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UK, ITALIA E LA SOVRANITA': LA SUA RAGION D'ESSERE E LE GERARCHIE INTERNAZIONALI

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1. Voci dall'estero ci riporta meritoriamente un articolo di Ambrose Evans-Pritchard che ci racconta come i giudici inglesi si stiano "ribellando" alla corte di giustizia UE. Il problema è così posto:
"Si tratta della prima entusiasmante resistenza della autonomia sovrana contro una Corte di Giustizia europea che ha ormai tratti imperiali, che ha acquisito poteri indiscriminati sotto il Trattato di Lisbona, e che da allora ha fatto leva sulle sue conquiste per rivendicare la giurisdizione su praticamente qualsiasi argomento".
Citata la storia di questa espansione "intollerabile" della giurisdizione europea, e anche l'atteggiamento non cedevole della Corte costituzionale tedesca, che avrebbe censurato la CGUE in più occasioni per essere andata oltre il suo mandato, si riporta che:
"È dunque toccato alla Corte Suprema del Regno Unito – che senza far rumore sta diventando una forza con cui bisogna fare i conti – sollevare la questione se le rivendicazioni di sempre maggior egemonia della Corte di Giustizia europea siano legali, e di che cosa possiamo fare per fermarla.
La Gran Bretagna è particolarmente vulnerabile a invasioni in campo giudiziario. La Corte di Giustizia europea trae ispirazione dalla filosofia corporativista della legge Napoleonica, incline a considerare che tutto sia proibito, a meno che non sia in qualche modo codificato, in contrasto con il diverso spirito di iniziativa della Common Law inglese. Ma i contrasti non finiscono qui.
Lord Mance ha dichiarato che il Parlamento ha dato alla Corte di Giustizia Europea un assegno in bianco quando nel 1972 ha abbozzato lo European Communities Act, conferendo alla UE uno status più alto. In particolare ha detto: “Non ci resta nessun bastione costituzionale esplicito contro le incursioni delle legge della UE”.
A noi mancano le difese della Germania, dove la Corte Suprema rifiuta di accettare il primato della Corte di Giustizia europea, e si riserva il diritto di eliminare ogni legge della UE che entri in conflitto con il sistema giudiziario tedesco".
2. Ma Evans-Pritchard pare non considerare che la Germania ha una solida giurisprudenza costituzionale in materia perché ha una Costituzione rigida, di cui ha progressivamente espanso l'ambito di immodificabilità da parte delle fonti europee. E, inoltre, ha una Corte costituzionale (non una "Corte Suprema" che svolge funzioni di "dichiarazione a posteriori" dei principi costituzionali - e anche del resto del diritto "di common law", e, per il resto, funziona come una Corte di Cassazione). Tanto che il Lissabon Urteil, cioè la sentenza della Corte costituzionale tedesca che ha fatto tempestivamente il punto sul relativo trattato, è stata direttamente oggetto di attenzione da parte delle stesse istituzioni UE. La Germania, in questa stessa analisi conta parecchio:
"Un altro aspetto importante del Lissabon-Urteil è il suo impatto sulle altre corti costituzionali e, naturalmente, sulla Corte di giustizia dell'Unione europea (CGUE). È teoria generalmente accettata da anni che le decisioni di Karlsruhe incidano pesantemente sulla giurisprudenza e sulle argomentazioni delle corti costituzionali nazionali, soprattutto dei nuovi Stati membri entrati nell'Unione nel 2004 e nel 2007.
Resta da vedere come si rifletterà la posizione tedesca in merito a democrazia, identità costituzionale e sovranità nei ragionamenti degli altri sistemi giuridici".
3. L'UE comunque prende atto:
"il risultato più palese della sentenza è l'obbligo in capo al parlamento tedesco di assicurare un proprio maggiore coinvolgimento nelle future attività legislative dell'Unione, segnatamente per quanto riguarda gli articoli del trattato che consentono alle istituzioni UE di semplificare il processo decisionale o di modificare le previsioni del trattato senza fare ricorso a una Conferenza intergovernativa".
Questa decisione segna comunque alcune interessanti "novità"(che abbiamo affrontato anche in "Euro e(o?) democrazia costituzionale"), che andrebbero sempre ricordate alle "istituzioni" italiane quando parlano di €uropa "politica" e di federalismo irenico europeo
E' ovvio che, per salvare le forme (o la faccia), i commentatori UE cerchino di mitigarne e minimizzarne la portata, ma le novità sono piuttosto pesanti e potenzialmente espandibili fino a livelli "destrutturanti" la costruzione europea, ed oggi incombenti sull'intera UE, dato che la sua legittimità d'azione è espressamente messa sotto il continuo monitoraggio di Corte costituzionale e parlamento tedeschi e la sua "democraticitàespressamente negata, indicandosi ben noti motivi (ignorati in Italia) di inefficacia democratica del parlamento UE:  
"La corte spiega in modo minuzioso che lo Staatenverbundè un'associazione di Stati nazionali sovrani e poi descrive nei minimi dettagli le condizioni che consentono a uno Stato di mantenere la propria sovranità. Particolare interesse ha destato negli osservatori un elenco di diritti statali inalienabili che non potranno mai essere trasferiti al processo legislativo europeo se l'identità costituzionale e la sovranità degli Stati membri deve essere preservata.
Secondo Schönberger, si tratta soltanto di un'elencazione di pura convenienza politica (la corte vi cita pressoché la totalità dei settori in cui la competenza degli Stati membri è tuttora esclusiva o quantomeno prevalente) e non di un'interpretazione costituzionale fondata su principi. Altri autori concordano nel giudicarla una semplice raccolta e un elemento di tutela dei restanti poteri nazionali.
In alcuni passaggi la sentenza si dilunga anche sull'importanza della democrazia quale elemento costitutivo della sovranità di uno Stato membro, nella fattispecie della Germania. È in questi paragrafi che la CCF ravvisa persino l'incapacità strutturale del Parlamento europeo (PE) di potere un giorno divenire una fonte di legittimità democratica diretta. Il motivo principale di tale impossibilità, secondo la corte, risiede nelle fortissime differenze d'impatto elettorale dei cittadini, da Stato membro a Stato membro, un aspetto che viene identificato come una violazione inaccettabile del principio di uguaglianza elettorale, per di più riconducibile al meccanismo di assegnazione dei seggi del PE in base alle quote nazionali.
Infine in questa sentenza, contrariamente a quanto accaduto in quella di Maastricht, la corte si è sentita in dovere di trattare minuziosamente il tema del divieto imposto dalla Legge fondamentale alla Repubblica federale di Germania di aderire a un eventuale Stato federale europeo. Questo tipo di decisione spetta, infatti, solo al potere costituente, ossia il popolo. I giudici sono tuttavia attenti a non porre il referendum come condizione, limitandosi invece ad accennare alle prerogative del potere costituente; rimangono dunque concepibili altri mezzi d'espressione della volontà di tale potere, anche ispirati alle origini della Legge fondamentale (che fu elaborata da una convenzione costituzionale sull'isola di Herrenchiemsee)".
3.1. Domandiamoci allora: su quali basi di ragionevolezza e buona fede negoziale, oggi, dunque, si viene ad accusare la Germania di non aderire alle esigenze di un'evoluzione "politica" dell'€uropa e di non voler procedere verso un governo federale, dotato di pieni poteri fiscali e di bilancio?
La Germania la sua posizione l'ha sempre enunciata con chiarezza e non ha mai suscitato dubbi o aspettative: gli "Stati Uniti d'Europa" sono vietati dalla sua Costituzione e l'UE, per la sua strutturale carenza di democrazia in senso "parlamentare", ritenuta non correggibile proprio sul piano di un'irrealizzabile rappresentatività elettorale, è solo una Staatenverbund, una mera associazione tra Stati priva di sovranità originaria, cioè che non sia derivata dalla volontà (intergovernativa) di questi ultimi.
E vale, fin da ora, la pena di porsi un'altra domanda: se le ben più recise e sostanziali affermazioni di una Corte costituzionale come quella tedesca, - basate oltretutto su una Costituzione ben più "moderna", strutturata, e ampia nei contenuti, rispetto a quella inglese-, non hanno avuto alcun effetto sulla giurisprudenza costituzionale e sugli orientamenti politico-giuridici italiani, come potrebbero averlo mai, un tale effetto, le peculiari "rivendicazioni", come vedremo, avanzate dai giudici del Regno Unito?
Dall'euro e dalla de-sovranizzazione non ci salveranno gli anglosassoni: tanto più che essi "rispettano" solo coloro che hanno la "forza" di mostrare coraggio e capacità di scelta nel far valere i propri interessi...


4. Insomma, tornando ai conflitti di giurisdizione intentati dai britannici, se non hai una vera Costituzione scritta, in senso moderno, non hai una vera Corte costituzionale e, specialmente, non hai un enorme surplus delle partite correnti e un controllo economico-industriale sui paesi limitrofi, tramite investimenti esteri e delocalizzazioni, certamente "pesi" meno nelle gerarchie della stessa UE. E non solo.
Ma il problema è un altro: se partiamo dalla conoscenza effettiva dell'atteggiamento della Corte tedesca, comprendiamo che per i britannici si tratta sostanzialmente di un allineamento, alla stessa Germania, nel reclamare uno spazio di autonomia che, tuttavia, prescinde dalla natura e dal contenuto dei principi costituzionali rispettivamente contrapponibili alla Corte e alle istituzioni UE:
"La Corte di Giustizia Europea ha calpestato platealmente il Bill of Rights inglese del 1689 in una sentenza sulla ferrovia ad alta velocità HS2, che ha messo in dubbio le prerogative parlamentari, implicando che la Corte di Giustizia Europea avesse il potere di proibire a un ministro di presentare un disegno di legge alla Camera dei Comuni.
“È difficile immaginare una interferenza più evidente con i procedimenti parlamentari”, ha tuonato Lord Reed. Evidentemente non è questo che voleva la Camera dei Comuni nel 1972. Lord Reed ha anche aggiunto che la Corte Suprema del Regno Unito si sarebbe sforzata di lavorare in armonia con la Corte di Giustizia europea, ma che se ci fosse stato un conflitto, sarebbe stato risolto “dal nostro sistema giuridico e come questione coperta dalle nostre leggi costituzionali.” Evviva.
La sentenza unanime pronunciata da Neuberger, presidente della Corte Suprema del Regno Unito, insieme a una squadra di giudici di prim’ordine su questo caso nel 2014, è stata un rombo di tuono. Lord Neuberger ha avvertito che nessuna corte britannica avrebbe potuto accettare un’aggressione al Bill of Rights e ha continuato tratteggiando i contorni di un nuovo ordine legale.
Il Regno Unito non ha una costituzione scritta, ma abbiamo un certo numero di strumenti costituzionali”, ha detto, citando tra gli altri la Magna Charta, la Petition of Right del 1628 e il Bill of Rights. Non sono equivalenti al Grundgesetz tedesco.
Il parlamento non era intenzionato ad abrogare questi “principi fondamentali” quando ci siamo uniti all’Unione europea, e non ha nemmeno autorizzato una rivoluzione di questa portata.  Adam Tomkins, professore di diritto, ha dichiarato che la sentenza è “un attacco decisivo al modo in cui la Corte di Giustizia europea manipola la legge europea”.
Per chiarire il concetto, in un’altra sentenza nel caso Pham del 2015, la Corte ha decretato che d’ora in avanti deciderà “da sola” se la Corte di Giustizia europea ha superato o no certi confini. L’era della subordinazione è finita.
Finalmente abbiamo la volontà di difendere la nostra sovranità piuttosto che affidarci – come una colonia di capponi – alla buona volontà fraterna della corte tedesca, che non è in sintonia con il particolare sistema britannico di supremazia parlamentare e che in ogni caso agisce solo in base all’interesse nazionale tedesco".

5. La questione è formulata in modo chiarissimo e un italiano dovrebbe poterne trarre le dovute conseguenze rispetto alla sua posizione: il Regno Unito ha a cuorela democrazia parlamentare e i connessi poteri di legiferare entro i limiti, e per la tutela, assicurata da carte dei diritti che risalgono al medioevo o al XVII secolo.
In sostanza, il fine è di riaffermare una sovranità verso l'esterno - la comunità internazionale o l'UE che sia- che, però, nel suo aspetto "interno" si limita ai diritti di libertà, cioè rapportati alle libertà "negative" verso qualsiasi autorità di governo (freedom from), secondo una concezione costituzionale tipicamente liberale: che non ha, evidentemente, assorbito al suo interno i diritti sociali, cioè la risoluzione a livello sovra-legislativo del "conflitto sociale", costituzionalizzando cioè uno Stato pluriclasse e democratico in senso sostanziale.
Per comprendere meglio questo aspetto, pur essendo gli inglesi fieri del loro welfare nazionale, e vedendolo come un qualcosa da tutelare proprio dalla (illimitata) estensione ai non britannici in virtù della regolazione UE, Lord Reed oLord Neuberger si guardano bene dal menzionare il Rapporto (del Lord) Beveridge, che, - posto alla base della regolazione keynesiana del "mercato del lavoro di pieno impiego" e della complementare previsione del welfare-, è considerato dagli stessi Caffè, consulente economico dell'Assemblea costituente, e Meuccio Ruini, presidente della commissione dei 75 che scrisse nella sostanza il testo della stessa Costituzione, un coerente riferimento che fu consapevolmente trasferito nella nostra Costituzione "economica" per realizzarne il carattere fondamentale "lavoristico" (arrt. 1 e 4 Cost.)
Eppure, avendo determinati "valori" e "fini" come riferimento giuridico-costituzionale, ben si poteva annoverare il Rapporto Beveridge tra i principi, se non tra le norme direttamente applicative, di fonte costituzionalizzata, dato che ciò che sosteneva Beveridge aveva molto a che fare con la sovranità, cioè col potere supremo dello Stato nazionale e con il suo fondamento legittimo, come ci confermano le sue stesse parole (qui p.3):
L’abolizione del bisogno non può essere imposta né regalata ad una democrazia, la quale deve sapersela guadagnare avendo fede, coraggio e sentimento di unità nazionale”. 
 
6. Possiamo dunque dire che la riaffermazione di sovranità cercata dagli inglesi, da un lato, è volta a ribadire la propria "indipendenza" verso "entità estere" di qualunque tipo, cioè il "superiorem non recognoscens" di diritto internazionale, dall'altra a preservare, in modo implicito ma necessario, la concezione liberal-parlamentare della sovranità "interna", proprio circoscrivendo i riferimenti storico-politici delle proprie fonti costituzionali.

Certo la sovranità è un potere originario, nel senso che trova fondamento legittimo in se stesso, secondo una formulazione derivante proprio dalle teorizzazioni conseguenti ai trattati di Westfalia (elaborate già da Bodin),sintetizzabili nel brocardo "superiorem non recognoscens". 
Si tratta, si noti, pur sempre di una formulazione e di teorizzazioni del XVII secolo (ben anteriori alle "ipotesi" costituzionali della Rivoluzione francese, che risultavano invece più orientate, nello spirito moderno, a precisare i contenuti di questo potere "originario"in senso sociale).
Ma una tale definizione di sovranità non è esauriente; non è sufficiente per comprenderne appieno la natura fenomenologica (in senso giuridico, capace di identificare i comportamenti vietati o promossi nella comunità sociale): cioè tale definizione non ci dice in cosa essenzialmente consistano il suo contenuto e la sua funzione. Non ci parla cioè della "ragion d'essere" della sovranità e dei suoi correlati fini (storicamente concreti).

7. Per connotare questo contenuto e questa funzione, in base al principio che ognuno ha le sue competenze commisurate all'oggetto delle indagini e della ricerca che compie, evitiamo di ricorrere alla "mera" filosofia (specie se vivente nella logica del rinvio bibliografico, reciproco e incontrollabile, interno al mainstream liberista anglosassone, cioè sussidiario e derivante dal paradigma economico instaurato dalle forze culturalmente dominanti, cioè l'oligarchia): ed infatti, risolvere un problema giuridico-costituzionale, qual è quello della definizione della sovranità, è un problema proprio della scienza (sociale) giuridica, basata sullo studio dei dati positivi costituiti dalle norme. E ciò, per quanto la "teoria generale del diritto" sia strettamente connessa alla "filosofia del diritto", senza coincidere con essa.
Quest'ultima, poi, prescinde dal porsi il problema dell'interpretazione e della sistematizzazione, effettuata in via induttiva (e non solo deduttiva, sulla base di assiomi filosofici), dell'insieme delle norme positive esistenti. Vale a dire, interpretando e sistematizzando" i "fatti sociali normativi", effettivamente rilevabili dalle fonti di produzione (si dice "de jure condito") proprie del complesso degli Stati (questa rilevazione, a sua volta, può comportare sia lo studio del diritto comparato, sia il diverso e ulteriore studio sistematico, di diritto pubblico, della "teoria dello Stato", cioè delle sue forme e strutture ordinative, storicamente riscontrabili. E sempre, forme e strutture non filosoficamente dedotte, come speculazione teorica individuale, a sua volta derivata da altre speculazioni individuali, per quanto illustri, e che aiutano, al più, a chiarire alcuni aspetti dell'interpretazione normativa.

8. Ricorriamo allora alla definizione di sovranità più attendibile e consolidata nell'ambito del costituzionalismo italiano ("classico" e pre-europeizzazione): quella di Mortati.
Alle pagine 98 e ss. del Tomo I delle sue "Istituzioni di diritto pubblico", Mortati ci dà dapprima la descrizione del concetto di originarietà e autolegittimazione del potere sovrano, nel senso "classico", derivante da Westfalia (per trovare la sua autorevole ricostruzione storico-giuridica in proposito occorre andare alle pagine 1497 e ss. del Tomo II), sopra accennato: 
"il concetto di sovranità viene a designare il modo di essere proprio del potere statale e, se si tiene conto della duplice direzione verso cui esso assume rilievo, risulta contrassegnato, sotto un aspetto, dalla indipendenza dello Stato di fronte ad altri ordinamenti esterni al suo territorio, e, sotto un altro, dalla supremazia che ad esso compete di fronte ai singoli e alle comunità esistenti all'interno del territorio stesso".
Il caso della rivendicazione britannica di sovranità verso l'UE (e in particolare verso la CGUE), dovrebbe essere ormai chiaro, riguarda tale primo aspetto "esterno" della sovranità; e, in un certo modo, tende pure a enunciare un aspetto "interno" che, però, dovrebbe essere anche questo ormai altrettanto evidente, non è senza conseguenze nei rapporti esterni.
  
9. Ed infatti, la compressione della sovranità non dipende solo dall'esistenza in sè di un potere generalizzato di interferenza con le prerogative di un certo Stato (cioè un'interferenza che può andare al di là dei settori di competenza UE elencati nei trattati, come lamenta il regno Unito col riferimento alla "Carta dei diritti", incorporata in un certo modo nel diritto europeo), ma dipende, anche e soprattutto, dal tipo e dal contenuto delle norme sovranazionali che si impongono in virtù della (supposta) prevalenza del diritto europeo.
E' chiaro che incentrare questo conflitto in termini di esclusiva interferenza sui diritti di libertà, delimitando in tal modo, come abbiamo visto, il contenuto costituzionale britannico, indebolisce la protesta dei giudici inglesi: o meglio, indebolisce gli interessi del popolo inglese nella sua essenza pluriclasse.
Per meglio comprendere questo aspetto "contenutistico" del contrasto tra ordinamenti, dobbiamo considerare un'ulteriore connotazione della sovranità ("interna") illustrato da Mortati: la sovranità, infatti, indica:
"la capacità dello Stato di porre comandi incondizionati...L'avere ricondotto la sovranità sotto la categoria della capacitàpresuppone che ad essa si riconosca carattere giuridico"
Mortati poi precisa che questa capacità può essere "relativa": ma, non nel senso di contraddire la originarietà e la incondizionalità che ne costituiscono l'essenza estrinseca (tipo di relatività che Mortati nega), quanto in un senso contenutistico, e, in particolare, storico (e geografico). 
Infatti, i "fini" dell'azione dello Stato, nell'esercizio della sovranità, possono mutare nel tempo, essenzialmente in funzione di diverse concezioni della sua radice costitutiva, ma ciò non altera la natura della sovranità: piuttosto caratterizza la "forma di Stato" (o il "tipo" di Stato, nella sua proiezione esterna: sulla distinzione tra forma e tipo di Stato, si veda Tomo I, pag.134).

10. Alle pagine 133 e ss., relative appunto alle "forme di Stato", questo concetto viene ulteriormente spiegato, fornendoci una definizione di sovranità che, più sostanzialmente, ce ne chiarisce non solo i caratteri estrinseci, originarietà  e illimitabilità, nel suo ambito territoriale, che pure ne rimangono un presupposto, ma anche funzione e finalità: 
"La potestà sovrana, necessaria a qualunque ente politico per il conseguimento del fine suo proprio di assicurare la pacifica coesistenza degli interessi vari, ed a volte contrastanti fra loro, che siano considerati bisognevoli di tutela, si estrinseca in con diversa intensità ed estensione...Qualsiasi ente che si proclami sovrano riesce ad esserlo nei limiti che, da una parte, risultano imposti dalle situazioni di fatto, e, dall'altra, appaiono richiesti dalla stessa ragion d'essere del potere sovrano, che, mirando a realizzare un ordine in una società, non può non organizzarsi ed operare in modo ordinato, sottoporsi cioè ad una disciplina che...non cessa di essere giuridica pel fatto che provenga dallo stesso potere che vi si assoggetta".
11. La sovranità, dunque, non è un fine in sè dell'ente politico (cioè a fini potenzialmente generali) ma uno strumento che si collega alla ragion d'essere dell'ente politico, quella "pacifica coesistenza degli interessi vari", che giustifica la sovranità stessa nei suoi (visti) caratteri estrinseci, ma dà luogo a soluzioni (normative) mutevoli in funzione della individuazione degli interessi da "conciliare"
Alla riportata premessa di Mortati, segue infatti un'analisi storica e comparata dei vari tipi/forme di Stato (o di "regime", incluso quello democratico...sempre di "regime" in senso giuridico-costitiuzionale si tratta), un'analisi che sistematizza e classifica i fatti normativi costituzionali, cioè relativi alla sovranità statuale, positivamente riscontrabili.
Dunque, già da tale premessa (fenomenologica) possiamo trarre alcune indicazioni importanti: la funzione sostanziale del potere sovrano è quella di assicurare la pacifica coesistenza di interessi diversi e anche contrastanti tra loro; "come" questa essenza della sovranità sia concretamente attuata dipende da quali interessi, cioè da quali tipologie di gruppi sociali che ne sono portatori, siano considerati "bisognevoli di tutela".

11.1. Così, se gli interessi considerati "meritevoli" e quindi da tutelare sono, in base al principio di eguaglianza formale, quelli di "tutti i cittadini" formalmente indistinti, al vedersi garantite delle libertà negative, cioè delle sfere soggettive di esclusione dello stesso potere di comando (altrimenti "incondizionato" dello Stato),  avrò la democrazia parlamentare "liberale" (in quanto ispirata a tale concetto di "libertà"): in essa soltanto il parlamento (eletto dai portatori degli interessi riconosciuti come titolari degli stessi), con le sue leggi, potrà stabilire dei limiti alle libertà (tipiche quelle personale, domiciliare, di espressione pubblica del pensiero e, soprattutto, di intrapresa dell'attività economica), ma non potrà comunque comprimerle oltre i limiti ammessi dai Bill of rights (o dalle costituzioni "liberali" che li ricalcano). Non a caso la Magna Carta, invocata come riferimento positivo della Costituzione britannica, è detta "libertatum".

11.2. Dunque, in questo tipo di democrazia, "valori" (cioè le valutazioni storico-politiche che portano a considerare meritevoli certi, e non altri, interessi da tutelare mediante il potere sovrano) e fini (cioè gli obiettivi che, verso il "lato interno", potrà porsi l'esercizio della sovranità) sono obiettivamente funzionali all'economia di mercato, intesa come "free competition" e "free trade". 
In questo tipo di Stato (liberale), la sovranità stessa, come potere dotato di certi contenuti strumentali e dipendenti dagli interessi effettivamente tutelati, definisce un regime/"forma di Stato" che si disinteressa del conflitto sociale: cioè non conferisce rilievo giuridico supremo alla soluzione del contrasto tra interessi propri di tutti i gruppi, o meglio classi sociali, considerate ciascuna portatrice di interessi meritevoli di tutela
Ciò che noi sappiamo essere, invece, la caratteristica della nostra Costituzione e quindi del contenuto e della funzione della sovranità in esso assunta (la "Costituzione nella palude"è stato scritto proprio per riorganizzare la gran quantità di materiale che il blog aveva fornito al riguardo nel corso del tempo). Mortati precisa i rispettivi caratteri della "democrazia liberale" e della "democrazia sociale", ora sintetizzati, alle pagine 140-143 del Tomo I.

