenimento – o addirittura l’incremento – della disponibilità della risorsa, stante l’incremento demografico e dei consumi;
• l’accesso universale; 
• la difesa della proprietà comune del bene. 
Ebbene predeterminare in sede di affidamento queste condizioni, in realtà, consegue alla condizione di monopolista locale dell'affidatario, cosa che si avrebbe cioè immancabilmente in qualunque forma di privatizzazione della gestione, comunque la si voglia giustificare e denominare: tuttavia, il sistema complessivo di controlli pubblici è, esattamente come in qualsiasi privatizzazione, reso arduo dalla debole resistenza del settore pubblico alla "forza politica", derivante da quella economica, del gestore. Si privatizza e si espone il controllore pubblico al pericolo della capture, che contraddistingue tutte le forme di "regolatori" rispetto ai settori "privatizzati" e, comunque, tutti i regolatori "settoriali", come ci insegna l'esperienza, anche attuale, e, in ogni modo una sterminata letteratura giuridico-economica sul tema.

19. Insomma, quando si parla di beni comuni e di affidamento della loro gestione, si parla di monopoli naturali: la concorrenza all'atto dell'affidamento non elimina questo problema e neppure può eliminarlo una gestione partecipata in fase di determinazione delle condizioni di (obbligatorio) affidamento al settore privato.
Tra teoria dei "beni comuni" e privatizzazione tout-court della gestione, - cioè della facoltà essenziale del proprietario, quella che attribuisce al bene il suo vero "interesse pubblico" comunitario e che, un tempo, era affidata al settore pubblico attraverso la formula dell'azienda autonoma, cioè tramite organi dello Stato o dell'ente locale territoriale-,  non si scorge alcuna differenza.
Il privato, per quanto pressato da "associazioni e comitati", ed ammesso che questi abbiano un'effettiva attitudine a far rispettare le condizioni di interesse generale (dell'affidamento) più degli enti territoriali pubblici, i quali, almeno, hanno una responsabilità elettorale verso i cittadini interessati, dovrà agire secondo logiche economiche e di equilibrio aziendale: i profitti in qualche modo devono emergere per remunerare il capitale e indurre all'investimento almeno "lordo" (la manutenzione e l'operatività effettiva di funzioni come la depurazione delle acque, l'effettiva raccolta distinta tra acque meteoriche e acque di risulta fognaria, ecc.). La maggior efficienza di un monopolista privato, per quanto sottoposto a controllo istituzional-partecipativo, rimane pur sempre dubbia: di certo è indimostrato che sia superiore a quella ottenibile dagli organi tecnici pubblici che una volta gestivano senza problemi di "fallimento del mercato".

20. Per concludere, riportiamo quanto osservato sul tema da Massimo Florio, il più attento studioso italiano delle privatizzazioni e dei loro effetti:
"Ho cercato di dimostrare che (a seguito di privatizzazioni e liberalizzazioni, ndr.) 

(a) i cittadini in genere hanno guadagnato poco o nulla dalle privatizzazioni, (b) le fasce di utenti più povere hanno pagato prezzi più alti,

(c) i contribuenti ci hanno rimesso perché lo stato ha venduto a prezzi troppo bassi e in vari casi ha perso entrate,

(d) la produttività delle imprese non è aumentata significativamente,

(e) i maggiori beneficiari sono stati gli azionisti, gli intermediari finanziari, i consulenti (in una parola la City).



Mi sono anche occupato di privatizzazioni in Italia, in dieci edizioni del Rapporto sulla Finanza Pubblica e in altri interventi (tra i quali La sinistra e il fascino concreto delle privatizzazioni).

La mia lettura del caso italiano è che le cose qui sono andate anche peggio che in Gran Bretagna. 
Sia i governi di centro-sinistra che quelli di centro-destra hanno cercato di fare cassa vendendo soprattutto banche, telecomunicazioni, autostrade, aziende del settore dell’energia, anche altro, ma con effetti del tutto irrilevanti o modesti sul piano dell’efficienza e del benessere degli utenti, e invece distribuendo rendite ad ambienti capitalistici più o meno parassitari.

Mi sono convinto, soprattutto studiando il caso Telecom Italia (in I ritorni paralleli di Telecom Italia), che la vera origine delle privatizzazioni non sia il liberismo, anche se ovviamente i miti della libera concorrenza hanno avuto un peso nella retorica, ma uno scambio fra rendite politiche e finanziarie
La tesi che ho sostenuto (in Le privatizzazioni come mito riformista) è che in particolare la sinistra, oltre più ovviamente la destra, abbia cercato di accreditarsi presso i gestori della finanza offrendo loro in pasto delle attività perfette per montarvi operazioni speculative, garantite dalla dinamica nel tempo dei flussi di cassa. Il caso delle autostrade è in questo senso emblematico. Il rischio imprenditoriale è nullo, la rendita garantita, gli investimenti attuati minimi e neppure rispettati, le tariffe aumentano con e più dell’inflazione, il contribuente continua a farsi carico della spesa per la rete in aree meno ricche e più a rischio (vedi autostrada Salerno-Reggio Calabria e grande viabilità interregionale), mentre un ambiente imprenditoriale come quello dei Benetton e altri sono diventati dei concessionari, con tutto quello che questo implica di rapporti con la politica. In tutti i settori privatizzati le spese di ricerca e sviluppo sono diminuite, indebolendo il potenziale tecnologico. Più recentemente mi sono occupato della dimensione europea delle liberalizzazioni e privatizzazioni (ne L’esperienza delle privatizzazioni), in particolare di elettricità, gas, telefonia, giungendo a queste conclusioni per i quindici stati dell’Unione Europea prima dell’allargamento nel 2004: (a) soprattutto per l’elettricità le privatizzazioni hanno comportato aumenti dei prezzi per i consumatori; (b) la separazione delle reti dalla gestione (vedi Terna, Snam Rete Gas, ecc.) è spesso costosa e senza chiari vantaggi per la concorrenza; (c) l’introduzione della concorrenza peraltro ha mitigato ma non rovesciato in benefici mezzi questi effetti avversi; (d) indagini ufficiali dell’UE, come quelle di Eurobarometro, mostrano che i consumatori si dichiarano più soddisfatti nei paesi che hanno adottato meno le privatizzazioni; (e) dove c’è stata più privatizzazione è aumentato il numero di famiglie in difficoltà nel pagare le bollette.

Verso dove andiamo? Sono convinto, anche osservando l’esperienza degli Stati Uniti, che l’appetito illimitato del capitalismo finanziario, quindi il suo immettere nel gioco sempre nuove scommesse, condurrà alla privatizzazione dello stesso stato sociale, cioè sanità, istruzione, previdenza e persino assistenza; e forse anche di alcune funzioni classiche dello stato come difesa, ordine pubblico e giustizia. In altre parole lo scenario è quello dello “stato minimo”.
Le ragioni di questa tendenza, di nuovo, non hanno molto a che vedere con efficienza e competizione. Non esiste alcuna evidenza empirica che possa sostenere che in generale la gestione privata di ospedali, consultori, asili nido, scuole, università, pensioni, ecc. consenta abbattimenti di costi.
Dove li si osserva sono dovuti, in generale, a riduzioni reali di stipendio dei dipendenti o a condizioni di lavoro peggiori, spesso con abbassamento conseguente della qualità delle prestazioni, oppure al ricorso a personale immigrato.

Ovviamente, nel settore pubblico, ad esempio nelle università, si annidano aree anche ampie di parassitismo sociale:ma sarebbe molto meno costoso, e quindi più produttivo, motivare i dirigenti e sensibilizzare gli utenti dei servizi pubblici, eliminando così questa patologia attraverso un maggiore controllo democratico e un management di qualità.

Viceversa, quello che ci attende è una tendenza a creare una “industria” della sanità, dell’educazione, della pensione complementare. Negli USA questi settori sono ben presenti in borsa o in altri circuiti finanziari, spremono alte rendite dagli utenti grazie al fatto che comunque, nonostante le apparenze, operano in mercati non competitivi, e soprattutto costituiscono formidabili lobby in grado di impedire, ad esempio, ad Obama di riformare efficacemente la disastrosa sanità statunitense.

Una volta che si creano gruppi che controllano i flussi di cassa derivanti dal controllo dell’energia, dell’acqua, della sanità, della previdenza, ecc., la stessa democrazia come la abbiamo conosciuta in Europa nella seconda metà del 900 è a rischio.

La capacità dei gruppi finanziari che controllano gli ex servizi pubblici di influire sui governi e sulle stesse opposizioni parlamentari diviene così formidabile che, di fatto, diventa impossibile tornare alla gestione pubblica. Semplicemente diventa più facile comprare i governi, i parlamentari, i giornalisti, gli economisti, e il dissenso viene emarginato. Il vero rischio delle privatizzazioni perciò non è la relativamente piccola perdita di benessere sociale (ma non trascurabile per i gruppi in fondo alla scala sociale), caso per caso, industria per industria, ma il rischio politico-economico per il sistema nel suo insieme. Questo aspetto è stato colto nell'ultimo scritto di Tony Judt, uno storico della New York University, recentemente scomparso. “Come nel diciottesimo secolo”, egli scrive, “così oggi: svuotando lo stato delle sue responsabilità e risorse, ne abbiamo ridimensionato la centralità nella vita pubblica. Ne risultano ‘comunità fortezza’, intese nelle varie accezioni dei termini: settori della società che considerano se stessi fondamentalmente indipendenti dai funzionari pubblici e dal resto della società. Se ci si abitua a trattare unicamente o principalmente con agenzie private, nel tempo la relazione con il settore pubblico perde di cogenza e significato. Non importa che il privato faccia le stesse cose, meglio o peggio, a un costo maggiore o minore. In ogni caso, si finisce per perdere il senso di fedeltà alle istituzioni e di comunanza con gli altri cittadini”.E’ un processo ben descritto da Margaret Thatcher in persona. “La società non esiste affatto”, ella scrive: “esistono solo individui, uomini e donne, e famiglie”.

Se non esiste la società, ma solo gli individui e uno stato che agisce da “guardiano notturno” (supervisionando da lontano attività alle quali non prende parte) che cosa ci tiene, e ci terrà, insieme? Abbiamo già accettato la formazione di polizie private, di servizi di posta privati, di agenzie private fornitrici dello stato in tempo di guerra e molto altro ancora. Abbiamo “privatizzato” esattamente quelle responsabilità che lo stato moderno aveva laboriosamente riunito sotto la propria cura nel corso del diciannovesimo e del ventesimo secolo, afferma sempre Judt.

La mia lettura di ciò che sta accadendo è quella di un rischio per la coesione sociale e per la qualità della democrazia.  
E’ questo l’effetto generale della distruzione del faticoso compromesso raggiunto in Europa dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale fra la tendenza instabile e potenzialmente sempre autodistruttiva del capitalismo e un modo di produzione statale, che, con tutti i suoi limiti, sottrae una parte della società alle febbri speculative. In questo senso, il compromesso “socialdemocratico” europeo, il “modello sociale europeo” e la stessa costruzione dell’UE, nonostante ovviamente non siano un’alternativa al capitalismo, sono l’unica eccezione rimasta in campo al dilagare della finanza globale. Ed è un’eccezione oramai vicina ad essere travolta, anche per la fondamentale incomprensione di buona parte della sinistra europea dei processi in atto (quando non si tratta piuttosto di corruzione più o meno mascherata dei partiti e dei sindacati “riformisti”).

Dunque la mia lettura della recente crisi globale (in Antologia della crisi globale) pone la questione della modifica strutturale dei rapporti di forza fra lavoro e capitale al centro della spiegazione di ciò che sta accadendo, e che trova nelle liberalizzazioni e privatizzazioni un elemento costitutivo. Solo una soggettività politica molto determinata potrebbe a questo punto invertire il processo."

CAFFE' AVVERTIVA "O KEYNES O IL MONETARISMO DEFLAZIONISTA": ATTUALE SI' MA PERCHE'...SENZA "EUROPA"?

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1. Mi sono imbattuto in questo scritto di Piero Roggi, uno storico dell'economia, che risulta interessante per la ricostruzione del pensiero di Federico Caffè. 
Senza volerne fare una critica stringente, alla riproduzione di alcuni brani salienti, aggiungerò alcune osservazioni preliminari:
a) la ricostruzione non entra nella questione europea. Se, da un lato, Caffè non poté assistere alla vicenda di Maastricht e dell'euro, nondimeno, noi abbiamo vistoampie tracce del suo pensiero sullo SME e sulla influenza della costruzione europea sulle politiche economiche italiane
Di queste forti prese di posizione, talmente forti che non pare ragionevole liquidarle come irrilevanti nella visione politico-economica di Caffè, non vi è riscontro nello scritto in questione;anche considerando che le stesse si coordinano con il ruolo di Caffè quale propositore di politica economica, raccordata esplicitamente al disegno della Costituzione del '48 e alla sua visione del ruolo dello Stato;

b) neppure risulta presa in esame la questione delle "funzioni e dei compiti" dello Stato, nell'ambito economico che, nell'impostazione di Caffè, ne caratterizzano la forma di governo democratica, e proprio in relazione al problema fondamentale dei conti con l'estero, cui pure dedica importanti riflessioni in ordine alla scelta fondamentale, proposta e risolta dal sistema della Costituzione economica: che è quella relativa a "ciò che dovrà essere prodotto nel Paese e ciò che dovrà essere ottenuto in cambio dall'estero", problema che egli tende a contrapporre all'atteggiamento degli "esaltatori acritici dello sviluppo degli scambi internazionali";

c) in conseguenza di questa "rimozione" della visione di Caffè relativa al "problema europeo" e - almeno in parte, quanto agli aspetti del "vincolo monetario"-, ai conti con l'estero e all'apertura indiscriminata dell'economia, gli interessanti spunti della ricostruzione che (in parte) vi riporto, esigono a mio parere un'integrazione tra diversi momenti storici e diverse sedi in cui Caffè stesso esprime un pensiero che, sul piano ricostruttivo, non può essere scisso isolando questo o quel momento espressivo. 
Questa visione da integrare, risulta ben espressa allorquando Caffè afferma che nel "seguire programmaticamente il ricatto dell'appello allo straniero"..."ci si propongono come modelli di efficienza paesi che scaricano le difficoltà cicliche sui lavoratori stranieri, o associano le virtù tecnocratiche alla più elevata maldistribuzione del reddito";

d) infine, la parte finale del brano estratto tratta, in qualche modo, del rapporto tra Marx e Keynes. Questo aspetto è risolto in un modo che potremmo definire "classico", nella riportata prospettiva di Caffè (che forse ha avuto anche altre intuizioni sull'argomento; certamente le ebbe Lelio Basso): rammentiamo peraltro che la questione è suscettibile di interessanti risvolti, ipotizzati da Bazaar e supportati da Arturo. Il tema, scientificamente affascinante, merita, un approfondimento...

2. Rimanendo aperto alle vostre osservazioni e alle vostre capacità "filologiche", per integrare e approfondire queste brevi osservazioni preliminari, segnalo che l'interesse della ricostruzione, nell'estratto prescelto, risulta anche in una sintesi approfondita della critica di Caffè a Einaudi (per quanto retrospettiva e fondata, come tutto lo scritto, essenzialmente su fonti risalenti agli anni '40 e '50, con limitate citazioni di scritti più recenti).
Tale ricostruzione critica risulta particolarmente attuale, dato che il (ricorrente, in termini storico-economici) desiderio di restaurazione (neo)liberista, dettato dall'€uropa (proprio ieri il FMI è tornato alla carica seguendo i canoni classici delle "riforme"), pone aspetti critici che, peraltro, appaiono proprio oggi ignorati, pur di fronte a una diffusa "commemorazione" di Caffè...da parte degli stessi che ne contraddicono le pur chiare indicazioni.

3. Alla luce di queste "meditazioni" introduttive, vi auguro buona lettura (riporto per esteso alcune note significative al testo, con modeste aggiunte, in corsivo, relative alla corrispondenza delle note rispetto all'analisi che vi rinvia):

"...Veniamo ora al nostro terzo punto; come applicò Caffè il criterio classificatorio alle sue narrazioni? 
Si potrebbe dire che la politica economica è come le Tavole della Legge. Non una regola religiosa, ovviamente, ma soltanto economica. Eppure, come il decalogo mosaico, mentre prescrive, implicitamente condanna...
Ecco perché la sistematica prescrittiva di Caffè è strutturalmente binaria: la politica giusta da una parte, la politica sbagliata dall‟altra. 
Ecco qui le politiche giuste: il welfare state; la politica del debito pubblico (da non in-tendersi come figlia del lassismo amministrativo, ma come l‟emolliente ideato da Keynes per stemperare l‟ira dei poveri); la politica salariale in salsa radicale (la riqualificazione mansionaria) e in salsa sintomatica (la moderazione salariale ricompensata, inserita come clausola dentro un patto sociale col governo, la nostra concertazione); infine la politica della bilancia commerciale: politiche tutte, appartenenti alla grande famiglia dell‟economia del benessere.

Ecco, invece, le politiche da punire
Cominciamo dal “monetarismo deflazionistico”, voluto da Einaudi(1947): alla fine, sì solo alla fine, il sistema economico ritroverà naturalmente l‟equilibrio perduto. 
Ma a quale prezzo? Se la massa monetaria sarà decurtata; se i salari, flessibili solo in teoria, scemeranno; se la produttività del capitale rialzerà la testa; se, infine (senza inflazione), pure il saggio d'interesse fletterà; allora e non prima di allora, sottolinea Caffè, cioè con un ritardo insopportabile, gli investimenti saranno finalmente sospinti in alto e il sistema economico ritroverà il suo equilibrio naturale senza interventi esterni.  
E tutto in nome del rigore, un rigore che assomiglia molto a un rigor mortis.

Una politica economica del genere accumulerà certamente oro e riserve valutarie. Ma sarà l'avara politica del salvadanaio (la chiamerà così Caffè). 
Come dire che i pensieri dell'‟avaro" Einaudi furono pesanti e lividi come il metallo che volle accumulare. 
La stessa politica di Einaudi, oltretutto, rivalutò inaspettatamente il cambio della lira sul dollaro: non lo fece per convenienza economica, ma per riaffermare il prestigio nazionale (28: Si è «preferita la via che ha portato alla sterile accumulazione delle riserve in dollari […] a sostegno di una quotazione di prestigio della nostra moneta» (F. CAFFÈ, Bilancio di una politica (II), 1949, in Federico Caffè. Un economista per gli uomini comuni, cit., p. 283).. 

Einaudi, poi, volle che la sua politica si imperniasse nella sovrana figura del consumatore, circondata da tanti produttori pensati come sudditi genuflessi,(29: «La sua descrizione del mercato è piuttosto remota dalla realtà contemporanea […]. Oggi, la logica di Einaudi di un mercato come “servo ubbidiente della domanda” risulta sovvertita» (F. CAFFÈ, Nota in-troduttiva, in L. EINAUDI, Lezioni di politica sociale, IV ed., Torino, Einaudi, 1972)...
...una politica tendenzialmente anarchica, finalmente liberata dai proverbiali “lacci e lacciuoli” tesi dai potentati di turno. Come dire che in questo modello economico il solo sovrano sarebbe il consumatore. Peccato che le cose non stiano esattamente così. 
In altra occasione Caffè concede a Einaudi l'‟onore delle armi  con una dichiarazione che ricorda vagamente l‟elogio di Pasquale Villari rivolto alla filosofia “essenzialista” di Bacone, definita, per non infierire, come ottima palestra intellettuale.

Concentrerò ora la mia attenzione sulla politica sindacale che nientemeno riposa su un vizio morale: l'intemperanza
Ecco il sillogismo caffeiano: se i suoi frutti sono la disuguaglianza crescente fra i poveri, ovvero gli iscritti da una parte e i sottoccupati non tute-lati dall‟altra" (ma è esagerato chiedere – pare sfogarsi Caffè – che almeno l‟ingiustizia sia uguale per tutti i poveri"?), se questa stessa politica fa leva sulla tendenza del sindacato al prestigio e a far cassa (tutelando le categorie impiegatizie e trascurando quelle operaie); se mostra la sua riluttanza a smantellare la scala mobile, irrobustendo la disuguaglianza fra poveri; se la cecità gli impedisce di vedere la contromossa governativa in agguato, la trappola nascosta pronta a scattare (il monetarismo deflazionista); allora il vizio morale su cui riposa – l‟intemperanza salariale – mostrerà presto tutti i suoi effetti perversi: disoccupazione, sottoccupazione e, secondo le parole di Beveridge, odio sociale. 
(33: «Il male maggiore della disoccupazione non è la perdita di quella ricchezza materiale che potremmo avere in più in regime di piena occupazione. Vi sono due mali maggiori: il primo, che la disoccupazione fa sembrare agli uomini di essere inutili, indesiderabili, senza patria; il secondo, chela disoccupazione fa vivere gli uomini nel timore e che dal timore scaturisce l‟odio» (F. CAFFÈ, Beveridge, William H., 1948, in Fe-derico Caffè. Un economista per gli uomini comuni, cit., p. 422).

Ecco ora la politica sindacale intelligente. 
Essa non è monocorde, ma possiede almeno due chiavi musicali. La prima ha a che fare con la riqualificazione delle mansioni, con lo scopo di recuperare i sottoccupati non iscritti (il sindacato che trascura gli ultimi è come lo scrittore che trascura la punteggiatura: sarà difficile, poi, farsi capire dalla povera gente!); una politica, questa, che si fonda sulla teoria economica di Tinbergen (i differenziali salariali dipendono dalle tensioni nelle mansioni)

La seconda politica sindacale “intelligente” è invece quella della moderazione: non la politica dei redditi nuda e cruda, ma la politica di moderazione salariale ricompensata dal governo con un patto sociale che preveda la detassazione e gli incentivi in busta paga, fino al “reddito di cittadinanza” (35: Ndr, come vedremo dalla riportata nota Caffè non parla di reddito di cittadinanza ma di "sussidi", che, nel contesto, appaiono legati alla condizione di disoccupazione; in un mercato del lavoro non ancora riplasmato dall'adesione all'euro e, comunque, di gran lunga anteriore, siamo infatti nel 1957, all'introduzione dello Statuto dei lavoratori e dei meccanismi di integrazione salariale e di altri "stabilizzatori automatici" oggi vigenti: «Si renderebbe invece necessaria un'intesa per una stabilizzazione salariale. In definitiva un patto sociale […] per il quale le autorità governative garantirebbero ai lavoratori una riduzione annuale delle imposte dirette […] o il pagamento di sussidi […]. Di qui l‟esigenza di una politica salariale coordinata su base nazionale, (ndr; l'esatto opposto di ciò che oggi ci "prescrive" il FMI, sopra citato) che consentisse un realistico mercanteggiamento delle opportune rinunce e delle giustificate contro partite». (F. CAFFÈ, Istanze salariali e stabilità monetaria, 1957, in Federico Caffè. Un economista per gli uo-mini comuni, cit., p. 163).. 

Come dire che la sapienza sindacale si riassume tutta nella moderazione, che il diritto spinto all'‟eccesso diventa torto" e che l‟arancia troppo spremuta sprizza l'amaro in bocca". Le politiche suggerite da Caffè esprimono, insomma, l'assunto base della politica pigouviana del benessere: se gli iscritti al sindacato non ci rimettono e se i non iscritti sottoccupati ne traggono un qualche beneficio, allora il benessere totale della povera gente crescerà. 

...sugli sforzi compiuti da Caffè e dai suoi collaboratori per capovolgere la politica sindacale della CGIL. 
Essi sostennero tali sforzi richiamando il sindacato al Piano del Lavoro del 1949, piano d'impianto non marxista ma keynesiano, sollecitandolo a smantellare il mito marxiano di un capitalismo in procinto di crollare e invitandolo a un sindacalismo più intelligente, pronto a confrontarsi con un capitalismo lontano da quello primitivo e ormai capace a sopravvivere a se stesso. 
Il sindacato non ascoltò il loro messaggio (ndr: siamo nel 1980) e non tenne conto nemmeno dell'ironia di quello scrittore che disse: «La lezione di questi ultimi decenni è l'indistruttibilità del capitalismo. L'aveva intuito lo stesso Marx quando evocò l'infelice metafora del vampiro che succhia il sangue dei lavoratori. I vampiri, avrebbe dovuto saperlo il tedesco Marx, sono creature che non muoiono mai». 
Il sindacato, insomma, non ascoltò e lo sforzo di Caffè non dette risultati apprezzabili.
I martellanti inviti rivolti da Caffè e dai suoi collaboratori, dunque, non furono raccolti. Egli li riassunse in una famosa lezione tenuta presso la scuola di formazione CGIL di Ariccia. 
Non si trattò di una lezione tradizionale, ma una specie di sermone, o meglio di una Summa Teologica del suo criticismo sindacale. 
Una lezione spesso interrotta, contestata, incompresa.
(38: «Non è che voglio vendere nessun prodotto, voglio dirvi perché esiste un certo orientamento di pensiero […] – non è che sto facendo propaganda – sto spiegandovi […]. A me pare che il grosso messaggio del sistema keynesiano, che rimane valido, sia soprattutto questo invito a darci da fare, a non essere inerti, a renderci conto che il capitalismo comunque l‟abbiamo fra i piedi, ci piaccia o no, e che ogni illu-sione che stia per crollare è un‟illusione eterna […]. Questa è la conclusione piuttosto sconfortante con la quale io finisco (F. CAFFÈ, Keynes, i keynesiani e lo stato Capitalistico moderno, lezione inedita alla scuola sinda-cale della CGIL di Ariccia, 1980, in Federico Caffè. Un economista per gli uomini comuni, cit., pp. 762-770).

Insomma una lezione mal digerita da chi riluttava a rimpiazzare mentalmente il busto del vecchio Marx con quello di Keynes. E non si trattava semplicemente di rimpiazzare una statua, ma di sostituire tutto il paradiso comunista col più realistico purgatorio di un'economia bisognosa di continui ritocchi e perseveranti riforme. 
Ciò che il sindacato non accettò, in quell'occasione, fu il riformismo di Caffè. Il suo rammarico fu grande. 
Ma ne uscì senza deprimersi; anzi, contrattaccando. 
Pubblicò un saggio intorno ad un'ideale gerarchia di merito fra i vari operatori di politica economica. Non fu per narcisismo che lo pubblicò. 
Si trattò piuttosto di un tentativo per distinguere il grano dal loglio. Nella posizione più bassa della classifica sistemò il politico intuitivo e incompetente; poco più sopra lo storico della politica economica, una figura con lo sguardo rivolto esclusivamente al passato; in cima lo scienziato della politica economica, cioè chi come lui esaminava gli effetti di politiche future alternative per sceglierne poi la migliore.
Una classificazione, la sua, apparentemente inoffensiva, ma velenosamente rivolta contro il sindacalista intuitivo e incompetente: un cieco! Un cieco che guida altri ciechi e che meriterebbe d'esser operato di cataratta.

4. Sappiamo poi quale esito, nel corso di pochi decenni, abbiano avuto questa ostinazione sindacale e l'incomprensione dell'esortazione di Caffè, di fronte all'irrompere della liberalizzazione dei capitali e all'affermarsi, come paradigma unico, del monetarismo deflazionista imposto dallo SME, prima e poi dall'euro. Quest'ultimo tutt'ora considerato, dagli stessi sindacalisti, succeduti ai predecessori che attendevano "la fine del capitalismo", un argomento intangibile.
Evidentemente, ancora attendono, fiduciosi nella "caduta" e...nell'euro.
 

LA "PROFEZIA" TINA DELL'ITALIA: LA GRANDE EQUALIZZAZIONE

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ETTEPAREVA...
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AVVERTENZA: CHI TROVASSE FATICOSO  SEGUIRE LA LETTURA DELL'INTERO POST, PUO' ANDARE DIRETTAMENTE AL PUNTO 5 E SERVIRSI DELLE PREMESSE SOLO PER VERIFICARE ALCUNI PASSAGGI DELLE CONCLUSIONI.
1. Abbiamo più volte parlato del problema demografico che, come ognun ormai saprà, si collega a quello dell'emigrazione: noi come italiani siamo nel "nord" del mondo, si dice, perciò vecchi-vecchi e incapaci di darci da fare, sicché, abituandoci nuovamente alla durezza del vivere, avremo, si deve supporre, i mezzi culturali e, specialmente, politici per uscire dall'irreversibile declino.
Per capire i rationalia di questo ragionamento, - che ovviamente non coinvolge solo l'Italia, ma che agli italiani viene proposto con dovizia di particolari sostanzialmente colpevolizzanti e con prospettive di salvifica inevitabilità- basti leggere questo lungo studio.

2. Ne traggo un paio di passaggi a titolo esemplificativo delle conclusioni:
"Dagli anni ’90 del Novecento è iniziata nel Nord del mondo quella che alcuni demografi definiscono una “seconda transizione demografica” (ben diversa dalla seconda fase della prima transizione, descritta sopra), che caratterizzerà il XXI secolo. Essa consiste in un ulteriore declino sia della mortalità sia, soprattutto, della fecondità e della natalità, che dovrebbe avere come conseguenze, nei prossimi decenni:
a) un calo della popolazione, più o meno intenso e rapido nei diversi paesi del Nord; b) un intenso e “devastante” mutamento della loro struttura per età, con un forte invecchiamento della popolazione.
Ciò accade perché nel Nord del mondo, che aveva completato negli anni ’70 del Novecento la prima transizione demografica, il tasso di fecondità (e di conseguenza la natalità) ha proseguito a calare, ben al di sotto della media di due figli per donna che assicura il ricambio generazionale (cioè appunto la “crescita 0”, la stabilità della popolazione). Questo fenomeno, che non ha precedenti nella storia, iniziò in alcuni paesi come l’Italia e il Giappone, che sono infatti i paesi più “vecchi” del mondo, con un numero medio di figli per donna compreso tra 1,2 e 1,3; ma si è poi esteso alla maggior parte dei paesi sviluppati.
Nel Sud del mondo, sempre dagli anni ‘90, è emersa una differenza rilevante tra due situazioni (vedi tab.2):
il tasso di fecondità è calato sensibilmente, e continua ad abbassarsi verso o sotto i due figli per donna, nei cosiddetti “paesi emergenti”: la Cina, il resto dell’Asia orientale e l’America Latina;
il tasso di fecondità rimane molto alto, e cala più lentamente, in un altro gruppo di paesi localizzati nell’Asia sud-occidentale e, soprattutto, nell’Africa subsahariana: i cosiddetti “paesi “a sviluppo minimo”.

Tab.2 I tassi di fecondità, presenti e futuri, nelle diverse aree del mondo
[da A.Golini, 2011, p. 52]
Numero medio di figli per donna nel quinquennio 2000-05Numero medio di figli per donna previsti nel 2045-50
1,6 nei paesi sviluppati (di cui: Giappone 1,3; Europa occ. 1,4; Russia, Europa or. e balcanica, Canada, Oceania 1,6; Usa 2);
2,9 nei paesi in via di sviluppo (di cui: Cina; 1,7; resto dell’Asia orientale 1,9; America Latina 2,5; Asia meridionale 3,2; Asia occidentale 3,5; Africa 5,0)
1,8 in tutti i paesi sviluppati, con oscillazioni minime (0,1) tra di essi;
2,1 nell’insieme dei paesi in via di sviluppo, ma con rilevanti differenze: America Latina, Asia orientale e meridionale 1,9; Asia occidentale 2,0; Africa 2,5.
Questa evoluzione induce i demografi a sostituire alla distinzione Nord-Sud del mondo una tripartizione fra:
A. paesi economicamente sviluppati, che si trovano ormai nella seconda transizione demografica;
B. paesi “emergenti”, che sono nella seconda fase della prima transizione demografica;
C. paesi “a sviluppo minimo”, quasi tutti nell’Africa subsahariana, che sono ancora nella prima fase della prima transizione demografica, con alti tassi di fecondità e perciò un forte aumento della popolazione.
Nella prima metà del Duemila, questi tre gruppi di paesi hanno problemi demografici molto diversi, a causa delle grandi differenze nella composizione della popolazione per fasce di età tra giovani (sotto i 15 anni), adulti in età lavorativa (15-65 anni), e anziani (oltre i 65 anni), come si vede nella tabella 3.


Tab. 3 Popolazione mondiale nel 2005 e nel 2050(in milioni e in %)per fasce d’età e per aree
[da A.Golini 2011 su dati Onu 2007]

areepaesi “sviluppati”paesi “emergenti”paesi “a sviluppo minimo”Mondo
fasce età< 1515-65> 65< 1515-65> 65< 1515-65> 65totale:
Nel 200520782318613232941267318423256516
Nel 205018973132511474008104849111311209191 (¹)
Incremento-18– 92+139-176+1067+781173+708+95+2675
Increm.%-0,8-11+75– 13+36+290+54+167+380+40
2005/tot.(²)17%31%15%29%65%6%41%55%3%
2050/tot.(²)15%21%26%18%64%17%28%65%7%
...
Per effetto di questi mutamenti, si prevede che nella prima parte del XXI secolo:
a) la popolazione giovane (sotto i 15 anni) calerà nel mondo di circa 15 milioni, come esito combinato di: un leggero calo nei paesi progrediti (nei quali è già calata moltissimo); un forte calo (176 milioni= -13%) nei paesi emergenti; un forte aumento (173 milioni= +54%) nei paesi a sviluppo minimo.
b) la popolazione in età lavorativa aumenterà di quasi 1,7 miliardi, con fortissime differenze nelle tre aree: -92 milioni nei paesi progrediti; +1067 milioni nei paesi emergenti; +708 milioni nei paesi a sviluppo minimo: si pensi che per impiegare il 70% di questi 1,7 miliardi di lavoratori, servirebbero 1250 milioni di nuovi posti di lavoro!
c) la popolazione anziana (oltre i 65 anni) crescerà nel mondo di 1 miliardo: 140 milioni nei paesi avanzati, nei quali rappresenteranno ben il 26% del totale della popolazione; 877 milioni nei paesi degli altri due gruppi presi insieme, ove costituiranno solo il 15% della popolazione, ma con un incremento del 300%.
Per motivi diversi, perciò, saranno messi a dura prova i sistemi pensionistici e sanitari (è da ricordare che la spesa sanitaria in Italia riguarda per l’80% la popolazione di questa fascia di età): nel Nord per l’altissimo numero di anziani; nel Sud per la debolezza (o quasi assenza) di tali sistemi.

Planisfero con tassi di aumento della popolazione per aree


3. Dunque illustrazione "ONU-standard del problema", come riassunto in apertura, con la conclusione che dovremo mettere una pietra sopra ai sistemi pensionistici e sanitari (di cui non si dice se siano pubblici o meno, naturalmente: la differenza non è poca, in termini di correlazione tra le aspettative di vita e andamento demografico, come ci insegna la comparazione tra USA e Europa: almeno prima che sia completata la transizione verso l'€uropa del TTIP o altra analoga "soluzione finale"). 
Da qui il secondo passaggio "significativo" che vi riporto (sempre invitando all'integrale, per quanto faticosa, lettura):
"Una globalizzazione parziale, e i paradossi delle migrazioni attuali
Pertanto, a differenza della mondializzazione ottocentesca, l’attuale globalizzazione è parziale, nel senso che favorisce molto di più gli spostamenti di merci, capitali e informazioni, ma non quelli di persone. Mentre l’Europa d’inizio Novecento poté scaricare verso le Americhe il 20% del proprio surplus demografico, l’emigrazione dal Sud di fine Novecento e inizio Duemila è molto più contenuta, per effetto delle politiche restrittive dei paesi del Nord: consiste di circa 3 milioni di emigranti l’anno, cioè solo il 3% del surplus demografico del Sud. L’Europa occidentale aveva “esportato” tra il 1870 e il 1913 circa 15 milioni di persone: è lo stesso numero di immigrati che essa ha assorbito dal 1960 al 2000, ma con una popolazione europea più che raddoppiata. Il Nord America accoglieva un milione di immigrati all’anno nel decennio precedente la Prima guerra mondiale, e ne accoglie lo stesso numero oggi, benché la popolazione americana sia triplicata.
Nonostante la percezione comune, secondo cui l’Occidente sta per essere travolto da un’ondata migratoria, l’immigrazione recente e attuale è dunque relativamente modesta. Essa è destinata ad aumentare a causa dei due fenomeni che abbiamo visto, entrambi senza precedenti nella storia mondiale: la forte crescita della popolazione nel Sud del mondo (in particolare dell’Africa) e – soprattutto – il declino demografico del Nord del mondo, in particolare dell’Europa, dove la bassa fecondità rende inevitabili le immigrazioni, quasi come “adozioni a distanza ritardate”, secondo un’ ironica definizione del demografo Livi Bacci.
Ne discende una duplice conseguenza, molto dura da accettare e paradossale per il senso comune:
1) le emigrazioni, oggi e nel prossimo futuro, non possono in alcun modo risolvere i problemi demografici del Sud del mondo, perché la loro entità è trascurabile, rispetto all’aumento naturale delle popolazioni (a differenza di quanto accadde all’Europa nel “lungo Ottocento”);
2) le immigrazioni sono, viceversa, necessarie – e in misura ben più consistente dei loro ritmi attuali – per gran parte dei paesi del Nord, in primo luogo per quelli dell’Europa mediterranea, Italia in testa.
"

4. Rassegnatevi: è per il vostro bene. Non basta che, chissa poi perché, molti italiani emigrino per risolvere il problema demografico e di mantenimento del benessere; ci vogliono proprio più emigrati, sempre di più e proprio nel Mediterraneo, anzi "Italia in testa". E' scienza, mica si può contestare.

Un altra voce scientifica ci dice che "Il catastrofismo è un problema mal posto" e ci spiega perché, ricorrendo (anch'egli) a qualche citazione di Malthus...temperata:
"Per Malthus (1766-1834), che, oltre che economista, era anche un parroco della Chiesa d’Inghilterra, la conseguenza di questa contraddizione, oltre a dover essere affrontata sul piano di un concezione morigerata dei costumi e dei consumi, si sarebbe risolta attraverso l’alternarsi di condizioni di penuria, e quindi di privazioni e pestilenze – per non parlare delle guerre – che avrebbero rallentato gli sviluppi demografici. La tesi di Malthus era stata espressa anche da altri, in precedenza e in termini consimili.

In effetti “soluzioni” del genere, anche se non a livelli globali ma certamente in ambiti geopolitici specifici, si sono verificate e si verificano tuttora, come del resto è ampiamente noto. Queste “soluzioni” non sono state sufficienti per eliminare alla radice la contraddizione individuata da Malthus e solo la crescente produttività dell’attività agroalimentare e le rivoluzioni agricole che si sono verificate, ad esempio a meta dell’800 con le prassi dell’utilizzo dei fertilizzanti, ha consentito di evitare soluzioni più drastiche di quanto in realtà si sia comunque verificato. Tuttavia anche queste innovazioni non sono state tali da eliminare l’origine della questione; anche perché secondo altri economisti quella questione era connessa a un altro processo e in particolare al fatto che le retribuzioni del lavoro erano tenute ai livelli di sussistenza, per cui appena venivano conquistati livelli retributivi migliori si accresceva la domanda alimentare con conseguente crescita dei prezzi e riduzione delle disponibilità. (...!!!)

La questione della contraddizione demografica solleva tuttora preoccupazioni e induce anche atteggiamenti e attese drammatiche, trovando inoltre appoggio negli atteggiamenti di critica verso il consumismo e gli sprechi, sino agli scenari e alle ipotesi della “decrescita felice”, una definizione che sembra promettere romantiche condizioni di beata soluzione finale.

Non c’è dubbio che se gli andamenti demografici fossero sempre quelli che allarmarono Malthus, anche supponendo aumenti della produttività agroalimentare eccezionali, la contraddizione prima o poi scoppierebbe e, quindi, le varie considerazione connesse a questa ipotesi dovrebbero essere attentamente valutate ai livelli della più alta responsabilità.

Sembra tuttavia che ci sia ormai in queste posizioni variamente allarmate, o una componente di tipo masochista o anche di tipo metafisico-idealistico, o anche solo consolatorie rispetto al fallimento di altre ipotesi di crisi del sistema economico, sino a posizioni reazionario e classiste. Questo perché è da alcuni decenni che gli studi e le rilevazioni in materia di andamenti attuali della popolazione mondiale indicano non più curve esponenziali ma un andamento asintotico verso valori di equilibrio intorno ai nove-dieci miliardi di persone (vedi grafico 1)

con andamenti della variazione percentuale annua che tende verso lo zero o anche oltre (vedi grafico 2)

e con la possibilità, quindi, di una riduzione dei valori assoluti oggi previsti. 
Naturalmente tutto questo senza ipotizzare stragi o epidemie, ma anzi, prendendo atto che, in parallelo, l’aumento della produttività anche in campo agroalimentare assicurato dallo sviluppo delle varie tecnologie, compreso l’eliminazione di vari errori connessi in questo campo, ha garantito una potenzialità produttiva di prodotti alimentari in grado di soddisfare la domanda globale. Se di fatto si assiste ancora a situazioni di gravi carenze alimentari la causa va ricercata nella cattiva distribuzione delle risorse, non nella loro scarsità.
...

Uno scenario demografico di equilibrio non è solo una novità di evidente rilievo ma pone questioni non tutte facilmente individuabili, prevedibili o valutabili. Anche perché questa “novità” si inserisce in un contesto storico e politico dove si muovono anche altre “novità”. Basti pensare al processo della globalizzazione nella sua attuale versione planetaria; o al forte allungamento della durata media della vita, con la prospettiva di un welfare che dovrebbe, alle condizioni attuali, prevedere alcuni decenni di attesa inerte, poco confacenti con un qualche criterio, appunto, di welfare; o alle capacità del sistema delle biotecnologie e delle tecnologie agroalimentari di essere uno dei grandi attori dell’attuale processo di sviluppo; o alle rivoluzioni tecnologiche che possono prevedere la possibilità di produrre con la metà o un terzo del fattore lavoro attuale quanto necessario per soddisfare una domanda a sua volta tutta da ricomporre in base ad altre trasformazioni sociali, ambientali e culturali...