11.3. Laddove, quindi, si afferma il principio di eguaglianza sostanziale, lo Stato, e lo strumento della sovranità, assumono altri fini e altre funzioni, che ne implicano un intervento attivo a favore di tutti i gruppi e le classi sociali; la sovranità è così volta, nella sua accezione interna, alla risoluzione effettiva del conflitto sociale, ammettendosene normativamente, al massimo livello giuridico, l'esistenza e la priorità rispetto al fine di "assicurare la pacifica coesistenza" di un numero il più possibile allargato di "interessi".
Questa mutevole "ragion d'essere"(o causa) del potere sovrano, fa sì che anche nei rapporti esterni propri della sovranità, instaurati con qualsiasi altra "entità", il suo contenuto e i suoi fini caratterizzino diverse modalità dei rapporti (di diritto internazionale). Perciò, i fini e le funzioni costituzionali (la concreta "ragion d'essere") di ciascun Stato, assumono una rilevanza tale che, in ragione di essi, quando si parla di riaffermazione della sovranità"esterna" (in tutti i casi "originaria" e "superiorem non recognoscens"), non si implica necessariamente di avere gli stessi obiettivi e gli stessi valori di riferimento rispetto a paesi che, nelle rispettive Costituzioni, abbiano strumentalizzato la sovranità ad una diversa e più ampia sfera di interessi da tutelare.

12. La cultura giurisprudenziale, e più estesamente "istituzionale", britannica non invoca, ad esempio, la "costituzionalizzazione" del Rapporto Beveridge, problema che qui abbiamo più volte trattato (con Bazaar), ma, anzi, si attesta sul contenuto e, dunque, sui fini che connotano uno Stato e la sua potestas, tipici di una tradizionale, e pre-democratica sovranità (quanto lo è una concezione settecentesca), incentrata "solo" sui diritti di libertà: una concezione che circoscrive automaticamente la sua portata rivendicativa alla compatibilità dell'interferenza europea con un assetto liberal-liberista. 
Ancorato a queste premese, questo atteggiamento "sovrano", si limita a esplicare i suoi effetti sul piano, certamente congeniale alla tradizione del Regno Unito, dei rapporti di forza tra diverse entità sovrane, rapporti di forza che costituiscono l'essenza caratterizzante il diritto internazionale e la sua implicita gerarchizzazione de facto tra Stati.

13. In altri termini, uscendo da quella che avverte come una posizione (gerarchica) di minorazione, rispetto alla diversa autonomia rivendicata dalla Corte e dallo stesso dettato costituzionale tedesco, il Regno Unito vuol "fare come" la Germania.
E lo fa rivendicando uno specifico principio del diritto internazionale, quello della reciprocità, che, certo, presuppone la riaffermazione della sovranità, masolo di chi lo invoca per ottenere un beneficio individuale (di quello Stato), e, inoltre, limitatamente al concetto di sovranità in concreto affermato
La riprova di questo effetto delimitato e individualmente caratterizzato, sta nel fatto che, come abbiamo visto più volte (e in "Euro e(o?) democrazia costituzionale" c'è un apposito paragrafo dedicato al tema), pur avendo la Germania già adottato questa linea, sul piano pratico, ciò non ha determinato alcun concreto vantaggio per la sovranità italiana; meno che mai nel mitigare l'asprezza delle conseguenze dell'adesione alla moneta unica.

14. Analoghe e parallele considerazioni si potrebbero svolgere per la riaffermazione di sovranità dell'Ungheria di Orban: e non è un caso che entrambi i paesi, UK e Ungheria, siano fuori dall'eurozona. 
Quindi, la rivendicazione di sovranità del Regno Unito, proprio perché proveniente da uno Stato non appartenente all'eurozona e, a maggior ragione, diretta alla riaffermazione esclusiva delle proprie prerogative, - corrispondenti ad una ben diversa "tradizione" storico-politica-, nonchè proiettata nell'ambito delle "gerarchie" di diritto internazionale, non ci aiuta neppure indirettamente a far maturare un'euroexit, o un qualsiasi tipo di azione, che rafforzi, in qualche modo, un interesse nazionale italiano
Sotto questo profilo, il problema della sovranità, strumentale alla democrazia liberal-parlamentare, proprio del Regno Unito, semmai ci è del tutto indifferente o, peggio, ci lascia ancora più soli: il problema dell'euro è un problema di democrazia del lavoro, per noi essenza stessa della Costituzione, mentre il loro mercato del lavoro (in essenza, e persino gli "zero hour") e le loro privatizzazioni deindustrializzanti (v. Rapporto Ridley), i britannici se li sono scelti tutti da soli, dovendo semmai ringraziare la Thatcher.

14.1. E in sostanza, si ha la clamorosa conferma che la sovranità è un concetto equivoco, se non ingannevole, se ci affidiamo alle generalizzazioni mediatiche e perdiamo di vista la nostra Costituzione e 150 anni di conflitto sociale che la precedettero: la "democrazia liberale", alla fine, è inevitabilmente tendente all'idraulica. Sovrana o meno che sia. 
Questioni di gerarchia nella politica internazionale non interessano le masse dei disoccupati ma scaldano i cuori di qualche oligarchia-aristocrazia "nazionale".
La solidarietà internazionale tra popoli, come insegnano Basso e Rosa Luxemburg, è concepibile solo tra Stati sovrani che siano democrazie sociali; altrimenti, si ha inevitabilecompetizione per una posizione gerarchica nella comunità internazionale e soprattutto economica.
L'Italia, anche se non è quasi più consentito dirlo - in un crescendo di neo-autoritarismo realizzato per via mediatica-, è una democrazia "sociale", non una democrazia "liberale": la nostra Costituzione lo afferma con chiarezza. 
La democrazia sociale è un di più, perché tutela anche i diritti di libertà, ricomprendendo in sè le garanzie apprestate dalle carte liberali. Chi vi parla dell'Italia come democrazia liberale, lo fa per affermare la soppressione del "di più", in termini di democrazia, che è sancito dalla nostra Costituzione, cioè dei diritti sociali.
Ma por fine a questo autolesionismo in danno del popolo sovrano, cioè di quella globalità di interessi differenziati che la Costituzione intende armonizzare, dipende da noi e solo da noi...

BREXIT E IL VIZIO DEL "FATE PRESTO": STORIA RECENTE DI UNA (ITAL)MORTE ANNUNCIATA

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https://cibology.files.wordpress.com/2011/03/tacchi.jpg
Tracce di consapevolezza della vera posta in gioco, in UK, non mancano, va detto:
Non va sottaciuto, però, cheil segnale del Brexit - comunque vada- rimane importante, perché, in qualche misura, avrebbe anche, almeno per noi italiani, un significato di rigetto del "fate presto" (anche se in gran parte poco cosciente e a forti connotazioni "immigrazioniste, non lucidamente connesse col mercato del lavoro). Un vizio, questo, che non è congiunturale, in UE, ma strutturale, intrinseco all'unico obiettivo di conservare in vita la moneta unica.  
Il "fate presto", infatti, in realtà non comincia nel 2011, tra lettere estive, ondate di "manovre" e governi tecnici che dovevano diminuire lo spread e "risanare" l'economia attraverso il raggiungimento del pareggio di bilancio e la pretesa corrispondente diminuzione del rapporto debito/PIL. (Sul punto consiglio la rilettura del post TREMONTI AL "NETTO" DI MONTI: L'INUTILITA' CONTABILE DEL "PIU'€UROPA" E LA CURVA DI PHILIPS IMPLICITA).
Naturalmente c'è anche chi sostiene che l'austerità non abbia provocato la crisi in Europa, dopo il 2011, semplicemente perché non è stata realmente applicata e non si è strutturalmente ridotto il "perimetro dello Stato": insomma, non si è tagliata la spesa pubblica abbastanza. 
Tuttavia, Stiglitz che fa "previsioni" esatte già nel 2008, confermate dalla più recente "vague" paperistica del FMI, risulta più attendibile di un esasperato schematismo controfattuale.

2. Andando a rivedere le notizie giornalistico-europeiste del recente passato, ci si accorge che il pareggio di bilancio, e la sua prodigiosa efficacia risanante, erano già ben posti come obiettivi ben prima della ratifica del fiscal compact e del suo recepimento (persino anteriore a tale ratifica!) con la modifica costituzionale dell'art.81 (e non solo).
Siamo ai tempi dell'ultimo governo Prodi e la crisi finanziaria c.d. dei sub-prime, negli USA, stava già dispiegando i suoi pesanti effetti: ma l'Italia, nel corso del 2007, non ne era stata ancora contagiata, dato che il nostro sistema bancario non era coinvolto in modo rilevante nell'investimento in tali titoli
A differenza della Germania, della Francia e del Regno Unito (o dell'Irlanda). Che, infatti, proprio a partire dalla fine del 2007, senza alcuna preoccupazione per il raggiungimento del pareggio di bilancio, o come per la Germania, del suo abbandono, - e meno che mai curandosi degli obiettivi intermedi di pareggio strutturale o di contrazione annuale dell'indebitamento pubblico di almeno lo 0,5%-, aumentarono i rispettivi deficit e rapporti debito su PIL.

3. Notare che l'Italia ha costantemente fatto "meglio" della Francia, e non solo, anche nei momenti più drammatici della crisi, seguiti alla contrazione della domanda mondiale, cioè  verificatasi come ondata lunga della crisi finanziaria e dello shock del fallimento Lemhan nel settembre 2008 (momento che innescò la parte più acuta della recessione mondiale). Fin dall'inizio della supposta (in molti sensi) "crisi del debito sovrano", l'Italia, rispetto alla Francia, alla Spagna, o alla mitica Irlanda, o ad altri maggiori paesi UE, ha sempre giocato "un'altra partita":

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/4/40/Government_surplus_or_deficit_since_2001_(piiggs_and_US).svg/2000px-Government_surplus_or_deficit_since_2001_(piiggs_and_US).svg.png 
http://archivio.panorama.it/images/t/a/tabella-deficit-pil/9049911-1/tabella-deficit-pil_partp.jpg

4. L'Italia rimane sempre costantemente più virtuosa, tant'è che l'aumento del debito pubblico italiano, entro il 2011, fu tra i più moderati dell'eurozona (anzi, il più moderato, considerate le "particolari" condizioni di collocamento, e di onere degli interessi, relative al debito tedesco):
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/6/64/Dept.svg/2000px-Dept.svg.png
Ma poi arriva la cura Monti e il pareggio di bilancio in Costituzione e la "prodigiosa e inevitabile" cura determina questo effetto:

http://www.soldionline.it/pictures/20140711/debito-pubblico_2.gif 

Sia chiaro, però, l'Italia, anche dopo di ciò, rimane sempre tra i paesi più virtuosi dell'UE(M), nonostante i "fate presto!" e l'ital-grancassa mediatica e gli espertologi orwelliani in collegamento continuo (dallo spazio: tralasciate i dati relativi ai deficit "previsionali" stimati nel 2014, perché le cose sono andate, e andranno, molto peggio):

http://www.corriere.it/methode_image/socialshare/710413e6-cea3-11e5-8ee6-9deb6cd21d82.jpg
5. Ma nel febbraio 2008, quindi, ripetiamo, ben prima dell'accordo intergovernativo (considerato pienamente legittimo e vincolante, alla luce dei trattati, dalla "solita" CGUE) del fiscal compact, il linguaggio e i concetti di politica economico-fiscale che si andavano affermando erano questi, senza alcun dubbio e analisi critica circa la loro efficacia e praticabilità, per di più già all'interno di una fase congiunturale mondiale che si preannunciava globalmente recessiva!
Sono andato così a ripescare come riportasse la grande idea del pareggio di bilancio La Repubblica, nel febbraio 2008
Noterete, dall'articolo sottoriprodotto, come Almunia "sospettasse" che non solo l'Italia, evidentemente, potesse registrare una più debole crescita economica a causa della prevedibile crisi proveniente dall'altra sponda dell'Atlantico, dove veniva curata con deficit pubblici anche fino al 12% in quei medesimi anni: comunque, non certo in pareggio di bilancio: e, nonostante, ciò, per lui e per tutta l'€uroburocrazia la cura "unica" rimaneva il pareggio di bilancio. 

6. Vi riporto l'articolo senza aggiungere lunghi commenti: trattamento speciale della Francia incluso, incassato senza battere ciglio, nonché dichiarazione di "invalicabilità" del pareggio al 2011 rilasciata da Padoa-Schioppa con disarmante serenità sul quadro macroeconomico mondiale. (Da notare, in contrappunto,la radicale diversità di posizione che esprime oggi Padoan sulla sostenibilità delle regole del fiscal compact):

"Ecofin, sì al piano di stabilitàAlmunia "Conti 2008 a rischio"


Per Almunia il nostro Paese è ancora lontano dal raggiungimento del pareggio del bilancio. Padoa -Schioppa: "Il 2011 è una data invalicabile"
(12 febbraio 2008)
Via libera dall'Ecofin al programma di stabilità 2007-2011 aggiornato dell'italia che fissa la strategia di finanza pubblica. L'Ecofin raccomanda all'Italia di rafforzare la Finanziaria 2008 perché, visto l'alto debito, visti i rischi legati all'attuazione delle misure di bilancio e quelli legati alla crescita economica più debole del previsto, possa realizzare gli obiettivi che si è posta. Riforma delle pensioni e garanzia della riduzione del debito pubblico sono, inoltre, per l'Ecofin due priorità sulle quali l'Italia deve puntare il più velocemente possibile. Vale l'obbiettivo generale di un pareggio di bilancio nel 2010, ma anche per l'Italia varrà il principio inaugurato per la Francia secondo il quale si valuterà ex post, nel caso in cui nel 2010 il bilancio non si trovasse al pareggio, se si sono verificate e in quale misura condizioni cicliche sfavorevoli. Dunque, per l'Italia il pareggio di bilancio nel 2011 è invalicabile, ha detto il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. "La fissazione per il 2010 è stato un momento importante che ha rafforzato l'attenzione sul braccio preventivo del Patto di stabilità", ha spiegato il ministro ricordando che a Berlino "c'era stato un consenso su questa accelerazione". 
"Mi rendo conto - ha sottolineato - che l'aver detto in quella occasione che non me la sentivo di sottoscriverlo è stato più importante di quanto pensassi allora. Questo significa -ha concluso - che per noi il 2011 è assolutamente invalicabile". 
Ma l'Italia ha ancora una lunga strada da fare per raggiungere il pareggio di bilancio e per quest'anno la correzione dello 0,2 per cento del Pil prevista dal Governo è a rischio. Lo ha detto il commissario Ue agli Affari economici Joaquin Almunia al termine della riunione Ecofin. "L'Italia, insieme alla Francia, è ancora lontana dal raggiungere il suo obiettivo di medio termine, quello del pareggio di bilancio", ha detto Almunia, "e l'aggiustamento dei conti nel 2008 è lento e sottoposto a rischi". L'Ecofin ha dato il via libera anche ai programmi di Francia e Germania.
L'accordo con la Franciaè che la scadenza del 2010 è subordinata, appunto, alla valutazione delle condizioni cicliche".

COLONIZZAZIONE MEDIATICA "SENZA FRONTIERE": I "PUNTI DI USURA" TRA LOI TRAVAIL E BREXIT

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http://www.ilgiornaledellarte.com/immagini/IMG20131219192255538_900_700.jpeg

1. L'ermeneutica, cioè la teoria generale delle regole interpretative, che abbiamo già incontrato parlando di Gadamer e della pre-comprensione dei banchieri centrali, è il principale sviluppo cognitivo della fenomenologia (nelle sue correlazioni con l'intenzionalità del "conoscere").
La disponibilità di adeguati strumenti ermeneutici ci consente di arrivare alla sospensione del giudizio, neutralizzando così (per quanto possibile) un complesso di condizionamenti esogeni che ci "vincolano" (si tratta di una forma psicologica di "vincolo esterno"), a anticipare il significato di ogni fenomeno che ci si presenta nel flusso del tempo; cioè, inducendoci appunto a esprimere giudizi precostituibili in base a un pensiero "eteronomo" (cioè obbligato inconsciamente da fattori esterni alla nostra capacità intuitiva, e logico-critica, di diretta comprensione della realtà).

2. Vorrei perciò fare un sunto di alcuni strumenti interpretativi che abbiamo focalizzato nel corso degli ultimi mesi, in quanto resi rilevanti dallo svolgersi degli eventi recenti più attuali.
Il primo riguarda il concetto ufficiale di "libertà" di stampa e le relative classifiche: introduco l'argomento per primo in quanto è logicamente preliminare a quelli che andremo poi a collegarvi.
Ho parlato di "ufficialità" perché, appunto, - invece della induzione a condividere un processo ermeneutico, mostrandone passaggi logici e presupposti verificabili e, possibilmente, obiettivi, la "verità"- la libertà di stampa viene accreditata, ovviamente attraverso un accurato riverbero mediatico, con la mera suggestione di un simbolo, il cui contenuto (una graduazione che determina una certa gerarchia di "valore", nel caso relativa a "libertà" e "informazione") diviene noto solo a posteriori, come prodotto finale: appunto la "classifica". 
L'accreditamento della classifica, dunque, agisce attraverso la "certificazione", dello stesso sistema mediatico e delle "istituzioni", relativa al mero prodotto finale e non al processo che conduce ad esso. L'autenticazione di quest'ultimo è in fondo il vero obiettivo implicito (il "messaggio") dell'attestazione totemico-simbolica della "classifica": un prodotto finale inconstestabile include, in automatico, l'accettazione della indubitabilità del processo, dei suoi criteri e dei suoi contenuti valutativi. 

3. Il metodo, secondo modalità già esaminate, è dunque quello di proporre un simbolo e di consolidarne per implicito l'intero procedimento e i presupposti valoriali e contenutistici che conducono alla sua "ostensione":
"Come abbiamo visto, questo fenomeno è "agganciato alle grottesche classifiche sulla "libertà di stampa", stilate dalle consuete organizzazioni non governative, no-profit e "senza frontiere", cioè dichiaratamente internazionaliste, anzi eloquentemente premiate per questo dall'UE. Si tratta, manco a dirlo, di organizzazioni no-profit (e dunque finanziate da "privati benefattori", qualificati come imparziali e disinteressati al risultato), e sempre alla ricerca di un modello one-fits-for-all, la cui diffusione porta alla sempre inevitabile conclusione: "sentiti in colpa e vergognati", ma per ragioni, di "disfunzione" dei meccanismi dell'informazione, che non sono esattamente (tutte) quelle che razionalmente si potrebbero individuare."

4. Qualche specificazione ulteriore può risultare utile
"Reporter senza frontiere", al di là di ogni altra legittima considerazione per contestualizzarne gli scopi e l'attendibilità, ha un sistema di valutazione che abbraccia alcuni eclatanti aspetti della (mancanza di) libertà di stampa, ma sceglie di trascurarne completamente altri, e, in realtà i più insidiosi.  
Persino Wikipedia se ne accorge; naturalmente, non il Parlamento europeo, che premia la ONG perché si dedica alla "difesa dei diritti umani e delle libertà individuali".
E come li difende questi diritti "umani" e queste "libertà INDIVIDUALI"? 
Appunto Wiki (linkato), ce lo racconta: "riporta il numero di giornalisti, loro collaboratori, cyberdissidenti uccisi o imprigionati nell'anno corrente, con il dettaglio per Paese (leggi: Stato) e con la lista completa dei nomi". Uccisi e imprigionati; ma da chi? Da parte degli Stati-canaglia e, in ogni modo, "illiberali". 
E fin qui non ci sarebbe nulla di sbagliato.

5. Ma la cosa si rivela piuttosto ossessiva, in quanto ogni anno viene pubblicato, tra l'altro, "l'elenco dei paesi (cioè, Stati) che limitano l'accesso on-line e minacciano i cittadini della rete". 
"Il rapporto contiene anche "l'elenco dei paesi (leggi: Stati) che sono stati posti “sotto sorveglianza” dalla Organizzazione per aver manifestato atteggiamenti minacciosi nei confronti di Internet", nonché "l'elenco dei funzionari statali, esponenti religiosi, milizie e organizzazioni criminali che attaccano direttamente i giornalisti e per i quali la libera stampa è un nemico privilegiato" (si deve supporre religioni, "di Stato"...illiberale, milizie e organizzazioni criminali che risultino tollerate, o complici, degli Stati...illiberali).
Insomma, persino Wiki ci avverte:
"Uno degli obiettivi dichiarati da RSF è l'invio di lettere di protesta alle autorità per invitarle a fare pressione su governi che non rispettano il diritto a informare e ad essere informati". Reporter senza frontiere sostiene anche che "la libertà di espressione e di informazione sarà sempre la libertà più importante al mondo. [...] La libertà di informazione è il fondamento di ogni democrazia".
Queste dichiarazioni, insieme ai numerosi riferimenti politici presenti nel sito, rivelerebbero la presenza di una finalità politica da parte di RSF coerente con la definizione di propaganda. Esempi della propaganda svolta da RSF sul proprio sito includono l'uso di espressioni retoriche (autorità che limitano la "libertà di parola" sono definite "nemici" e "predatori") e di termini derogatori o offensivi, come la sigla "ex-URSS" usata per definire i paesi post-sovietici. Questo si unisce anche a un uso piuttosto disinvolto di fotografie esplicite o disturbanti. Tra gli altri esempi, una sezione intitolata "Predatori della libertà di informazione", che consiste in una galleria di foto di vari capi di stato con pose o espressioni autoritarie o aggressive, ha ulteriormente messo in dubbio l'imparzialità politica di RSF.
Reporter senza frontiere è attualmente monitorato da SourceWatch, una pubblicazione del Centro per i Media e la Democrazia (CMD)".

6. Siamo di fronte, dunque, a una ONG che, (auto)legittimatasi su un piano SOVRAnazionale, assume una posizione superiore agli Stati per (s)valutarli secondo un parametro "universale", quindi mondialista, che si è prima auto-prescelto (gli Stati sono violenti e oppressivi e limitano la libertà di stampa, evindentemente, per nascondere la propria corruzione e i privilegi illegali delle gerarchie statali al potere). 
Il monitoraggio su una tale neo-autorità, liberale naturalmente, mondialista, come vedete, è affidato a un'altra ONG mondialista: il "Center for Media and Democracy" che pure ha un ben più sostanzioso e arduo obiettivo, sul piano della trasparenza dei media "a liberal organization that tracks the use of public relations by corporations and politicians...CMD describes itself as a "non-profit investigative reporting group" with a "focus on exposing corporate spin and government propaganda".

Comunque sia, dalla "classifica"-totem del cattivismo degli Stati-corrotti, mal visto dalla ONG "senza frontiere", esula ogni finalità di analizzare problemi di "libertà" di stampa derivanti dal condizionamento dei poteri economici e del conflitto di interessi che si può instaurare tra il contenuto dell'informazione, il ruolo e la posizione dei giornalisti, e la "convenienza" politico-economica dei controllori finanziari e gestionali delle imprese del settore. 