5. Insomma, riassumendo: la tecnologia ci salverà, grazie alla globalizzazione. Ma anche la redistribuzione planetaria della popolazione, sia pure ad andamento asintotico, cioè tendente ad aumentare in modo decrescente fino a un punto di tendenziale stabilizzazione, e quindi una benvenuta e ragionevole, immigrazione sud-nord, ci salverà: grazie, sempre, alla globalizzazione.

Siccome le contraddizioni di queste varie versioni sono evidenti, almeno sotto il profilo della vaghezza delle effettive e concrete soluzioni proposte (sì, ci dicono che la soluzione complessiva di tutti i problemi concomitanti è difficile, ma pure che l'immigrazione è inevitabile e bella: TINA. Punto), provo a riempire un po' i vuoti relativi. Ma in (relativa) sintesi.

6. Dunque:
a) di qui al 2050 ci sarà l'immigrazione di massa specialmente dalle aree a più alta natalità verso l'€uropa: ma non perché lì, secondo le tendenze rilevabili, ci sia un "eccesso di nascite" (come abbiamo visto): no, piuttosto perché da noi, chissà perché (a parte, la pseudo-spiegazionec'è tanta "grisi" economica, dovuta agli eccessi pensionistici e del debito pubblico, v. parte finale in crescendo) i gggiovani, disoccupati ma anche un po'"fannulloni" non escono di casa, specialmente in Italia, e non mettono su famiglia. Anzi emigrano, ma-non-è-una-soluzione; v. sempre prima fonte linkata dove in apposito box, number 5, ci viene rimproverata la chiusura in noi stessi e di viene additata la Germania come modello ideale di soluzione, così, senza esitazioni: "E l’altra “grande anziana” d’Europa, la Germania? Sta da anni rimediando al problema con il ritorno a politiche tese a favorire l’immigrazione qualificata, tanto da essere diventata oggi il secondo paese al mondo, dopo gli Stati Uniti, per numero di immigrati".

b) Non solo, dunque gli immigrati non vengono a causa delle"troppe" nascite ma, sempre, per farci un piacere, vengono semmai per accettare, volenterosi, i nostri lavori meno qualificati; e questo nonostante che risulti, uno"stereotipo (illusorio o strumentale che sia, poco importa) quello secondo cui “gli immigrati arrivano a causa della povertà e del sottosviluppo dei loro paesi, perciò per aiutarli a non avere bisogno di emigrare il rimedio è di favorire lo sviluppo interno dei paesi del Sud”. (infatti v. box 2: "Si possono individuare stadi diversi nella propensione a emigrare. I paesi molto poveri, e in qualche modo esclusi dai processi di globalizzazione, hanno scarse possibilità e propensione all’emigrazione, benché i benefici attesi possano essere molto considerevoli; infatti il “costo di entrata” nelle correnti migratorie è elevato, perché mancano la conoscenza e le risorse per competere con correnti già esistenti, preferite dai paesi di destinazione. Potrebbe così spiegarsi il caso dei paesi subsahariani che, nonostante la povertà estrema, hanno tardato a sviluppare consistenti flussi di emigrazione verso i paesi ricchi. Poi, quando lo sviluppo si mette in moto, il costo relativo di “entrata” nei flussi migratori relativamente ai benefici diminuisce (maggiore istruzione, capacità di affrontare il costo di spostamento ecc.). Così si spiega il paradosso dell’Asia, dove i paesi più poveri (Afghanistan, Laos, Vietnam, Cambogia) sono rimasti esclusi dalle correnti internazionali, mentre paesi in forte sviluppo (Indonesia, Malesia, Corea del Sud, Thailandia) hanno contribuito ai grandi flussi migratori verso i paesi asiatici occidentali produttori di petrolio. In uno stadio successivo, durante il quale si raggiungono più alti livelli di istruzione, moderati livelli di benessere, aspettative di ulteriore crescita, il costo relativo di abbandono del proprio paese comincia ad aumentare per cui la propensione a migrare decresce. Si spiegano così, in larga parte, l’esaurirsi dei flussi dall’Europa mediterranea verso l’Europa più ricca durante gli anni ’70 (....? E allora come mai sono ripresi? ndr.); il mancato avverarsi delle previsioni di esodo verso occidente delle popolazioni coinvolte nel crollo dell’Urss (ndr; ma davvero rumeni non vengono in Italia, polacchi non vanno in Germania e in UK e...poi: gli ungheresi non dovrebbero stare in fuga di massa dalla dittatura antieuropea di Orban?); la debole mobilità interna all’Unione Europea nonostante il permanere di forti sperequazioni di reddito". Ndr.: "Debole" mobilità interna? Chiedere a greci, portoghesi e spagnoli e magari pure ai "baltici", p.4: dove li hanno presi i dati e come stimano tale debolezza in rapporto alla percezione sociale e culturale degli interessati?);

c) nonostante le rassicurazioni, del "non" ricorso di eventi malthusiani (guerre, carestie e epidemie), tuttavia ci raccontano ogni giorno a reti unificate che i "migranti" (come gli uccelli e gli zebù, non come "persone") vengono dalla povertà e dalla disperazione. Che possano mai mentirci? Naaa...
Si mettano d'accordo a livello scientifico: magari non cambieranno i numeri, che sono in crescita e non si stanno rivelando, come "lamentato", affatto modesti, in rapporto alla disoccupazione strutturale dell'eurozona e, certamente italiana. E neppure cambierà le qualificazioni lavorative di chi arriva che non risultano essere eccelse (almeno considerando che la maggioranza degli "accolti" sosta, sussidiato a carico dell'odiata spesa pubblica, per anni in alberghi riadattati e non sente questa ineludibile esigenza di applicare queste professionalità) e che, per di più, data l'affermata povertà e disperazione, neppure si riscontra che NON si tratti di persone che arrivano da aree "escluse dai processi di globalizzazione" (infatti, arrivano dalla Libia, ma il loro viaggio non parte dalla Libia, cioè non si tratta di libici, ma di popolazioni sub-sahariane e dell'Africa equatoriale...);

d) risulta peraltro alquanto elusivo il concetto di "aree escluse dai processi di globalizzazione" per un'Africa e un Medioriente che risultano ben avvinti tra politiche economiche imposte da FMI e da World Bank, con apposite classifiche "mondializzate" delle riforme, e guerre generate da squilibri innescati da interferenze alquanto internazionalistiche: esportazioni di democrazia e "primavere" varie, che, guarda caso, hanno condotto proprio allo smantellamento dei precedenti Stati, che, pure, erano dotati di ampi sistemi di welfare e di intervento pubblico, accuratamente sconsigliati dalle autorità sovranazionali ai nuovi governanti..."neo-democratici" (cfr; p.4);

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e) ma torniamo al mercato del lavoro imposto in €uropa con le riforme incessanti: infatti, da noi, ad es; manca ancora la prevalenza della contrattazione aziendale e la sterilizzazione di quella collettiva nazionale, come va ripetendo la Commissione UE (qui, p.16) e come ci consiglia, imperterrito, anche il FMI. Dunque, tutte le teorie che precedono accolgono l'idea che
e1) l'arrivo di nuova forza lavoro, necessariamente dequalificata, non nuoccia al mercato del lavoro italiano e ai suoi crescenti livelli di disoccupazione e sotto-occupazione precaria. Attestati, anche dall'ultimo rapporto INPS, come in acutizzazione
e2) che tra il protrarsi di questa ultradecennale situazione di precarizzazione, che mostra evidenti limiti sistemici sul livello decrescente di popolazione attiva e sulle rilevazioni dell'effettiva disoccupazione, non abbia alcuna influenza sul calo demografico "autoctono"(a parte la spiegazioni dell'eccessivo peso pensionistico e del debito pubblico brutto-che-fren-la-crescita); un calo che, invece, si manifesta evidente non appena si attuano in Italia le politiche monetariste-deflazionistiche di cui parlava, oltre 30 anni fa, Federico Caffè. Ben confermato dall'andamento demografico italiano, guarda caso, successivo all'introduzione dello SME e del divorzio tesoro-bankitalia;

http://images.tuttitalia.it/grafici/italia/grafico-censimenti-popolazione-italia.png

f) ne discende che chi non conosca il paradigma economico mondialista, - e lo dico così perché cerchiamo di fare una sintesi e per approfondire abbiamo messo a disposizione una gran mole di materiale e di dati- e cioè il combinato disposto della legge di Say e della teoria dei vantaggi comparati, semplicemente non è in grado di descrivere che dati estrinseci, cioè effetti slegati da qualsiasi diagnosi attendibile, e neppure di individuare le tendenze reali future, ignorando i decisivi elementi istituzionali dei fenomeni. Vale a dire, si ignora totalmente come trattati internazionali, dettati dal diritto internazionale privatizzato, in esecuzione di un disegno ben delineato da decenni, abbiano predisposto che un quadro vincolante in modo che le cose dovessero andare in questo modo, continuando a imporre agli Stati di legiferare, secondo dettagli curati in ogni minimo particolare per suscitare uno "stato di eccezione", sì da assecondare le tendenze a cui la pretesa "migrazione" indispensabile sarebbe di rimedio. 
Non c'è alcun fenomeno inevitabile di tipo naturalistico e spontaneo nello sviluppo demografico e diseguale del mondo intero.

7. Alla fine concludiamo illustrando un semplice meccanismo: dai paesi di provenienza, per via autonoma sottoposti alle "riforme"indispensabilissime dettate da FMI, WB e rivoluzioni democratiche, arrivano persone umane, sradicate dalla loro comunità, per via del fatto che gli si prospetta, in base ad una propaganda in situ accuratamente finanziata, che avranno comunque migliori prospettive in €uropa, dove il welfare è un bengodi di cui potranno facilmente fruire; intanto, "stranamente", gli "autoctoni" vengono privati di questo stesso welfare...il che accelera il processo di denatalità e di sostituzione "inevitabile" e accorcia le aspettative di vita. Pensa un po'. 
Ma i migranti non rimarranno a bocca asciutta: al più potranno comunque fruire di un "welfare" di accoglienza,più o meno prolungato, e già in atto, che li ammorbidisca circa le future pretese lavorative e li renda comunque consapevoli che, seppure volessero tornare indietro, staranno pur sempre un po' meno peggio.
Ma questo solo in attesa che la loro situazione e specialmente quella dei loro figli nati all'estero, con l'applicazione delle politiche di pareggio di bilancio, diventi praticamente di indifferenza: ma nel frattempo, loro e i loro figli si saranno radicati e rassegnati, con qualche concessione legislativa di active action per l'accesso ai diritti politici. Naturalmente, diritti acquisiti in progressiva sostituzione dei calanti autoctoni destinati a estinzione: quest'ultima, peraltro, accelerata dal declinare delle aspettative di vita dovuto agli inevitabili tagli dei precedenti livelli delle prestazioni pensionistiche e sanitarie publiche (già abbondantemente in atto). Perfetta coordinazione: as simple as that. Non ci vuole un genio per capirlo.

8. Nel mezzo di questo piano di perfetta creazione di uno stato di equalizzazione di condizione civile tra paesi di provenienza e paesi di accoglienza, c'è ovviamente il grande guadagno di un aumento della produttività del lavoro, dovuto al suo progressivo minor costo costantemente realizzato. 
Ma come, direte, anche in Italia dove a differenza che in Germania, non stiamo cercando di prendere i lavoratori effettivamente qualificati (magari dagli altri paesi europei, essendo anche noi, semmai, fra i cessionari - alla Germania et UK- di competenze e qualificazione)? 
Beh, se si fa questa obiezione, ci si dimentica dell'effetto programmatico di lungo periodo dei "vantaggi comparati": in Italia devono rimanere:
- "fabbriche cacciavite" per manifatturiero a crescente intensità di impeigo di forza lavoro, passando in mani estere (con depredazione o chiusura) le filiere ad alto valore aggiunto=>; quindi, operai non particolarmente specializzati (con ampia utilizzabilità della forza lavoro immigrata);
- "turismo" in mani progressivamente di investitori altrettanto esteri (al più le nostre tasse, finchè saremo i n grado di sostenerle serviranno a finanziare le infrastrutture a favore di tali investitori esteri)=>; quindi, lavoranti stagionali con altrettanta impiegabilità di immigrati e, al massimo, degli italiani più fortunati e volenterosi, camerieri e bagnini per vocazione (secondo buona parte della nostra classe di espertoni commentatori);
- "agricoltura" per qualche coltivazione con impiego di manodopera intensiva a costo bassissimo o su culture particolari "di nicchia"; anch'esse, se ritenute sviluppabili, in chiave liberoscambista, in crescente controllo estero (vedi alla voce "vino", "dolciario" e, magari, tra un po', prosciutto e parmigiano)=>; quindi, senz'altro, manodopera di immigrazione che non si tira indietro di fronte ai paghe e orari in crescente peggioramento.  

9. Nel corso di tutto questo bel processo TINA ci starebbe pure un certo pericolo di terrorismo e di inquietudine politico-sociale: ma, niente paura, per questo basta smettere, al momento opportuno, di finanziare i relativi "motori" ideologici e operativi, attualmente incentivati e sospinti perché facciano il loro compitino di destabilizzazione delle aree di provenienza e di creazione di "stato di eccezione" nei paesi di accoglienza. Niente che non si possa riassorbire al momento ritenuto di ultimazione della "grande opera", stando, nel frattempo, dentro a aree appositamente fortificate e presidiate.
Al massimo potranno essere in pericolo, al cessare di questi compiti così "delicati", i dipendenti delle ONLUS-ONG (espertoni e agit-prop del mondialismo e della neo-lingua della neo-democrazia): ma probabilmente verranno premiati in altro modo.
Lo Stato minimo mondialista, infatti, non avrà strutture burocratiche e tutto sarà privatizzato: cosa c'è di meglio di ONLUS-ONG "mondiali", riconvertite a funzioni privatizzate di gestione dei "beni comuni" (ma solo se sarete buoni e vi meriterete questa privatizzazione così...democraticamente partecipata)?

DA KEYNES A GRAMSCI: IL FILO DELLA PACE IMPOSSIBILE NELL'INTERNAZIONALISMO DEI MERCATI

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Nozioni elementari, un tempo note e oggi del tutto dimenticate (nell'insegnamento scolastico e specialmente nelle Università):
 http://www.piazzadelgrano.org/wp-content/uploads/2011/10/Pag.-8-Keynes.jpghttp://images.slideplayer.it/2/577678/slides/slide_2.jpg

http://www.gliscritti.it/blog/images/2015-07/gramsci.jpg

1. C'è un articolo di Keynes assurto ormai a rinnovata fama, almeno nel recente, e non casuale, dibattito attuale legato a globalizzazione e federalismo liberoscambista imperniato sull'euro: "National Self-Sufficiency", originato da una conferenza tenutasi all'Università di Dublino il 19 aprile 1933, e pubblicato in varie riviste economiche anglosassoni e anche italiane (in Italia, nel 1933 e nel 1936, con il titolo "aggiustato" di "Autarchia economica", non si sa se dovuto al traduttore o alla "diplomazia" dello stesso Keynes; cfr; la ripubblicazione dell'articolo stesso nel libro J.M.Keynes "Come uscire dalla crisi", raccolta di scritti a cura di Pierluigi Sabbatini, pagg.93 e seguenti; sul punto del titolo italianizzato, v.nota * alla stessa pag.93). 
L'articolo non risulta disponibile in rete nella sua versione integrale e per la citazione di vari ulteriori brani rinviamo, ex multis, a questa fonte.

2. Il pensiero di Keynes, al tempo largamente anticipatorio, è particolarmente ricco di spunti non solo ricostruttivi delle differenze del capitalismo (primo)novecentesco rispetto a quello del secolo precedente, ma anche di indicazioni ancora attualissime sugli elevati "costi" del liberoscambismo internazionale in termini di convenienza socio-economica e di pace nell'ordine internazionale, e sulle soluzioni che si potrebbero adottare con politiche di adeguamento della "struttura della capacità produttiva  alla struttura della domanda" (per usare la, non casuale, formula di Caffè) all'interno degli Stati nazionali (il punto è a lungo trattato, in termini generali alla pag.98 dell'op. cit., ma con varie delicate, anche col senno di poi, implicazioni relative a paesi come l'Italia, la Germania e la Russia).
Per porre nella giusta prospettiva i vari, e spesso illuminanti, passaggi di Keynes, occorre però, a nostro parere, farne precedere l'esposizione da alcune informazioni storico-economiche e storico-politiche

3. Sul piano storico-economico perché Keynes non poteva logicamente disporre, nel 1933, di dati comparativi tra la "crescita" che si supponeva fosse stata promossa dal liberoscambismo che vide come primario protagonista lo stesso Impero britannico e quella legata al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, nel trentennio d'oro di (sia pur faticosa) applicazione del sistema di Bretton Woods. O meglio: dell'applicazione, tendenzialmente diffusa a livello mondiale, delle teorie politico-economico originate dal suo pensiero.
Per altro verso, sul piano storico-politico, l'integrazione delle informazioni, poi, va fatta, anzitutto, per via della premessa che egli stesso compie con grande onestà, già nell'incipit dell'articolo: "Come la maggior parte degli inglesi, sono stato allevato nel rispetto del libero commercio, considerato non soltanto come una dottrina economica, che una persona razionale ed istruita non poteva mettere in dubbio, ma anche come parte della legge morale" (pag.93, op. cit.).  Un certo riflesso di questo atteggiamento lo riproduce nel corso dell'esposizione, pur dopo aver iniziato a manifestare la sua critica verso il liberoscambio; ad es. a già a pag.94: "Cosa credevano di fare i liberoscambisti del XIX secolo, che erano i più idealisti e disinteressati tra gli uomini?". 
A questa prospettiva di intellettuale, anzi, a rigore, di aristocratico inglese, in quanto tale difficile da abbandonare del tutto, sul piano psicologico personale,mediante un imparziale distacco (che egli in fondo non reclama come suo), va aggiunto anche il fattore storico: egli, nel 1933, non poteva sapere quali sviluppi avrebbe avuto il conflitto, che già allora si preannunciava, tra le potenze europee e mondiali (in particolare il Giappone, pressocchè l'unico Stato asiatico non assoggettato a una qualche forma di controllo coloniale) "escluse" dall'accesso ai mercati mondiali delle materie prime e gli imperi colonialisti e (vetero)liberoscambisti. Liberoscambisti quantomeno all'interno delle loro sfere di influenza territorial-militare, serbando un simmetrico protezionismo, cioè una preferenza di accesso e di sfruttamento, rispetto a tali altre potenze, considerate avversarie senza alcuna possibilità di mediazione: almeno nel corso della cruciale prima parte del '900, quando appunto, il protezionismo "conflittuale", guerrafondaio, è quello ascrivibile agli imperi coloniali e, per riflesso, ai grandi Stati europei loro "contendenti" sul piano globale, e non certo quello dei minori Stati nazionali, europei in particolare.

4. Sul primo aspetto, storico-economico, richiamiamo i dati sulla crescita mondiale già riportati in un precedente post:
Al riguardo, ci basterà rammentare i dati, nudi e crudi, che si offre Ha-Joon Chang, in "Bad Samaritans"(capitolo 1, "The real history of globalization", pagg.6-14).
Ebbene, già al tempo dei "misfatti" dell'Impero inglese, - che pur ammessi non portano gli storici ad ammettere altrettanto la realtà economica conseguente e induce anzi a continuare a lodare gli effetti positivi "per tutti i paesi coinvolti" della globalizzazione "imperialista" dell'800-, l'Asia, che prima dei trattati aveva paesi al vertice dei PIL mondiali (tipicamente la Cina nella prima parte del secolo) crebbe solamente dello 0,4% all'anno tra il 1870 e il 1913. L'Africa, il più vantato esempio di civilizzazione e progresso free-trade colonialista, crebbe, nello stesso periodo, dello 0,6%.Europa e USA crebbero invece, rispettivamente, dell'1,3 e dell1,8% in media negli stessi anni. Notare che i paesi dell'America Latina, che nello stesso periodo recuperarono autonomia tariffaria e di politica economica, crebbero allo stesso livello degli USA! (Tralasciamo gli eventi susseguenti alla crisi del '29, quando i free-traders dominanti, abbandonarono il gold-standard e aumentarono sensibilmente le tariffe alle importazioni, prima nei settori dell'agricoltura e poi in generale nell'industria manifatturiera)


Che accadde nel dopoguerra del 1945, quando si verificò il progressivo smantellamento del colonialismo e l'adozione degli Stati interventisti praticamente in tutto il mondo, sviluppato (e in ricostruzione) o in "via di sviluppo" (col tanto deprecato neo-protezionismo, da incentivazione pubblica all'industria nazionale e alla ricerca)?Riassuntivamente: nei deprecati anni del protezionismo, rigettato come Satana dai vari governatori di tutte le banche centrali del mondo divenute indipendenti, in specie negli anni '60 e '70, i paesi in via di sviluppo che adottarono le "politiche "sbagliate" del protezionismo, crebbero del 3% in media all'anno: questo dato, sottolinea Chang, è il migliore che, tutt'ora, abbiano mai accumulato.Ma gli stessi "paesi sviluppati" crebbero, negli stessi decenni, al ritmo di 3,2% medio all'anno.