7. Questo specifico profilo avevamo affrontato in varie occasioni e così riassunto:
"In questo altro post, sempre Sofia, parlando del fenomeno di controllo mediatico monopolistico-oligopolistico- ma, nella sfera dei valori condivisi in apice, UN CARTELLO- ci aveva radiografato lo stato delle cose dell'informazione di ogni tipo, compresa quella prevalente sul web:
"Il sistema, è ormai cosa nota, gestisce l’informazione ma anche, in modi indiretti e spesso occultati, la stessa contro-informazione: per cui, il prodotto che giunge al cittadino medio è la disinformazione, cioè la famosa “verità ufficiale”, più efficacemente divulgata se contenente, al suo interno, un'apparente dialettica di versioni "opposte", provenienti però dalla stessa indistinta "fonte di divulgazione".
Alla lunga, questo perverso meccanismo, produce anemia intellettuale, passività e pigrizia inconscia.
La maggioranza dei cittadini finisce per perdere così quella capacità di analisi critica nel leggere le notizie e, quindi, farsi un’opinione personale dei fatti e degli eventi di cui viene a conoscenza.
Lo scopo del sistema al potere è quello di impedire l’accesso dei cittadini alle notizie oggettive e, al loro posto, offrire un complesso sistema informativo apparentemente pluralista ma sostanzialmente monolitico. L’informazione per il consumo di massa dirige tutto il sistema e le fonti di notizie “ufficiali” sono vitali all’interno di questo processo informativo globale.
In questo contesto, la stessa libertà di informazione è in serio pericolo anche perché i media a larga a diffusione appartengono a pochi grandi gruppi di imprese, che tentano di mantenere ed estendere il controllo su gran parte delle fonti ufficiali di informazione.
La posizione politico-economica di questi stessi gruppi dipende, a sua volta, sempre più, da contenuti prestabiliti e notizie preconfezionate (conflitto di interesse).
Si crea così un rapporto simbiotico tra chi diffonde le notizie e chi le fornisce. Gli oligarchi al potere ricercano a tutti i costi il consenso e lo fanno anche attraverso l’eliminazione delle voci libere e il consolidamento della proprietà dell’informazione nelle mani di pochi gruppi dominanti.

Il luogo comune che ha sempre accompagnato la nascita e la diffusione di Internet come canale di diffusione e propagazione dell’informazione è la sua intrinseca capacità di garantire una maggiore libertà di espressione. Web, blog, twitter, i contenuti viaggiano senza che nessuno possa realmente impedire che le voci vengano censurate.
Ma la verità è che Internet diventa un grande normalizzatore di stili di vita ed è il più grande strumento per colonizzare il pensiero di una moltitudine di persone che risiedono nei luoghi più diversi del pianeta.
Internet diviene infatti il "luogo" di legittimazione di una nuova "ufficialità", solo in apparenza estranea ai sistemi di formazione del dato-notizia propri dei media tradizionali
In ogni momento di discontinuità tecnologica che ha accompagnato l’evoluzione dei media si è sempre determinato un ordine di potere economico più ampio del precedente.
I padroni dell’industria mediatica sono oggi dei colossi che un tempo nessuno immaginava potessero esistere. Se da una parte i costi di accesso a internet rendono possibile a singoli e piccoli gruppi di portare la propria voce sulla rete è altresì vero che i capitali che possono garantire l’esercizio di un vero impero mediatico sono alla portata di pochissimi gruppi i quali tendono ad avere interessi plurimi in quella che è oggi diventata la comunicazione convergente video-dati-voce, declinata attraverso il controllo di più media, Internet-TV-Giornali
." 


8. In sostanza, l'atteggiamento ermeneutico verso la fenomenologia dell'informazione, nel suo aspetto di proiezione e di inevitabile strumento dei poteri economici, dovrebbe, razionalmente, essere consapevole che non si può basare ogni giudizio solo sul pericolo costituito dagli Stati e dai suoi funzionari (corrotti): il fatturato e la valenza economica dell'informazione propagandistica delle dittature è sicuramente ben poca cosa in confronto con la potenza di condizionamento di chi dispone di risorse finanziarie e mezzi tecnologici nel mondo oligarchico governato dai "mercati"
E mentre l'informazione e la repressione brutale dei regimi dittatoriali, o autoritari (dal cui novero, curiosamente, vengono esclusi quelli governati dai "liberi mercati"), viene vista con totale diffidenza e intimo disprezzo dai cittadini che le subiscono (vanificandone gran parte dell'efficacia in termini di condizionamento non dettato dalla paura fisica), l'efficacia di predeterminazione dell'opinione di massa da parte del sistema "libero-mercatista" - ma strutturalmente oligopolista e portato ad una "sorprendente" omogeneità (globalista) circa il "consenso" da produrre-, è altissima e impregiudicata: cioè, quantomeno, non oggetto di altrettante attenzioni dotate di "ufficialità" da parte delle istituzioni sovranazionali di presunto "controllo" (no-profit...).

9. Chiarito questo primo approccio ermeneutico, possiamo rammentare un secondo meccanismo, strettamente connesso: quello che abbiamo definito "paradosso €uropeo" ma che può essere esteso a tutto il mondo governato dall'ordine internazionale dei mercati. 
Sintetizziamo in estremo questo paradosso che ci dà la misura di come funzioni il potere "di colonizzare le menti di moltitudini di persone che risiedono nei luoghi più disparati del pianeta":
- il sistema si fonda sulla cooperazione identificativa degli oppressi con gli oppressori...L'induzione da parte degli oppressori della proiezione identificativa, sfrutta proprio le variazioni di condizione dei soggetti oppressi; il tempo che occorre al compimento del processo viene utilizzato, dagli oppressori, per attribuire la colpa del peggioramento allo Stato
- E qui veniamo a come le premesse vengano (abilmente) rese accettabili. Si tratta in definitiva di nascondere, e censurare sistematicamente la più importante fra esse: il sistema, infatti, presuppone che gli oppressi che cooperano siano, in partenza, in condizioni di benessere relativo alla propria sfera economica e sociale. Altrimenti, l'identificazione di cui al precedente "punto" non può (non avrebbe potuto) verificarsi. Ma tale condizione di benessere socio-economico è dovuta alla precedente azione dello Stato democratico;
ergo, il sistema può funzionare proprio e soltanto sul presupposto che il benessere diffuso sia stato in precedenza raggiunto grazie all'azione dello Stato (democratico e keynesiano): tutto ciò ha il fine (dissimulato) di distruggere lo Stato costituzionale democratico medesimo, in quanto strumentalmente colpevolizzato (fine enunciato e accettabile) della sopravvenuta impossibilità di far concidere le proprie qualità e i propri interessi con quelli degli oppressori appartenenti all'oligarchia.

10. Dunque, siamo di fronte a due fenomenologie, - la classifica della libertà di stampa e il paradosso delle cooperazione degli oppressi al disegno oligarchico dei "mercati"-, accomunati dalla condivisione della negativizzazione del ruolo degli Stati e, in definitiva, della sovranità democratica, proprio in quanto fatta coincidere, mediante opportune strategie mediatiche, con quella di qualunque Stato nazionale, anche, e specialmente, "dittatoriale" e oppressivo.
Ma a questo punto, possiamo notare come esistano dei"punti di usura"di questo efficientissimo sistema di potere, esercitato dal mondialismo dei mercati mediante la predeterminazione dell'opinione di massa, giunta alivelli perfettamente analoghi a quelli previsti da Orwell.
Soccorre su questo punto un recente commento di quelli di Bazaar. Quello che di esso ci interessa di più, al riguardo, non è tanto lo "sviamento" del ruolo degli intellettuali "di sinistra" e, quindi, la vexata quaestio dell'attualità di una distinzione destra-sinistra, se osserviamo la questione all'interno degli ordinamenti statuali a economia aperta, liberoscambista, privatizzatrice e che chiama "libertà economica" il ripristino, globalizzato, del mercato del lavoro-merce: di questo abbiamo recentemente parlato proponendo la conclusione che la "destra"è propriamente identificabile proprio in chi propugni quell'insieme "ideologico", ben prima che scientifico, di politiche che, con costanza nelle varie epoche, vogliono instaurare quegli elementi strutturali di tipo economico
  
11. Quello che interessa,nel commento di Bazaar (a sua volta linkato a un'analisi di marxisti ortodossi francesi),è nell'ottica dei "punti di usura" del sistema di controllo mediatico-oligarchico:
«Bernard-Henri Lévy, André Glucksman, Alain Krivine, Bernard Kouchner, Daniel Bensaïd, Henri Weber, Pierre Lambert. Tiennoch Grumbach, Marc Kravetz e molti altri divennero i sostenitori più fanatici del capitalismo e dell’imperialismo degli Stati Uniti. 
Con De Gaulle scomparso, l’embargo sulle armi ad Israele, imposto nel 1967, venne prontamente sollevato dal presidente Pompidou e nel 1973 fu approvata la legge Rothschild che privava lo Stato francese del diritto di stampare moneta. Il risultato fu il crollo dello standard di vita e l’esplosione del debito nazionale, con 1400 miliardi di euro solo sugli interessi da pagare, soprattutto, a banchieri privati stranieri.
L’ibridismo della rivolta del 1968 è una lezione attuale
Mentre i lavoratori francesi intraprendono azioni concrete, occupando raffinerie di petrolio, centrali nucleari e fermando i mezzi pubblici, il regime di Hollande affronta la prospettiva di una rivolta popolare incontrollabile. Non sorprende quindi che gli oligarchi responsabili della primavera araba assolutamente reazionaria e controrivoluzionaria promuovano ‘nuit debout’. L’élite dominante ha capito da tempo come manipolare la piccola borghesia, che Lenin descrisse come classe oscillante, utilizzata nel mondo dal capitalismo finanziario come un ariete contro ciò che resta dello stato sociale. 
Gli intellettuali di sinistra di ‘Nuit debout’ cercano di controllare il movimento dei lavoratori. A ciò si deve resistere con pugno di ferro! 
Alcun slogan è più specioso di ‘repubbliche sociali’ e ‘un altro mondo è possibile!’ E’ tempo per i lavoratori francesi di controllare le aziende pubbliche e private. 
Il movimento operaio deve capire la connessione tra fasulla guerra al terrore, guerre infinite e oppressione di classe. Gli attentati terroristici che richiedono più militarizzazione e sospensione delle libertà civili saranno utilizzati dallo Stato per schiacciare la solidarietà di classe dei lavoratori, incitando al razzismo e alla xenofobia. 
L’emigrazione coercitiva ingegnerizzata, con cui gli oligarchi come George Soros finanziano la sostituzione dei lavoratori europei con i migranti, sarà usata anche per schiacciare l’unità della classe operaia. Pertanto, la prima tappa dell’emancipazione sociale richiede l’affermazione della sovranità nazionale,la fine degli slogan dell’ultra-sinistra infantile su ‘senza confini’, che ha sempre significato ‘capitalismo senza frontiere’. Se questo movimento è guidato dai lavoratori, allora la rivoluzione nazionale può diventare socialista, diffondendosi in Europa e nel mondo.» 

11.1. E il cerchio della validazione mediatica del nuovo ordine mondiale dei mercati e del paradosso della cooperazione degli oppressi con gli oppressori si chiude. Ci voleva un'analisi marxista della struttura (fenomenologica e decontestualizzata dalla precomprensione orwelliana del pensiero indotto daESSI)
A volerlo capire.
Diffidiamo quindi di qualunque sigla che si definisca "senza frontiere": è sempre in gioco una minaccia alla democrazia possibile degli Stati costituzionali sovrani.
La qual cosa, abbiamo visto, compone anche (p.1), in parte, la spinta alla Brexit. Speriamo si rafforzi:


RIFLESSIONI VARIE SUL "CALCOLO DI ESSI"-1 (work in progress)

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http://www.guidaconsumatore.com/wp-content/uploads/1970/01/puzzle.jpg

1. Pubblico, allo scopo (consueto) di tentare di non disperderli, una selezione di recenti commenti che risultano particolarmente centrati sul "tumultuoso" presente.
Se "questo esperimento" si dimostrerà utile, contando anche sul vostro aiuto nel rinvenire commenti passati particolarmente importanti, potrà nascerne una serie di post di recupero di prezioso materiale e di sistematizzazione degli approfondimenti già svolti
Quindi formulo l'invito, in questa ottica, a citare ulteriori commenti (anche propri) che, correlati a quelli qui esposti, possano servire da passaggi di collegamento e ulteriore illustrazione di quelli contenuti nella "selezione": l'idea sarebbe di inserirli, dopo la segnalazione nei commenti, nel testo dello stesso post, ampliando il lavoro di raccordo delle parti "collettive" del blog:

...Ma perché chi studia sinceramente - invece - non ne sbaglia mai una?
«Nell’immediato dopoguerra, Basso guida le forze socialiste a schierarsi contro l’avvio del processo di integrazione europea, di cui non coglie il significato storico e in cui non scorge il mezzo per ridare la libertà e l’autonomia agli europei, ma in cui vede soltanto l’espressione del dominio statunitense e del capitalismo.» 1976, The Federalist, 1975


Un possibile raccordo tra questo e il successivo commento, in discorso scientificamente organico, può essere senz'altro questo:

"...L'impiego "tecnico" del vincolo esterno non è una novità di fine anni '70: la novità è stata il suo irrigidimento fino all'attuale cementificazione (che non è differenza da poco, s'intende). 
Se si guarda alle celebri strette creditizie della Banca d'Italia, quella del '47, quella del '63 e poi quella del '74-'75, e agli argomenti che le hanno accompagnate, non è difficile scorgere un fil rouge che percorre tutta la storia repubblicana
Citiamo pure Caffè («I consigli», rivista della Flm (1977)): 
"Di fronte a gravi disavanzi della bilancia dei pagamenti soprattutto per la ingiustificata riluttanza ad applicare razionamenti e misure restrittive delle importazioni, i provvedimenti deflazionistici sono inevitabili. Proprio in questi giorni il professor Modigliani ha affermato secondo notizie di stampa che «è discutibile se la politica restrittiva sia stata condotta per eccesso, (ndr: siamo nel 1977!) cioè se non ci si sarebbe potuto permettere un disavanzo maggiore e se non si sia ecceduto nella deflazione». 
Di questa osservazione in primo luogo va rilevato che si parla finalmente in modo esplicito di deflazione, in secondo luogo questo «eccesso» è tipico della politica economica italiana perché lo si ebbe, sia nel 1947, sia nel 1963. 
Questo andare al di là del segno non è un fatto fortuito o un errore ricorrente: dipende sistematicamente dalla minore importanza che si dà ai problemi dell’occupazione rispetto a quelli dell’incremento delle riserve valutarie. È sempre mancato il controaltare: chi cioè avrebbe dovuto più energicamente difendere le ragioni dell’occupazione rispetto a quelle del grado di disavanzo della bilancia dei pagamenti, della credibilità esterna o del fatto che il Cancelliere tedesco, il fondo monetario ci dicono che siamo bravi e così via."

Basso, durante la sua segreteria, sotto il terzo governo De Gasperi, aveva preteso che i ministri socialisti, prima delle riunioni del consiglio dei ministri, gli comunicassero l’ordine del giorno e i disegni di legge che dovevano discutere. Lui aveva creato due commissioni di consulenza, una incaricata dei problemi dello Stato, con Massimo S. Giannini, l'altra delle questioni economiche, con Caffè, così da poter controllare rapidamente i disegni di legge e poi incaricare uno dei ministri di sollevare tutte le contestazioni preparate in sede di partito (notizie, credo poco note, in C. Giorgi, Un socialista del Novecento, Carocci, Roma, 2015, pag. 245).
Tanto per chiarire la differenza fra la politica e l'idraulica".

3. E grazie a Smigol, "sostituiamo" l'originario commento di Lorenzo, che introduce il dialogo che segue, con questa sua precedente analisi complessiva che fornisce un quadro ancor più sistemico:

Il progetto politico di "Essi" pare quindi consistere in:
a) l'instaurazione di un governo sostanziale "nascosto", perché comunque i veri governanti (la grande finanza), non assumono direttamente -agli occhi dei governati- la responsabilità delle politiche che decidono, nascondendosi dietro al politico di professione, titolare formale (ma non sostanziale) del potere e ridotto a mero prestanome (sotto questo aspetto era meglio perfino il "vecchio" ancien regime: anche se "non votato da nessuno", un Luigi XVI era chiaramente identificabile come responsabile dal governato: come aveva statuito suo nonno, lo Stato.... era LUI. E infatti, alla fine, raggiunto il punto di rottura la società lo chiamò a rispondere!).
b) la creazione di una non-società "universale, multietnica, multiculturale, globale", composta da una massa povera, abbrutita, incolta, disorientata e senza valori di riferimento (e come puoi averne senza una cultura a cui riallacciarti, una terra a cui legarti, una famiglia di cui far parte, una politica da valutare, fin anche un dio in cui credere?). 

Sotto questo aspetto, è incredibile la sinergia tra quelle che Diego Fusaro chiama la "Destra del denaro" e la "Sinistra del costume". Basti pensare alla comune condivisione del relativismo dei valori, della "guerra" contro la famiglia tradizionale (ossia contro il welfare privato che esiste da sempre: famiglia non è forse uguale a mutuo soccorso?), dell'anticlericalismo stereotipato etc....
c) un'opera di sviamento delle coscienze (e in una non-società frammentata e senza punti di riferimento è oggettivamente facile), dai problemi autenticamente politici verso delle "ideologie di secondo livello" (es. gender, femminismo ultra-radicale, animalismo, veganesimo, etc....), identificando (falsamente) in esse la nuova frontiera della (non) lotta politica.

Personalmente credo che un progetto del genere capisca poco l'uomo in sè, che alla fine la "società dei disorientati" esploderà come una bomba ad orologeria, anche perché, rimanendo "terra-terra", per quanto tu sia un informatore bravo, sarà difficile far credere all'infinito ad un poveraccio che il suo slum sia "il migliore dei mondi possibili"(anche se il teleschermo orwelliano glielo ripeterà dalla mattina alla sera), e perché, tanto per dirne un'altra, la "dittatura delle minoranze"è la peggiore forma di tutela che si possa dare alle stesse, in quanto presupposto per l'esplodere violento della maggioranza.....
E' un progetto pericoloso, perché costruito sulla non politica, sulla neutralizzazione del consenso e su un'ipocrita morale di cartapesta, per la quale, tanto per dirne una,una morte va in prima pagina ed un'altra no, a seconda di dove di verificano e in quale contesto e a seconda dell'utilità che ha la notizia.
Il problema, è che coloro che si definiscono "intellettuali", hanno seppellito il proprio spirito critico per credere in tutto questo.

Comunque, la decadenza della società occidentale è impressionante. E' uno squallido e pericoloso "basso impero". A questo punto, c'è quasi da sperare che arrivino presto i barbari..."

    4. Quarantotto7 giugno 2016 10:43
  1. "una rabbia che nessuna televisione, nessun giornale, nessuna propaganda e nessun Corpo armato saranno poi in grado di gestire".
    Hai sollevato un punto importantissimo: l'esperimento-pilota Grecia (o portoghese, o spagnolo, o persino irlandese, a rigor di storia) attesterebbe il contrario, cioè una gestibilità del caos (indotto).

    Credo sia oggettivo che il calcolo di ESSI è il seguente:
    - create irreversibilmente le condizioni per cui non siano più configurabili autentici partiti di massa (ce lo dice anche Rodrik: prima condizione è la libera circolazione dei capitali), la rivolta - che non è rivoluzione, in quanto non consegue alla solidarieà orizzontale nell'identificare il conflitto sociale- è agevolmente sedabile e persino tatticamente consentibile-diluibile, perché: 
    a) uno stato di eccezione "del mercato", a sua volta intrecciabile con quello "terroristico", è ULTERIORMENTE rafforzato dallo stato di eccezione "di piazza" (il tentativo di Hollande, ad es; è abbastanza evidente);
    b) ogni rivolta contiene in sé, nell'attuale frame di controllo mediatico, un forte profilo di conflitto sezionale o sub-sezionale (in Italia siamo i migliori specialisti del genere, ora con i conflitti intergenerazionali, divenuti linguaggio corrente persino della Corte costituzionale, e la contrapposizione, più tradizionale, evasori fiscali-pubblici dipendenti improduttivi. Per non parlare, in tutta l'UE, del problema "immigrazione").

    Il conflitto sezionale, rammentiamolo, è il più efficiente ed efficace neutralizzatore della saldatura della parte debole del conflitto sociale.

    Forse, "ai piani alti", la storia l'hanno studiata poco, ma gli spinelliani-hayekian-einaudiani-monetaristi, a loro tempo, hanno stabilito un format ben studiato; e proprio in funzione delle esperienze del primo '900.

    La domanda è ("solo", a mio parere): non essendo mai passati gli USA per la fase politica del socialismo rivoluzionario in proiezione istituzionale, le crepe di sistema che denotano, preannunciano una rottura del vero motore di tutto questo?
  2. Sicuramente trattasi di un progetto studiato a tavolino che si avvale sia delle esperienze maturate nel primo '900, sia delle conquiste del marketing e della psicologia in ordine alla persuasione dei soggetti ed alla "eccitazione" delle masse (e controllo della stessa).

    Pure, stiamo parlando di sensazioni umane come paura, tristezza, rabbia, sconforto ed altro che non so quanto siano riconducibili a schemi logici o quanto siano gestibili "all'infinito". Fosse così, dovremmo concludere che costoro abbiano veramente trovato l'uovo di colombo e che questo sistema durerà sostanzialmente in...... eterno! L'intero popolo europeo farà dunque la fine degli ebrei tedeschi? Si renderà conto, metaforicamente, che qualcosa non va solo di fronte a quella ciminiera che erutta tanto tanto fumo?

    Insomma, arriverà pure il giorno in cui il negoziante e il dipendente pubblico o chi per loro si guarderanno negli occhi e, senza dover parlare o spiegare, "capiranno".....
    .... o forse no?

    Di sicuro siamo di fronte ad un mostro politico che sembra aver fatto "tesoro" di tutte le peggiori mostruosità del '900. Temo che questo XXI secolo sarà una tenebrosa appendice di quello che lo ha preceduto.
    Sul piano pratico, è probabile, sì, che solo dagli USA possa arrivare un "contrordine compagni". Di sicuro, però, questo non accadrà se sarà la Clinton a vincere le presidenziali.

DISOCCUPAZIONE GIOVANILE: LA DOPPIA VERITA'€UROPEA TRA BREXIT E DEGRADO DEL TERRITORIO COMUNALE

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1. E' difficile, per il fronte €uropeista, dare una risposta alla domanda diretta posta nei termini che vedete qui sopra formulati: i "governanti" evitano del tutto di dare questa risposta, o finiscono nella reticenza e in grottesche contraddizioni (tipo: "la colpa è della Cina", ovvero "della globalizzazione", da cui, semmai, l'UE "ci protegge").
Dopo anni di errori che non si vuole, "incomprensibilmente", correggere, le contraddizioni divengono sempre più evidenti all'opinione di massa (che ESSI si illudevano di poter controllare all'infinito).

Per non incorrere in miserevoli giri di parole, e vuote e confuse promesse di un "futuro migliore" che, appare chiaro non potrà mai arrivare, la "doppia verità" dovrebbe essere svelata integralmente
E cioè, l'UE non si occupa affatto di "lavorare per gli "europei", intesi come comuni cittadini dei relativi popoli, ma di tutelare una ristretta oligarchia del capitalismo finanziario e di farlo secondo teorie politico-economiche che includono un ampliamento diffuso della disoccupazione, più pronunciato per le nuove generazioni che si affacciano sul mercato del lavoro, grazie a una legislazione imposta dall'UE che, in tal modo, accelera e amplifica il processo di svalutazione salariale competitiva.
Una "verità sottostante" di cui paiono consapevoli i vescovi europei, confidando, però, in un rimedio dato dall'impulso spontaneo e caritatevole degli stessi capitalisti finanziari, che costituiscono il mercato che si autoregola "eticamente".

2. Dunque non c'è Cina, globalizzazione o presunti effetti dell'innovazione tecnologica, che possano spiegare l'eccezionale "picco" di disoccupazione giovanile concentrato nei paesi dell'eurozona, in rapporto a ciò che accade in altre aree economiche omogenee, anch'esse caratterizzate da capitalismo avanzato e apertura dell'economia agli scambi internazionali.

Questo paradigma €uropeo, sebbene non coinvolto integralmente nel referendum britannico, - dato che, come abbiamo detto, (v. qui p.14.), nel bene e nel male, le riforme strutturali del lavoro, in UK, sono state compiute indipendentemente dal recepimento del diritto europeo e certamente non imposte dalla (rifiutata) appartenenza alla moneta unica-, nel suo complesso ha un diretto (ed ovvio) effetto di destabilizzazione sociale e di degrado del territorio, in ciascun comune italiano, dal più piccolo al più importante.