Poi intervengono le liberalizzazioni alla circolazione dei capitali e gli accordi tariffari: i paesi sviluppati, già negli anni '80 vedono la crescita media annuale abbattersi al 2,1%.Anche questi facevano le riforme, e infatti gli effetti di deflazione  e rallentamento della crescita si vedono (finanziarizzazione e redistribuzione verso l'alto del reddito crescono a scapito delle invecchiate democrazie sociali). Ma le riforme più intense, sono imposte proprio ai paesi in via di sviluppo, tramite il solito FMI: è qui che si registra il calo della crescita più marcato.

I paesi emergenti, infatti, debitamente "riformati" e "aperti" nelle loro economie, vedono la crescita praticamente dimezzarsi dal 3% a circa la metà, negli anni '80-'90, cioè all'1,7 medio annuo.

Ma attenzione: la decrescita "infelice", cioè l'impoverimento neo-colonizzatore, sarebbero ancora più marcati se si escludessero Cina e India. Infatti, nota Chang, questi paesi si imposero progressivamente alla crescita, realizzando un 30% del prodotto globale dei paesi in via di sviluppo già nel 2000 (dal 12% degli anni '80): ma India e Cina rifiutarono il Washington Consensus e le "riforme" stile "golden straitjacket" tanto propugnate dal noto Thomas Friedman (che abbiamo già incontrato in questo specifico post).
5. Questi dati, lungi dallo smentire Keynes, rafforzano la sua critica ai liberoscambisti, relativa al fatto che pensassero, almeno quelli del XIX secolo, "di essere persone perfettamente ragionevoli", che "credevano di risolvere il problema della povertà, e di risolverlo in tutto il mondo, utilizzando al meglio, come una buona massaia, le risorse e le capacità presenti sulla Terra". 
L'ironia di Keynes, col riferimento alla "buona massaia", appare a posteriori una critica troppo tiepida, almeno in quanto, in tutto lo scritto, si tende a non negare una certa qual buona fede nelle intenzioni ("Essi pensavano inoltre di garantire non solamente la sopravvivenza di ciò che è più opportuno dal punto di vista economico ma, battendosi contro le forze del privilegio, del monopolio e dell'arretratezza, ritenevano anche di servire la grande causa della libertà, libertà dell'iniziativa e del talento individuale, nonché la causa della creatività artistica...Erano convinti infine di essere gli amici e i garanti della pace, della concordia internazionale, della giustizia economica tra le nazioni e i propagatori dei benefici del progresso"; pag.95). 

6. E qui possiamo andare invece ai dati storico-politici, che consentono una diversa visione una volta che, fuoriuscendo nella stessa limitazione che auto-indica Keynes (cioè quella di un inglese "allevato nel rispetto del libero commercio"), si veda la questione dal punto di vista culturale dei paesi che subirono il liberoscambismo imperialista.
Sappiamo infatti che, proprio sul piano delle intenzioni e della supposta buona fede, i liberoscambisti del XIX secolo, non potessero certo dirsi esenti dal ricercare i privilegi e il monopolio, secondo una convenienza che era giustificata dall'utile individuale e, quindi dalla superiore razionalità della "mano invisibile" (delle leggi del mercato), senza alcuna preoccupazione morale sul conservare e, anzi, determinare la povertà e l'immiserimento dei popoli interessati. 
Ne abbiamo una, non l'unica, delle riprove, in quello che fu il più grande affare di arricchimento colonialista, apertamente teorizzato come liberoscambista, del XIX secolo: il traffico dell'oppio (vicende analoghe, si svolsero, sempre in chiave di libero mercato che non doveva trovare ostacoli nei "confini" all'affermazione delle sue leggi naturali di "benessere", rispetto ai business del legno di tek o alla coltivazione intensiva dell'albero della gomma). 

7. Il traffico dell'oppio, comunque lo si voglia contestualizzare, coinvolse, in diverse forme e fasi di aggressione politico-territoriale, e quindi militare, i più grandi paesi di quella e della nostra stessa epoca, Cina e India:

"La Compagnia (britannica) delle Indie Orientali (ne esistettero anche una francese e una olandese, che ebbero la peggio nello scontro, per il dominio colonial-mercantilista, con la prima),  aveva stabilito che la coltivazione dell'oppio in India, e in particolare nel Bengala (ma non solo), dovesse divenire il suo "core business". 
[ADDE: e questo, si noti, in regime produttivo, e di vendita all'ingrosso, caratterizzato da monopolio: il processo di distribuzione e commercializzazione "a valle", peraltro, risultò poi liberoscambista "guerrafondaio", nel senso che non si ammise neppure un'eccezione normativa alla importazione, da parte della Cina, fondata su fondamentali interessi pubblici sanitari, nemmeno applicando la reciprocità di diritto internazionale, cioè riconoscendo ai cinesi di poter introdurre lo stesso standard normativo di divieto praticato sul territorio dell'Impero britannico. 
In ultima analisi, così come oggi, il liberoscambismo tende ad affermare, tramite quella che, come vedremo, Keyens definisce la "specializzazione internazionale", cioè gli effetti dei c.d. "vantaggi comparati", delle gerarchie che, - in qualsiasi regime politico sia esso propugnato, incluso il federalismo (unificatore sul piano "politico", cioè l'UE), ovvero il super-trattato per grandi aree politiche congiunte, (il TTIP)- sono gerarchie tra comunità umane, che vengono plasmate e ricondotte a diversi gradi strutturali di benessere e di prospettive di sviluppo. Chi viene posto in condizione recessiva, nella graduazione delle produzioni meno convenienti, dovrà rimanervi per sempre. La sanzione morale per qualsiasi tipo di resistenza a questo asservimento e impoverimento "relativo" (sia alla condizione precedente, sia rispetto ai paesi dominanti nella gerarchia) è oggi l'accusa di nazionalismo e populismo che "mette in pericolo la pace".
Dell'instaurarsi di tali gerarchie, considerate inevitabili e, anzi, auspicabili, i fautori dell'euro e del TTIP, (che tendenzialmente coincidono, trattandosi dell'allargamento di un unico paradigma politico-economico), non parlano mai: si tratta di un problema che i media orwelliani non trattano, se non in modo del tutto indiretto: cioè, per colpevolizzare i vari popoli circa la loro inadeguatezza "competitiva" che sarebbe la soluzione per crescere  fondandosi (solo) sulla domanda estera, celando pervicacemente che, in realtà, si mira solo a imporre riforme strutturali, del mercato del lavoro, che favoriranno, inevitabilmente, i futuri controllori esteri dell'economia degradata, all'interno della gerarchia perseguita].
L'Inghilterra, infatti, si trovava nella scomoda posizione di essere in costante deficit degli scambi con la Cina, che produceva merci pregiate che erano effettivamente molto, troppo, richieste nel resto dei territori dell'Impero britannico.
Per non depauperare le proprie risorse finanziarie, dato che, adottando il gold standard, non poteva permettersi un costante saldo negativo (equivalente a un'emorragia di oro verso il paese creditore commerciale) con la più importante economia mondiale del tempo (appunto la Cina), stabilì di incrementare al massimo possibile la coltivazione e la lavorazione dell'oppio. Con conseguenze socio-economiche distruttive per i territori indiani sotto il loro dominio.
Tra queste conseguenze, la sistematica deportazione (oggi diremmo "arrivo di migranti"), a Sri-Lanka e nelle Mauritius - e servendosi delle navi già utilizzate per il traffico degli schiavi-, della manodopera agricola divenuta eccedente, una volta instaurata una monocultura con obbligo di una produttività "minima". Infatti,  accadeva che, ove non fosse raggiunta la quantità di prodotto prestabilita, e pagata a prezzi irrisori, all'agricoltore indiano venisse sottratta la proprietà del terreno, mediante una rapida escussione della garanzia del debito contratto forzatamente con la Compagnia. 
L'esecuzione forzata era assicurata sotto il controllo di giudici inglesi, che erano sostanzialmente dei dipendenti della Compagnia delle Indie, (dato che esercitava anche le funzioni sovrane di amministrazione di giustizia e ordine pubblico sui territori indiani). 
La Compagnia in tal modo estendeva notevolmente la diretta proprietà dei terreni utili e dediti alla coltivazione e, agendo da monopolista, tendeva a ridurre i salari e la stessa capacità di sopravvivenza dei contadini bengalesi (già resa critica dall'esistenza di una monocultura forzata). Da cui l'ulteriore ampliamento dell'ondata di deportazioni, ben controllata dal funzionamento strutturale dell'economia nel paese di partenza, e che doveva apparire come un evento quasi meteorologico nelle terre di arrivo...
L'oppio raccolto dai produttori veniva quindi raffinato nei giganteschi stabilimenti di proprietà della Compagnia e poi venduto in apposite aste a "liberi mercanti" inglesi, americani, olandesi e anche indiani; in particolare appartenenti all'etnia "parsi" (antichi mercanti persiani, ancora seguaci del culto di Zoroastro, trasferitisi, tra l'altro, nei territori indiani, in particolare nella zona di Calcutta)
I liberi mercanti erano anche armatori di navi che arrivavano principalmente a Canton (unico approdo ove era consentito il commercio in entrata dalle autorità imperiali cinesi e, tradizionalmente, un polo commerciale con "l'occidente" sviluppatosi per millenni)".

8. Ritornando all'articolo di Keynes, egli si interroga sulla efficacia dell'internazionalismo economico relativamente all'ottenimento della pace (sempre nei limiti di contesto, punto di osservazione, e di momento storico, fin qui tratteggiati; cfr; pagg.95-98): 
"...al momento attuale non sembra logico che la salvaguardia e la garanzia della pace internazionale siano rappresentate da una grande concentrazione degli sforzi nazionali per conquistare i mercati esteri, dalla penetrazione, da parte delle risorse e dell'influenza di capitali stranieri, nella struttura economica di un paese e dalla stretta dipendenza della nostra vita economica dalle fluttuazioni delle politiche economiche di paesi stranieri.
Alla luce dell'esperienza e della prudenza, è più facile arguire proprio il contrario
La protezione degli attuali interessi stranieri di un paese, la conquista di nuovi mercati, il progresso dell'imperialismo economico, sono una parte difficilmente evitabile di un sistema che punta al massimo di specializzazione internazionale e di diffusione geografica del capitale, a prescindere dalla residenza del suo proprietario.
...Ma quando lo stesso principio (ndr; di scissione tra proprietà "azionaria" del capitale e gestione dell'impresa multinazionale, cioè che investe all'estero) è applicato su scala internazionale, esso è, in periodi di difficoltà, intollerabile: io non sono responsabile di ciò che posseggo e coloro che gestiscono non sono responsabili verso la mia proprietà non sono responsabili nei miei confronti. Vi può essere qualche calcolo finanziario che mostra i vantaggi di investire i miei risparmi in qualche parte della Terra, mettendo in evidenza la più elevata efficienza marginale del capitale o il più elevato daggio d'interesse ch eposso ricavare. Ma l'esperienza dimostra sempre di più che quando si considerino le relazioni tra gli uomini, il distacco tra proprietà e gestione è un male, e che esso quasi sicuramente, nel lungo periodo, provocherà tensioni e antagonismi, facendo fallire il calcolo finanziario."

9. Sulla scorta di questa premessa previsionale, relativa a "tensioni e antagonismi" che, col senno di poi, paiono un understatement rispetto agli eventi che si produrrano sulla scena mondiale, Keynes azzarda una ricetta, applicando la quale per tempo si sarebbe potuto evitare il disastro
I paesi colonizzati, in questo schema, avrebbero avuto un necessario grado di autonomia politica per poter sviluppare, con un ragionevole protezionismo (qui, p.6), l'infant capitalism (ben prima della fase del trentennio d'oro), i mostri del nazi-fascismo sarebbero stati (forse) in gran parte ridimensionati, sul piano delle stesse motivazioni sovrastrutturali che li animavano, dalla riapertura dei giochi (specie sulle materie prime,) e delle conseguenti "gerarchie" che erano la giustificazione per la conservazione degli imperi coloniali europei; la stessa tendenza al gold-strandard e alle politiche di bilancio austere in caso di crisi, incentrate sul riequilibrio naturale dei prezzi e dei salari, avulse dalla politica delle bilance di pagamento in attivo (o del loro equilibrio raggiunto a scapito della permanente dipendenza economica delle aree coloniali), avrebbero perso gran parte della loro implicita ragione politica (molto più forte, già allora, di quella economico-scientifica, essendo in corso già le conseguenze della crisi del '29).

10. In conclusione, a complemento del discorso svolto da Keynes, ci pare opportuno riportare l'analisi di Gramsci (citata da Francesco), che con la sua consueta nitidezza, tratteggia, in raccordo alle stesse intuizioni keynesiane, una cornice storico-economica che, oggi, risulta più che mai attuale; la visione gramsciana, infatti, appare capace di descrivere le analoghe tensioni a cui sono esposte, sempre a causa dell'ordine internazionale dei mercati come paradigma che si deve affermare a qualsiasi costo, la pace e il democratico benessere dei popoli:
"Lontani anni luce da Gramsci che non si era fatto attrarre da tali sirene, consapevole della vocazione globale del capitalismo mercataro e del falso mito dell’internazionalismo: “Tutta la tradizione liberale è contro lo Stato. [...] La concorrenza è la nemica più accerrima dello stato. La stessa idea dell'Internazionale è di origine liberale; Marx la assunse dalla scuola di Cobden e dalla propaganda per il libero scambio, ma criticamente” (A. Gramsci, L'Ordine nuovo, 1919-1920, Torino, 1954, 380).
E sulla “globalizzazione”, diversamente da rapporti inter-nazionali tra Stati sovrani come concepita, già allora scriveva: “Il mito della guerra - l'unità del mondo nella Società delle Nazioni - si è realizzato nei modi e nella forma che poteva realizzarsi in regime di proprietà privata e nazionale: nel monopolio del globo esercitato e sfruttato dagli anglosassoni. La vita economica e politica degli Stati è controllata strettamente dal capitalismo angloamericano. [...] Lo Stato nazionale è morto, diventando una sfera di influenza, un monopolio in mano a stranieri. Il mondo è "unificato" nel senso che si è creata una gerarchia mondiale che tutto il mondo disciplina e controlla autoritariamente; è avvenuta la concentrazione massima della proprietà privata, tutto il mondo è un trust in mano di qualche decina di banchieri, armatori e industriali anglosassoni” (A. Gramsci, L'Ordine nuovo, cit. 227-28).

Le conseguenze sono quelle descritte nel post, ovvero: “L'Italia è diventata un mercato di sfruttamento coloniale, una sfera di influenza, un dominion, una terra di capitolazioni, tutto fuorchè uno stato indipendente e sovrano. [...] Quanto più la CLASSE DIRIGENTE ha precipitato in basso la nazione italiana, tanto più aspro sacrificio deve sostenere il proletariato per ricreare alla nazione UNA PERSONALITA' STORICA INDIPENDENTE” (A. Gramsci, L'Ordine nuovo, cit., 262-263).

LA NOSTAGLIA (ARTISTICA) DELLA LIRA E GLI STATI UNITI D'EUROPA CHE NON VI SARANNO MAI.

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1. Oggi ho ricevuto, al mio indirizzo mail più "privato", questa una mail con questo contenuto:


2. Il mittente risulta essere questo:
"Storia d'Italia (dem@iperjob.com)"Cioè un operatore che, nella sua attività, utilizza una peculiare (ed "efficace") tecnica promozionale "personalizzata" che tende ad assumere una veste tale da evitare di essere relegata in "spam", come mera pubblicità (sottolineo che le parti in neretto non sono una mia aggiunta, tranne il passaggio sulla "forma di comunicazione personalizzata" e quello sul rischio di "essere considerata spam"):
"DEMè l’acronimo di Direct Email Marketing, un’efficace tecnica comunicativa e pubblicitaria che utilizza messaggi di posta elettronica per diffondere in modo capillare un messaggio commerciale.
Il testo dei messaggi è accompagnato da immagini del prodotto o del servizio pubblicizzato e, nella maggior parte dei casi, da collegamenti che portano direttamente al sito del soggetto promotore.
Il Direct Email Marketing, essendo una forma di comunicazione personalizzata che raggiunge il potenziale cliente nella sua casella di posta elettronica, non è soggetto a concorrenza diretta, al contrario di quanto avviene, ad esempio, nelle campagne di keyword advertising, dove il messaggio pubblicitario appare spesso vicino a quello di aziende concorrenti.
Tra le forme di Direct Marketing, quella operata via e-mail è senza dubbio una delle più moderne ed efficaci, e garantisce molti vantaggi in termini di creatività, di impatto (grazie all’invio di e-mail su indirizzi privati, ovviamente autorizzati alla ricezione) e di contenimento dei costi.
E’ inoltre una forma pubblicitaria che permette di avere riscontri in tempi rapidi, e viene sempre più apprezzata, perché garantisce ottimi ritorni di investimento (ROI) a fronte di costi di esecuzione contenuti.
Anche relativamente alle forme di DEMè necessario in ogni caso porre particolare attenzione alla pianificazione e messa in opera della campagna promozionale: una comunicazione sbagliata, troppo aggressiva o mal realizzata rischia di essere considerata spam dal ricevente (o addirittura dal suo client di posta elettronica), con il rischio di vedere vanificato il proprio investimento".

3. Seguendo le indicazioni sullo schema di funzionamento illustrate qui sopra, apro perciò il "collegamento" contenuto nella mail "personalizzata" che mi porta a questo risultato (nella parte essenziale e riproducibile senza particolari accorgimenti, pur nei limiti di formato consentiti dalla piattaforma):

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IL GIORNALE
DELLA LIRA

La storia della Lira attraverso un collage di notizie dalle prime pagine dei quotidiani dal 1945 al 2000: un appassionante viaggio nella memoria raccontato ammirando la finezza artistica e tecnologica delle banconote e delle monete più famose di quegli anni.

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4. Molto bene, tutto appare abbastanza chiaro: nell'ambito di una promozione "personalizzata" di un prodotto come la "Storia della lira", Editalia- Gruppo Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, ritiene che esso, appunto, possa interessare a me e proprio a me. Per di più "in omaggio"; anche se, devo confessare, non avendo attivato la finestra di "richiesta" o il numero verde che compaiono accanto all'advertisement sul sito linkato dalla mail, non posso sapere se sia un omaggio vero e proprio o piuttosto collegato all'abbonamento a una diversa forma di pubblicazione ovvero all'acquisto di altra opera storico-monografica.

Editalia, infatti, un'impresa che nasce nel 1952, "è un’azienda leader in Italia nel campo dei multipli d’arte, della medaglistica e dell’editoria di pregio. Le sue opere nascono dal sapiente incontro, tutto italiano, tra artisti, artigiani e istituzioni, grazie alla valorizzazione del patrimonio del “saper fare” di botteghe e laboratori tradizionali, alla diffusione presso collezionisti privati e imprese, alla collaborazione con la Zecca dello Stato e la Scuola dell’Arte della Medaglia.

L’azienda di oggi ha raggiunto un alto livello d’eccellenza in quanto ha saputo valorizzare al massimo le esperienze della sua storia precedente. Editalia nasce infatti nel 1952 come casa editrice specializzata in libri d’arte, spesso in collaborazione con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna per cui ha curato la pubblicazione dei cataloghi di mostre d’avanguardia, le prime in Italia di artisti come Burri, Capogrossi, Accardi. Ha anche una galleria d’arte in cui espone opere uniche e stampe dei maggiori artisti italiani del ’900. Pubblica per molti anni la rivista “Qui arte contemporanea”, che Editalia ha voluto celebrare in una mostra alla GNAM nel 2012, in occasione dei 60 anni di attività dell’azienda. La mostra ha decretato il successo del Progetto Arte, che oggi affianca al catalogo storico una serie di multipli e libri d’artista realizzati in diverse tecniche artigianali ad opera di artisti del calibro di Carla Accardi, Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Joe Tilson, Emilio Isgrò, Giosetta Fioroni.

Nel 1991 Editalia entra a far parte del Gruppo Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Amplia quindi la sua attività (grazie anche all’acquisizione nel 2005 della società Sipleda), ad altri settori della produzione artistica, quali la grafica d’arte, la scultura e gli smalti. Soprattutto inaugura il fiorente filone della medaglistica e della riconiazione di monete, con il progetto Storia della Lira, recentemente arricchito dall’invenzione delle originalissime banconote coniate, ispirate ai modelli della Banca d’Italia.

Nel 2007 è cominciata una speciale partnership con Ferrari, di cui Editalia è licenziataria esclusiva a livello mondiale per la creazione di opere artistiche ed editoria di pregio ispirate al marchio automobilistico.

Nel 2015 Editalia ha aggiunto nel suo portfolio un’altra collaborazione istituzionale. Con la Soprintendenza del Castello Sforzesco di Milano ha realizzato, in scala ridotta e in tiratura limitata, la riproduzione della Pietà Rondanini di Michelangelo, scelta come icona del patrimonio artistico di Milano in occasione dell’Expo".

5. Veniamo all'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato come "capogruppo" cui pare appartenere Editalia. Sul suo sito, si autopresenta nei termini indicati al "chi siamo" nella homepage del suo sito.
Alcuni dati essenziali: l'Istitutoè stato trasformato in s.p.a. nel 2002, cioè allorché la materiale circolazione dell'euro è divenuta corrente in Italia, ed ha come "unico azionista il Ministero dell'economia e delle finanze".

C'è anche da dire che il d.lgs. 21 aprile 1999, n.116, ha stabilito l’avvio di un processo di ristrutturazione industriale e di privatizzazione dell’istituto. Pare però, per quanto dato di ricostruire, che questa privatizzazione non sia stata ancora realizzata. Le ultime notizie al riguardo che ho reperito sono del 2007:
 -"Se prima erano solo rumors o indiscrezioni senza fondamento, ora, essendo prevista dalla programmazione del Dpef, la cosa acquista consistenza. Certo non e' un progetto di breve periodo ma richiedera' anni".
Il presidente dell'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato (Ipzs), Mario Murri, commenta cosi' la novita' contenuta nel Dpef 2008-2011 che parla di cessione di quote dell'Istituto di piazza Giuseppe Verdi, detenuto al 100% dal Tesoro. 
"L'ho appreso dai giornali - afferma Murri - perche' ancora non ho avuto modo di leggere il Dpef". A ogni modo, prosegue il presidente della Zecca di Stato, "si e' scelto di seguire un percorso che oramai e' comune a tutta Europa. Anche in altri Paesi - spiega - i Poligrafici sono stati ceduti a privati". Sul tipo di strada che potrebbe essere scelta dal Tesoro per la privatizzazione Murri afferma che quote potrebbero essere cedute "a privati o a fondi di private equity".

6. Insomma, l'azionista unico (attuale) MEF, attraverso i suoi rappresentanti amministratori, nella catena di controllo che arriva fino a dem@iperjob.com, mi vuole omaggiare de "Il Giornale della Lira", ritenendomi "personalmente", un possibile interessato particolare a compiere, tra l'altro, "un appassionante viaggio nella memoria raccontato ammirando la finezza artistica e tecnologica delle banconote e delle monete più famose di quegli anni".
Ora, questa finezza artistica e, per di più "tecnologica", tutta "nazionale" evidentemente, sarebbe apprezzabile (solo) in termini di "viaggio nella memoria".  
Una memoria, si deve supporre, che serve a riscontrare quanto abbiamo perduto sul piano della "finezza artistica e tecnologica". Ma mi domando: solo questo? 
Non è che forse, involontariamente, partendo da questa perdita, oggettivamente enunciata nella promozione di tale prodotto editoriale, si alluda ad una perdita molto più estesa e sostanziale?L'unico dubbio è che si tratti di un messaggio "personalizzato". Cioè destinato a soddisfare la particolare curiosità e tendenza di una nicchia di "nostalgici" un po' bizzarri, in fondo in fondo: e sempre, dunque, sfruttabili se non altro a fini commerciali. Come se gli venisse dato uno "zuccherino" consolatorio ad una memoria un po' fuori dal tempo ma comunque rispondente a un segmento di mercato. Ma è "l'omaggio" che mi lascia un po' interdetto.In verità non oso approfondire, per quella strana diffidenza che gli "omaggi" pubblicitari suscitano ormai in chi se li vede recapitare.Chissà se qualcun altro di voi ha ricevuto la stessa "proposta di omaggio" e sa dirmi qualcosa di più. 7. In fondo, si tratta pur sempre di un "omaggio" dello Stato italiano, nella sostanza: non è leggermente contraddittorio incentivare in modo così evidente la "nostalgia" della lira, quando sappiamo che l'euro è una "scelta irreversibile"?Lo dice Draghi, anzitutto, come ben sappiamo: "Provate a digitare su un motore di ricerca, ad esempio Google, la scritta “Draghi l’euro è irreversibile”. Ebbene, nelle prime due posizioni troverete due diversi articoli entrambi tratti da Il Sole 24 Ore e con titoli simili: il primo è “Draghi: l’euro è irreversibile, l’Unione non esploderà” ed il secondo “Draghi: l’euro è irreversibile. L’uscita non è prevista dai trattati”.Nel 2012, "bacchettava":"...coloro che prefigurano una esplosione della moneta unica dicendo che costoro mal conoscono il capitale politico che i nostri dirigenti hanno investito in questa unione”. Aggiungendo: “...qualsiasi movimento verso un’unione finanziaria, di bilancio e politica é inevitabile e condurrà alla creazione di nuove entità sovranazionali”.Nel 2015 ribadisce:“Lasciatemi sottolineare che l’irreversibilità dell’euro ha fatto parte dell’architettura dell’Unione europea fin dal Trattato di Maastricht”. E“come ho affermato ripetutamente anche di fronte al parlamento europeo, il ritiro di uno Stato membro dall’euro non è previsto dai trattati”.   Il nostro Presidente della Repubblica, per altro senza menzionare la moneta unica, il 26 aprile 2016 (traiamo dalla stessa fonte),  precisa:"Intervenendo sul numero speciale della rivista di Massimo D’Alema “Italianieuropei”, pubblicato in occasione dell’anniversario del 25 Aprile,  Mattarella scrive L’Europa è il nostro destino e la nostra opportunità”. 
 8. La difficoltà insormontabile, sia alla irreversibilità dell'euro, in quanto per essere sostenibile dovrebbe condurre alla ben nota "unione politica e di bilancio" comune a tutti gli Stati membri (qui, p.VI.3, sub n.2 ), cioè federali, come negli Stati Uniti, (e in omaggio alla ormai celebre teoria delle aree valutarie ottimali), sia al "movimento verso un'unione finanziaria, di bilancio e politica", che è evidentemente strettamente connesso all'euro, viene però da fonti molto ufficiali delle massime istituzioni europee:Il conte Hermann Van Rompuy, da presidente pro-tempore del Consiglio europeo, ha infatti dichiarato, con dovizia di spiegazioni, che "l'Unione europea non diventerà mai gli "Stati Uniti d'Europa"Per parte sua, in pieno 2015, il Presidente della Commissione europea Juncker, a sua volta, ha dichiarato "Non avremo mai gli Stati Uniti d'Europa". E l'attuale presidente dello stesso Consiglio europeo, Donald Tusk, ribadisce: "Dobbiamo farci guidare dal senso della ragione e del tempismo. Non dalla utopia di un'Europa senza Stati nazionali".
Ora qualche domanda mi pare legittima: Draghi, conosce queste posizioni? E quali conclusioni ne trae rispetto alla sua asserzione, così sicura, circa l'inevitabilità di un'unione politica e di bilancio? E ancora: in concreto, il Presidente della Repubblica immagina, nei suoi effetti pratici, sociali ed economici, quale destino costituirebbe, per noi italiani, un'Europa in cui di ineluttabile, secondo risultanze politiche "europee" ufficiali e non prudentemente ignorabili, ci sono la mera irreversibilità dell'euro unita alla certezza che non vi sarà mai una diversa unione politica e la messa in comune di un bilancio federale? Perché qui stiamo parlando, allo stato, di un'unione economica e monetaria: non considerare questa (dura) realtà economica e monetaria, espressa nei trattati e nella esclusività degli effetti di tale tipologia sulle vite dei cittadini coinvolti,  pone dei naturali problemi etici: cioè fino a che punto scelte economiche e monetarie debbano e possano lecitamente determinare il destino di comunità sociali fatte di persone e delle loro speranze di "dignità" del lavoro, di benessere e di eguaglianza di fatto, di soddisfacenti legami familiari, di rapporti comunitari solidali? Questi problemi etici non si possono nascondere dietro idee utopistiche che non hanno mai trovato riscontro nella realtà dei trattatie che, anzi, la realtà applicativa, passata e attuale, contraddice apertamente: la stessa Corte costituzionale aveva evidenziato che il limite di accettabilità degli effetti dei trattati europei era nel loro non riflettersi sui rapporti etico-sociali e politici: una conclusione già al tempo molto discutibile, come abbiamo ampiamente illustrato. Ma che oggi, risulta addirittura miope e inadeguata; anzi "inattendibile". 11. Questi problemi etici sono quelli che la nostra Costituzione aveva posto al vertice dei principi e dei valori enunciati come inderogabili. Questa lezione dei Costituenti è forse divenuta irrilevante e, pur essa, obsoleta? Eppure questi interrogativi esigono una risposta, nel passato (recente) come nel presente: più che mai.Le soluzioni uniche, i destini ineluttabili, d'altra parte non sono accettati neppure nelle scelte economiche, secondo la più "normale" (ovvero "mainstream") teoria scientifica (cioè persino microeconomica). Perché, e in ragione di quali valori effettivamente realizzati, lo dovrebbero diventare solo perché sono in tal modo interpretati dei trattati soggetti all'art.11 della Costituzione? 

2 GIUGNO 1946- 2 GIUGNO 2016: IL "PRESENTE" E LA VERITA' CHE CI RENDERA' NUOVAMENTE LIBERI

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1. Oggi, 2 giugno, festa della Repubblica italiana.
"Il 2 giugno 1946, con il referendum istituzionale, prima espressione di voto a suffragio universale di carattere nazionale, le italiane e gli italiani scelsero la Repubblica, eleggendo contemporaneamente l'Assemblea costituente, che, l'anno successivo, avrebbe approvato la carta costituzionale, ispirazione e guida lungimirante della rinascita e, da allora, fondamento della democrazia italiana". Il presidente della Repubblica aggiunge che "i valori di libertà, giustizia, uguaglianza fra gli uomini e rispetto dei diritti di ognuno e dei popoli sono, ancora oggi, il fondamento della coesione della nostra società ed i pilastri su cui poggia la costruzione dell'europa. Dalla condivisione di essi nasce il contributo che il nostro paese offre con slancio, convinzione e generosità alla convivenza pacifica tra i popoli ed allo sviluppo della comunità internazionale".
A questo messaggio, si può rivolgere un'obiezione essenziale: dopo alcuni decenni di studio del diritto e dell'economia, personalmente mi sfugge come sia ragionevolmente collegabile il fondamento della coesione della nostra società, - basato sui valori di libertà, giustizia e uguaglianza nei modi concreti stabiliti nella nostra Costituzione-,  con i "pilastri su cui poggia la costruzione dell'europa", e come si possa affermare che questi pilastri siano eretti sugli stessi principi affermati dalla nostra Carta costituzionale.
Era indispensabile compiere un'affermazione così recisa su un tema così controverso? Non si poteva soltanto ricordare il senso storico del referendum, dell'elezione dell'Assemblea costituente e dell'approvazione della Costituzione democratica, almeno nella giornata del 2 giugno?

2. Perchè il problema sta in questo: è vero o non è vero che la Costituzione del 1948 e il trattato europeo ordoliberista siano ispirati agli stessi principi?
Solo una risposta positiva a questa domanda renderebbe ragionevole e opportuno l'accostamento equiparante che ci viene oggi proposto dal messaggio presidenziale.
Che i trattati europei siano ispirati all'ordoliberalismo ci viene altresì confermato dalla Commissione delle Conferenze episcopali della Comunità europea (COMECE) la quale, come abbiamo più volte fatto in questo blog, trae argomento decisivo dall'art.3, par.3, del TUE: 
La formula "economia sociale di mercato fortemente competitiva" viene dall'art. 3.3 del Trattato sull'Unione Europea: «L'Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico».
L'espressione "economia sociale di mercato"è stata elaborata nei Paesi di lingua tedesca, ma è entrata anche nella tradizione costituzionale di altre nazioni europee. Nasce dalla riflessione di economisti e giuristi della scuola ordoliberale di Friburgo (1930-1950) e trova applicazione politica nella Germania occidentale del dopoguerra durante il cancellierato (1949-1963) di Konrad Adenauer, grazie a Ludwig Erhard, ministro dell'Economia, e ad Alfred Müller-Armack, direttore del Dipartimento delle politiche economiche del Ministero. Artefici della ripresa tedesca, contribuirono a porre le basi economiche, culturali e istituzionali dell'UE lavorando con Alcide De Gasperi e Robert Schuman. La scuola di Friburgo afferma la centralità del mercato, senza però farne un assoluto. A riguardo l'economista Walter Eucken (1891-1950), padre dell'ordoliberalismo, scrive: «L'economia deve servire agli uomini viventi e a quelli futuri e deve aiutarli per l'attuazione delle loro più importati determinazioni. [...] Essa ha bisogno di un ordine giuridico garantito e di una solida base morale». Nel 1958, Wilhelm Röpke (1899-1966), un altro esponente della scuola di Friburgo, affermava: «l'economia di mercato non è tutto; essa deve essere sorretta da un ordinamento generale, che non solo corregga con le leggi le imperfezioni e le asprezze della libertà economica, ma assicuri all'uomo un'esistenza consona alla sua natura» (RÖPKE W., Al di là dell'offerta e della domanda. Verso un'economia umana, Edizioni di "Via aperta", Varese 1965, 17).
3. La fonte episcopale, così concorde ed autorevole, dovrebbe risultare credibile agli occhi di qualsiasi rappresentante istituzionale italiano di fede cattolica
E, dunque, non dovrebbe dubitarsi che, in questa concezione della priorità della "forte competizione"  e della "economia di mercato", il temperamento in senso solidale, sia affidato alla "buona volontà" degli operatori economici e non all'intervento dello Stato, come previsto dalla nostra Costituzione. Questo intervento dello Stato avrebbe infatti portato a "eccessi" che, secondo gli stessi vescovi, sottraggono allo Stato la stessa legittimazione esclusiva a proseguire politiche di realizzazione effettiva dei diritti sociali e dei livelli di welfare. Lo Stato, in questa visione, non dovrebbe essere del tutto escluso, ma deve conciliare la sua azione e la sua sovranità (fiscale e monetaria) con le istanze volontaristiche solidali provenienti dal settore economico privato.
I vescovi sul punto sono molto chiari:
"La prima fondamentale innovazione riguarda la riappropriazione del corretto rapporto sinergico fra Stato e privato, entrambi indispensabili, entrambi, da soli, insufficienti: «Lo Stato è una precondizione di una comunità ordinata, senza la quale lo sviluppo umano integrale è irraggiungibile. I dispositivi di istituzionalizzazione della solidarietà attraverso tasse e contributi sociali furono introdotti perché le iniziative private da sole non erano sufficienti. La forma di solidarietà organizzata dallo Stato è affidabile e stabile, e perciò necessaria. Ma non è abbastanza, in particolare perché manca dell'aspetto della volontarietà» (n. 5). Per questo - prosegue il testo - le forme istituzionali di solidarietà gratuita devono essere preferite a quelle organizzate dallo Stato o affidate al mercato ogni qual volta esse dimostrano uguale efficacia ed efficienza: è questo il significato autentico della sussidiarietà, che non coincide con la tendenza al disimpegno progressivo del "pubblico" e alla privatizzazione del welfare allo scopo di abbattere i costi".

4. E' anche da dire che gli stessi vescovi, criticano in qualche modo l'ideologia del semplice disimpegno del "pubblico" e la tendenza (unidirezionale) alla "privatizzazione" del welfare, ma lo fanno, evidentemente, sul presupposto che questa realtà criticata sia ciò che effettivamente si è finora realizzato in applicazione della costruzione dell'Europa richiamata dal nostro Presidente della Repubblica.
I vescovi, cioè, pur sostenendo che la solidarietà affidata allo Stato "non è abbastanza", e riaffermando l'aspetto della "volontarietà", cioè della "buona volontà", spontaneamente mostrata dagli operatori di mercato, - cioè da coloro che ne controllano le dinamiche in una situazione che, in UE, è di finanziarizzazione e struttura oligopolistica, cioè di accentramento dell'attività economica di "mercato" in conglomerati economici sempre più grandi e influenti e sempre più intrecciati al sistema bancario-finanziario -, propongono una soluzione che superi l'attuale realtà vivente della costruzione europea
Certo lo fanno cercando una conciliazione, tra principio della "buona volontà"/sussidiarietà e azione sociale dello Stato, un po' vaga e non del tutto nuova rispetto agli assunti originari dell'ordoliberismo, che, tuttavia, hanno finora condotto proprio agli esiti di eccesso di privatizzazione del welfare "per abbattere i costi", e di disimpegno progressivo del "pubblico".

4.1. Soprattutto, i vescovi non sanno spiegare come, quando e perché, quella insufficienza della solidarietà puramente volontatistica e caritatevole dell'economia di mercato,  e che giustificava e in parte giustificherebbe tutt'ora la presenza dell'intervento statale sociale (a tutela delle parti più deboli della società), sia stata superata: perché ora, nonostante gli sviluppi negativi criticati, le istituzioni e le forze del mercato, internazionalizzate con l'UE, sarebbero divenute sufficienti e avrebbero espresso una loro maggiore e più intensa volontà caritatevole e spontaneamente redistributiva, verso i sempre più vasti settori esclusi dalle dinamiche allocative ed efficienti del mercato?

5. Sta di fatto che la presa di posizione dei vescovi europei già dovrebbe condurre a una certa perplessa prudenza sulla piena equiparabilità tra modello solidale esplicito di intervento statale insito nella nostra Costituzione, incentrato sull'eguaglianza sostanziale del fondamentalissimo art.3, comma 2 della Costituzione, e principi ispiratori della costruzione europea, quali registrabili in imponenti effetti che neppure i vescovi, inclini ad abbracciare la versione temperata e solidaristica dell'economia sociale di mercato, ritengono di ignorare.

La "proposta" dei vescovi (abbiamo visto vagamente affidata alla fede in un futuro solidarismo spontaneistico del capitalismo finanziario), era del 2012.
Il loro auspicio non è stato seguito in nessun modo dai fatti.
La situazione della Grecia, da allora, si è evoluta in un modo che non può non essere connesso all'inasprimento, neppure minimamente nascosto dai suoi propugnatori, delle logiche finanziarie del neo-liberismo che governa l'€-zona. Che vedono all'acme della mancanza di ogni minima traccia di solidarismo intraeuropeo, proprio la Germania, patria di origine ed espressione "reale", cioè istituzionalmente realizzata in conformità ai trattati,  dello stesso ordoliberismo (ormai esteso a condizionare l'intera UEM).


6. Ma gli stessi dati relativi a importanti indicatori dell'andamento della situazione socio-economica italiana smentiscono, clamorosamente, l'auspicio dei vescovi affidato fideisticamente al manifestarsi di una solidarietà "di mercato" extrastatuale.
Lo possiamo dire perché il Presidente della Repubblica può agevolmente attingere a questi dati, ufficialmente riportati da fonti governative.

La povertà, assoluta e relativa, in Italia, (persino) dal 2012, si è gravemente acutizzata. Nel Mezzogiorno la situazione è di assoluto livello di guardia:

La stima ISTAT mostra un lento aumento dell’incidenza della povertà assoluta in Italia nel 2007-2010 (dal 3,5% al 4%) e un’accelerazione nel 2011-13, con un picco del 6,3% delle famiglie italiane in povertà assoluta. Nel 2014 si manifesta un primo ridimensionamento dell’incidenza della povertà assoluta che scende al 5,7%. Il centro e il nord sono caratterizzati da un andamento analogo al dato nazionale, ma con livelli di povertà assoluta inferiori rispetto alla media nazionale di 1-2 punti percentuali, toccando nel 2014 il 4,2% di famiglie in povertà assoluta nel nord e il 4,8% nel centro. Il Mezzogiorno invece ha un livello maggiore di povertà assoluta, il quale cresce più che proporzionalmente rispetto al resto d’Italia dal 5,1% del 2010 al 10,1% del 2013, ma che nel 2014 beneficia di una riduzione più forte, scendendo all’8,6% di incidenza della povertà assoluta, pur rimandendo circa il doppio rispetto al centro-nord.
La stima ISTAT dell’incidenza della povertà relativa mostra limitate oscillazioni a livello nazionale con un aumento dall’11,2% nel 2011 al 12,8% nel 2012. Tale aumento è più sensibile ed è continuato più a lungo nel Mezzogiorno, dove l’incidenza della povertà relativa à passata dal 19,1% nel 2009 al 23,6% nel 2014.
7. Il reddito pro-capite, come naturale implicazione di ciò, è diminuito, e ne è aumentata la redistribuzione verso l'alto, cioè nella direzione esattamente opposta a quella predicata dalla nostra Costituzione (se il reddito pro-capite diminuisce e aumentano ancor più intensamente i poveri, questa conclusione è aritmeticamente evidente):

Il reddito pro capite è cresciuto nell’Ue in Italia fino al 2007. Dopo tale data è cominciata una fase di crisi economica con una prima contrazione del reddito pro capite nel 2008-2009, seguita da una ripresa nel 2010-11 e da un nuovo calo del reddito pro capite in Italia e nella zona euro, mentre nell’UE nel suo insieme il redito pro capite è rimasto stazionario nel 2012-13, rimanendo comunque in media ad un livello più basso rispetto al 2007. Nell’insieme il reddito pro capite italiano è cresciuto meno della media UE e della zona euro nel periodo di crescita si è ridotto maggiormente nei periodi di recessione. Il reddito pro capite italiano era significativamente più alto della media UE nel 1995 e anche dei futuri paesi membri della zona euro, mentre nel 2013 era inferiore ad entrambe le zone, essendosi ridotto da 25.1000 euro a persona a 22.400 euro a persona.