3. Sicchè, in questi giorni più che mai, tornano di attualità queste parole di Cesare Pozzi che sono facilmente riferibili alle problematiche coinvolte nel Brexit così come (peraltro senza alcuna chiarezza e capacità di indicare soluzioni non velleitarie) nelle elezioni comunali italiane:
In sintesi, l’Europa non ha alcun futuro se impone a delle comunità un modello che non hanno scelto.
Non si risolve il problema delle migrazioni di lavoranti e di manodopera fuori del territorio se non si creano le condizioni perché questi rimangano a lavorare nella propria Nazione, nel proprio paese o nella propria città, nel proprio territorio.
Né è possibile continuare ad ignorare il problema a fronte del gravissimo problema demografico.
La popolazione sta invecchiando senza che si stia ponendo alcun rimedio al calo demografico e alla necessità di precostituire un ricambio generazionale.
Così, tra circa 50 anni, di questo Paese non rimarrà nulla se questo sistema spinge i giovani, i lavoratori, i laureati, i soggetti altamente qualificati ad andarsene.
Solo un progetto concreto che abbia come punto di riferimento il rilancio del territorio potrà spingere questi stessi soggetti a rimanere.

E ORA COSA CAMBIERA'? ALMENO RIPENSARE IL CONCETTO DI CASTA....

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1. Una domanda che taluno potrebbe porsi, in questo momento, alla luce dei risultati delle elezioni amministrative, è: "cosa cambierà?"
I concetti per dare una qualche risposta a questo, tutto sommato, ingenuo interrogativo, li potrete ritrovare nel post "La scissione". Là si definiscono, -al di là dell'arrembante neo-retorica- i fenomeni "casta, cricca, corruzione" e (soprattutto)...privatizzazioni.

Per completare il discorso sulle aspettative di "cambiamento" che possiamo nutrire al momento (anche solo limitandosi all'amministrazione delle città), trarrei spunto da alcuni approfondimenti compiuti nel dibattito conseguente al suddetto post.
La chiave interpretativa complessiva per collegare tali commenti con le aspettative di cambiamento conseguenti all'apparente nuovo quadro politico, è sempre quella di recente ribadita:

"Venendo alla "scottante" attualità italiana, si può obiettare che in elezioni amministrative, e quindi riguardanti enti locali di governo-amministrazione, esistono una serie di questioni e caratteristiche socio-economiche legate al concreto territorio, la cui soluzione esigerebbe una conoscenza specifica, appunto, localizzata e un collegamento tra visione e competenze degli eletti e comune sentire degli elettori.
Nulla di più fallace, se si fosse consapevoli della genesi dei problemi che si riversano sulle varie realtà territoriali: i patti di stabilità interna che vincolano le politiche degli enti territoriali molto di più di quanto non sia condizionato l'indirizzo di governo centrale, sono la diretta derivazione del vincolo €uropeo.
O ci si rende conto di ciò, da parte delle forze politiche che si presentano alle elezioni, oppure no: se "no", allora i problemi del territorio semplicemente non possono essere seriamente risolti
...Dunque, bisogna privatizzare i "beni comuni" per fare il "bene comune". E aumentare le tasse per pagare il debito pregresso, raccontando che questo onere non è dovuto alla abolizione della sovranità monetaria e all'adozione del pareggio di bilancio, ma ai costi della corruzione!!!
E l'ente pubblico perde irreversibilmente la sua legittimazione a svolgere quei compiti, previsti dalla Costituzione come oggetto di doveri a carico della sfera pubblica: ma non importa. 
E se si è, per azione o per omissione gravemente colpevole, favorevoli al paradigma €uropeo ed alla sacralità del pareggio di bilancio, ignorandone la funzione ideologica redistributiva, e pensando che sia possibile rispettarlo agendo con occhiuta onestà, NON SI E' CREDIBILI nel dire che non si vuole privatizzare e, anzi, che si intende "ripubblicizzare": si finirà per perdere la faccia o per essere travolti da scandali e inchieste".



2. Ritenuto in ogni modo importante ribadire questo scenario "presupposto", dai commenti al post "La scissione", estraggo ulteriori "direttive interpretative" per formulare facili previsioni su quello che ci possiamo attendere dall'indirizzo politico italiano, non solo comunale, nei prossimi mesi. A prescindere da quale forza politica, tra quelle elettoralmente più rappresentative, si trovi in concreto a gestire i vari livelli di governo:
Effettivamente, la "dottrina Friedman" (così potremmo chiamarla), consiste in un "loop" perverso. 
Si creano, attraverso misure deflattive, disoccupazione e precarietà. Poi, si usano quella stessa disoccupazione e quella stessa precarietà come scusa per implementare "riforme" che porteranno ancora più disoccupazione e precarietà nonché, attraverso la caduta dei prezzi, la diminuzione dei redditi e la riduzione del perimetro dello Stato via tagli e privatizzazioni, ad un rilevante trasferimento della ricchezza dal basso verso l'alto.
Anche lo stesso debito è un pretesto. Queste politiche tutto faranno tranne che alleviarne il peso, se non altro perché un indebitato è strutturalmente più debole.
Ed anche la stessa "corruzione"è un pretesto. Monti incitava la classe dirigente italiana, a fare "come Menem in Argentina". Lo abbiamo fatto: abbiamo privatizzato, ci siamo innamorati del cambio forte, abbiamo indossato il cilicio del vincolo esterno....... e ci ritroviamo, infatti, come l'Argentina di Menem allora: in preda alla corruzione e sull'orlo della bancarotta. Perché il liberismo sulle corruzioni e sui fallimenti, ho il fondato sospetto che CI CAMPI SOPRA. Sono la sua fonte di reddito, e quindi CI DEVONO ESSERE.

Questo dovrebbe altresì far riflettere chi invoca misure liberiste per "moralizzare il paese"........ non è una questione, tanto per fare un esempio, solo di "numero delle municipalizzate" ma della loro struttura giuridica. E' la gestione privatistica, in forma di società per azioni (fatta, il più delle volte, in regime di monopolio o quasi), che facilita le male gestioni, le assunzioni clientelari (non c'è più nemmeno il filtro formale del concorso pubblico), gli intrecci tra politici, amministratori e finanziatori disonesti, che poi chiamano il cittadino a pagare...
Sono le regole che impongono spurii ed inefficienti partenariati pubblico-privato le cause dove si annidano gli sprechi.....
Voglio essere provocatorio: immaginiamo un'ATAC ente pubblico, con dipendenti assunti per pubblico concorso e sottoposto ai controlli del MEF e della Corte dei Conti. Sarebbe più corrotto dell'odierna municipalizzata? Io non credo......
I social network invasi dal livore sono pieni di citazioni (a sproposito) di Bukowski..... una, però, è stranamente trascurata (o per lo meno, mi pare decisamente rara su FB), ed è questa:
"Il capitalismo è sopravvissuto al comunismo. Bene, ora si divora da solo".
Che è esattamente quello che sta succedendo. Un tempo, la piaga delle locuste liberiste toccava a ex-sovietici (Russia 1998), asiatici e sudamenticani (Cile, Argentina....).
Oggi, l'occidente "si divora da solo": Irlanda, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo
. Tutti paesi della NATO, tutti contributori, anche militarmente, alla "causa" occidentale in medio oriente. E sacrificati così. E' buona politica, questa?  

3. A questo commento è seguita un'interessantissima testimonianza di un operatore "di settore" che ci dice una cosa fondamentale: leggi primarie, direttamente derivanti da direttive europee, prestabiliscono il quadro di azione delle realtà municipali in senso privatizzatore. I sindaci possono fare ben poco, al punto in cui siamo:
Professore, io lavoro in un grande Comune del Nord, all'Ufficio enti partecipati, ormai da dieci anni. 
L'esproprio delle reti del gas delle ex municipalizzate, reti pagate dai cittadini, che stanno facendo proprio adesso, in questo momento, nel silenzio generale, è vergognoso. 
Grazie ad un Decreto Ministeriale che ha espropriato i Comuni dell'autonomia decisionale in materia di servizi pubblici locali, in barba alla Costituzione vigente (e al Titolo V riformato, controverso, ma ancora in vigore), hanno istituito queste sovrastrutture opache (si dice di secondo livello, come le nuove Province, obbrobri mai previsti dalla nostra Carta Costituzionale, o sbaglio, professore?) dalla governance diluita che si chiamano ATO (x idrico) o ATEM (per il gas), dove a decidere sono le segreterie di partito (i sindaci votano senza sapere cosa votano, perché la materia è diventata troppo tecnica, sulla base delle indicazioni del partito), lontano dal controllo dei Consigli Comunali! 
E, sempre con Decreto Ministeriale viene imposto (in teoria x incentivare gli investimenti, in realtà per far sì che le concessionarie ingrassino!) di concedere questi beni pubblici per un piatto di lenticchie (unica gara in cui è stato imposto un tetto MASSIMO di offerta per il canone di concessione, non più del 5%, quando fino all’anno scorso i Comuni si portavano a casa il 20-30-40% !) alle grandi multiutilities locali, che ormai di locale hanno ben poco, e sono di fatto monopoli misto pubblico-privati, dove il privato (quale? Lettura interessante andare a vedere chi sono i soci di queste multiutilities)la fa da padrone
E mentre Italgas, Enel Gas, A2A etc. si approprieranno per un tozzo di pane delle reti pubbliche di distribuzione del gas naturale, i cittadini se la prendono con il dipendente pubblico lavativo che osa perfino scioperare....(discussione di oggi su Twitter...).
Così mentre prima i Canoni del servizio tornavano nelle casse dei Comuni per essere spesi per la collettività, adesso andranno agli azionisti delle utilities. Certo oggi tra gli azionisti ci sono anche molti Comuni, ma.... a gare fatte, Cottarelli (o chi per lui...dopo di lui, ndr) penserà bene di imporre loro di cedere al mercato le proprie quote, così siamo sicuri che i profitti vadano solo ai privati.
Quindi riassumendo: le reti ce le siamo pagati noi con la fiscalità generale (e locale).
Adesso che quasi tutta l’Italia (almeno al Nord, infatti sono i primi ATEM a dover partire con le gare) è stata metanizzata a spese del contribuente, i profitti ci assicuriamo bene che vadano ai privati.
Di questo non parla NESSUNO, NESSUNO.
Si è fatto tanto parlare dell’acqua pubblica, e intanto ci hanno scippato le reti del gas (business ben più lucroso...)".


4. Per approfondire ulteriormente l'argomento, poi, soccorre il (consueto) riferimento bibliografico di Arturo:


Elena, se hai voglia di scrivere qualcosa lo leggerei volentieri anch'io.Intanto penso possa interessarti questo pregevole paper di Roberto Bin, intitolato "I diritti di chi non consuma", che affronta fra l'altro la questione delle multiutilities, rispetto a cui:

"[...] qualsiasi legame con gli enti rappresentativi è reciso"; "i servizi pubblici hanno" quindi "perso ogni rapporto con il circuito della responsabilità politica: può infatti un ente locale rispondere politicamente pro quota azionaria? Chi risponde della politica dei servizi pubblici, e a chi? Mentre appare irrisoria l’ipotesi chesoprattutto in situazioni dove il mercato non esiste – siano i consumatori lillipuziani a bilanciare il peso del colosso industriale, è però del tutto evidente che i cittadini sono completamente scomparsi dell’orizzonte: con loro è scomparsa la “comunità” quale destinataria dei servizi pubblici, e la politica come sede delle scelte sull’estensione, l’intensità e il carattere sociale degli stessi."
5. A proposito, non si dica poi che società e industria pubbliche siano così inutili e dannose. Per chi si volesse informare, è in atto, da tempo, una vasta rivisitazione di dati e realtà del fenomeno:
Comunque deve avvenire (e avverrà) un bel regolamento di conti che dovrà toccare tutti i vertici della classe dirigente italiana, quelli si, veramente corrotti e per corrutele ben più gravi delle spaghettate di Fiorito. A partire dai vertici (anche quelli FINO AD OGGI "intoccabili").
Per esempio; prendiamo questa intervista a De Cecco pubblicata dal Manifesto il 14 gennaio 2014.
"Per­ché le pri­va­tiz­za­zioni degli anni Novanta sono state un fallimento?
Sono state le più grandi dopo quelle inglesi e hanno cam­biato la fac­cia dell’industria ita­liana senza fare un graf­fio al defi­cit pub­blico. Se si voleva distrug­gere l’industria ita­liana ci sono riu­sciti. Ma non credo che Prodi volesse distrug­gere quello che aveva con­tri­buito a creare. Que­sto risul­tato non è stato voluto, ma è sicuro che sia stato asso­lu­ta­mente dele­te­rio. 
Gli studi della Banca d’Italia dimo­strano che al tempo l’industria di Stato faceva ricerca per tutto il sistema eco­no­mico ita­liano. Dopo le pri­va­tiz­za­zioni, chi ha preso il posto dell’Iri, ad esem­pio, non l’ha voluta fare
Siamo rima­sti senza un altro pila­stro impor­tante della poli­tica indu­striale, men­tre si con­ti­nuano a fare solenni discorsi sull’istruzione, sulla ricerca o la cul­tura. In que­sti anni è stato distrutto tutto. Su que­sto non ci piove.
Le prime pri­va­tiz­za­zioni sono state fatte per impo­si­zione della City di Lon­dra. Siamo stati ricat­tati. Credo che era molto dif­fi­cile per le auto­rità poli­ti­che riu­scire a sot­trarsi, dati i pre­cari assetti poli­tici che anche allora ci affligevano
".


A questo punto, sarebbe quantomeno miope e, peggio, imprudente, non ripensare in profondità il concetto di "CASTA", in un modo ben diverso da quello che faceva comodo a Einaudi e "agli industriali inferociti" (anche se al tempo, almeno, erano solo "nazionali); un modo, quello finora agitato, che magari, sulla scorta di facili suggestioni, consente di attirare consenso: ma che rende invece inadeguata la visione di chi volesse veramente governare senza piegarsi alle oligarchie e nell'interesse democratico generale. 

BELIEVE ME, ROGER: UK NEEDS DEMOCRACY IN UK AND ITALY NEEDS DEMOCRACY IN ITALY

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Luigi Einaudi (a sinistra nella foto), secondo presidente della Repubblica (1948), stringe la mano al presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Il premier Dc aveva «candidato » al Quirinale il ministro Carlo Sforza

1. Sull'International New Yok Times di venerdì scorso (pag.7), tal Roger Cohen, giornalista britannico, ha scritto un articolo dal titolo "L'Europa ha bisogno della Gran Bretagna". 
Ovviamente si tratta di una peculiare versione del mainstream pro-Remain: il Regno Unito, dice Cohen, con la "dimensione" della sua economia, avrebbe un indispensabile ruolo di contrappeso dello strapotere economico della Germania rispetto ai deboli Stati mediterranei.

E già qui, se si fosse dei lettori dotati di un minimo di conoscenza dei dati storico-economici relativi a ciò che è accaduto, rispettivamente in Italia e in Gran Bretagna, nel secondo dopoguerra, si sarebbe portati a pensare che l'Italia non possa correttamente essere fatta rientrare in questo alveo di Stati "deboli" che UK avrebbe protetto dalla Germania (!) negli ultimi anni (ammesso che un fenomeno del genere si sia mai verificato, cosa che occorrerebbe domandare a greci, portoghesi e spagnoli e andrebbe poi spiegato con precisi dati sia economici che normativo-istituzionali...)
E invece no: il nostro buon Cohen, nel patronizzare i deboli mediterranei si riferisce principalmente all'Italia! Infatti:
"L'Italia del dopoguerra era fragile, lacerata tra l'Ovest e il comunismo, tra lo "scalare le Alpi" e il soccombere del Sud all'inerzia compenetrata di Mafia. L'essere stata membro dell'Unione Europea (sic!)è stato il magnete e l'ancora del paese, assicurandogli un posto nella famiglia occidentale libera e democratica, e attraendola verso la prosperità.
Ora questo ruolo (ndr: che la Gran Bretagna aveva svolto rispetto all'Italia nel dopoguerra) è diretto più cospicuamente verso membri più nuovi dell'Unione. Ma la sua importanza persiste". 
Si sottintende: "persiste" per la stessa debole e mafiosa Italia, altrimenti del tutto schiacciata dalla Germania e incapace, comunque di assicurarsi la democrazia, al di fuori dell'Unione Europea con "dentro" la Gran Bretagna.

2. A molti di voi sarà venuto da ridere, se non altro perché negli anni decisivi del dopoguerra non c'era nessuna Unione Europea e nemmmeno la CEE e, nonostante, ciò, l'Italia visse, in quegli stessi anni, una delle sue più felici fasi di democrazia vissuta e di ripresa economica (in qualche misura, pluriclasse); ad altri, sarà sorta una certa rabbia sconsolata. 
Di sicuro una sparata del genere, proposta a milioni di lettori anglosassoni in tutto il mondo, (per costruire un "consenso" da riversare poi in Italia come slogan tecno-pop, esterofilo e come tale accreditabile al massimo livello), costituisce piuttosto un terrificante luogocomune. Terrificante in senso proprio, cioè che suscita "metus", circa la difficoltà delle relazioni internazionali a fondarsi sulla base di lealtà e rispetto reciproci, e non solo unilateralmente addossati a chi deve obbligatoriamente, e per sempre, interpretare il ruolo servile del "debole"; o del giullare, o del guappo da operetta: sono tutte implicazioni dirette dell'atteggiamento culturale di Cohen.
Può ritenersi praticabile l'idea stessa di un'organizzazione economica internazionale, in cui la considerazione (grosso modo ufficiale) di una parte, che si proclama "incumbent", cioè in partenza più forte (politicamente ed economicamente), verso l'altra parte, che viene definita debole, è quella, acritica, di nutrire il pregiudizio che tale parte debole sia incapace di assicurarsi la democrazia e sia tendente al criminale?

Più ancora, è possibile che esista, e anzi si sia rafforzata, una superficialità così drastica e riduttiva nella concezione che gli anglosassoni hanno, ancor oggi, dell'Italia e della sua storia recente?

3. Sul pericolo comunista in Italia nel dopoguerra, a smentita della fantasiosa ricostruzione del Cohen, riportiamo poche cose essenziali.
Assemblea costituente 02/06/1946 - Italia[1]
Elettori: 28 005 449 - Votanti: 24 947 187 (89,08%)
Liste/GruppiVoti %Seggi
Democrazia Cristiana (DC)8 101 00435,21207
Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP)4 758 12920,68115
Partito Comunista Italiano (PCI)4 356 68618,93104
Unione Democratica Nazionale (UDN)1 560 6386,7841
Fronte dell'Uomo Qualunque (UQ)1 211 9565,2730
Partito Repubblicano Italiano (PRI)1 003 0074,3623
Blocco Nazionale della Libertà (BNL)637 3282,7716
Partito d'Azione (Pd'A)334 7481,457
Movimento Indipendentista Siciliano (MIS)171 2010,744
Concentrazione Democratica Repubblicana97 6900,422
Partito Sardo d'Azione78 5540,342
Partito dei Contadini d'Italia102 3930,441
Movimento Unionista Italiano71 0210,311
Partito Cristiano Sociale51 0880,221
Partito Democratico del Lavoro40 6330,181
Fronte Democratico Progressista Repubblicano21 8530,091
ALTRE LISTE412 5501,790
TOTALI VOTI VALIDI23 010 479100,00556
SCHEDE NULLE1 936 708

DI CUI BIANCHE643 067

TOTALE VOTANTI24 947 187

"Visto che s’è menzionato De Gasperi, parto col suo celebre discorso del maggio ’47, quando annunciò la crisi del governo di unità nazionale: il discorso del “quarto partito” (in Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pag. 40):
i voti non sono tutto (...). Non sono i nostri milioni di elettori che possono fornire allo Stato i miliardi e la potenza economica necessaria a dominare la situazione. Oltre ai nostri partiti, vi è in Italia un quarto partito, che può non avere molti elettori, ma che è capace di paralizzare e rendere vano ogni nostro sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga dei capitali, l'aumento dei prezzi e le campagne scandalistiche. L'esperienza mi ha convinto che non si governa oggi l'Italia senza attrarre nella nuova formazione di governo (...) i rappresentanti di questo quarto partito
Prosegue Graziani (pag. 41): 
Tutti i ministeri economici vennero affidati a uomini di sicura fede liberista. Einaudi lasciò il governo della Banca d'Italia a Menichella e assunse la direzione del nuovo ministero del Bilancio: Del Vecchio, autorevole studioso di eguali tendenze liberiste, assunse il ministero del Tesoro; i ministeri delle Finanze e dell'Industria andarono rispettivamente a Pela e a Merzagora, ambedue legati agli ambienti della grande industria del Nord. A questo governo spettò di prendere nei mesi immediatamente successivi i provvedimenti di maggiore portata, e di realizzare la famosa svolta deflazionistica del 1947.
Una testimonianza che esclude qualsiasi ombra legata ad un pericolo di passaggio dell'Italia nel Comunismo e, considerando la forte caratterizzazione della democrazia italiana nell'esperienza Costituente, esclude pure che il pericolo per il rispetto delle procedure e dei valori democratici affermati in Costituzione, arrivasse da movimenti popolari, meno che mai "comunisti":
"Varrebbe certamente la pena di ricostruire più attentamente di quanto non si sia ancora fatto, il dibattito in Assemblea Costituente e i contributi di Einaudi, che peraltro abbracciarono campi importanti di interesse generale al di là dei "rapporti economici" (titolo III della prima parte della Carta) e del pur cruciale articolo 81. Interessante, e suggestiva, è l'interpretazione che in Cinquant’anni di vita italiana ci ha lasciato Guido Carli: secondo il quale «la parte economica della Costituzione risultò sbilanciata a favore delle due culture dominanti, cattolica e marxista», MA NELLO STESSO TEMPO, TRA IL 1946 E IL 1947, «DE GASPERI ED EINAUDI AVEVANO COSTRUITO IN POCHI MESI UNA SORTA DI "COSTITUZIONE ECONOMICA" CHE AVEVANO POSTO PERÒ AL SICURO, AL DI FUORI DELLA DISCUSSIONE IN SEDE DI ASSEMBLEA COSTITUENTE». SI TRATTÒ DI UNA STRATEGIA «NATA E GESTITA TRA LA BANCA D'ITALIA E IL GOVERNO», MIRATA ALLA STABILIZZAZIONE, ANCORATA A UNA VISIONE DI "STATO MINIMO", E APERTA ALLE REGOLE E ALLE ISTITUZIONI MONETARIE INTERNAZIONALI."
3.3.1.) In termini di legalità e democrazia costituzionali, secondo la stessa testimonianza, i pericoli sono semmai arrivati dal processo comunitario e europeo:
In effetti, benché, per usare le espressioni di Carli, quel che accomunava in Assemblea Costituente la concezione cattolica e la concezione marxista fosse «il disconoscimento del mercato», l'azione di governo fu già nei primi anni della Repubblica segnata da scelte di demolizione dell'autarchia, di liberalizzazione degli scambi e infine di collocazione dell'Italia nel processo di integrazione europea. 
E con i Trattati di Roma del 1957 e la nascita del Mercato Comune, furono riconosciuti e assunti dall'Italia i fondamenti dell'economia di mercato, i principi della libera circolazione (merci, persone, servizi e capitali), LE REGOLE DELLA CONCORRENZA; QUELLE CHE ANCOR OGGI VENGONO DENUNCIATE COME OMISSIONI O COME CHIUSURE SCHEMATICHE PROPRIE DELLA TRATTAZIONE DEI "RAPPORTI ECONOMICI" NELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA, VENNERO SUPERATE NEL CROGIUOLO DELLA COSTRUZIONE COMUNITARIA e del diritto comunitario. NELL'ACCOGLIMENTO E NELLO SVILUPPO DI QUELLA COSTRUZIONE, SI RICONOBBE VIA VIA ANCHE LA SINISTRA, PRIMA QUELLA SOCIALISTA E POI QUELLA COMUNISTA.
4. Sulla mafiosità antropologica degli italiani del Sud e, in generale degli italiani, secondo gli anglosassoni (che conducendo il mainstream dell'informazione, hanno trasmesso al resto del mondo questo bel preconcetto sugli italiani, condito di folclore cinematografico), il discorso sarebbe (inutilmente) lungo: mi basti richiamare il principio che la criminalità organizzataè un effetto non una causa della mancanza di democrazia economica e di piena attuazione del modello interventista dello Stato (tanto detestato da Einaudi), improntato alla eguaglianza sostanziale
Dove infatti c'è riequilibrio delle opportunità sociali, - quindi investimenti in infrastrutture coordinati a politiche industriali territoriali, nei modi che la Costituzione avrebbe imposto (cioè quelli di cui parlava Caffè, qui p.9,  e non quelle messe in pratica fuori dal quadro effettivo della costituzione economica)- le mafie perdono di senso e non si differenziano molto dalla diffusa criminalità che, su tipici affari illeciti "internazionali", contraddistingue oggi il Regno Unito forse più dell'Italia:
"Questo è un dibattito che può incartarsi facilmente: la verità è che, come dimostra più di un intervento, i dati su cui ragionare significativamente partono dal 1871 (e quindi già sono falsati da elementi politici determinanti) o tutt'al più aggregano dal 1861 (il che non consente di cogliere i trend di espansione pregressi, che pure sono determinanti).
Ma il punto è un altro ancora: condizioni concrete di sviluppo industriale del sud, autonomo dall'Unità d'Italia, c'erano o no?
La risposta è, in termini ragionevoli e prudenti, "sì".
Condizioni geo-politiche perchè questo avvenisse a lungo termine, come in effetti era necessario, invece, altrettanto ragionevolmente, "no".
Ora: supponendo una certa affidabilità di questa aporia (apparente, si tratta di fatti riconoscibili a posteriori), l'unità ha portato certamente più giovamento al nord che al sud.
 