7.1. Le politiche fiscali obbligatoriamente perseguite nei paesi dell'eurozona, cioè in applicazione più "completa" della costruzione prevista dai Trattati, (ripetiamo quella che oggi, 2 giugno, viene richiamata come pienamente assimilabile, nei principi ispiratori, alla nostra Costituzione del 1948), hanno determinato dunque una vistosa crescita della povertà
Ma le prestazioni sociali sono cresciute, com'era ovvio in una situazione di crisi - si tratta dei c.d. stabilizzatori automatici e di trattamenti previdenziali a decrescente copertura rispetto al reddito lavorativo-, in maniera non proporzionale: a livello pro-capite siamo il fanalino di coda dell'UE, eccettuata la Spagna.

Dagli anni ’80 ai nostri giorni la spesa per i redditi da lavoro dipendente nella Pubblica Amministrazione e quella per prestazioni sociali sono andate divergendo. I redditi da lavoro dipendente mostrano un trend leggermente decrescente. Raggiungono il loro picco massimo nel 1990 con il 12,2% del PIL per poi scendere a un minimo del 10,1% del PIL nel 2000, risalendo all’10,9% del PIL nel 2009 per poi calare nuovamente. Diversamente dai redditi la spesa per prestazioni sociali (che è composta per quasi l’80% da spesa pensionistica) è cresciuta a un ritmo elevato: nel 1980 era poco superiore alla spesa per redditi da lavoro dipendente nella PA (12,3 % del PIL) ed ha conosciuto una forte crescita superando oggi il 20% del Pil, in parallelo all’invecchiamento della popolazione, con l’eccezione di una fase di stabilizzazione nel decennio successivo al 1994.

8. Quel che conta, in termini di neutralizzazione del ruolo solidaristico dello Stato successivo alla corsa verso l'euro, non compensato da alcuna spinta volontaristica caritatevole "privata" (come attesta l'innalzamento inarrestabile delle quote di povertà), è il progressivo e inesorabile peggioramento rispetto alla media europea:
"Anche in Italia si è verificata la stessa illusione statistica; attualmente la spesa sociale è pari al 28,4% del Pil, in linea con i valori medi europei
Tuttavia, se confrontiamo il valore pro capite, il nostro paese registra un forte e crescente divario negativo: fatto pari a 100 il valore medio dell’Unione a 15 nel 1995, quell’anno il dato italiano era 84,1, ma da allora è calato fino a 75,8 del 2011".
Fonte: Elaborazione su dati Eurostat
Figura 1: Spesa per protezione sociale (in % del Pil)
Fonte: Elaborazione su dati Eurostat

Figura 2: Spesa per protezione sociale in euro pro capite (prezzi costanti)
Fonte: Elaborazione su dati Eurostat

9. Ci sarebbe dunque da rammentare quale sia il senso della nostra Costituzione, oggi, per poter verificare se questa applicazione del paradigma ordoliberista europeo sia effettivamente ad essa pienamente assimilabile o meno
Di certo, assistiamo al fallimento della "ipotesi volontaristica" di una solidarietà spontanea proveniente da operatori di mercato illuminati da una presunta "temperanza" rispetto alla competitività esasperata e alla ricerca del profitto.

La ragione dell'affidamento alla Repubblica democratica, nata dal referendum del 2 giugno 1946 e dall'esperienza della Costituente,del compito di perseguire attivamente i diritti sociali, lungi dall'aver costituito un eccesso di concessione di privilegi ingiustificati, ci viene ben specificata da Calamandrei
Ed è una ragione di effettività della stessa democrazia popolare, un aspetto che, in base ai dati della realtà socio-economica, risulta clamorosamente divergente dai "pilastri" della "costruzione" dell'€uropa:
“Coi primi (diritti di libertà) si mira a salvaguardare la libertà del cittadino dalla oppressione politica; coi secondi (diritti sociali) si mira a salvaguardarla dalla oppressione economica. Il fine è lo stesso, cioè la difesa della libertà individuale…Il compito dello stato a difesa della libertà non si racchiude nella comoda inerzia del laissez faire, ma implica una presa di posizione nel campo economico ed una serie di prestazioni attive nella lotta contro la miseria e l’ignoranza ….” In quanto “un uomo che ha fame non è libero perché, fino a quando non si sfami, non può volgere ad altri i suoi pensieri…” (Calamandrei, Costruire la democrazia, premesse alla Costituente, Le Balze, 103-105).
E ancora: “se vera democrazia può aversi soltanto là dove ogni cittadino sia in grado di [...] poter contribuire effettivamente alla vita della comunità, non basta assicurargli teoricamente le libertà politiche, ma bisogna metterlo in condizione di potersene praticamente servire”, e per far ciò occorre garantire a tutti “quel minimo di benessere economico”, far sì che le libertà cessino di essere dei “vuoti schemi giuridici e si riempiano di sostanza economica”, ossia che “le libertà politiche siano integrate da quel minimo di giustizia sociale, che è condizione di esse, e la cui mancanza equivale per l’indigente alla loro soppressione politica”.
“Ma il problema vero non è quello della enumerazione di questi diritti: il problema vero è quello di predisporre i mezzi pratici per soddisfarli, di trovare il sistema economico che permetta di soddisfarli. Questo è, in tanta miseria che ci attornia, l’interrogativo tragico della ricostruzione sociale e politica italiana", da "Costituente e questione sociale", p.152.

10. D'altra parte, se questo "presente"è definito in dati che attestano un impressionante degrado della condizione civile e di benessere dei cittadini italiani,  e in un'inesorabile caduta della stessa speranza di riscatto delle fasce economicamente e culturalmente più deboli della società italiana, ricorre in pieno la ragione di un richiamo a quel"presente" che aveva dato luogo alla rivendicazione costituzionale di giustizia ed eguaglianza sostanziale che "le conseguenze economiche" dell'€uropa appaiono vistosamente negare.
"Ma c’è una parte della nostra costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’art. 3 vi dice:
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani.
Ma non è una costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche dalla impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anche essa contribuire al progresso della società. Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente".
11. Decisamente, la nostra Costituzione e la "costruzione dell'europa" non paiono albergare nelle stesse radici e negli stessi valori umanistici. 
Viviamone la vera lezione: la verità (forse) ci renderà nuovamente liberi.   

GLOBAL-ORWELL: LA NEO-LINGUA FINALMENTE DIVENTA "RIVELAZIONE"

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http://www.informazione.it/pruploads/ba91fc6c-8d44-4a98-941c-c823b4a012c3/la%20rivelazione_docufilm_cs_14_11_2013_02_lr.jpg2014? E 2015, e 2016, e 2017, e 2018...ecc. 
Perché porre limiti al futuro global-sostenibile? Quando la "sovranità democratica" nazionale può essere tranquillamente assorbita e scomparire nella "governance" mondiale?
http://www.jackiealwaysunplugged.com/wp-content/uploads/2015/07/36e34-maelstrom.jpg

1. L'istituto Demos, Istituto di ricerca politica e sociale fondato da Ilvo Diamanti, si autopresenta, nella homepage del suo sito, con un panorama selezionato di campi d'indagine privilegiati:
Rapporto annuale sugli atteggiamenti degli italiani nei confronti delle istituzioni e della politica. Realizzato su incarico del Gruppo L'Espresso, è giunto alla tredicesima edizione.
Osservatorio nazionale a cadenza trimestrale in collaborazione con Coop (Ass. Naz.le cooperative di consumatori). Senso civico, altruismo, solidarietà e altri comportamenti riconducibili al concetto di "capitale sociale".
Analisi che fotografano un'area divenuta il simbolo delle profonde trasformazioni che attraversano la società settentrionale e italiana.
Studi sulle tendenze sociali e politiche della società italiana. Un costante monitoraggio sull'opinione pubblica e sulle dinamiche politico-elettorali.
Rapporti periodici sui temi dell'immigrazione, della cittadinanza, della partecipazione, osservati da una prospettiva continentale, nell'ambito del processo di costruzione dell'Ue".

2. Dai contenuti delle indagini elencate nei vari settori, così accuratamente prescelti, si trae un panorama complessivo in cui Stato e cittadini sono proposti e concepiti in un rapporto di contrapposizione, stilando, in base al giudizio su, e sullo scontento verso, "istituzioni e politica", delle classifiche che confermano di necessità la contrapposizione stessa; inoltre, la alimentano mediante la classifica di chi, tra i vari personaggi "di potere" (non necessariamente pubblico e statale), parrebbe essere più gradito, e quindi meno "contrapposto", alla massa dei cittadini (identificata da un "campione"). 
La solidarietà viene inserita nella visione del "capitale sociale", incentrato sull'autocostruzione operata dalle cooperative dei consumatori, confermando l'estraneità di tale spinta sociale allasfera del "pubblico".
"L'immagine del nord-est che cambia", considerata emblematica del nord e dell'Italia tutta, sintetizza un panorama fatto di internet e tablet, emigrazione all'estero come unica possibilità di lavoro per i giovani, "paure" della criminalità e di essere resi marginali rispetto a...Roma (nessuna possibile identificazione della fonte nei problemi in Bruxelles e nel paradigma economico imposto dall'€uropa).
"Le tendenze sociali e politiche della società italiana", oltre a sondaggi/proiezioni elettorali di attualità, si compendiano di tematiche come il Brexit, i rapporti con la Turchia, vicende politiche legate al M5S, e, immancabilmente, il referendum costituzionale, con un 60% a favore (tra chi andrà a votare) e un misero 21% di contrari alla riforma (con un 19% di indecisi).
"Le indagini europee" più che della preannunziata "costruzione europea", nella quale dovrebbe rientrare l'inevitabile maggior integrazione politica e, soprattutto, fiscale, cioè quella che dovrà salvare l'euro e che invece è vietata da precisi articoli del trattato, si impernia sui problemi dell'immigrazione, concedendo che si colleghino alla "insicurezza sociale"  e all'auspicata prosecuzione applicativa di Schengen.

3. Se il lettore è fra quelli che ha seguito il percorso di questo blog, troverà in tutto ciò una rappresentazione praticamente perfetta, allo stato più puro, della visione euro-sovranazionale e, culturalmente, mondialista, in quanto non esiste alcun minimo cenno ai meccanismi di condizionalità e colpevolizzazione morale di chi subisce i processi di trasformazione TINA, e si trova solo confinato a rispondere a sondaggi all'interno di opzioni prestabilite dalla formulazione stessa delle "questioni": l'ordine delle priorità procede rigorosamente per "registrazione degli effetti" inevitabili, (alla stregua della consueta concezione "meteorologica" delle priorità che portano alle scelte economiche e ai rimedi politico-legislativi conseguenti a tali scelte)  .

L'insieme composito di questa formulazione predisposta, prioritaria e omnicomprensiva, di questioni e relative opzioni, com'è evidente, definisce la realtà e il linguaggio che la descrive. In particolare, in assenza di un linguaggio che rinvii ad altre possibili descrizioni della realtà, l'ambito dei concetti messi a disposizione dei destinatari li riduce a poche e ben definite certezze implicite e alla impossibilità di concepirne una critica e una ricostruzione senza sentirsi, contemporaneamente, in contrasto con il comune sentire ed il linguaggio "consentito" al cittadino italiano nonché lettore, che, soltanto eliminando ogni dubbio, può  sentirsi "informato" e, come tale, padrone delle sue scelte.

4. Nessuna esagerazione o forzatura possono ascriversi alla descrizione di tale meccanismo di conformazione linguistica ed "etica" (di massa): un meccanismo che reclama, in nome della inesorabile autenticazione scaturente dai sondaggi, il crisma della "scientificità".
Ed infatti, l'ultima "indagine" pubblicata su Repubblica, e classificata, da Demos, nel campo "Osservatorio capitale sociale", enuncia proprio questo legame tra definizione della realtà (condivisa) e selezione del linguaggio legittimamente utilizzabile (senza però precisare, come vedremo, le esatte fonti fattuali da cui scaturiscono selezione e legittimazione del linguaggio stesso): 
Proponiamo anche quest'anno una Mappa delle parole del nostro tempo. Raffigura l'atteggiamento degli italiani (intervistati da Demos-Coop) di fronte a una serie di termini che ricorrono frequenti nei discorsi pubblici e nella vita quotidiana. Raccolti e selezionati dalla comunicazione mediale e dal linguaggio comune. Le parole, d'altronde, non sono solamente un modo per dire e comunicare la realtà. Ma contribuiscono a definirla. A costruirla. Senza parole, la realtà non esiste perché le parole la rivelano. Così, attraverso questo sondaggio, abbiamo cercato di "rivelare" la realtà "rilevando" le parole che utilizziamo per dirla. Abbiamo, dunque, sollecitato gli italiani (intervistati) a esprimere il grado di approvazione/dissociazione, che suscitano le parole selezionate. Ma anche la loro capacità di suggerire il futuro. Oppure di re-spingerlo verso il passato". 
5. Apprendiamo quindi che la "comunicazione mediale" e il "linguaggio comune" sono fonti di creazione delle parole - e di definizione della realtà- posti sullo stesso piano
Come se fosse proponibile un'estraneità del sistema della comunicazione mediale alla definizione dei concetti e dei termini comunemente utilizzati, rafforzandosi così l'idea che il sistema dei media non predetermini e, anzi, si limiti a riflettere a posteriori un "senso comune" espresso da un'indifferenziata entità sociale, comunicante tra i suoi membri per vie spontanee, strutturali ma del tutto imprecisate.
Un senso comune che fornirebbe così una descrizione della realtà elaborataautonomamente dal sistema mediatico e dagli interessi economici di chi lo controlla: e che, dunque, esprimerebbe anche i termini concettuali e linguistici essenziali, autoelaborati sulla base degli elementi del "reale" che, non si sa bene come, gli "italiani intervistati", saprebbero riconoscere e selezionare in via diretta.
Con questa implicita affermazione della equiparabilità, e della confluenza, dell'autonomo pensiero dei cittadini, da un lato, e della comunicazione mediatica, dall'altro, si ha un'abile legittimazione del sistema mediatico: quest'ultimo è  (ben) disposto e tollerante, quasi neutrale, verso una determinazione, concorrente e dialogata, degli elementi della realtà. 
Dall'idea di codeterminazione del linguaggio "significativo", in fondo, viene riaffermata un'attitudine dei media rispettosa di un "senso comune", avvolto da una indeterminatezza misteriosa circa i suoi meccanismi di formazione diversi dalla influenza mediatica; ma comunque nascente dalla "società" e solo reso esplicito dal sistema mediatico, (con notarile neutralità). 

Da ciò scaturisce, come logica necessità, che la "rivelazione" del sondaggio è veramente tale: cioè un tentativo "scientifico" per far emergere la spontanea costruzione della verità storica, restituita da questo processo di autonome volontà e di comune e cooperativo sentire tra soggetti sociali e operatori mediatici.
La rivelazione è dunque "verità", ossia realtà per quanto conoscibile (cioè attraverso il linguaggio), e dalla rivelazione, come in ogni assunto fideistico e religioso, nasce il giusto comportamento: infatti, solo chi abbia potuto apprendere la rivelazione può dire di conoscere in modo sufficiemente veritiero e realistico il presente in modo da poter adottare scelte conseguenziali. 
E qual è la prima delle scelte che si possono compiere (attenzione: qua si ha una petizione di principio che tende a sfuggire ai più)?
L'approvazione o la dissociazione dalle "parole selezionate".

7. Ma se una realtà è rivelata, nel senso indicato dalla stessa premessa, cioè come conseguenza di un insieme di parole che contribuiscono a definire e costruire la realtà stessa, in un sol colpo, ponendo successivamente l'enfasi su una conseguente valutazione in termini di gradimento-avversione, verso le singole parole:
a) avrò reso indubitabile, (agli occhi del lettore meno attento), la fonte semimisteriosa e l'attendibilità della "selezione", eliminando ogni attitudine critica sul "chi, dove e come ha compiuto la selezione, scegliendo tra infiniti "discorsi pubblici" possibili e innumerevoli elementi della "vita quotidiana", empiricamente rilevabili;
b) avrò reso inavvertitamente naturale un comportamento valutativo che supera le difficoltà del punto a) e che contrasta la natura descrittiva, cioè non valutativa ma meramente di "accertamento" (solo empirico-statistico), che svolgono le parole "selezionate".

8. Conseguenze non da poco: non solo mi si presenta una realtà selettiva e la sua autenticazione, prevenendo ogni obiezione logica al riguardo, ma la natura della realtà da meramente linguistico-descrittiva (già frutto di una fase selettiva altamente controvertibile) diviene valoriale: cioè mi obbliga a prendere posizione e ad aderire a un orientamento che, guarda caso, è agevolmente insito nel contesto in cui le parole selezionate vengono in effetti utilizzate. Il che ci riporterebbe al problema di chi, come e dove ha selezionato gli elementi suddetti della realtà da cui è derivata la sua sintesi linguistica. Ma transeat: anche se si arriva persino a dire che la "rappresentazione" che nasce da tutto ciò è persino "per alcuni versi imprevedibile"!!!.

Arriviamo piuttosto al prodotto ultimo di questo intero processo di validazione della realtà che, inevitabilmente, tende ad orientare le scelte comportamentali pubbliche del "fruitore" del sondaggio. Si tratta ancora una volta di una classifica e non certo neutrale, nell'enunciazione stessa dell'autore: infatti, questa "descrizione linguistica selettiva-induzione alla scelta valutativa", possiederebbe, ci viene proprio detto, la "capacità di suggerire il futuro. Oppure di re-spingerlo verso il passato".

9. Sempre per implicita suggestione, dunque, alcuni esiti della classifica spingono verso il futuro (bello perché tale, un progresso), o lo respingono verso il passato (implicitamente "brutto" perché incapace di risolvere, evidentemente, i problemi proposti dalla "vera" realtà"). 
Ed infatti, il neo-linguaggio spinto all'orientamento valutativo ci fornisce questa graduazione delle priorità, reali e dunque veritiere, che "vuole la gente", in base alla sua libera formazione della volontà collettiva:


10. A voi pare "sorprendente" un sillabario in cui al vertice si pone la "questione ambientale", a soluzione "global-sostenibile", e il "presente" si proietta al massimo grado nel futuro in termini di "beni comuni" e "processo democratico", purché intimamente connesso (verso il futuro) a "integrare gli immigrati", "Riformare la Costituzione" e "sobrietà nei consumi", condito da un "politici""out"?
E un futuro in cui un "leader forte"è "più" accettabile dei partiti, ma pur sempre subordinato agli "imprenditori", in un mondo globalizzato  ma che lotta contro l'evasione fiscale?
Di certo, apprendiamo che "riformare la Costituzione"è una priorità per il 50% degli intervistati, mentre "combattere la disoccupazione" (al 76%) , "combattere l'evasione" (al 74%) e la solita generica "legalità" (al 68%), sono solo modestamente e non necessariamente legate allo "Stato" (solo al 45%). 
Volemose..."bene comune", cioè PRIVATOPIA (rothbardiana) la trionferà,  e andiamo avanti così, verso il futuro global-compatibile.

"L'elemento più inquietante del libro è proprio il "salto di qualità" che il Grande Fratello aveva fatto compiere alla dittatura. Egli non solo pretende obbedienza assoluta, ma anche la spontanea condivisione del sogno...

Se l'uomo non ha la capacita' di identificare in maniera razionale il motivo della sua sofferenza, poiché non ha parole per esprimerlo e per rifletterci, allora  non può neanche definire la causa della propria sofferenza e l'oggetto del proprio odio.
Tutto quel che rimaneè soltanto un rancore indefinito, che può essere
spazzato via attraverso le sedute di "odio collettivo".

La relazione tra linguaggio e capacità critica e' estremamente interessante. Come impostare un ragionamento logico-deduttivo se nella propria lingua non esiste il periodo ipotetico? Le capacità di astrazione sono influenzate dal linguaggio utilizzato se l'uomo non è in grado o non può, nel caso prospettato in 1984,  modificare la propria lingua?"