Era tutto ciò rimediabile con il raggiungimento della piena democrazia (pluriclasse e redistributiva)?
Anche qui la risposta potrebbe essere positiva (v.qui p.4)
: ma al tempo stesso, dobbiamo ammettere che nel secondo dopoguerra, - la golden age dello Stato interventista, non ancora "disciolto" nella irresistibile vena neo-liberista globale-, lo stesso Stato fu costretto ad agire in modo rapido e imperfetto.
Qualsiasi serio discorso ora è stato interrotto sotto l'imperio dell'euro-modello
Chi avesse dubbi su ciò, fermandosi ad una presunta realtà antropologica, si troverebbe nella stessa posizione attuale dei tedeschi verso i Med.

Insomma, alla fine dei giochi, anche il riprendere un cammino risulta difficile per il profondo radicamente "autoctono" della vulgata neo-liberista. E l'ordoliberismo, cioè la capture delle istituzioni democratiche da parte delle forze liberoscambiste, costituisce uno schermo molto più insidioso a qualsiasi soluzione operativa di quanto non si creda.
Contrariamente a quanto, con disappunto rabbioso o disperato, si creda nel senso comune, le forme di corruzione e di criminalità territoriale meridionali sono molto più effetti che cause del problema
Personalmente, ritengo che non ci sia una formula "ideale" di accumulazione capitalista che sia compatibile con la legalità "pro tempore": e ciò vale a maggior ragione per l'altissimo livello di legalità in senso sostanziale richiesto dalla realizzazione del programma costituzionale post 48. 
Ciò implica che repressione (della criminalità) e risanamento economico-sociale non possano che andare di pari passo mediante un intenso programma di intervento pubblico; che cioè agisca strutturalmente, e in modo sostenuto, nel rafforzamento dell'apparato di garanzia della legalità INSIEME con politiche industriali COORDINATE col primo aspetto.
In apparenza la via intrapresa negli anni '80, assomigliava a questa tenaglia; ma aveva il semplice inconveniente di essere "emergenziale", cioè finanziata a tempo, e, al tempo stesso, anche insufficiente nel volume, una volta intrapresa la via della banca centrale indipendente "pura".
E torniamo sempre allo stesso punto: l'espansione del mercato interno, l'adeguamento infrastrutturale, esigevano un riequilibrio fiscale dal lavoro alle attività "autonome", per rendere ciò finanziariamente praticabile (cioè sostenibile senza danni per l'equilibrio dei conti con l'estero)

Ma tutto ciò NON FU FATTO PROPRIO PERCHE' SI SCELSE LA VIA DEL VINCOLO ESTERNO E DELLA BC INDIPENDENTE: l'interesse nazionale unitario era già minato da tutto ciò.
La stessa via del trasferimento fiscale ne risultò alterata concettualmente: si legava, per sempre, a uno standard "morale" che anche le discussioni qui in parte registrate confermano. Ma nella eradicazione delle differenze strutturali non c'è alcuna indulgenza morale alla presunta debolezza (morale) di alcuno: si tratta solo di capire o meno in che consista la proiezione fiscale, INEVITABILE, della EGUAGLIANZA SOSTANZIALE (quella cui fa variamente riferimento Rawls)".
 

KEEP CALM: IT'S JUST A (BREXIT) DELIRIUM

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http://3.bp.blogspot.com/-2t2O8kjdHd0/T5GEoBuvsgI/AAAAAAAAFBM/3_XOnCya-HU/s1600/theylive3.jpghttp://www.birraingross.it/wp-content/uploads/2013/08/delirium-nocturnum-logo.jpg
1. Oggi il discorso è incandescente: come cercherò di dire, nel mio piccolissimo, è OVVISSIMAMENTE prematuro abbandonarsi a facili entusiasmi.
Nel frattempo, è giusto dare spazio (come faremo tra un po') ad alcune "puntualizzazioni" che altro non sono che dimostrazioni di "tracce di vita" intelligente e di memoria storica non alterata dall'esigenza di dare un flusso continuo e inesorabile alla propaganda orwelliana, che intende continuare a governare l'€uropa (e il mondo), A QUALSIASI COSTO.  
E quando dico a qualsiasi costo, intendo che un potere così grande, quasi senza precedenti nella storia dell'umanità, non appena messo alle strette, tenderà a dimostrarsi capace di qualunque cosa. Basterà rammentare queste parole del padre-maestro di "tutto questo", (almeno sul piano della prassi politica), cioè di colui che meglio incarna l'etica di ESSI:
von Hayek: “È evidente che le dittature pongono gravi pericoli. Ma una dittatura può limitare se stessa(se puede autolimitar), e se autolimitata  può essere più liberale nelle sue politiche di un'assemblea democratica che non conosce limiti. Devo ammettere che non è molto probabile che questo avvenga, ma anche così, in un dato momento, potrebbe essere l'unica speranza. Non una speranza sicura perché dipenderà sempre dalla buona volontà di una persona e ci si può fidare di ben poche persone. Ma se è l'unica possibilità in un dato momento, può essere la migliore soluzione nonostante tutto. Ma solo se il governo dittatoriale conduce chiaramente ad una democrazia limitata.”
Nella stessa intervista, von Hayek affermava anche: 
 “La democrazia ha un compito che io chiamo ‘igienico’ per il fatto che assicura che le procedure siano condotte  in un modo, appunto, idraulico-sanitario. Non è un fine in sé. Si tratta di una norma procedurale il cui scopo è quello di promuovere la libertà. Ma non può assolutamente essere messo allo stesso livello della libertà. La libertà necessita di democrazia, ma preferirei temporaneamente sacrificare, ripeto temporaneamente, la democrazia, prima di dover stare senza libertà, anche se temporaneamente .”
2. Quanto al metodo di "variazione" dallo stato della democrazia idraulica (che mai, per ESSI, è un fine in sè) alla dittatura intesa come "unica speranza"(cioè TINA!), rammentiamo che viene normalmente utilizzato "lo stato di eccezione" - dei mercati, per il terrorismo, per l'ordine pubblico da restaurare nei confronti delle "inammissibili" rivendicazioni di piazza di popoli altrimenti resi "muti"-, tanto più probabile quanto più indica, nella situazione istituzionale attuale di denazionalizzazione delle pubbliche istituzioni, l'autentico detentore della sovranità.
Una volta ridislocata la sovranità, per mezzo di trattati che istituiscono organizzazioni economiche sovranazionali, gli strumenti per indurre lo stato di eccezione sono, dunque, molteplici e convergenti. E, ormai, tutto questo non dovrebbe sorprenderci.

3. Ma, fatta questa premessa, che è il punto di riferimento, nell'esperienza storica, per definire le "aspettative" che possiamo nutrire con empirica e ragionevole cautela, se non altro al fine di vigilare sulla preziosa democrazia consegnataci dalla nostra Costituzione, lascio spazio ad una selezione (esemplificativa) di "puntualizzazioni":







4. Infine, ci pare anche opportuno, per completare il quadro in cui ci troviamo proiettati, fare un richiamo ad un'analisi generale che non dovrebbe mai essere dimenticata (perché costò la vita a chi, con lucida esattezza, ebbe il coraggio di portarla avanti):
Rosa Luxemburg, "Fogni pacifisti", 1911 [!!!]
Solo coloro che credono nell’attenuazione e mitigazione degli antagonismi di classe, e nella possibilità di esercitare un controllo sull’anarchia economica del capitalismo, possono credere all’eventualità che questi conflitti internazionali possano essere rallentati, mitigati e spazzati via. [...]
Perché gli antagonismi internazionali degli stati capitalisti non sono che il complemento degli antagonismi di classe, e l’anarchia del mondo politico non è che l’altra faccia dell’anarchico sistema di produzione del capitalismo. Entrambi possono crescere solo insieme e solo insieme possono essere superati. “Un po’ di ordine e di pace” sono per questo impossibili, al pari delle utopie piccolo-borghesi sulla limitazione delle crisi nell’ambito del mercato capitalistico mondiale, e sulla limitazione degli armamenti nell’ambito della politica mondiale. [...]

«Il carattere utopico della posizione che prospetta un’era di pace e ridimensionamento del militarismo nell’attuale ordine sociale, è chiaramente rivelato dalla sua necessità di ricorrere all’elaborazione di un progetto. Poiché è tipico delle aspirazioni utopiche delineare ricette “pratiche” nel modo più dettagliato possibile, al fine di dimostrare la loro realizzabilità. A questa tipologia appartiene anche il progetto degli “Stati Uniti d’Europa” come mezzo per la riduzione del militarismo internazionale. [...]

L’idea degli Stati Uniti d’Europa come condizione per la pace potrebbe a prima vista sembrare ad alcuni plausibile, ma a un esame più attento non ha nulla in comune con il metodo di analisi e con la concezione della socialdemocrazia. [...]

...Ma qual è il fondamento economico alla base dell’idea di una federazione di stati europei? L’Europa, questo è vero, è una geografica e, entro certi limiti, storica concezione culturale.
Ma l’idea dell’Europa come unione economica, contraddice lo sviluppo capitalista per due ragioni. 
Innanzitutto perché esistono lotte concorrenziali e antagonismi estremamente violenti all’interno dell’Europa, fra gli stati capitalistici, e così sarà fino a quando questi ultimi continueranno ad esistere; in secondo luogo perché gli stati europei non potrebbero svilupparsi economicamente senza i paesi non europei. Come fornitori di derrate alimentari, materie prime e prodotti finiti, oltre che come consumatori degli stessi, le altre parti del mondo sono legate in migliaia di modi all’Europa. 
Nell’attuale scenario dello sviluppo del mercato mondiale e dell’economia mondiale, la concezione di un’Europa come un’unità economica isolata è uno sterile prodotto della mente umana.
«E se l’unificazione europea è un’idea ormai ["ormai" nel 1911!!!, ndr] superata da un punto di vista economico, lo è in egual misura anche da quello politico.

Solo distogliendo lo sguardo da tutti questi sviluppi, e immaginando di essere ancora ai tempi del concerto delle potenze europee, si può affermare, per esempio, di aver vissuto quarant’anni consecutivi di pace. Questa concezione, che considera solo gli avvenimenti sul suolo del continente europeo, non vede che la principale ragione per cui da decenni non abbiamo guerre in Europa sta nel fatto che gli antagonismi internazionali si sono infinitamente accresciuti, oltrepassando gli angusti confini del continente europeo, e che le questioni e gli interessi europei si riversano ora all’esterno, nelle periferie dell’Europa e sui mari di tutto il mondo.

Dunque quella degli “Stati Uniti d’Europa” è un’idea che si scontra direttamente con il corso dello sviluppo sia economico che politico [...].

Che un' idea così poco in sintonia con le tendenze di sviluppo non possa fondamentalmente offrire alcuna efficace soluzione, a dispetto di tutte le messinscene, è confermato anche dal destino dello slogan degli “Stati Uniti d’Europa”. Tutte le volte che i politicanti borghesi hanno sostenuto l’idea dell’europeismo, dell’unione degli stati europei, l’anno fatto rivolgendola, esplicitamente o implicitamente, contro il “pericolo giallo”, il “continente nero”, le “razze inferiori”; in poche parole l’europeismo è un aborto dell’imperialismo.
E se ora noi, in quanto socialdemocratici, volessimo provare a riempire questo vecchio barile con fresco ed apparentemente rivoluzionario vino, allora dovremmo tenere presente che i vantaggi non andrebbero dalla nostra parte, ma da quella della borghesia
Le cose hanno una loro propria logica oggettiva. E oggettivamente lo slogan dell’unificazione europea, nell’ambito dell’ordine sociale capitalistico, può significare soltanto una guerra doganale con l’America, dal punto di vista economico, e una guerra coloniale, da quello politico. »   




IL FANTASMA DI HAYEK RIAPPARE NEL DISPREZZO ELITARIO PER IL VOTO (BREXIT DELIRIUM -3)

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1. Dire che la situazione "è grave ma non seria" appare un paradosso persino un po' logoro, alla luce della reazione del sistema mediatico, e del suo sovrastante concerto di forze dominanti. 
Stiamo assistendo a tentativi di neutralizzazione dell'esito del referendum Brexitche, personalmente, come ho spiegato,ritengo assuma un valore più simbolico che relativo a contenuti significativi di un mutamento di paradigma politico-economico
Si vuole, addirittura, che il referendum sia prontamente ripetuto e, per implicita logica, almeno fino a quando non si raggiunga la vittoria del "remain". Una petizione intenderebbe  legittimare tale ripetizione del voto, salvo che non si comprende bene chi siano i "sottoscrittori":

Of the 2.3 million signatures only 365k came from the UK lol pic.twitter.com/Oi6kAdeANY
— Daniel #leave (@Daniel__Brookes) 25 giugno 2016

2. In alternativa si propone che il referendum concernente scelte "importanti" debba avere almeno un quorum del 75% di votanti e del 60% di "favorevoli": notare che si adduce a sostegno il parere favorevole della Venice Commission UE, quella che ritiene che non il modello parlamentare-elettivo ma (v.p.2) un sistema di governance tecnocratico-finanziaria, modellato su quello della World Bank, debba governare l'€uropa.

Quindi neppure un 59% di voti pro-Brexit sarebbe considerato idoneo a scalfire il fogno e a far riflettere su come, in termini pratici e di obblighi di diritto internazionale già vigenti, l'effetto pratico della stessa Brexit non potrebbe mai essere traumatico come lo si dipinge, nella stucchevole campagna terroristica che, in Italia, raggiunge i suoi massimi vertici.
Più in generale, si mette in discussione la stessa idoneità della volontà popolare a esprimersisull'assetto socio-economico da imprimere al proprio ordinamento, ritirandosi fuori una sorta di stizzosa repulsione per il "populace", come già additato da Wolf, ingrato e incompetente rispetto alle scelte inoppugnabili già fissate, una volta per tutte, dalla elite e diffuse alle genti dai suoi corifei intellettuali e espertoni "lottatori".

3. Come sottospecie di questi alti lai di denuncia della volgarità inaccettabile del voto, si propone la deprivazione del voto di chi non sia "gggiovane" e erasmus-europeista.
Chi riassume bene questo insieme di posizioni è Beppe Severgnini, che se la prende, naturalmente convecchi, ignoranti e campagnoli, che, dunque, hanno rovinato l'illuminata e istruita consapevolezza degli erasmus-europeisti, che risulterebbero dunque gli unici legittimati al voto, dall'adesione alle decisioni irrevocabili delle elites, - che mantengono infatti la disoccupazione giovanile in €uropa a livelli senza precedenti dalla crisi del 1929
E questo nonostante che i fatti smentiscano clamorosamente questa illusione:Chiediamo scusa ai giovani: né leave né remain. Sono solo andati pilu. pic.twitter.com/5YSHSbJEgN
— Monscolombo (@Monscolombo) 26 giugno 2016
Il dato, infatti, è che l'astensionismo più alto al referendum lo hanno espresso proprio i giovani

4. E l'astensionismo, come noi abbiamo visto e proprio in base a studi compiuti da scienziati sociali inglesi in tempi "non sospetti", non indica certissimamente un entusiasmo verso l'UE, quanto piuttosto una sfiducia ancora più drastica in ogni livello di istituzioni che, a parole, come l'UE, si adopera così tanto per l'occupazione giovanile senza, stranamente, riuscire ad ottenere alcun risultato dalle sue fantasmagoriche iniziative, piani e programmi specialissimi
E quelle viste finora, sono solo una parte tutto sommato limitata delle "voci" di contestazione iper-europeista dell'esito della consultazione popolare britannica, in un curioso misto composto da rivendicazione dell'insindacabilità (democratica) delle scelte delle oligarchie e da giovanilismo sostenuto a spada tratta da...anziani o anzianissimi tecnocrati (propugnatori coerenti del libero mercato deflazionista ad alta disoccupazione strutturale e giovanile). 

5. Questa situazione così palesemente contraddittoria ha però una radice: ne abbiamo già trattato e, per la verità la questione ha avuto anche altri approfondimenti. 
Ma per semplificare la corretta interpretazione dell'ideologia che sottosta a questi atteggiamenti, mi è parso utile riproporre un sunto dei passaggi salienti del post: LIBERISMO E LIBERALISMO: LA LIBERTA' NON E' UN BENE IN SE' MA LA INSINDACABILE RAZIONALITA' DEL MERCATO.
Il post ci spiega in cosa consista la autodefinizione dell'atteggiamento politico "liberale" e il suo concetto della democrazia e dei processi elettorali considerati "ammissibili".
"La "comoda"autodefinizione come "liberale", permette di non doversi assumere l'onere di comprendere il senso scientifico-economico e l'inscindibilità del "liberismo" (dal liberalismo), evitando così la prospettiva del fronteggiare la responsabilità, morale e culturale, di tutte le varie forme di autoritarismo, anche gravi e recenti, nonchè difallimento sociale e politico, legate al liberismo-liberalismo.
La comoda autodefinizione in questione, dunque, è una forma di autolegittimazione di ordine psicologico, spesso alimentata da un confuso (quanto appagante) idealismo circa il concetto prioritario di libertà, concetto sbandierato come sinonimo dell'agire del "mercato",senza però conoscere il senso di questo "accoppiamento" piuttosto automatico."

6. Su questo punto ci illumina subito Bazaarcon questa sintesi sarcastica ma tragicamente esatta delle "conseguenze" sociopolitiche di Hayek:
"Hayek semplicemente constata che la democrazia (intesa come "ordo") è un particolare ordinamento per cui, chi non passa la legge darwiniana(non è abbastanza blatta o ratto), non viene pinochettanamente lanciato giù da un aereo, ma viene "educato" dagli strumenti di propaganda di chi- al riparo del processo democratico - confeziona l'opinione pubblica.
Quando l'élite blatera di libertà (o meglio di liberalismo), anche se solo per bocca dei suoi "intellettuali" di riferimento come il mostro di Friburgo, parla di libertà dal "processo democratico", libertà dagli interessi collettivi.
Freedom from... freedom.
Tradotto: Power of the market free from... power of the people".

E ci siamo: perveniamo alla democrazia idraulica, espressamente teorizzata da Hayek e assunta oggi, con un indiscusso riflesso pavloviano, come concetto dominante di democrazia "conforme" alla attuale civiltà della comunicazione dell'immagine
E dunque contano i mezzi di comunicazione e formazione della pubblica opinione e, più ancora, ovviamente, il loro controllo e orientamento
Per quanto più volte citato, non è mai sufficiente ripetere questo concetto hayekiano:
«Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi».
(F. von Hayek da "Verso la schiavitù", 1944).

7. ADDE: Dell'aforisma hayekiano, che segue, sottolineiamo la parola "beforehand" (in anticipo): la libertà, cioè l'ordine naturale e "scientifico" del libero mercato "senza frontiere", deve essere svincolata da ogni rapporto con qualunque genere di "benefici attesi". La libertà-legge del mercato è oggetto di una fede incrollabile e incurante dei costi per l'individuo "comune": ovviamente, solo "alcuni" individui hanno diritto di avvantaggiarsi di tale "libertà" e, perciò, di reclamare lo "status quo" come incontestabile: e tanto basti. 
Fine del discorso e chiunque metta in discussione ciò sarà "eticamente" delegittimato come "vecchio, campagnolo, ignorante", comunque inidoneo a esprimere una volontà da prendere in considerazione: ossia, appunto, al livello di "blatta o ratto".
Capirete bene come, in questa visione, sia da respingere con disgusto il voto, in quanto spinto dalle sopra viste volgari e "irrazionali" aspettative di promuovere un qualche beneficio per la massa dei votanti o, come nel caso del Brexit, di protestare contro qualche forma di disagio o squilibrio socio-economico, allo scopo di porvi fine.


8. Così lo stesso Bazaar, ci approfondisce il quadro del fenomeno:
"La democrazia per Hayek è essenziale dunque come metodo, non come fine. 
Rifacendosi a Tocqueville, egli sottolinea infatti che la democrazia è l'unico strumento efficace per educare la maggioranza, in quanto la democrazia è soprattutto un processo di formazione dell'opinione pubblica. Il suo maggior vantaggio sta quindi non nella sua immediata capacità di scelta dei governanti, ma nel far partecipare attivamente alla formazione dell'opinione pubblica la maggior parte della popolazione, e quindi nel permettere la scelta fra una vasta gamma di individui. 
Ma, una volta accolta la democrazia all'interno del liberalismo, Hayek non si stanca di ripetere che il modo in cui il liberale concepisce il funzionamento della democrazia è del tutto peculiare. [ndr, ora vai di supercazzola!] 
L'idea, infatti, che il governo debba essere guidato dall'opinione della maggioranza ha senso solo se quell'opinione è realmente indipendente dal governo stesso, poiché l'ideale liberale di democrazia è basato sul convincimento che l'indirizzo politico che sarà seguito dal governo debba emergere da un processo spontaneo e non manipolato.  
L'ideale liberale di democrazia presuppone, quindi, l'esistenza di vaste sfere indipendenti dal controllo della maggioranza, entro le quali si formano le opinioni individuali
Questa è la ragione, dice Hayek, per cui la causa della democrazia e la causa della libertà di parola e di stampa sono inseparabili. Da ciò discende che l'idea ultrademocratica che gli sforzi di tutti debbano essere guidati incondizionatamente dall'opinione della maggioranza o che la società sia tanto migliore quanto più si conforma ai principi comunemente accettati dalla maggioranza,è un vero e proprio capovolgimento del principio attraverso il quale si è sviluppata la civiltà(Enciclopedia del Novecento, 3° vol., 1978, p. 990)".

9. Si può dire che "...questa è la versione per cui processo elettorale e opinione pubblica sono due cose distinte, o meglio, il controllo esercitato sulla seconda costituisce la pre-condizione di ammissibilità del primo.
Coloro che soprassiedono saldamente alla conformazione dell'opinione pubblica, però, devono inderogabilmente essere espressione di quella Tradizione, (per la verità molto recente...), che estrinseca e autentica ciò che può legittimamente costituire la Legge (naturale e non prodotta dai parlamenti), ma avendo la sua origine nel mondo pre-istituzionale e superiore al processo elettorale
Questa predeterminazione a priori della Legge, da parte di una oligarchia insita nell'ordine naturale delle cose, fa in modo che la "legislazione" (cioè il prodotto istituzionale dei governi-parlamenti designati elettoralmente) sia sempre perfettamente conforme alla Legge a gli interessi della stessa oligarchia "naturale".
Questo processo di affermazione ininterrotto della Legge, implica un circuito che definiremmo costituzionale-materiale: i produttori-proprietari, cioè gli operatori economici, titolari degli interessi (unici) che incarnano la Legge, e gli operatori culturali (accademia, giornalisti, esponenti della letteratura e dell'arte) che la esplicitano, e la rendono adeguata agli svolgimenti storico-politici, nel formare l'opinione pubblica, si esprimono e il voto vale solo a condizione di riflettere questo processo di istituzionalizzazione a priori del mercato".