L'€UROPEIZZAZIONE IDRAULICA DELLE ELEZIONI: IL PATTO DEL SILENZIO E LA CREDIBILITA'

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1. In tutta Europa, il problema centrale che riguarda l'effettivo rapporto dei cittadini con le istituzioni politiche è...l'UE.
In Italia, quando si va al voto, questo problema, invece, perde di qualsiasi rilievo.
In altri termini, siccome il rapporto tra cittadini e istituzioni politiche è verificato e "certificato" dalle elezioni, ci si domanda, da parte di crescenti porzioni degli elettorati di tutti i paesi europei, che senso abbia votare se OGNI livello di gestione territoriale delle politiche possibili è predeterminato da tecno-decisioni €uropee. Il voto diventa non tanto protesta ma segnale di rivendicazione del senso del voto stesso e della democrazia (almeno formale) che vi si connette.
Il paradosso è che i settori popolari che chiedono di mantenere la funzione essenziale del voto, e cioè che esso sia esprimibile sulla base di valori ed obiettivi avvertiti come effettivamente attuali e prioritari, al di fuori della insoddisfacente imposizione operata dall'alto delle istituzioni europee, vengono definiti "populisti", xenofobi, razzisti o di estrema destra.
In pratica: chi non si piega all'idraulicità di un votoa esito e conseguenze predeterminati, e vuole almeno una parvenza di democrazia, non sarebbe degno...della democrazia.
Questo meccanismo di etichettatura e di raffigurazione del dissenso rispetto all'UE e ai suoi esecutori a livello nazionale, prelude pericolosamente all'abolizione del voto in tutta €uropa: se non l'hanno ancora espressamente propugnato, è perchè, allo stato attuale, stanno avendo successo nell'abolire la sostanza dei parlamenti nazionali, rendendoli tutti dei simulacri privi di potere decisionale effettivo come quello UE

2. Venendo alla "scottante" attualità italiana, si può obiettare che in elezioni amministrative, e quindi riguardanti enti locali di governo-amministrazione, esistono una serie di questioni e caratteristiche socio-economiche legate al concreto territorio, la cui soluzione esigerebbe una conoscenza specifica, appunto, localizzata e un collegamento tra visione e competenze degli eletti e comune sentire degli elettori.
Nulla di più fallace, se si fosse consapevoli della genesi dei problemi che si riversano sulle varie realtà territoriali: i patti di stabilità interna che vincolano le politiche degli enti territoriali molto di più di quanto non sia condizionato l'indirizzo di governo centrale, sono la diretta derivazione del vincolo €uropeo.
O ci si rende conto di ciò, da parte delle forze politiche che si presentano alle elezioni, oppure no: se "no", allora i problemi del territorio semplicemente non possono essere seriamente risolti

3. Certo, si possono fare crociate moralizzatrici per ottenere risparmi e tagliare gli sprechi: ma in un'organizzazione sociale che, come l'UE-M, normativizza l'inderogabile prevalenza del mercato, si ritiene che quasi ogni tipo di utilità possa essere resa all'interno di un ordinario contratto di scambio tra privati: tranne l'eccezionale e residuale ipotesi di beni non "rivali" e non "escludibili"(il "faro" e, oggi, con sempre meno convinzione, la difesa nazionale), tutto dovrebbe essere "razionato" efficientemente col sistema dei prezzi
Dunque apprestare ai consumatori/utenti quell'utilità - la pubblica istruzione, la sanità e le connesse forme di assistenza sociale, la costruzione e gestione di un ponte o di un'autostrada, il servizio di trasporto collettivo, - "deve" essere consentito, progressivamente ma inevitabilmente, a  qualsiasi operatore privato che, assicurandosi (tendenzialmente) un prezzo pari al costo marginale di erogazione, garantirebbe l'efficienza massima ottenibile.

4. Per promuovere al meglio questo sistema di razionamento efficiente - non necessariamente concorrenziale: l'importante è che sia privato- dei beni/utilità un tempo pubblici, occorre rendere sempre più alto il costo marginale di produzione pubblica, in modo che, appunto, l'ente pubblico debba prendere atto che "non ce lo possiamo più permettere"
Per fare ciò si procede al "razionamento" della moneta, escludendo la legittimità dell'emissione di moneta pubblica(ovvero "sovrana") e imponendo il pareggio di bilancio.
Rammentiamo: basta quello "primario", cioè con deficit solo determinato dall'ammontare degli interessi sul debito contratto in passato e con l'imposizione di crescenti "avanzi primari" che progressivamente portino al "pieno" pareggio di bilancio con l'estinzione del debito pregresso. 
Con tale sistema si rendono lo Stato e, ancor più accentuatamente, gli enti locali, dei debitori di diritto comune.
In tal modo, il settore pubblico diviene privo del flusso della moneta "pubblica", e affetto da una  costosa "scarsità" della moneta privata ottenibile dal settore bancario privato; ciò lo induce ad accrescere, via tassazione (centrale e specialmente locale) i flussi di reddito offerti a garanzia dell'ottenimento fiduciario del "credito" privato ma, specialmente, DELLA SUA RESTITUZIONE,  e, contemporaneamente, a dover procedere alla predetta privatizzazione di tutte le attività assoggettabili al pieno sistema dei prezzi privatistico.

5. Questo è il problema pregiudiziale, vero ed effettivo, che si pone in ogni amministrazione comunale: se non si risolve, anzi, nemmeno si mostra di conoscere, questo problema e la sua origine nell'imposizione del sistema voluto dall'€uropa, tutti gli altri problemi a valle, come si dice in termini logici e giuridici,"difettano di interesse concreto ed attuale"
Che senso ha occuparsi di tagli degli sprechi se la gran parte degli stessi sprechi sono determinati, strutturalmente, dalla mancanza di adeguati investimenti in strutture e competenze,  nonché dall'abolizione del sistema dei controlli preventivi? Sono, queste, tutte caratteristiche ordinamentali complessivamente derivanti dalla concezione privatizzante, anzitutto della moneta, imposta dall'€uropa e che deve condurre, prima o poi, con le buone o con le cattive, alla privatizzazione per vincolo da debito di diritto comune.

6. Che senso ha parlare di lotta alla corruzione, come soluzione morale e persino, pretesamente, economico-finanziaria, quando questa, nella sua essenza fenomenologica, viene depenalizzata nelle sue manifestazioni di gran lunga più importanti e sistemiche, dal sistema della de-sovranizzazione monetaria?  
Se sei un ente locale debitore, devi risparmiare per restituire capitale e interessi, e siccome i compiti che la Costituzione ti affida non consentirebbero mai di risparmiare abbastanza, questi compiti verranno progressivamente mandati in malora; la gente protesterà che le cose vanno male e che l'ente pubblico, che pure sta agendo come il "buon padre di famiglia" o la "massaia", in pareggio di bilancio, non sa gestire (perché è sprecone e corrotto, non perché è stato reso debitore di diritto comune, assoggettato "in corsa" alla legge del mercato del credito privato). 
 

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7. Dunque, bisogna privatizzare i "beni comuni" per fare il "bene comune". E aumentare le tasse per pagare il debito pregresso, raccontando che questo onere non è dovuto alla abolizione della sovranità monetaria e all'adozione del pareggio di bilancio, ma ai costi della corruzione!!!
E l'ente pubblico perde irreversibilmente la sua legittimazione a svolgere quei compiti, previsti dalla Costituzione come oggetto di doveri a carico della sfera pubblica: ma non importa.  
L'€uropa predilige il mercato, il mercato rende l'attività pubblica assoggettata al sistema bancario e, perciò, antieconomica e inefficiente, senza che più nessuno si preoccupi di stimare il valore, anche economico, del perseguimento dell'interesse pubblico (p.8) da parte dell'ente pubblico. Un valore che viene ormai costantemente distrutto senza che nessuno si preoccupi di contabilizzarlo: tranne rendersi conto di tale distruzione, senza saperne identificare l'origine, al momento di dover calcolare il PIL annuale.


8. A me risulta che nessuna forza politica abbia parlato di tutto questo durante la campagna elettorale per queste elezioni amministrative: ergo, chi non ne parla, e solo in base a questa macroscopica omissione, è favorevole al "paradigma" monetario e mercatista-privatizzatore dell'€uropa.

E se lo è (favorevole), al di là delle cosmesi su corruzione e sprechi, è inguaribilmente solo un "vecchio" (di almeno 30 anni) soggetto politico, soltanto imbellettato con la ricorrente cosmesi delle "mani pulite"; nei fatti, cioè, il replicante in forme adattate ai tempi, di esperienze già vissute e che hanno soltanto portato al rafforzamento del sistema neo-liberista, privatizzatore e abrogativo della Costituzione, tipicamente €uropeista.

E se si è, per azione o per omissione gravemente colpevole, favorevoli al paradigma €uropeo ed alla sacralità del pareggio di bilancio, ignorandone la funzione ideologica redistributiva, e pensando che sia possibile rispettarlo agendo con occhiuta onestà, NON SI E' CREDIBILI nel dire che non si vuole privatizzare e, anzi, che si intende "ripubblicizzare": si finirà per perdere la faccia o per essere travolti da scandali e inchieste, (generati, a loro volta, dall'acritica applicazione di norme incostituzionali da parte degli organi di controllo...ex post).
Tutto il resto sono chiacchiere su cui non varrebbe la pena di perdere altro tempo. 
Se non fosse che, purtroppo, l'astensionismo fa oggettivamente il gioco del paradigma europeista, implicitamente condiviso dall'offerta politica "vecchia" così come da quella "vecchio-nuovista". 
E che l'unica alternativa all'astensionismo, (cioè il voto antisistema cosmetizzato) ha in pratica effetti equivalenti all'astensionismo.
Fino a prova contraria: che potrebbe essere ormai tardiva e inutile (per venir meno irreversibile della democrazia e del benessere); ed ammesso che sia fornita mai...

PMI ARI-SVEGLIA! IL LIBRO DELLE PROFEZIE (?) E L'ACCELERATORE FINANZIARIO (CHE D€C€L€RA)

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Copertina anteriore


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1. E dire che nel 2008 la cosa era già abbastanza chiara.
Ma come tutte le grandi "soluzioni"€uro-federali, fu perseguita con grande entusiasmo fino ad arrivare alla prospettiva di "policy-induced crisis" attuale (che è poi, in soldoni, un ital-tacchino da spennare prima di infornarlo).
Con queste reazioni tardive, a tacchino già sotto la mannaia:

BANCHE, ROMA E PARIGI CONTRO IL NUOVO "CUSCINETTO" PATRIMONIALE: "Ancora una volta c'è il rischio concreto di nuovi paletti per i bilanci delle banche sistemiche europee...la richiesta è di non appesantire con nuovi fardelli patrimoniali la legislazione già stringente sulle banche....Dunque sono due i richiami firmati anche dall'Italia: 1) calibrare l'intervento evitando di generare instabilità (policy induced crisis); 2) mantenere parità di condizioni con gli operatori internazionali, evitando svantaggi competitivi alle banche UE, per esempio nell'emissione di bond...Da parte sua Bruxelles prova a smorzare lepolemiche, ma i toni non sono promettenti..."

2. Stiamo parlando di un libro di Stiglitz (et alt.) del 2008, "Stabilità non solo crescita", che, forse perché recensito e promosso prima dell'ubriacatura mediatica che ha reso l'euro, e il suo contorno di soluzioni "irrinunciabili", un totem del quale si ha, a livello mediatico-espertologico, persino paura di "pensare" una critica, poteva segliere una promozione (on web) di questo tenore:
"Il volume è la sintesi più limpida e perentoria delle posizioni che oppongono i rappresentanti di Initiative for Policy Dialogue - economisti come Stiglitz, ma anche politologi, scienziati sociali e rappresentanti della società civile di tutto il mondo - alla visione che essi definiscono semplifìcatoria e integralista del Washington Consensus, ben rappresentato dal Fondo monetario internazionale, dalla Banca mondiale e dal Tesoro Usa. Le politiche decisamente neo-liberiste che mirano a raggiungere un regime di bassa inflazione attraverso rigore fiscale, privatizzazioni e liberalizzazioni ispirate dal Washington Consensus - hanno in alcuni casi permesso e stimolato la crescita, ma mostrano ogni giorno di più i loro limiti, portando interi paesi e persino continenti ad affrontare periodi di stagnazione, crisi e recessioni. Joseph Stiglitz e gli altri scienziati contestano radicalmente la tesi che i mercati per natura si autocorreggano, allocando efficientemente le risorse e servendo bene l'interesse pubblico. Lavorare con saggezza e lungimiranza ponendosi come primo obiettivo la stabilità (non solo dei prezzi), funzionale a una crescita più equa ed equilibrata è la ricetta forse poco brillante ma estremamente seria per combattere efficacemente disoccupazione, povertà e disuguaglianza, mali che le leadership di fine ventesimo secolo davano per superati se non completamente debellati".

3. Nel 2008, insomma, si poteva ancora dire che il Washington Consensus portava interi paesi e interi continenti alla stagnazione, alla crisi e alla recessione: forse, lo si poteva dire perché non si era ancora fatto, nell'opinione pubblica, quel collegamento di tale paradigma economico con l'euro che, invece, risaliva al "federalismo" einaudiano (v. pure l'addendum). Il sogno e la grande "protezione" dell'euro, al tempo, erano dunque ancora salvi e circondati dal "patto del silenzio" che ancora affligge la nostra offerta politica...
Ma veniamo alla parte interessante.
Il libro, alle pagine 80-82, "sembra" svolgere una rassegna di varie teorie ma, in realtà, mediante la semplice e imparziale attendibilità scientifica, finisce per formulare un'involontaria quanto accurata profezia: Stiglitz, cioè, fornisce, con 7-8 anni di anticipo, una precisa descrizione "fenomenologica" dell'evoluzione della crisi dell'eurozona, culminata nella fase della geniale Unione bancaria che, in effetti, era stata acclamata trionfalmente dai nostri massimi esponenti di governo:
Collegamento permanente dell'immagine integrata

4. Vi riporterò, dunque, più sotto, il testo delle pagine in questione, partendo dalle premesse relative alla teoria di Barro sulla politica fiscale e, in particolare, sull'effetto del deficit pubblico, teoria che tanto piace ancora oggi in Italia: la famosa, e già vista (sub: "nuova macroeconomia classica" di cui Barro è protagonista insieme a Lucas e Sargent), equivalenza ricardiana, basata sulle "aspettative razionali". La bio di Barro, interessante come radiografia del percorso di un fisico che non si sentiva di arrivare al "top" nel suo campo, ci lascia intravedere un recente e, in apparenza, sorprendente mutamento di interessi: "nell'ultima decade, Barro ha iniziato a investigare l'influenza della religione e della cultura popolare sulla politica economica lavorando insieme alla propria moglie, Rachel McCleary", nota filosofa-sociologa.
Come vedete, il tecnicismo matematizzante vira al "pop" per sua naturale, direi inevitabile, vocazione. 

Da notare che, purchè non fosse istituito alcun collegamento con l'euro e il sogno europeo, e quindi con le politiche imposte dalle istituzioni €uropee, come Commissione e BCE, nel 2008, si poteva tranquillamente affermare che la storia del moltiplicatore fiscale non funzionasse proprio come ancora oggi "compattamente" si sostiene (sempre nell'avanzatissima e "colta" Italia). 
Noterete, ancora, che, proprio a seguito della moneta unica e delle connesse politiche economiche, ormai di lungo termine, instauratesi in UEM, riprende vigore, nelle evidenze empiriche, un moltiplicatore proprio deipaesi in via di sviluppo. Come pure che il Washington Consensus, imposto via FMI e WB, esclude il ricorso alla spesa pubblica in quei paesi e li vincola, in definitiva, alla emigrazione (qui, p.2.4). 
Esiste perciò una perfetta complementarità equalizzatrice tra il trattamento riservato ai popoli €uropei e quello programmato, già nella loro terra di origine, per i "migranti" dai paesi più disagiati.

5. Eccoci dunque al testo
"Come già si è notato, i critici della politica fiscale indicano spesso nelle "azioni compensative" la causa principale dell'inefficacia delle politiche fiscali. Secondo il loro punto di vista, il settore privato reagisce alla politica fiscale in modo da annullarne l'effetto. Supponiamo ad esempio che il governo riduca le imposte per stimolare il consumo: secondo i conservatori, se il taglio delle imposte determina un disavanzo fiscale, le famiglie se ne renderanno conto, capiranno che un giorno dovranno rimborsare questo debito e aumenteranno il risparmio anziché il consumo. In questo caso, il taglio delle imposte non stimola l'economia".
Aggiungiamo: non la stimola specialmente se tale ragionamento è indotto dalla istituzionalizzazione, con norma costituzionale di derivazione europea, del pareggio di bilancio. E ciò dato che, in condizioni "ordinarie", una previsione che induca a "azioni compensative", dipende dalle aspettative non tanto di calcolo economico "razionale", ma relative al futuro indirizzo politico (ove questo sia libero e non "vincolato" in eterno) che, a sua volta, è indotto da fattori mediatico-culturali e accademici: cioè in definitiva, a livello di successivo orientamento elettorale probabile, peraltro idraulicamente inducibile dalla cornice tecno-pop offerta dal frame-spin mediatico.  
Ma proseguiamo:
"Questo ragionamento, noto come ipotesi di Barro-Ricardo, implica (nella forma forte) che i disavanzi non hanno alcuna importanza e alcun effetto sui tassi di interesse, poichè l'incremento del debito pubblico genera in contropartita un incremento del risparmio privato che è esattamente uguale a quello del debito e lo controbilancia...
...Le assunzioni da adottare perché valga l'ipotesi di Barro-Ricardo sono formalmente restrittive. Per esempio, l'analisi di Barro-Ricardo presuppone che le imprese o le famiglie siano soggette a vincoli di credito o di cassa. Inoltre, il peso dell'evidenza empirica depone contro l'ipotesi2.

6. E veniamo allora alle alternative "attendibili":
"La prospettiva keynesiana: perché la politica fiscale è efficace.
La teoria keynesiana convenzionale afferma che la spesa pubblica (o le riduzioni di imposta), portano a un incremento del PIL che è un multiplo della spesa pubblica originaria. Quasi tutto il denaro speso dalla pubblica amministrazione viene a sua volta speso, e quanto più ne viene speso tanto maggiore è il moltiplicatore. Se i tassi di risparmio sono molto bassi, come sono spesso nei paesi molto poveri, i consumi assorbiranno una quota molto elevata del denaro speso dalla pubblica amministrazione, e il valore del moltiplicatore sarà particolarmente alto; la spesa pubblica sarà particolarmente efficace. Al contrario, nell'Asia orientale (ndr; parliamo dell'esempio giapponese), dove i tassi di risparmio erano molto alti, il valore del moltiplicatore sono stati alquanto più bassi che altrove...
Si noti il contrasto tra l'ipotesi di Barro-Ricardo - la quale afferma che tutto il reddito addizionale verrà risparmiato- e il modello keynesiano tradizionale. Secondo l'ipotesi la spesa pubblica non genera alcuno stimolo (il valore del moltiplicatore è zero).

7."La prospettiva eterodossa: perché la politica fiscale può essere particolarmente efficace, specie nei paesi in via di sviluppo.
L'esperienza dimostra che in realtà i tagli fiscali stimolano il consumo, a condizione che a beneficiarne siano coloro che non hanno accesso al credito".
E qui inizia il "bello", riferibile alla situazione italiana dove imprese, e lavoratori sempre più precarizzati, per l'appunto, non hanno accesso al credito mentre dilaga il credit crunch, per le ragioni che stiamo per vedere. Con tutta una serie di fenomeni e di effetti della spesa pubblica che ci avvicinano ormai ai paesi in via di sviluppo, specialmente allorchè l'offerta nazionale sia composta in modo consistente da PMI (per cui: SVEGLIA!):

"E' inoltre provato che molte famiglie e imprese sono soggette a restrizioni creditizie e di cassa, specie nei paesi in via di sviluppo. Queste famiglie e imprese spenderebbero di più, se potessero farlo: se pertanto il governo riducesse le imposte gravanti su questi soggetti, tutto l'incremento di reddito verrebbe speso. In altre parole, la propensione marginale al consumo di queste famiglie e imprese è uguale a 1...Naturalmente, una parte del denaro speso andrà a individui (proprietari di case, negozianti, ecc.) che non la spenderanno a loro volta interamente. Ma il punto importante è che nei paesi in via di sviluppo il moltiplicatore può essere particolarmente elevato.
Quando la disponibilità di liquidità o di credito delle imprese è soggetta a restrizioni, può agire anche un acceleratore finanziario.L'aumento della spesa pubblica accresce i profitti delle imprese. E quando le imprese sono soggette a restrizioni di liquidità o di credito tendono a spendere in investimenti tutto, o quasi tutto, il reddito addizionale
Per di più, il valore del capitale proprio aumenta in previsione di un rafforzamento dell'economia, agevolando l'accesso delle imprese al credito. [ndr: ovviamente, il meccanismo funziona anche in senso inverso: taglio della spesa pubblica, id est. riduzione vincolata del deficit-debito pubblico, => diminuzione dei profitti=> devalorizzazione del capitale aziendale=>  minor accesso al credito=> caduta degli investimenti=> chiusura dell'impresa]
L'incremento dell'investimento così stimolato, può essere un multiplo dell'originario incremento del cash flow dell'impresa - e l'incremento dell'investimento può a sua volta dare origine a un incremento moltiplicativo del Pil".
A PROPOSITO: L'AUMENTO DELLA DOMANDA, INDOTTO DALL'AZIONE FISCALE CHE INCREMENTA LA SPESA PUBBLICA, PRECEDE E NON SEGUE GLI INVESTIMENTI DELLE IMPRESE. Com'è logico che sia, nel buon senso degli operatori "ragionevoli".
 
8. Fantastico no? Appare una ricetta relativa a tutte le cose CHE NON SI POSSONO/DEBBONO FARE RIMANENDO NELL'EURO, e che propone una soluzione, ragionevole ed empiricamente dotata di evidenza, a tutte le sempre più drammatiche lamentele del nostro sistema di PMI. Cioè della parte più importantetout-court, - sia per varietà di filiere-competenze che promuove e preserva, sia dal punto di vista occupazionale potenziale-,del nostro sistema industriale nazionale:
"Rispetto ai paesi sviluppati, è probabile che nei paesi in via di sviluppo le imprese siano più soggette a restrizioni di cassa o creditizie."

9. Ma attenzione, nella prosecuzione dell'esposizione del libro, tra parentesi (e lo enfatizzo in caratteri molto grandi), arriva la sintesi profetica che rende perfettamente l'idea del perché gli interessi delle PMI e quelli della grande industria, finanziarizzata (cioè moooolto meno soggetta alla restrizione creditizia) divergano radicalmente nell'attuale situazione: cioè dentro l'euro. Con conseguenze "politiche" finora inesplorate:
"Una quota elevata del prodotto dei paesi in via di sviluppo è opera di imprese di piccole e medie dimensioni (PMI), particolarmente soggette a restrizioni creditizie (le PMI risultano per altro soggette a tali restrizioni anche nelle economie industrializzate avanzate). Nei paesi in via di sviluppo raramente i mercati azionari funzionano a dovere, cosicché per le imprese è difficile procurarsi nuovo capitale. (Durante una recessione è difficile ottenere nuovo credito anche nei paesi industriali avanzati). 
In certi paesi, come nell'asia orientale, dove funzionano efficienti mercati dei capitali di prestito, l'indebitamento è sistematicamente limitato a un quota del capitale proprio, - una scelta prudenziale del debitore quanto del prestatore. Ne consegue che un aumento del capitale proprio (risultante da un aumento delle vendite effettive e attese), consente alle imprese di aumentare la propria quota di indebitamento". [Ndr: IN DIPENDENZA DI UN AUMENTO DELLA SPESA PUBBLICA perché tale è il caso affrontato dal libro di Stiglitz con riguardo al c.d. acceleratore finanziario]
10. E non basta: il parallelismo tra una situazione come quella italiana nell'euro e la politica di crescita auspicabile nei paesi in via di sviluppo, non si ferma qui. 
Entriamo in un campo di evidenza ancora maggiore, che fotografa, con tragica esattezza, come il "vincolo" dell'Unione bancaria e del bail-in sia quanto di più lontano dalle politiche e dalle misure che si attagliano all'economia italiana, considerando che la discesa dei profitti delle imprese e l'erosione del capitale delle banche, sono due facce della stessa medaglia: l'austerità a monte della recessione deliberatamente indotta per correggere il deficit con l'estero e di competitività, italiani, al solo fine di rimanere dentro l'euro, contro ogni logica:
"Vi è ancora un altro acceleratore che può risultare importante nei paesi in via di sviluppo. Se i profitti delle imprese aumentano per effetto della accresciuta domanda [ndr:  da spesa pubblica, cioè anche spesa per consumi e assunzioni di odiatissimi pubblici dipendenti], aumenta la loro capacità di rimborsare i prestiti bancari in essere.Il miglioramento della posizione finanziaria delle banche consente loro di espandere il volume dei prestiti: e l'accresciuta disponibilità di capitale determina a sua volta l'espansione della produzione".
11. Prosegue quindi l'estratto dal libro:
"Più recentemente, è divenuto avvertibile un altro grande vantaggio della politica fiscale, che può aiutare a superare un ampio acceleratore negativo, innescato, paradossalmente, dalle politiche cautelative delle banche.
Durante una recessione, i profitti delle imprese possono scendere fino al punto da renderle inadempienti nei confronti delle banche prestatrici, con la conseguenza che l'adeguatezza del capitale di queste ultime può scendere al di sotto del livello richiesto dalle regolamentazioni prudenziali
A questo punto le banche devono raccogliere una maggior quantità di capitale oppure ridurre i prestiti. Ma raccogliere capitale in tali frangenti è molto difficile (o molto costoso), cosicché le banche sono costrette a tagliare il volume dei prestiti".

12. E qui arriva la visione profetica in tutta la sua nitidezza (cioè esattamente quello che oggi "non vogliono capire" e, se non lo vogliono capire, vuol dire che non possono/vogliono risolvere):
"Tuttavia le autorità bancarie possono assumere un atteggiamento tollerante, ossia lasciare che le banche continuino a operare benché sottocapitalizzate. Se si consente alle banche di continuare a operare in tali circostanze, le autorità responsabili devono controllarle per impedire che concedano prestiti troppo rischiosi o addirittura predatori nei confronti delle banche, il che pone i problemi classici dell'azzardo morale. 
In assenza di tolleranza da parte delle autorità bancarie, la caduta del prestito riducesia la domanda che l'offerta aggregata, provocando un calo del Pil".

13. E la descrizione che precede, che ci dovrebbe essere assai famigliare, rende evidentequanto possa essere demenziale, per un paese che al momento dell'adesione all'Unione bancaria era in piena recessione, il sottoporsi ad un sistema che priva le autorità bancarie di un'effettiva discrezionalità, prevedendo degli indici di capitalizzazione rigidi (ed elevati) con sanzioni praticamente automatiche; tra l'altro, a carico di correntisti e debitori anche non già insolventi, (cioè sempre imprese e famiglie), cui vengono imposti, rispettivamente, la partecipazione alle perdite determinate dall'insolvenza e il "rientro" immediato. E tutto ciò, se non si vuole incorrere in procedure di infrazione per "aiuto di Stato", laddove appunto si volesse invece intervenire (sempre con spesa pubblica, ma "tardiva", a tacchino spennato) nella ricapitalizzazione o nell'acquisto delle sofferenze...provocate dalle politiche fiscali conservative dell'euro.

14. Insomma, siamo passati dalla recessione indotta per via fiscale, che ha prodotto diminuzione di consumi, investimenti e occupazione, all'inevitabile conseguenza dell'insolvenza debitoria diffusa; quindi, come effetto della regolazione bancaria (sempre conservativa dell'euro), all'amplificazione delladiffusa insolvenza di imprese e famiglie, unita ad un inasprimento ulteriore della stretta creditizia, da cui stagnazione e output gap; e il tutto determinato dalla regolazione stessa. 
E siamo sempre immersi in politiche di bilancio in pareggio, che impongono il taglio della spesa pubblica e l'aumento delle imposte.  Un consolidamento fiscale, in vista del pareggio di bilancio, che, prima o poi (l'impegno non è né rinunciabile, nè smentito), dovrebbe inevitabilmente ritornare a livelli tali da riportare il Paese in recessione.
A proposito: qualsiasi tipologia di spesa pubblicainduce la crescita di reddito e spese e quindi consente alle imprese di aumentare il valore del capitale e di effettuare gli investimenti: "privati" e in funzione della "accresciuta domanda", (che significa "un aumento delle vendite effettive e attese", cioè della spesa delle famiglie).
Tutto il contrario di quello che si invoca...pur di poter dire che "il problema non è l'euro". Mentre la devalorizzazione del capitale, determinata da caduta dei profitti (cioè dei consumi) e restrizione senza fine del credito (che prolunga la caduta degli investimenti), portano alla€uro-svendita dell'Italia:


 

IL PARADOSSO €UROPEO: LA CENSURA SUL "PUNTO ZERO" E LA PROIEZIONE IDENTIFICATIVA DEGLI OPPRESSI

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"In questa chiave "progressiva" si possono comprendere anche gli elevati livelli di tassazione: si tratta di una condizione transitoria e, naturalmente strumentale, che sconta la modifica del precedente ordine costituzionale dei welfare, mirando a farlo collassare per rigetto del corpo sociale; e ciò mediante la imposizione del vincolo monetario (ad effetti equipollenti "in parte qua" al gold standard) e dei ben noti "vincoli" dideficit e di ammontare del debito, posti rispetto ai bilanci pubblici.

I quali, naturalmente, in una fase iniziale, pazientemente durevole, debbono "rientrare", consolidarsi, aumentando l'imposizione fiscale, prima di poter procedere, verificatesi le condizioni politiche, al taglio strutturale della spesa pubblica.

Alla fine, la gente, avvertendo come insopportabile il costo dei diritti sociali, cioè del welfare, invocherà il loro smantellamento, pur di vedersi sollevata da questa insopportabile tassazione". 

PARTE I.
1. Il sistema neo-liberista, che trova la sua forma più brutale nell'UE dell'euro, si fonda su un paradosso. Molti cittadini €uropei, sempre più numerosi, avvertono la sensazione che siamo immersi in un paradosso ("una conclusione evidentemente inaccettabile, che deriva da premesse evidentemente accettabili per mezzo di un ragionamento evidentemente accettabile".).
Ma la difficoltà sta nel formularne i termini e lo sviluppo in modo completo dal punto di vista logico, sì che possa essere divenire un'acquisizione cosciente per ciascun individuo coinvolto:  solo attraverso questa consapevolezza egli potrà regolarsi di conseguenza, senza sbagliare le scelte e le previsioni/aspettative legate ai propri comportamenti, nonché recuperando una qualche libertà di autodeterminarsi nel proprio interesse "reale".
Ne discende che il problema della definizione del paradossoè molto pratico, e che chi non sa trarne le applicazioni consequenziali ad ogni concreta questione (ad es; questa), sopravveniente ormai a getto continuo, nel dilagare del neo-liberismo federalista, ha bisogno di studiare ancora molto.

2. Proviamo dunque a dare una descrizione del paradosso nella sua struttura logica, (rinviando, per i concreti contenuti politico-economici storicamente affermatisi in base al "paradosso", a due citazioni keyenesiane di Caffè, ben connesse alla costruzione europea):

- il sistema si fonda sulla cooperazione identificativa degli oppressi con gli oppressori: l'identificazione (cioè una "proiezione" in base a cui mi attribuisco qualità e interessi coincidenti con quelli di chi mi opprime) è resa possibile dalla sfasatura (lag temporale) tra gli effetti di tale cooperazione e la condizione transitoria del cooperante, che varia durante le fasi di realizzazione intermedia degli effetti.
L'induzione da parte degli oppressori della proiezione identificativa, sfrutta proprio le variazioni di condizione dei soggetti oppressi, e implica di utilizzarne programmaticamente i tempi di realizzazione. Ed infatti, tale condizione variabile ovviamente peggiora (in termini astratti: decremento di qualità autoattribuibili e perdita degli stessi interessi che avevano giustificato la proiezione identificativa): ma, - strumento saliente della strategia paradossale-  il tempo che occorre al compimento del processo viene utilizzato, dagli oppressori, per attribuire la colpa del peggioramento allo Stato;

- E qui veniamo a come le premesse vengano (abilmente) rese accettabili. Si tratta in definitiva di nascondere, e censurare sistematicamente la più importante fra esse: il sistema, infatti, presuppone che gli oppressi che cooperano siano, in partenza, in condizioni di benessere relativo alla propria sfera economica e sociale. Altrimenti, l'identificazione di cui al precedente "punto" non può (non avrebbe potuto) verificarsi. Ma tale condizione di benessere socio-economico è dovuta alla precedente azione dello Stato democratico, inteso in senso non "filosofico" (cioè che non circoscrive la democrazia al processo elettorale e all'eguaglianza formale, disinteressandosi dei diritti sociali), come ente di tutela di una comunità sociale pluriclasse e integralmente solidaristica, cosa che in concreto esige l'affermazione attiva dei diritti sociali. Tali diritti, rammentiamo, consistono in reddito indiretto e reddito differito, e connesso risparmio diffuso, riconosciuti, dallo Stato, ad ogni componente della comunità che abbia partecipato attivamente ad essa in base ad un'attività lavorativa nel corso della quale sia protetta, dallo stesso Stato, la dignità del lavoro stesso;

- ergo, il sistema può funzionare proprio e soltanto sul presupposto che il benessere diffuso sia stato in precedenza raggiunto grazie all'azione dello Stato (democratico e keynesiano), dato che, in assenza di tale condizione (storico-economica) nel punto "0" dell'intero processo, l'induzione manipolativa alla identificazione sarebbe risultata inefficace. Ed è qui il nodo del paradosso, vale a dire il fine inaccettabile è dissimulato e trascende sia le falsificate premesse "accettabili" che il fine (formale) reso paradossalmente accettabile. Ed infatti, tutto ciò ha il fine (dissimulato) di distruggere lo Stato costituzionale democratico medesimo, in quanto strumentalmente colpevolizzato (fine enunciato e accettabile) della sopravvenuta impossibilità di far concidere le proprie qualità e i propri interessi con quelli degli oppressori appartenenti all'oligarchia. Questa oligarchia, ab initio (anche prima del punto "0") vedeva nell'azione dello Stato democratico una minaccia alla conservazione e all'incremento dei propri privilegi: privilegi che raggiungono il massimo valore economico e, più ancora, raggiungono il vertice delle gerarchie socio-politiche, quando vengono a coincidere con l'istituzione (appunto, sovranazionale), cioè quando instaurano un nuovo e opposto tipo di Stato (quello oligarchico in luogo di quello democratico pluriclasse).

PARTE II.
3. Per i contenuti politico-economici che sono stati istituzionalizzati in base a questo schema, ci pare interessante riportare due citazioni riferibili a Caffè che ben descrivono l'evoluzione nel tempo, programmatica, di ciò che la "costruzione europea" avrebbe portato a compimento, in virtù della manipolazione identificativa. Li pongo in un ordine che rispecchi la tempistica (graduale) delle fasi realizzative:

4. "Che ne pensarebbe Caffè dell'Europa di oggi? Che sia sempre stato favorevole alla politica del "piede in casa" si sa; ci sono però anche articoli molto più precisi sull'Europa di ieri. Uno in particolare (comparso per la prima volta su "Il Manifesto", 8 luglio, 1981 e ripubblicato in "La solitudine del riformista", Bollati Boringhieri, Torino, 1990, pagg. 197-99), per quanto ne so irreperibile in rete, ve lo trascrivo qui. Pesiamo la gravità delle rispettive situazioni e traiamo le nostre conclusioni. Buona lettura:
"Se sono esatte le notizie riferite dalla stampa circa le “sollecitazioni” con le quali la Comunità economica europea avrebbe accompagnato l’accettazione del provvedimento italiano di un deposito provvisorio infruttifero, nella misura del 30%, su determinate importazioni o acquisti di valuta estera per specificati scopi, ci si trova di fronte a un comportamento che attesta con chiarezza come la cooperazione comunitaria si sia trasformata in esplicito rapporto di vassallaggio

Una espressione di indignazione morale di fronte a questo stato di cose lascerà del tutto indifferenti le autorità politiche del nostro paese, alle quali è verosimilmente da riferire l’origine prima di quelle “sollecitazioni”
Ma è bene che i giovani i quali seguono queste note e le considerano quasi una continuazione del colloquio nell’aula universitaria siano consapevoli che condizionamenti del genere venivano, in un passato alquanto remoto, imposti ad alcuni paesi (come l’Egitto, la Turchia, la Cina) in momenti in cui non erano in grado di far fronte agli impegni del loro indebitamento verso l’estero. Questi condizionamenti venivano designati come regime delle “capitolazioni” e la parola rende abbastanza bene l’idea.
Ma, prescindendo dagli aspetti etico-politici, sono quelli di carattere strettamente tecnico che vanno contestati punto per punto. 

In primo luogo (sono cose che giova ripetere) i trattati comunitari prevedono, in caso di comprovate difficoltà della bilancia dei pagamenti, “clausole di slavaguardia” che possono condurre anche alla temporanea reintroduzione di quote o contingenti alle importazioni (Ndr: tali "clausole di salvaguardia", scompaiono, a partire dal Trattato di Maastricht, per i paesi-membri "la cui moneta è l'euro": per questi, sia chiaro, l'unica misura di risoluzione del vincolo della bilancia dei pagamenti", rimangono le "sollecitazioni" provenienti, puntualmente, da Commissione UE e BCE, sempre invariabilmente imperniate sulla svalutazione interna mediante deflazione salariale). 
I paesi membri, vale a dire nel caso che ne ricorresse la necessità, potrebbero imporre misure restrittive più severe di quelle che si concretano con l’adozione di sovraddazi, o l’imposizione di un deposito infruttifero. Può essere discutibile se sia stato opportuno, a suo tempo, accettare provvedimenti restrittivi più blandi, ma non previsti dalle disposizioni comunitarie. 
In tesi generale, sembra preferibile attenersi alle carte statutarie, anziché tollerare prassi difformi (alle quali, in altre circostanze, hanno fatto ricorso anche paesi diversi dal nostro). Ma l’importante è di tenere presente che i paesi membri hanno “diritto” di far appello alle clausole di salvaguardia e che le autorità comunitarie avrebbero soltanto titolo a verificare se ricorrano o meno gli estremi che ne giustificano l’applicazione.
Detto questo, non si intende constestare alle autorità comunitarie di valutare i fattori di difficoltà della bilancia dei pagamenti italiana e di esprimere le loro raccomandazioni. 

Stupisce, tuttavia, che queste raccomandazioni siano la replica puntuale di interventi molto controversi nel dibattito economico che si svolge nel nostro paese (dalla “soluzione” del problema della scala mobile, al contenimento del disavanzo pubblico, dal “divorzio” tra il Tesoro e l’Istituto di emissione, alla predisposizione della copertura a fronte di nuove spese pubbliche, alla realizzione di un accordo tra le parti sociali). 
Ancora una volta lasciando da parte i risvolti politici di simili raccomandazioni, vi è una tale sensazione di stantio, di ripetitivo, di carenza di originalità da lasciare perplessi sulle capacità di ispirazione di organi che hanno l’arduo compito di tracciare il disegno dell’armonizzazione delle politiche comunitarie."


5. "Degli ostacoli che le strozzature frappongono alle politiche di piena occupazione erano ben consapevoli quelli che Steve ha chiamato i «keynesiani della prima generazione» (8), fra i quali vanno compresi Michał Kalecki e gli altri autori del libro "L’economia della piena occupazione", del 1944, tradotto in italiano nel 1979 con un’introduzione di Caffè (9). 
«Se non esistono riserve di capacità o queste sono insufficienti - scrive Kalecki in questo libro - il tentativo di assicurare la piena occupazione nel breve periodo può facilmente causare delle tendenze inflazionistiche in vasti settori dell’economia, poiché la struttura della capacità produttiva non è necessariamente adeguata alla struttura della domanda [...]. In un’economia nella quale l’attrezzatura produttiva è scarsa è quindi necessario un periodo di industrializzazione o ricostruzione […]. In tale periodo può essere necessario impiegare controlli non dissimili da quelli impiegati in tempo di guerra.» (10). Un’affermazione come questa basta da sola a mostrare tutta l’inconsistenza e la superficialità dell’identificazione, che tanto spesso si è voluta fare, fra keynesismo e politiche keynesiane, basate esclusivamente sul sostegno della domanda aggregata".

Se, anziché con la politica dell’offerta, il miglioramento dei conti con l’estero viene perseguito per mezzo della deflazione, il freno che ne deriva alla formazione di capacità produttiva tenderà ad aggravare ulteriormente la situazione. «E’ un affare molto serio - ha scritto un altro keynesiano della prima generazione, Richard Kahn - se l’attività produttiva deve essere ridotta perché la produzione a pieno regime comporta un livello di importazioni che il paese non può permettersi. Ed è un affare particolarmente serio se la riduzione in esame prende largamente la forma di una riduzione degli investimenti, inclusi gli investimenti volti alla formazione della capacità produttiva capace di farci esportare più beni a prezzi più concorrenziali e di diminuire la nostra dipendenza dalle importazioni.» (11). 
Se proprio occorre ridurre gli investimenti, afferma ancora Kahn, tale riduzione deve essere «altamente discriminatoria»: bisogna, cioè, tentare di «stimolare gli investimenti nelle industrie esportatrici e in quelle capaci di sostituire le importazioni, particolarmente nei settori in cui è l’attrezzatura produttiva a rappresentare la strozzatura, e di scoraggiarli in tutti gli altri settori. Le restrizioni monetarie possono, tuttavia, essere caricate di un contenuto discriminatorio solo con difficoltà ed entro limiti piuttosto ristretti. Vi sono qui, per eccellenza, forti ragioni per ricorrere a metodi alternativi di scoraggiare gli investimenti, e particolarmente a quei metodi che operano attraverso controlli diretti» (12).
Dal fatto che la sostituzione delle importazioni e il potenziamento della capacità di esportazione sono obiettivi di medio o lungo termine, mentre la deflazione va evitata fin dall’inizio (anche per non pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi suddetti), può discendere la necessità di imporre controlli amministrativi sulle importazioni di particolari merci, e dunque sulla loro distribuzione all’interno del paese".


PARTE III.
Commento finale: sulle questioni di disattivazione della democrazia e di irrevesibile mutamento della "forma di Stato" che necessariamente da tutto questo derivano, rinviamo a...tutto il blog e ai due libri (le cui copertine trovate nella homepage, in alto a destra...). Ma rimane facile una semplice conclusione:
- se disattivare lo Stato democratico nazionale è il fine complessivo perseguito, mediante il paradosso €uropeo, con la manipolazione e l'inganno, -senza i quali sarebbe irrealizzabile-, per uscirne occorre ripristinare la piena applicazione della Costituzione del 1948.

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