10. Il sottinteso (cioè, tale da non dover essere manifestato espressamente ai soggetti che lo subiscono) presupposto elitario di esercizio del potere politico-istituzionale, come appare evidente, rende il processo elettorale (solo) un metodo di rafforzamento del potere di condizionamento dell'opinione pubblica. Cioè l'esito del processo elettorale deve essere costantemente una sua mera conseguenza.
Al punto che permette di elaborare un ulteriore camuffamento della vera titolarità del potere supremo di decisione politica: il concetto di mercato, impersonale e svincolato dall'individuazione di una qualsiasi categoria sociale di essere umani.
L'oligarchia-elite, detentrice del potere di fissare la Legge al di sopra di ogni istituzione sociale (elettiva o meno che sia), trasforma in una meta-necessità incontestabile (come le trasformazioni climatiche o gli eventi meteorologici o terremoti e cicloni), il "governo dei mercati"
ADDE: Il voto, attesa la incomprensibilità (v. aforisma qui sotto), da parte dell'individuo comune-elettore, della realtà normativa naturale, è solo un processo subordinato di ratifica delle decisioni "impersonali" del mercato.

 11. Questo legame tra "libertà", Legge e "ordine del mercato", nell'ambito del liberismo, (che poi è il liberalismo: come abbiamo visto, inutile distinguerli ai fini fenomenologici), ci viene ben illustrato da Arturo:
"L'autonomia(dell'opinione pubblica dal governo, in quanto espressione della "tirannica" maggioranza, ndr.) che intende difendere Hayek non va intesa come un spazio "processuale" democratico nell'ambito del quale possono essere elaborate le più diverse soluzioni e proposte politiche. 
Tale autonomia risulta meritevole di difesa solo in quanto il nostro ritiene che certi gruppi, che naturalmente si premura di individuare lui, siano depositari di una propensione al mantenimento dell'ordine spontaneo fondato su regole di pura condotta: una sorta di Volksgeist liberista, che dev'essere preservato dall'influenza culturale "costruttivista" (cioè dai processi normativi e di intervento pubblico, oggi, basati sulle Costituzioni democratiche, ndr.).
Ripeto però che questo comporta una nettissima clausola limitativa, in quantol'ordine del mercato non può essere né progettato né discusso razionalmente, perché è esso stesso a produrre la ragione,salvo che questa decida "abusivamente" di allontanarsene. 

12. Ovvero l'autonomia di cui parla Hayek rappresenta semplicemente l'insieme delle strategie sociali e politiche (la famosa "demarchia") con cui intende portare avanti la sua agenda politica. 
Di cui la denazionalizzazione della moneta è un elemento fondamentale, a cui una federazione europea interstatale può, nella sua stessa interpretazione (The Economic Conditions of Interstate Federalism), assolvere egregiamente. 
D'altra parte gli stessi libertari italiani erano, fino a non tanto tempo fa, disponibilissimi nei confronti dell'euro proprio per i suoi effetti di smantellamento dello stato sociale (vedi più estesamente De Soto, con ricche citazioni di Hayek e Mises); ora, con altrettanto pragmatismo (tira una certa arietta...), lo (ri)mandano "...al diavolo".

"Una delle (tante) obiezioni che è stata rivolta ad Hayek è l'implausibilità sul piano storico-sociologico della qualifica di "spontaneo" all'ordine del mercato
Perché mai sarebbero spontanei l'imposizione delle norme del code civil in materia di rapporti di lavoro o il regime di proprietà realizzato dalle enclosures, ma non forme di controllo pubblico del credito? 
Ovvero come si fa a separare storicamente "costruttivismo" e "spontaneità", pubblico e privato, se non sapendo già fin dall'inizio che cosa si intende trovare?
E' interessante notare che questa obiezione è stata formulata sia da difensori della democrazia interventista sia da suoi acerrimi nemici, come Rothbard, che riteneva appunto storicamente implausibile, e quindi politicamente debole, il criterio proposto da Hayek."

14. Sempre da Arturo, cercando di selezionare tra le cose, sempre significative, che ci propone, possiamo infine meglio comprendere, ormai, alcune conclusioni riassuntive dell'intero quadro finora tratteggiato:
"...Hayek..fu molto efficace sul piano politico-ideologico ed è per questo che qui ce ne occupiamo, mentre i veri e propri anarco capitalisti - con tutto il rispetto - almeno in Italia si possono tranquillamente ignorare (se non per le munizioni che possono fornire contro gli stessi Hayek e co.).
In ogni caso, su quelli che erano i suoi obiettivi ultimi, credo sia molto istruttiva la lettura di questo articolo di Corey Robin
"La distinzione che Hayek istituisce tra massa e elite non ha ricevuto una grande attenzione dai suoi critici e dai suoi (stessi) sostenitori, sconcertati o sedotti dal suo continuo invocare la libertà.
Tuttavia un'attenta lettura del ragionamento di Hayek rivela che per lui la libertà non è nè il bene supremo nè un bene in sè. E' un bene contingente e strumentale (una conseguenza della nostra ignoranza e la condizione del nostro progresso), il cui fine ultimo è rendere possibile l'emergere di un legislatore eroico del "valore". Cioè l'ordine del mercato, fondamento della stessa razionalità che, apparentemente impersonale, è invece, molto personalisticamente, quella della convenienza della elite...

GERMANIA "ANNO ZERO": ZERO REFLAZIONE E ZERO REVISIONI DEI TRATTATI. OPEN YOUR EYES!

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http://www.quotehd.com/imagequotes/authors6/leonardo-da-vinci-artist-quote-blinding-ignorance-does-mislead-us-o.jpg

1. Accadono cose strane: il Regno Unito (che non ha una Costituzione scritta e che perciò ha una certa "libertà" nel qualificare gli eventi della propria politica interna) ha svolto un referendum consultivo per uscire dall'UE e, adesso, deve ancora adottare la decisione formale che attiva la procedura di recesso ai sensi dell'art.50 del TUE, affidando tale decisione al prossimo governo, che si formerà in esito a nuove elezioni, conseguenti alle dimissioni del premier Cameron. 
Cosa perfettamente legittima, dato che il referendum consultivo non impegna in modo vincolante la volontà del parlamento, e del governo che si regge sulla maggioranza parlamentare. Una situazione che, in realtà, si verificherebbe pure in Italia in caso di svolgimento di un analogo referendum (comunque altamente sconsigliabile finché si permane nell'eurozona);ammesso che questo fosse legittimamente realizzabile su un trattato già in vigore, e sempre che si risolva l'oziosa questione del tipo di fonte - legislativa ordinaria o costituzionale- che lo dovrebbe prevedere (oziosa se si ammette che il suo esito non sarebbe, appunto, vincolante per gli organi supremi di indirizzo politico).

2. La reazione dell'UE - o meglio dell'UEM- dovrebbe essere quella di  una profonda riflessione che porti gli Stati "trainanti" della c.d. integrazione europea a interrogarsi sulle cause del disagio diffuso in quasi tutti i paesi-membri e preveda delle conseguenti contromisure: diciamo subito che, stante l'impianto normativo dei trattati, le norme essenziali che li caratterizzino e la visione politico-economica (ordoliberista) che esse riflettono, tali contromisure dovrebbero condurre ad una revisione dei trattati. 
E non solo, ma ad una revisione mirata a mutare lo scenario essenziale che determina il disagio diffuso: vale a dire, l'egemonia commerciale e industriale tedesca e i suoi effetti di lungo corso sull'assetto sociale dei paesi che appartengono anzitutto all'eurozona ma, non secondariamente, a tutta l'Unione,e dunque in termini derivati dalla impostazione fiscale e dall'idea di desovranizzazione degli Stati nazionali che, comunque, deriva dall'adesione all'UE.
Ma subito,l'idea di una revisione dei trattati, senza la quale la causa prima del disagio di tutta l'Europa "federata" non sarebbe minimamente intaccato, viene scartata e posta al di fuori di qualsiasi agenda.

3. Ieri si è svolto il vertice Merkel-Hollande-Renzi per discutere la linea da tenere sulle future (e ancora incerte nei tempi)iniziative da assumere per fronteggiare il Brexit: tanto per cominciare, posto che di revisione dei trattati non parla alcun resoconto mediatico dell'incontro, c'è da registrare una frasetta buttata là dall'Huffington post (che dobbiamo ritenere ben attrezzato a parlare di cose €uropee): “Perché noi tre? Perché siamo i paesi più popolati d’Europa e siamo i paesi fondatori. L’anno prossimo celebreremo i 60 anni dei Trattati a Roma…”, concede Hollande che pure è il meno entusiasta del terzo incomodo, Renzi.

Se si dovesse, anche mantenendo una certa riservatezza, pensare ad una revisione dei trattati,  - ma la stessa riservatezza su tale intenzione non ha molto senso, dato che opinioni pubbliche e "mercati" sarebbero invece rassicurati da una sua ragionevole esternazione pubblica - Hollande dovrebbe essere perfettamente cosciente che l'Italia sarebbe, oggi più che mai, il più importante alleato per condurre in porto un'operazione tanto complessa e difficile. 

4. Ma i contenuti stessi del colloquio di ieri, così come riferitici dai media, ci parlano solo di una Germania attendista, che non ha alcun interesse ad allargare il discorso oltre la fissazione di linee generali di un futuro accordo di recesso con il Regno Unito e di un Hollande che non sembra aver avanzato, o sostenuto con energia, proposte convergenti su quelle avanzate dall'Italia.
In realtà, il complesso della discussione comunicata all'esterno, non fa emergere alcuna intenzione di revisione dei trattati: e lo diciamo per coloro che credono che si possa discutere con la Germania per chiedere misure riequilibratici che presuppongono, per necessità logica, tale revisione
Facciamo un esempio che nella situazione contingente, è il più significativo e attuale.
Supponiamo cioè che si muova, in una formale trattativa di salvezza dell'eurozona (e, con essa, della parte più importante del  motore presuntamente "cooperativo" europeo) una richiesta alla Germania di reflazionare: cioè di rivalutare, per via di politiche fiscali (espansive) e del lavoro (adeguate politiche salariali), il proprio tasso di cambio reale, allentando la pressione sulla correzione imposta agli altri paesi in termini di svalutazione interna(e quindi di politiche deflattive operate tramite austerità fiscale nonchè discipline del mercato del lavoro che, attraverso disoccupazione e precarizzazione accentuate, portino alla riduzione dei salari nominali, riallineandoli alla rispettiva produttività reale, cioè inseguendo la Germania sul piano delle sue proprie politiche deflattive anticipate dalla fine degli anni '90). 

5. Per poter ottenere un qualche risultato in questa direzione, occorrerebbe che il sistema sanzionatorio attuale, praticamente a effetti nulli, fosse profondamente rivisto: invece della procedura avviata, nel 2013 (!) dalla Commissione per lo squilibrio eccessivo dei conti esteri tedeschi non s'è saputo più nulla e la Germania continua imperterrita nel suo atteggiamento mercantilista. 
In pratica, il quadro legale europeo, sugli squilibri da avanzo eccessivo delle partite con l'estero, è un mero palliativo sprovvisto di qualsiasi persuasività normativa.

Va poi precisato che senza intaccare questo pseudo-sistema di inefficace correzione del più anticooperativo degli squilibri macroeconomici, con ciò arrivando a una revisione dei trattati e delle fonti da esso derivanti (in particolare del regolamento concernente la Macroeconomic Imbalance Procedure— MIP), l'Italia non ha alcun speranza di vedere accolta la proposta avanzata dal nostro premier di "avere margini di flessibilità per tagliare l’Irpef e per gli investimenti".
Una tale pretesa, infatti, allontanerebbe l'Italia dalla strada della correzione svalutativa interna imposta dal bench mark della produttività reale e del CLUP tedesco, portando l'Italia stessa, e non la Germania, a reflazionare e, quindi, a subire ancora di più la pressione competitiva dei prodotti tedeschi (e non solo) sul nostro mercato interno, rimangiandosi, mediante un ritorno al disavanzo estero, la poca crescita che tali misure, comunque molto limitate nelle dimensioni che sarebbero consentite, potrebbero innescare.

6. E dunque, se in astratto, la richiesta italiana è "tatticamente" posta in modo ragionevole, (“si tratta di rendere esplicito che andar via dall’Unione non è indolore, altrimenti rischiamo l’effetto domino”, dice una fonte italiana vicina al premier. Come si fa? Rendendo l’Ue più funzionale, più giusta, più attraente. Quando arrivano a discutere del documento comune del vertice di oggi, Renzi riesce a ottenere che la nuova agenda fatta di “difesa delle frontiere esterne”, dunque terrorismo e immigrazione, e di “crescita” siano legata ad un “calendario stretto e a impegni precisi”. Proprio per “rispondere alle sfide poste dal referendum britannico”), gli strumenti pratici messi sul tappeto sono di ben scarsa efficacia rispetto alla dimensione del problema strutturale esistente.
Giusto chiedere un "calendario stretto e impegni ben precisi", ma non c'è un quadro di norme che obblighino la Germania a fare alcunché di significativo nella direzione che sarebbe concretamente utile, tranne che concordare, ovviamente, che l'uscita dall'Unione, dopo il "fattaccio Brexit", non debba essere indolore. 
Il resoconto fa pensare, piuttosto, a un dialogo fra sordi, dove Hollande neppure è entusiasta della presenza italiana al vertice della "crema", e la Merkel propina le solite concessioni che, nel linguaggio consolidato del diritto europeo (quello della forte competizione tra Stati sul mercato unico a "economia sociale di mercato" fondato sulla "stabilità dei prezzi"), non significano nulla
Infatti, Per il momento però Renzi si accontenta della promessa inserita nel documento finale:
Per ogni paese della zona euro, saranno necessari ulteriori passi per rafforzare la crescita, la competitività, l’occupazione e la convergenza anche nel campo sociale e fiscale”.
Non c'è niente da fare: in €uropa, a trattati invariati, la crescita si ottiene solo con la maggior "competitività" e questo significa stabilità dei prezzi e livello di (dis)occupazione compatibile con essa: cioè, alta disoccupazione strutturale e, inevitabilmente, effetti destabilizzanti della stessa immigrazione (che, in questo contesto è l'epifenomeno dell'economia sociale di mercato, non la causa prima effettiva della situazione insostenibile dell'eurozona e dell'intera UE).

7. La verità è che ci sono ragioni storico-economiche profonde che impediscono di considerare possibile una modifica dell'assetto socio-economico imposto dai trattati europei; ragioni che affondano le radici un un'incoercibile cultura politica dei tedeschi che non è una semplice riserva "mentale" rispetto all'intera costruzione europea, ma una vera e propria conditio sine qua non, in assenza della quale è più probabile che la Germania esca, essa stessa, dall'UE-UEM, ma dopo aver lottato strenuamente con tutta la sua enorme influenza politico-economica, piuttosto che fare concessioni.
E queste ragioni storico-economiche, bisogna dirlo, corrispondono pure all'approccio dominante con cui l'Italia si è avvicinata alla costruzione europea, cioè in funzione di un'ammirazione incondizionata verso l'impostazione tedesca, attribuibile compattamente a tutti gli ital-costruttori dell'€uropa, da decenni e decenni: questa ammirazione conduce a un atteggiamento automatico di "imitazione a qualunque costo", sicché, all'interno delle classi dirigenti italiane, esistono resistenze al mutamento di paradigma €uropeo probabilmente non minori di quelle tedesche.
E certo questo non depone in senso favorevole alle prospettive di una risolutiva ed oculata revisione dei trattati e, tantomeno, ad un mutamento spontaneo delle politiche economico-commerciali, e fiscali, della Germania.  

8. Per chi volesse misurare come la "strana coppia" Italia-Germania, un tempo creatrice dell'Asse, oggi convinta assertrice del deflazionismo e del libero mercato (del lavoro), sia saldata ab origine nella sede della costruzione europea, basta richiamare l'analisi ammirata, dell'impostazione politico-economica tedesca, compiuta dal principale "padre italiano" del federalismo europeista a cui è dovuta la serie di iper-convinzioni, ipostatizzate e sacralizzate, che tutt'ora caratterizzano la cultura €uropea delle nostre classi dirigenti e mediatiche.

Ce ne aveva riferito di recente Arturo, riportandosi un lungo brano di Einaudi:
"Le prediche inutili", Einaudi, Torino, 1959, pagg. 296 e ss.: il capitolo si intitola "E' un semplice riempitivo!" A che si riferisce il nostro? All'aggettivo "sociale" dell'economia sociale di mercato. Sappiamo già che cosa ne disse Hayek, vediamo che ci racconta Einaudi.
“Quando giunse in Italia la notizia della nuova vittoria dei democristiani nelle recenti elezioni generali per la Germania occidentale e si seppe che la vittoria era stata dovuta al prestigio del cancelliere Adenauer, che negli anni di suo governo aveva dato prova di essere uomo di stato, forse il maggiore tra quelli oggi in carica, ed al successo della politica economica di Ludwig Erhard, ministro dell’economia e si disse che quella politica economica era general­mente reputata liberale o liberista, subito fu replicato da varie parti democristiane e socialistiche, che, si, qualcosa di liberale c’era in quella politica, ma non tanto da cancellare quel che di interventistico o dirigistico o sociale vi è nella dottrina comune ai partiti che si dicono democristiani, laburisti, socialdemocratici o socialisti; e si aggiunse da taluno che quel che vi era di liberale o liberistico nella politica del professor Erhard si spiegava con la ricchezza tedesca, con la copia delle materie prime possedute dalla Germania, con il grado di avanzamento della sua industria, con la piena occu­pazione di cui godono i lavoratori di quel paese.”

“Questioni grosse, che non possono essere toccate di passata, qui, dove invece si vuol rispondere unicamente al quesito: quale è stata la politica economica di Erhard, quella politica, il cui successo grandioso ha contribuito in cosi notabile parte, e taluno dei commentatori forestieri disse massimamente, a confermare la maggioranza degli elettori tedeschi nella loro opinione favorevole al governo di Adenauer?
Qualche incertezza nasce dalla denominazione che lo stesso Erhard ha dato alla sua «politica sociale di mercato», dove l’aggettivo «sociale» par dominante e siffatto da dare un’impronta caratteristica all’insieme. 
Chi non legge al di là dei nomi e dei titoli, osserva: politica «sociale» e quindi non politica «liberale» di mercato; quindi un mercato si, ma soggetto alla socialità, quindi subordinato e guidato dallo stato, unico rappresentante della società intera.
Al «sociale» si appigliano massimamente coloro i quali aborrono, come il diavolo dall’acqua santa, dal «liberale »; e cercano persuadere se stessi e sovrattutto gli ascoltatori e lettori, in cui intravedono un elettore, che il liberalismo di Erhard non è il liberalismo tradizionale, classico, quello dei liberisti; ma è un altro, tutto nuovo di zecca, non mai conosciuto prima, il quale si attaglia benissimo al socialismo, al corporativismo, al partecipazionismo, al solidarismo, al giustizialismo, ed a tutti gli altri -ismi, dei quali in sostanza essi continuano ad essere gli adepti.”

Tant’è; non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire; epperciò seguiteremo per un pezzo a vedere la gente dalle idee confuse divertirsi a far ballare le parole sociale, liberale, socialità, mercato, intervento, regolazione, statizzazione, socializzazione, concorrenza sfrenata e falsata, giusta e vera; ed il ballo, essendo di mere parole, sarebbe adatto per tutti coloro, e sono i più, i quali non vanno al di là delle parole ed immaginano di attrupparsi in parti politiche che paiono combattersi, sol perché si buttano addosso l’un l’altra parole prive di contenuto. Meglio è far parlare direttamente l ’Erhard; il quale, per fortuna nostra, ha scritto di recente un libro, egregiamente voltato in italiano col titolo Benessere per tutti.”
Per evitare confusione, metterò in corsivo le parole di Ehrard. Dunque: 
“Il principio della libertà economica si riassume (p. 8):
In primo luogo nella libertà di ogni cittadino di determinare i proprii consumi e la propria vita nel modo che, entro i limiti delle sue disponibilità finanziarie, corrisponda alle idee e ai desideri personali di ciascuno e [in secondo luogo nella] libertà dell’imprenditore di produrre c di smerciare ciò che, secondo la situazione del mercato, vale a dire secondo le manifestazioni dei bisogni di tutti gli individui, egli ritiene necessario c profìcuo.

9. Continua Einaudi: 
"La politica di mercato diventa «sociale» grazie al mezzo adoperato all’uopo. Mezzo è la concorrenza e basta questa, senz’altri amminicoli, ad ottenere l ’effetto «sociale». Siccome i politici si contentano dell’aggettivo, l ’Erhard volontieri indulge all’innocuo vezzo linguistico (p. 2):
Attraverso la concorrenza si consegue una socializzazione del progresso e del guadagno e per di più si tiene desto lo spirito di iniziativa individuale.”
“Il sistema di una economia sociale di mercato inspirata ai principii liberali ha avuto un successo di gran lunga superiore a qualunque specie di dirigismo (pp. 54-55):
La riuscita di un triplice accordo che dovrebbe essere l’ideale di ogni economista di moderno stampo liberale: aumentando la produzione e la produttività e in proporzione con essa anche i salari nominali [mi auguro non vi sfugga che questa è esattamente quella che Paolo Pini ha chiamato la “regola di piombo” sui salari di Mario Draghi], l’accrescimento del benessere, grazie a prezzi stabili o magari decrescenti, va a beneficio di tutti...
La nostra politica economica avvantaggia il consumatore; egli solo è misura e giudice di ogni processo economico. Questa politica dell’economia sociale di mercato ha dato al mondo intero la dimostrazione che i suoi principii della libera concorrenza nella produzione, della libera scelta dei consumi, come pure della libera espansione della personalità, garantiscono successi economici e sociali migliori di qualunque specie d’economia ufficialmente diretta e vincolata.”


Concorrenza vorrebbe dire lotta ai monopoli ma 
L’Erhard, consapevole della difficoltà di una lotta diretta contro i monopoli, non si dilunga tuttavia sul problema. Evidentemente preferisce i mezzi indiretti di lotta. Prima fra tutte la stabilità della moneta (p. 8):
Chi prende sul serio l’impegno [dell’aumento del benessere] deve essere pronto ad opporsi energicamente a qualunque attacco contro la stabilità della nostra moneta.
L’economia sociale di mercato non è immaginabile senza una coerente politica monetaria.
[Vi contrastano], ad esempio, gli accordi fra datori di lavoro e maestranze, il cui effetto ha già condotto a superare con l’aumento dei salari quello della produzione, contravvenendo cosi al principio della stabilità dei prezzi. Lo stesso rimprovero si può fare agli industriali se per rimediarvi o per proprio tornaconto credono di potere cavarsela con un rialzo dei prezzi. La colpa diverrebbe addirittura disastrosa, se qualcuno osasse provocare un processo deliberatamente inflazionistico, per poter cosi rimborsare con maggiore facilità i crediti ottenuti.”
“I dirigisti sono i peggiori nemici della stabilità monetaria ed il controllo delle divise è sinonimo di disordine (p. 179):

Non si dà forse prova di una addirittura grottesca degenerazione quando si registra la peggiore forma del disordine, cioè ramininistrazione forzosa delle divise, sotto la rubrica « ordine »? Dovremmo liberarci una buona volta anche dall'idea che l’ordine regni pienamente là dove il maggior numero possibile di persone sono occupate a imporre regolamenti ed a moderare il disordine. Se non si vede nessuno che si occupi del mantenimento dell’ordine, ancora troppi credono, sbagliandosi di grosso, che cosi non possa esservi ordine di sorta. Alla stessa stregua in tutte le conversazioni europee non sarebbe da pensare soltanto a ciò che abbiamo da mettere a posto; dovremmo pensare altrettanto a ciò che possiamo o meglio dobbiamo abolire per rendere possibile uno sviluppo naturale e organico dell'Europa...
Chi riuscisse ad abolire l'amministrazione forzosa delle divise avrebbe fatto per l'Europa più di tutti i politici, statisti, parlamentari, imprenditori e funzionari presi insieme.”

Il dirigismo monetario prepara la guerra (p. 192):
Il beneficio della liberalizzazione e il maleficio del controllo delle divise vanno d’accordo come il fuoco e l’acqua. Il controllo delle divise è per me il simbolo del male quale che sia la veste sotto la quale appare; dal controllo delle divise traspirano la maledizione e l’odore della preparazione bellica e della guerra, dal cui disordine distruttore esso è nato.
Le sanzioni automatiche valgono più di quelle concordate fra stati. Ai tempi del regime aureo la cattiva condotta economica e finanziaria di un paese dava luogo senz’altro, senza uopo di accordi internazionali, alle necessarie sanzioni (p. 169):

Se ai tempi della valuta aurea un paese sovrano avesse creduto di poter rinunciare a una politica economica e finanziaria bene regolata e a una giudiziosa politica creditizia, o, in altre parole, se un paese avesse professato qualche ideologia contrastante con questo postulato dell’ordine interno e dell’equilibrio, le conseguenze del suo contegno si sarebbero ben presto fatte sentire. E le conseguenze le avrebbe dovute sopportare esso stesso. Allorché, in regime monetario a base aurea, si era esaurita la possibilità di afflusso di capitali o quella di deflusso dell’oro non v’era potenza al mondo capace di salvare dalla caduta il corso del cambio del paese. Al tempo della valuta aurea non venivano impartiti ordini né da istituzioni né da persone. Esisteva il comando anonimo, impartito dal principio regolatore, dal sistema. Esso però non era gravato da idee di sovranità nazionale, né dalle fisime di una possibile autonomia politico economica, né da preconcetti o suscettibilità di qualunque genere.”.
10. E, nel prosieguo dell'esposizione, si comprende anche come, se poi invece del comando anonimo servono i memoranda del MES, come la Corte di Giustizia ci insegna, va bene lo stesso.
“La stabilità della moneta non vive da sé. Viga il sistema aureo o quello della moneta regolata, affinché ad esempio il principio del mercato comune europeo duri, occorre (p. 172), come in passato per il regime aureo, non ricchezza o forza, ma solo la modesta nozionc che né uno stato né un popolo possono vivereal disopra delle «proprie condizioni ».
Se si vuole che la moneta sia stabile, importa innanzitutto mettere in ordine la propria casa. Perciò l’Erhard è scettico rispetto al toccasana dell’europeismo se questo non è preceduto ed accompagnato dall’ordine interno (p. 169):
In America vige una massima che suona: stability and converlibility begin at home (stabilità e convertibilità cominciano in casa). È proprio ciò che manca in Europa...
Un paese membro può giungere ad essere maturo per l’integrazione soltanto quando è risoluto non solo a ristabilire il suo ordine interno, ma anche a conservarlo irremissibilmente...
Si pensi, ad esempio, solo alla dottrina di Keynes, allo spendere per creare disavanzo, alla « politica del danaro a buon mercato » con tutti gli annessi e connessi.”

Quindi Erhard è favorevole sì all’integrazione europea, ovviamente purché liberista
Non sarebbe certo ragionevole concedere ai singoli paesi membri mano libera per regressi sulla via dell’integrazione, di modo che, presentandosi, ad esempio, difficoltà nella bilancia dei pagamenti, potessero venire impiegate clausole protettive, in virtù d’una propria sovranità, rimessa in vita per l’occasione. 
Né è buona soluzione che il paese in questione... possa venire successivamente costretto ad abrogare queste clausole protettive, qualora una decisione in tal senso venga presa da una maggioranza qualificata. Non c’è bisogno di molta fantasia per capire che una decisione del genere, costituendo un atto poco amichevole, non potrebbe, in pratica, essere quasi mai adottata.

O il mercato comune sarà liberista o correrà rischio di cadere nel collettivismo (p. 208):
Nel mercato comune... o si fa strada lo spirito del liberismo ed avremo allora un’Europa felice, progressiva e forte, o tentiamo di accoppiare artificiosamente sistemi diversi ed avremo perduta la grande occasione di una integrazione autentica. Una Europa dirigisticamente manipolata dovrebbe, per sistema, lasciar paralizzare le forze di resistenza contro lo spirito del collettivismo e del dominio delle masse, e illanguidire il senso di quel prezioso bene che è la libertà.
La politica di armonizzare, uguagliare, compensare è (p. 208):
quanto mai pericolosa... Lo sviluppo tendenzialmente inflazionistico in alcuni paesi (con rigidi corsi dei cambi!) è da riferire, non da ultimo, anche alla concessione di prestazioni sociali superiori alle possibilità di rendimento dell’economia nazionale. Poiché nel campo politico un adeguamento nelle prestazioni sociali non può avvenire mai verso il basso [che pessimismo ingiustificato!], ma solamente verso l’alto, ne deriva la conseguenza che anche quelle economie nazionali le quali avevano potuto finora conservare un ordine equilibrato, o vengono spinte per forza, a loro volta, su quella via rovinosa,o devono scontarela colpa altruisotto la forma dell’applicazione di clausole protezionistiche da parte dei loro contraenti.”

Conclusioni di Einaudi
“Gli estratti da me insieme cuciti nelle pagine precedenti chiariscono il significato sostanziale dell’aggettivo «sociale» ficcato in mezzo alle parole « politica di mercato », che sono il vero sugo della dottrina di Erhard. 
Non pochi anni or sono Ferdinando Martini, assillato da una anziana signora britannica, la quale non rintracciava nei vocabolari della lingua italiana una parola molto usata nel parlare comune veneto e di cui gli imbarazzati amici italiani avevano una certa ritenutezza a dichiararle il senso, la tranquillò con: «la non si confonda, signorina, gli è un semplice riempitivo». 
In senso diverso ed opposto, anche il qualificativo « sociale » è un semplice riempitivo. A differenza di quello del Martini, che è di gran peso per la persistenza dell’aggregato umano, il riempitivo « sociale » ha l’ufficio meramente formale di far star zitti politici e pubblicisti iscritti al reparto «agitati sociali».”

11. Se si è avuta la pazienza di seguire queste analisi e queste "prediche", e l'intreccio condiviso del pensiero di Einaudi e Erhard, si spiega molto bene cosa possa significare la apparente "concessione" (sulla crescita!) che la Merkel avrebbe elargito nel documento finale del vertice di ieri.
Ma, senza aggiungere altro discorsi fatti in fin troppe occasioni, si comprende anche come una trattativa per far reflazionare la Germania, o anche concedere a un paese "debitore" dell'eurozona una maggior flessibilità fiscale, scivolando, agli occhi dei tedeschi e dei nostrani liberal-europeisti, nel "vivere al di sopra dei propri mezzi", sia completamente al di fuori di ogni possibile orizzonte culturale, direi del bagaglio concettuale, disponibile alla classe dirigente che governa l'€uropa. 

E che non vorrà, a qualsiasi costo, rinunciare alle sue prerogative: meno che mai attraverso un “calendario stretto e a impegni precisi”, nel senso di rivedere dei trattati che, allo stato, consentono legittimamente all'impostazione tedesca di intendere ogni rilancio della stessa €uropa solo e sempre come un inasprimento delle condizioni di consolidamento fiscale mediante "regole automatiche"e nella ricerca della stabilità dei prezzi e della moneta, facendo esclusivamente  pagare ai propri partners più "deboli" ogni aggiustamento. 
Salvo, da parte della Germania, non considerare a sè applicabile alcuna regola - tra l'altro non propriamente "automatica" (quanto invece all'acqua di rose")-, in tema di squilibri macroeconomici determinati dagli esiziali avanzi eccessivi della bilancia dei pagamenti.

Non aver chiaro questo retroterra ideologico, fideistico e economico-negoziale, e illudersi di una ragionevolezza e di una "disponibilità" tedesche, non può che portare ad una perdita di tempo prezioso e a un disastro per l'intera €uropa.  

LA NON MOSSA DI HOLLANDE NELLA LUNGA ESTAT€ CALDA E LA SOLITUDINE ITALIANA

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1. Persino Huffington Post deve registrare la situazione "lunare" di impasse. Come avevamo detto, non ci sono neppure le potenzialità e il bagaglio concettuale per cambiare i trattati
Si finge che siano applicabili e sostenibili e si prosegue quasi allegramente incontro al disastro:
"E dunque la campagna elettorale [nei rispettivi paesi e soprattutto in Germania] e gli interessi nazionali bloccano l’Unione persino nell’era Brexit. “L’Europa ha preso una sberla e quando prendi una sberla sei sotto shock”, giustifica Renzi. Ma il premier sa che non potrà ottenere cambiamenti storici e retromarce. E si predispone per acchiappare tutto quello che “serve all’Italia nell’ambito delle attuali regole”.
Questa mattina, per dire, in consiglio europeo ha difeso Spagna e Portogallo, sotto attacco perché rischiano la procedura di infrazione per deficit eccessivo. “Ma Rajoy ha detto che lo ha ridotto dal 9 al 5, Costa ha spiegato che per la prima il deficit portoghese è sceso sotto il 3”, racconta Renzi. “Io ho dato ragione a Madrid e Lisbona, anche se la discussione non ha riguardato l’Italia che ha un deficit all’1,8, il più basso degli ultimi dieci anni”. Il punto è che “se Spagna e Portogallo vengono sanzionate per dei decimali allora l’Europa crea un ‘mostrum giuridico’: vuol dire che non hanno colto il senso di ciò che serve oggi”.
Insomma i Trattati non cambieranno, ma si potrà continuare a negarli. Nell’inedita era Brexit, ognuno in Europa continua a tirare acqua al suo mulino. L’Italia torna a casa con 1,4 miliardi di euro in più nel fondo di sviluppo e coesione, frutto di un ricalcolo tecnico, e 500 milioni per il ‘migration compact’.“So che servirebbe ben altro ma il benaltrismo non mi interessa: intanto c’è questo”, dice il nuovo Renzi “keynesiano”, pronto per la politica del “un pezzo per volta” che vige in Europa.
Sempre che regga. Ufficialmente tutti i leader negano l’effetto domino, dopo il referendum britannico. Ma nella riservatezza dei meeting se ne parla eccome. La paura è questa. Tanto più che questo periodo di incertezza potrebbe durare più a lungo di due mesi. I 27 leader si danno appuntamento per il 16 settembre: vertice informale a Bratislava. Ma nessuno sa se per quella data Londra avrà attivato l’articolo 50 che la accompagna fuori dall’Unione. Dopodichè, recitano le conclusioni finali del vertice, si potranno avviare i negoziati per stabilire nuovi rapporti tra Ue e Gran Bretagna come “paese terzo”.
2. A parte la circostanza che il deficit italiano non risulta essere all'1,8, né nel 2015, in cui è stato pari al 2,6 e con un avanzo primario "solo" all'1,5, né, in base al DEF, per il 2016 (pari al 2,3), difendere lo sforamento della Spagna, oltre a prevenire (piuttosto debolmente, data la prassi instauratasi ormai contro l'interesse nazionale italiano) pesanti obiezioni ad un probabile sforamento italiano nello stesso 2016, (per non parlare del 2017 quando è previsto un roboante 1,7), non pare una tattica vincente: considerando il diritto dei trattati de facto, disparitario, da "estorsione", riservato da anni, ossia da sempre, all'Italia.
Non mi pare però che si possa parlare di "interessi nazionali" agitati per bloccare chissà quali misure salvifiche dell'€uropa altrimenti realizzabili, da parte di Italia, Spagna, Portogallo e via dicendo.

3. Quello che appare invece evidente è che il "blocco", cioè la precisa non-volontà di reagire alla Brexit e di ripensare l'assetto ordoliberista dei trattati, con tutte le sue conseguenze distruttive delle economie di tutti-tranne-uno, la Germania, corrisponda solo all'interesse nazionale di quest'ultima. Gli altri non possono che cercare disperate difese e sopravvivere, senza però disporre, per antica scelta politica delle varie elites nazionali, delle "risorse culturali" per uscire dalla crisi.
Il fatto è che, come abbiamo visto, per la Germania, quello dell'€uropa è un mondo felice e pieno di libertà. Punto.
O il mercato comune sarà liberista o correrà rischio di cadere nel collettivismo (p. 208):
Nel mercato comune... o si fa strada lo spirito del liberismo ed avremo allora un’Europa felice, progressiva e forte, o tentiamo di accoppiare artificiosamente sistemi diversi ed avremo perduta la grande occasione di una integrazione autentica. Una Europa dirigisticamente manipolata dovrebbe, per sistema, lasciar paralizzare le forze di resistenza contro lo spirito del collettivismo e del dominio delle masse, e illanguidire il senso di quel prezioso bene che è la libertà.
La politica di armonizzare, uguagliare, compensare è (p. 208): quanto mai pericolosa... Lo sviluppo tendenzialmente inflazionistico in alcuni paesi (con rigidi corsi dei cambi!) è da riferire, non da ultimo, anche alla concessione di prestazioni sociali superiori alle possibilità di rendimento dell’economia nazionale.
4. Il tracciato è segnato e il moto uniformemente accelerato della Germania non tollera deviazioni, crisi bancaria italiana o meno; tutto è irrilevante di fronte a questa "utopia ordoliberista" che realizza la società tecnocratica, FORMIERTE GESELLSCHAFT, intangibile (per gli altri), e la competitività assoluta per la Germania.
E dunque perché, in questo trionfo nazionale vittorioso, dovrebbero voler cambiare qualcosa?




5. Il massimo dello sforzo pensabile (se di pensiero razionale si può parlare), non riguarderà l'economia del continente, in cui viene considerata totalmente "salutare"la lezione impartita ai paesi deboli e debitori, Italia in testa, di imparare a vivere "entro le proprie possibilità": l'unico e solo piano di rilancio riguarda la sicurezza e l'integrazione militare e il pienamente connesso "migration compact". Così era previsto prima del Brexit, quando lo si paventava soltanto; così è rimasta l'agenda effettivamente praticabile dopo il Brexit. 
E questo scenario si realizza col sigillo decisivo di Hollande che, a ben vedere, è l'uomo che oggettivamente avrebbe in mano la carta vincente per modificare l'assetto dell'unione e della stessa moneta unica.

6. Ma dalla Francia non c'è comunque da attendersi alcun colpo di scena: meno che mai "solidarietà" (negozialmente decisiva) sulla situazione bancaria (italiana). 
Mentre i tedeschi fanno i "duri", attendendo la inevitabile tosatura dei risparmiatori italiani (in un modo o nell'altro: camuffandola magari di illusione finanziaria), torna alla ribalta una Deutschebank che scricchiola, potendo ciò costituire il backfire sulla intransigenza tedesca: forse che la Francia pensa che "ne rimarrà soltanto uno"? 


7. Un calcolo miope, certo: ma nell'€uropa accecata dall'ordoliberismo delle regole automatiche e non negoziabili, anche la metafora di un gioco al massacro che non ha più nulla di cooperativo.  
Molto egoistico, piuttosto, anzi, improntato alla preservazione del proprio fortilizio, avendo posto in sicurezza frontiere e liquidità del sistema bancario, e in attesa, quasi beffarda, del crollo di qualcun altro.
Facendo finta, ad esempio, che esistano regole interne all'Unione bancariache consentirebbero di evitare di far ricadere sui risparmiatori-contribuenti, in applicazione irrinunciabile del fiscal compact, il costo della ricapitalizzazione "pubblica" del sistema bancario italiano. Ovvero, dell'acquisto, totalmente o parzialmente "pubblico", dei debiti in sofferenza (che continuano a generarsi per via delle politiche di applicazione del fiscal compact!).
8. L'Italia è sola, più che mai, e si affida al wishful thinking tardivo.


Questa è l'€uropa dell'ipocrisia, dell'ostilità strisciante di tutti contro tutti e, sotto-sotto (neppure troppo),  distruttiva dell'altro
Paludata di inutili vertici e inutili dichiarazioni, in un minuetto che assomiglia alla vigilia della prima guerra mondiale.
Da qui al vertice del 16 settembre sarà una lunga estate calda...

GARANZIE BANCARIE, BREXIT E RINASCITA SONDAGGISTICA DEL SENTIMENTO €UROPEISTA

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http://2.bp.blogspot.com/-pyPFcQE25zc/UI_z_b7CTfI/AAAAAAAAGmY/WEqVnslJ-B8/s1600/polls.jpg

1. Come premessa di questo post, va rammentato che il famoso rapporto tra opinione pubblica e opinione di massa - la prima predeterminata dal potere della "razionalità indiscutibile" delle forze del mercato e la seconda che "deve" seguire idraulicamente-, vale in chiave elettorale ma, a maggior ragione, per i sondaggi, come momento preparatorio e consolidativo del consenso "desiderato" dalle elites. 
Sul punto vi invito a rileggere, nella sua versione integrale, la splendida citazione di Gramsci, sul controllo del processo elettorale, offertaci da Arturo.
Il sondaggismo, espressione della meccanica idraulica dell'ingegneria sociale, è più che mai al potere.
Il sondaggismo è divenuto, come abbiamo visto, sia neo-potere costituente, prevalente sull'esercizio partecipato della ex sovranità popolare, sia costituzione materiale in forma patafisica, (cioè il regno dell'immaginario libero di ciascuno, circa il senso della Costituzione normativa), prevalente su quella formale.

Torniamo perciò a commentare unsondaggio di Ilvo Diamanti: il tema riguarda gli equilibri elettorali sondaggistici proiettati sul funzionamento dell'Italicum.
Ma non è questo l'aspetto interessante del sondaggio e dei ragionamenti politici che ne discendono: una volta che si sia consapevoli che, dentro il vincolo esterno dell'euro e dell'UE, la classe politica è sostanzialmente esautorata di poteri effettivi di indirizzo politico-economico, fiscale e, naturalmente, monetario, i giochi elettorali si riducono a diverse sfumature di guerre di conquista di postazioni nel consiglio di amministrazione della "controllata Italia"; l'esito elettorale non può strutturalmente e funzionalmente alimentare così alcuna aspettativa che non sia il "come" e il "quanto" (facendo presto!) realizzare il programma economico ordoliberista dei trattati e della moneta unica. Giustificando quel crescente astensionismo che caratterizza gli assetti istituzionali neo-liberisti.

3. Dunque, capire se e come prenderà il potere questa o quella forza del partito unico ordoliberista italiano-PUOI - apparentemente rissosa col "competitor", ma solo per il gioco dell'occupazione di poltrone a politiche invariate- è molto poco appassionante.
Quello che, invece, è interessante, del citato sondaggio e della corredata previsione politica, è il suo radiografare la "nuova evoluzione" in (preteso) senso €uropeista, di ogni scenario politico futuro. In pratica il PUOI (o PUDE, se si è affezionati all'originaria e analoga definizione di Alberto) domina i sondaggi di questo tipo, seminando "sicurezze" in un elettorato accuratamente terrorizzato e indotto in stato confusionale. 
Sentite un po' come, in neo-lingua, patafisica e trascendente ogni preoccupazione sulla legalità costituzionale, viene posta la questione della deriva filo-€uropea delle principali forze politiche in contesa (deriva simil-tsipriota, fino a poco fa, ma in odore di un'evoluzione ancor più "€-convinta):
...D' altra parte, vi sono altri fattori, che attraggono l' opinione pubblica intorno al governo.
Di natura prevalentemente esterna. La domanda di sicurezza, in primo luogo. Alimentata dall' immigrazione, che continua a generare preoccupazione. 
Poi, la questione europea, drammatizzata dalla Brexit. 
Gran parte degli italiani ne teme gli effetti. E per questo si assiste a una crescita di consensi verso la UE. E a un aumento del sostegno all' euro.
Si tratta del riflesso di tendenze note. Fra gli italiani, infatti, anche in passato il timore dei possibili effetti dell'uscita dalla UE e dall' euro prevaleva largamente sull'insoddisfazione nei confronti di entrambe le istituzioni. Oggi che questa prospettiva non è più così ipotetica e che la costruzione europea scricchiola in modo preoccupante, il sentimento europeista si rafforza. Per reazione. 
Se venisse proposto anche in Italia un referendum Ita-exit, sull' uscita del nostro Paese dall' Unione europea, secondo il sondaggio di Demos, i due terzi degli elettori italiani voterebbero contro. Cioè, per rimanere nella Ue.
4. Eccoci al dunque: il consiglio di amministrazione della sub-holding Italia, - questo è il messaggio-avvertimento- si conquista filo-europeizzandosi, in un revival in controtendenza, unico e sorprendente, tutto italiano: naturalmente sull'onda del Brexit e della vulgata mediatica terroristica, quanto sconclusionata (il recesso britannico, avverrà, se avverrà, tra oltre due anni, se sarà rispettato l'art.50 del trattato), che ha investito il "Bel Paese".
E, stranamente, proprio mentre la crisi bancaria, determinata dall'Unione bancaria €uropea e dalla politiche di austerità, minaccia molto più concretamente e distruttivamente, contribuenti e risparmiatori italiani.
Infatti, la famosa garanzia statale sul sistema bancario, che il Wall Street journal avrebbe improvvidamente divulgato, serve alle banche, - che non siano però sotto gli indici di capitalizzazione europei-, per emettere obbligazioni senior (pare), che, essendo garantite dallo Stato, possono essere portate come collaterale per ottenere liquidità di emergenza dalla BCE
Indebitando ulteriormente il sistema in euro, naturalmente: ma, più che altro, data la situazione di difficoltà perdurante dell'economia reale non risolvibile da nessun "soccorso finanziario", e posta alla base dei non performing loans, conducendo all'aumento della spesa pubblica e del debito pubblico.
E da questa alta probabilità di aggravamento dello scostamento dai parametri imposti dal fiscal compact, sorge la ben concreta prospettiva di altre manovre "lacrime e sangue" per riprendere l'inevitabile cammino verso il pareggio di bilancio e mantenere in vita l'euro.
Capite allora perché occorra un po' di diffusione di terrore e paura su qualsiasi forma di uscita dall'€uropa per spingere la gente a cooperare con le forze politiche che, divise sulle poltrone, perseguono, unite, l'obiettivo del fogno €uropeo.   

5. E, a quanto pare, questa del revival pro-UE, sarebbe una questione tipicamente italiana: tuttavia, contando solo su ferreo controllo mediatico-sondaggistico "interno", rischia di non avere molta tenuta, nonostante lo shock and awe del neo-TINA post-Brexit, di fronte a quello che accade in molti altri Stati dell'Unione e che, comunque, sta divenendo comune buon senso in strati sempre più ampi dell'opinione pubblica. 




Sempre rammentando che di "garanzie" statali il sistema bancario tedesco pare tradizionalmente assetato


Qualcuno, dunque, pensa di cavalcare ancora l'onda dell'€uropeismo facendo leva sulla diffusione del terrore per il futuro e, intanto, persegue, come opzione offerta senza alternativa, l'irrigidimento dell'incubo ordoliberista senza fine.

5.1. Perciò, con qualsiasi governo nazionale, presente o futuro, ci rivediamo al momento del raggiungimento dei pareggi strutturali di bilancio e dei saldi primari obbigati dall'UEM, avendo aumentato l'onere pubblico a seguito della garanzia statale sulle banche: e allora vedremo cosa ne sarà del rinascente "sentimento europeista".
Almeno fosse ascoltato Prodi, che della questione se ne intende:
Ci siamo illusi che la gente si rassegnasse a un welfare smontato a piccole dosi, un ticket in più, un asilo in meno, una coda più lunga... Ma alla fine la mancanza di tutela nel bisogno scatena un fortissimo senso di ingiustizia e paura che porta verso forze capaci di predicare un generico cambiamento radicale" 

GLOBALIZZAZIONE-DELOCALIZZAZIONE, TERRORISMO ISLAMICO.

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http://cursa.ihmc.us/rid=1H117KFM6-MX1DP9-JBT/il%20mondo%20oggi%20(%20Annese%20Marta%203%5Ec).cmap?rid=1H117KFM6-MX1DP9-JBT&partName=htmljpeg

http://itakablog.com/wordpress/wp-content/uploads/2015/11/Terrorismo-e-occidente.jpg

1. Dai commenti sulla ennesima tragedia del terrorismo islamico - che questa volta colpisce 9 italiani, in tutta la sua ripugnante crudeltà, messa in scena come uno show psicopatico- mancano, e probabilmente mancheranno anche poi, due parole: GLOBALIZZAZIONE E DELOCALIZZAZIONE.
Su questi "perni" funzional'equalizzatore globale dell'ingiustizia causata dal capitalismo sfrenato, imperante e TINA: persino The Economist, pur rivendicando gli enormi vantaggi della globalizzazione (...?), è costretto ad ammettere: "quando le persone sentono di non avere il controllo sulle proprie vite e di non condividere i frutti della globalizzazione, si ribellano". 
Pensate come debbano percepire questa esclusione in Bangladesh...
E invero, l'equalizzatore abbrutente della "competitività", opera dentro "casa" nostra, producendo anche le masse immigrate, multiculturalmente travolte dal paradigma razional-liberista dell'emarginazione (prima sociale e poi etnico-religiosa); e naturalmente opera fuori casa, (nostra, ma...a casa loro), con miliardi di esseri umani ben inquadrati nell'ossessione della "produttività" competitiva del costo del lavoro.

2. E questo ci dovrebbe far capire come possano vedere le cose le masse popolari nei luoghi  dove la World Bank interviene e"registra", senza battere ciglio, la "crescita inclusiva"; ma senza menzionare le condizioni di lavoro.E, dunque, pare disinteressarsi delle "conseguenze sociali" effettive della globalizzazione, e considerare un'ipotesi impossibile la prevedibile rabbia di un popolo che ha una lunga storia di sfruttamento e dominazione coloniale spietata

The World Bank Working for a World Free of Poverty 
COUNTRY AT A GLANCE
Population161.0 million 2015
GDP$172.9 billion 2014
GDP growth6.1% 2014
Inflation6.2% 2015
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3. GLOBALIZZAZIONE E DELOCALIZZAZIONE, dunque: saranno contenti, i bengalesi, di questi investitori esteri (che persino rispetto alla nostra realtà vengono invocati come l'unica soluzione), sempre arrembanti e visti come "benvenuti", sul presupposto implicito che non ci sia alcun impatto sociale del mercato del lavoro "competitivo"
Saranno soddisfatti i bengalesi, che un tempo erano l'avanguardia del movimento di indipendenza dell'India dal colonialismo, e insorsero poi per la liberazione dalla dominazione politica pakistana?
E perciò, saranno propensi i bengalesi, - che comunque sempre musulmani in prevalenza rimangono-, a rigettare come un corpo estraneo i terroristi integralisti che promettono una vendetta, brutale, umanamente deforme, ma non per questo meno simmetrica a ciò che può essere prevedibilmente percepito come uno spietato sfruttamento straniero?

E per quale motivo lo fanno, se non legato a quelle due magiche parolette che spiegano la presenza degli italiani in "quel" ristorante, senza bisogno di ricorrere a investigazioni che durano decenni e portano quasi sempre al "nulla"?
In questo contesto, cioè in una tensione che durava da alcuni anniun governo che si regge sulla conformazione alle condizionalità World Bank, non si può permettere di premere più di tanto sulla repressione del terrorismo islamico
La pentola a pressione, marca TINA, della globalizzazione e degli investitori esteri, alla ricerca della competitività sul costo del lavoro, non può essere surriscaldata oltre un certo limite. Specialmente svolgendo una (troppo) costosa opera di repressione accurata ed efficace che dovrebbecolpire organizzazioni difficili da "inchiodare", dati i loro ben noti centri strategici e di lauto finanziamento, che certo non trovano origine nel Paese che subisce le ondate di jihadisti, sempre ben reclutabili, manovrabili e sacrificabili in loco.
In fondo, da un lato, qualche sfogo violento, meglio se indirizzato al subconflitto sezionale religioso, arma di distrazione di massa globalizzata,è più gestibile di un'esplosione generalizzata del malcontento sociale.Dall'altro, ogni atto terroristico rafforza il consenso (e la legittimazione geopolitica) del governo nel territorio su cui si verifica... 

5. Sì il mondo va riportato alla ragione; alla dimensione umana della fratellanza (non musulmana; semplicemente umana). Ma come possono fare ciò "i mercati", i dominatori della competitività e della globalizzazione e delocalizzazione?
Certamente non con l'assurdo politically correct, propinato a occhi chiusi sulle cause sociali globaliste della follia islamista. E neppure con una radicalizzazione avversativa svincolata dalla comprensione di queste cause:


ADDENDUM: riteniamo utile, per una migliore focalizzazione dei problemi trattati nel post, incorporare nel testo questo commento (con alcune integrazioni):
"I talebani in Afghanistan e i vigili del fuoco in Arabia saudita (che rifiutano di salvare le studentesse del college femminile), chiunque se ne renderebbe conto, non sono terroristi, ma, anzi, espressione di forze di governo. E anche di una tradizione tribale che, essendo rimasta sempre in pieno controllo politico-territoriale, non ha bisogno di divenire terrorismo: semmai lo esporta...
E lo esporta perché ha mezzi finanziari immensi e la convenienza a farlo: con l'evidente lassez faire del blocco occidentale che considera queste fonti di finanziamento e promozione wahabita "intoccabili". Come si può ben vedere da questo articolo, nella parte finale(che non coglie l'aspetto sociale decisivo, contraddicendo il suo stesso titolo: e cioè che il riccofinanziatoreè "controllato ancora oggi al 60 per cento da imprenditori e istituzioni saudite, è diventato il fulcro di un sistema economico, politico e religioso che dà lavoro a 600mila militanti dello Jamiat Islami, il partito dell'opposizione islamista, controlla altri 14 istituti bancari utilizzati per sponsorizzare progetti agricolie conquistarsi consensi nelle campagne"
Domanda: se nel Bangladesh lo Stato sociale avesse potuto proseguire la sua azione, apprestando uno sviluppo compatibile con un diffuso welfare, invece che seguire le indicazioni della World Bank, l'integralismo islamico, avrebbe avuto questo spazio di penetrazione in campagne che non possono che essere il regno di una vecchia e nuova miseria accresciuta?).

Più ancora, c'è un punto che pare sfuggire totalmente: non è che i terroristi sono proletari oppressi che fanno una confusa lotta di classe. Tutt'altro.
Il terrorismo nasce da due ingredienti: da un lato,l'Islam e le sue strutture sociali feudali, maschiliste e comunitarie, dall'altro, il forte impatto di questo mondo arcaico e rurale con la superiorità tecnologica e sessual-edonistica dell'occidente, ridivenuto neo-liberista e, perciò, liberoscambista e neo-colonialista. Cioè fortemente anti-Stato sociale: come ben sapeva Nasser, v qui, pp. 3 e 4.

I terroristi, a livello "esecutivo", sono piuttosto persone dal profilo psicologico destabilizzato e condizionabile, facilmente reperibili laddove il modello sociale neo-liberista occidentalizzato si imponga brutalmente a suon di condizionalità, creando frustrazioni e vari complessi di "rifiuto": si rifiuta per non essere rifiutati.E ciò sia se tale modello sia esportato (caso del Bangladesh, come dei paesi della primavera araba), sia se sia "da importazione", cioè imposto ai migranti di massa ghettizzati in terra straniera.
A livello ideativo e finanziario, il vertice del terrorismo è invece ben consapevole di questi meccanismi identitari e di frustrazione e li sfrutta abilmente, sapendo che è proprio il sistema occidentale inteso in senso cosmetico (cioè ridotto cialtronamente a questioni sessuali e di costume familiare) ad alimentare la base di reclutamento degli psicotici manipolabili.

Più ancora, il post voleva evidenziare perché:
a) dopo anni di applicazione delle "cure" FMI e WB del Washington Consensus, in un paese a maggioranza musulmana, il comune sentire sociale non produca una forte resistenza all'azione dei terroristi islamici, visti comunque come capaci di una qualche forma di riscatto, quand'anche non condiviso sotto il profilo del'estremismo identitario;




b)
in una situazione di tensione sociale prodotta dalla "modernizzazione" globale (liberista), i governi non hanno interesse, in termini di consenso, e neppure sufficienti risorse finanziarie, per condurre con convinzione un'azione repressiva di tale terrorismo: sanno che, sul piano militare, le forze estere che lo finanziano, fanno reclutamento e addestramento, e lo armano, sono potenti e ben protette (dallo stesso occidente), mentre, d'altra parte, gli stessi governi non sono in grado di mutare l'assetto sociale che produce il substrato ideale per il reclutamento. 

LA SOVRANITA' DEMOCRATICA COSTITUZIONALE NEL NAUFRAGIO DELL'OCEANO ORDOLIBERISTA ("il voto è una farsa")

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo post di Francesco Maimone che consiste in una raffinata "nota a sentenza" su una pronuncia del Tribunale di Genova in tema di (non) risarcibilità del diritto costituzionale di voto.
Non vi fate spaventare dalla lunghezza: l'articolo compie un excursus su molti dei temi più scottanti che riguardano il concetto stesso di democrazia partecipativa (e non tout-court parlamentare, né meramente "rappresentativa", né tantomeno "liberale"), contenuto nella nostra Costituzione.
Il concetto di sovranità popolare ha, nell'ordito costituzionale, un contenuto e questo contenuto non è comprimibile in ragione dell'ossequio a una "costituzione materiale", - dietro cui s'indovina la grund-norm neo-liberista della "scarsità di risorse"-, che svuoti tale contenuto e così la stessa sovranità
La "cittadinanza", proprio in quanto inscindibile dalla sovranità popolare, è avulsa dalla qualità di "persona" del cittadino? 
Più ancora, è possibile una democrazia effettiva, cioè di tutto il popolo (tutto composto, finalmente, di "persone" a pieno titolo), eliminando dalla sfera della persona i diritti politici, che rendono effettiva la sovranità popolare e, quindi, la stessa democrazia?
Sono dunque i cittadini meno che "persone", e mere proiezioni settoriali e giuridicamente irrilevanti dell'essere umano, allorché si "avventurano" nell'esercizio dei diritti fondamentali della democrazia?
Vale dunque la pena di leggerlo e meditarne i contenuti. 
Per molti lettori, la consuetudine col linguaggio e il ragionamento giuridico appresa seguendo il blog, risulteranno d'aiuto. Per quelli che trovassero troppo "tecnico" l'excursus, è comunque un'occasione di fare un salto di qualità della consapevolezza.
In momenti "eccezionali" come quelli che viviamo, non è più possibile lasciare ad altri il ragionamento espertologico: non ce lo possiamo più permettere. Dobbiamo, oggi più che mai, vivere piuttosto all'altezza delle nostre possibilità. Di cittadini italiani che rivendicano la legalità costituzionale senza accettare più inganni e manipolazioni mediatiche. 
(Nelle note, che invito a verificare, primeggia Lelio Basso: un pensatore con cui siamo tutti in debito. Rendere omaggio al suo pensiero è una "necessità", se crediamo ancora nella Costituzione)
A volte gli uomini sono padroni del loro destino;
la colpa, caro Bruto, non è delle stelle, ma nostra, che ne siamo dei subalterni
(W. Shakespeare, Giulio Cesare – Cassio: atto I, scena II)


LA SOVRANITA’ DEMOCRATICA COSTITUZIONALE NEL NAUFRAGIO DELL’OCEANO ORDOLIBERISTA (la dissoluzione finale)
1. Negli anni ’50 Lelio Basso, interrogandosi su quali fossero i problemi ed i limiti dello sviluppo democratico nel nostro Paese, ci avvertiva che “Una democrazia può sussistere solo in un paese in cui l’intiera collettività sia sostanzialmente d’accordo sui princìpi che reggono l’ordine politico-sociale esistente, giacché, se vi fosse un contrasto profondo, un radicale disaccordo, se mancasse unità di linguaggio e di spirito, non sarebbe pensabile un alternarsi di opposti partiti al governo della cosa pubblica. In altre parole, perché sussista un regime democratico, è necessario ché vi sia generale accordo sui principi fondamentali, e che il disaccordo cada soltanto su particolari aspetti e indirizzi di politica. Nessuna democrazia potrebbe rimaner sana se i princìpi dell’azione divengono così diversi fra le diverse classi della società, perché è l’essenza stessa della democrazia che i principì della azione debbano essere posseduti in comune da tutte le classi che contano[1].
Basso si riferiva ovviamente non a princìpi qualsiasi, ma ai princìpi fondamentali sanciti nella Costituzione ed alla cui redazione lui stesso partecipò. 
A tutta prima, e dando per assodato che quei princìpi abbiano un significato inequivoco per come concepiti dai Costituenti, la precisazione suddetta potrebbe sembrare pleonastica; tuttavia, seguendo un approccio fenomenologico, è possibile constatare che non lo è affatto. 
E così l’atavica ignoranza o l’incomprensione sopravvenuta (entrambe rigorosamente pilotate ed indotte tanto da penetrare nell’inconscio profondo) di quei “principi che reggono l’ordine politico-sociale esistente” causano sempre più sovente sconfinamenti nel regno della patafisica giuridica[2], del tutto funzionale agli assetti dell’ordoliberismo neo-feudale.
2. Nella fattispecie, ci tocca prendere le mosse da una recente sentenza emessa dal Tribunale di Genova ed avente ad oggetto il ristoro per equivalente richiesto da una cittadina per lesione del proprio diritto di voto avvenuta con riferimento alle elezioni politiche successive all’entrata in vigore della L. 270/2005 (c.d. legge Porcellum) e sino alla data della domanda o della pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014[3]
L’attrice addebitava alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed al Ministero dell’Interno la responsabilità derivante dalla promulgazione di una legge elettorale contraria ai precetti costituzionali, legge che avrebbe impedito all’interessata di esercitare il proprio diritto nella modalità del voto “personale, uguale, libero e segreto” (art. 48, comma II, Cost.) e “a suffragio universale e diretto” (artt. 56, comma I, e 58, comma I, Cost.), determinando in tal modo la violazione dell’art. 2 Cost.. 
Nello specifico, l’attrice non avrebbe quindi potuto esprimere la propria preferenza per un singolo candidato, sulla base del fatto che la legge elettorale dichiarata incostituzionale affidava agli organi di partito la compilazione delle liste dei candidati ed il relativo ordine, e, inoltre, la previsione del c.d. premio di maggioranza avrebbe violato il diritto all’uguaglianza del proprio voto rispetto a quello di ogni altro cittadino.
La richiesta è stata in modo incredibile disattesa dal giudice sulla base, soprattutto, delle seguenti argomentazioni: 
“ … si osserva che l’attrice fonda la propria domanda sulla asserita lesione del diritto di voto come costituzionalmente disegnato e allega un danno di natura non patrimoniale, risarcibile laddove, come nel caso di specie, vi sia stata una violazione di un bene inviolabile previsto e protetto da una norma di rango costituzionale. L’art. 2 Cost. stabilisce che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la propria personalità”. Basandosi sulla lettera della predetta disposizione, può ritenersi che l’inviolabilità in esame si riferisca all’immanenza o alla vicinanza di taluni interessi al nucleo primario ed essenziale dell’individuo. Sul punto, occorre preliminarmente valutare la natura del diritto in questione, al fine di stabilire se possa essere ricompreso tra i c.d. “diritti inviolabili” della persona onde individuare poi la tutela ad esso riconducibile.  
L’attribuzione della qualifica dell’inviolabilità ai diritti politici, quale è il diritto di voto previsto e tutelato dall’art. 48 Cost., rappresenta una questione controversa, in quanto è necessario che tali diritti siano bilanciati con specifici interessi pubblici e sociali, oltre ad essere sottoposti a determinate condizioni di esercizio stabilite dalla legge o dalla stessa Costituzione. Se è vero che i diritti inviolabili sono anzitutto diritti “umani”, cioè dell’uomo in quanto tale e non, ad esempio, in quanto cittadino, i diritti politici – che tali sono in quanto il soggetto titolare appartiene ad una comunità politica, e non semplicemente al genere umano – non dovrebbero farsi rientrare nella categoria delle situazioni giuridiche inviolabili riconosciute e protette dall’art. 2 Cost.. 
Il diritto di voto personale, eguale e libero, la cui lesione è dedotta dall’attrice nel presente giudizio pertanto, non può essere ricompreso tra i diritti inviolabili di cui alla sopracitata disposizione costituzionale, proprio in considerazione della sua natura non strettamente “personale”.
Non è esagerato sostenere che il riportato passaggio motivazionale – per le conseguenze che ne derivano - rappresenti un tipico esempio di “precomprensione”, ovvero di anticipazione pregiudiziale del senso delle norme, “… discendendo da un condizionamento politico, psicologico, sociale – inteso come riflesso degli assetti dominanti sulle “ragioni del comprendere del singolo interprete”; come tale, la precomprensione dissimula “operazioni apparentemente logiche ma viziate, più o meno inconsciamente, da pregiudizi e presupposti che, pur personali, sono spesso il recepimento acritico di un “comune sentire” proprio delle forze sociali dominanti; essa perciò può condurre a interpretazioni che “vulnerano” la giustizia, l’equità … la verità dinamica la cui ricerca dà senso al diritto[4]. Vediamo allora di venirne a capo.
3. La Costituzione italiana, com’è noto (o come dovrebbe esserlo), nel sancire che l’Italia è una Repubblica “democratica” fondata sul lavoro” (art. 1, comma I), attribuisce il massimo rilievo al principio della sovranità popolare (art. 1, comma II). 
All’accoglimento del principio della sovranità popolare – nell’ambito di un sistema di democrazia rappresentativa come quella italiana - non poteva che accompagnarsi come corollario naturale l’elettorato attivo, come diritto spettante a ciascun cittadino quale titolare di una “particella di sovranità” (secondo la nota formulazione rousseauiana) di concorrere alla vita repubblicana. Il collegamento diretto e necessario tra sovranità popolare e diritto di voto (come modo imprescindibile di esercizio della prima) emerge in modo inconfutabile dai lavori della Costituente.
Già la Relazione al Progetto di Costituzione presentata alla Presidenza dell'Assemblea il 6 febbraio 1947, nell’avvertire che “Non si comprende una costituzione democratica, se non si richiama alla fonte della sovranità, che risiede nel popolo: tutti i poteri emanano dal popolo e sono esercitati nelle forme e nei limiti della costituzione e delle leggi”, riportava quanto segue “Deve bensì rimanere fermissimo il principio della sovranità popolare. Cadute le combinazioni ottocentesche con la sovranità regia, la sovranità spetta tutta al popolo” con l’importante precisazione che “La sovranità del popolo si esplica, mediante il voto, nell'elezione del Parlamento e nel referendum…”.
Nelle varie sedute della Seconda Sottocommissione che avrebbero portato alla scrittura dell’attuale art. 48 Cost., il tema dello stretto legame tra diritto di voto e sovranità viene affrontato a più riprese dai Costituenti.
Nella seduta del 12 settembre 1946, l’on. Conti, quale Presidente vicario, comunicava che “…dai contatti presi con la prima Sottocommissione per conoscere come questa abbia trattato la questione dell'elettorato attivoe del suffragio popolare, è risultato che essa non ha ancora preso in merito alcuna decisione. In una relazione dell'onorevole Bassosui principî dei diritti politici si propone, tra l'altro, l'approvazione di un articolo 1 del seguente tenore: 
«La sovranità popolare si esercita attraverso la elezione degli organi costituzionali dello Stato, mediante suffragio universale, libero, segreto, personale ed eguale. Tutti i cittadini concorrono all'esercizio di questo diritto tranne coloro che ne sono legalmente privati o che volontariamente non esercitino un'attività produttiva»”. 
Preoccupazione esternata ancor prima dall’on. Lussu il quale, nella seduta del 10 settembre 1946, faceva presente che “allorché si tratterà di compilare il testo definitivo… la Costituzione dovrebbe contenere anzitutto un accenno alla sovranità popolare”.
Nella seduta del 19 maggio 1947, l’on. Caristia affermava a sua volta “Democrazia e repubblica sono i pilastri della nuova Costituzione, e la democrazia, nel suo aspetto politico, ch'è quello sostanziale, si attua attraverso il godimento e l'esercizio del diritto elettorale attivo…”.
Nella seduta del 20 maggio 1947 l’on. Piemonte aveva altresì modo di ribadire che “l'espressione del voto politico è un atto di sovranità”, mentre nella seduta del giorno successivo l’on. Canepa spiegava chiaramente che il cittadino partecipa alla sovranità “coll'esercizio del voto”. 
La ragione per cui nella redazione dell’attuale art. 48 Cost. non si fece poi accenno alla sovranitàè ricavabile dalle parole dell’on. Tosato il quale, concordando con il presidente Terracini, affermava che “… quando si dice che sono eleggibili e sono elettori tutti i cittadini, ecc., è implicito in ciò il principio della sovranità popolare[5].
Se le parole dei Costituenti hanno ancora un minimo di senso compiuto, dalle stesse si ricava che l’elettorato attivo costituisce il diritto di ogni cittadino di concorrere col voto alla formazione della volontà nazionale, il diritto di esercitare attraverso il voto la propria parte di sovranità
Tale diritto previsto dall’art. 48 Cost. è perciò annoverato dalla dottrina nella categoria dei “diritti soggettivi pubblici e, più specificamente, costituisce uno ius activae civitatis[6] che vede, cioè, il cittadino titolare di una pretesa a partecipare alle elezioni degli organi rappresentativi dello Stato nonché a votare nei vari referendum. [7], una posizione giuridica soggettiva garantita nei confronti dello stesso legislatore[8]. Non può parlarsi, in definitiva, di “sovranità” democratica senza il diritto soggettivo assicurato ad ogni cittadino di poterla esercitare in concreto. E la sovranità si esercita in concreto, almeno in fase iniziale, mediante il voto.
3.1. In via di prima approssimazione, di conseguenza, impedire o limitare il diritto di voto corrisponde a violare direttamente innanzi tutto l’art. 1 Cost., articolo che in tal senso assurge per Mortati a “supernorma” poichè i suoi “principi generalissimi” imprimono un “preciso contenuto” normativo…potenziato” e perchè fornisce “il supremo criterio interpretativo di tutte le altre disposizioni[9]; ciò in quanto la titolarità del potere supremo della sovranità democratica “…si pone come logico fondamento dell’ordine [10]
Per essere ancora più chiari: la Costituzione attribuisce al popolo soprattutto l’esercizio della sovranità e l’esercizio della sovranità “praticamente è tutto”; in assenza di concreto esercizio, la sua titolarità è “nulla[11]. Stessi principi sono stati peraltro ribaditi dalla stessa Consulta la quale, sul punto, non poteva che affermare come “…la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto … costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare, secondo l’art. 1, secondo comma, Cost.[12].
Bisogna però precisare, come accennato, che l’esercizio della sovranità mediante l’elettorato attivo va ben oltre al “solo potere di votare[13], dal momento che le modalità del voto tutelano l’esercizio continuo della sovranità dello Stato democratico,  
“… nel quale la democrazia ha un carattere di massa e permanente, nel senso che non si esaurisce nel semplice atto elettorale: il suo esercizio del potere, infatti, non è puramente fittizio, limitato alla scelta delle persone che eserciteranno il potere per conto del popolo e, in ultima analisi, sul popolo, ma è un esercizio del potere continuo…[14]
Lo stesso Gramsci in tal senso aveva già avuto modo di spiegare bene come “… il consenso non ha nel momento del voto una fase terminale, tutt’altro. Il consenso è supposto permanentemente attivo… chi consente si impegna a fare qualcosa di più del comune cittadino legale, per realizzarli [programmi di lavori], a essere cioè una avanguardia di lavoro attivo e responsabile. L’elemento «volontariato» nell’iniziativa non potrebbe essere stimolato in altro modo per le più larghe moltitudini, e quando queste non siano formate di cittadini amorfi, ma di elementi produttivi qualificati, si può intendere l’importanza che la manifestazione del voto può avere…” [15].
Considerata la sovranità democratica in senso dispiegatamente dinamico “innescata” mediante il momento iniziale e fondamentale del voto, essa è così in grado di conformare i comportamenti dei cittadini (sovrani) i quali - in quanto popolo “sempre nell’esercizio delle proprie funzioni[16] – sono in grado di determinare in concreto la politica nazionale (art. 49 Cost.), partecipare alla vita del paese (art. 3 Cost.), concorrere al progresso materiale e morale di quest’ultimo (art. 4 Cost.), amministrare la giustizia (art. 101 Cost.), insomma realizzare nella sostanza – attraverso i plessi Parlamento e Governo (la “Repubblica”) diretta emanazione del popolo sovrano - quella democrazia “necessitata” del lavoro, pluriclasse e redistributiva costituente il programma ultimo ed irrinunciabile che innerva tutto l’impianto della nostra Carta Costituzionale [17].
4. Svolta tale ulteriore e basilare premessa, si può conseguentemente precisare che impedire o limitare il diritto di voto di cui all’art. 48 Cost. corrisponde a violare in modo certo e diretto l’art. 1 Cost. (appunto supremo principio di sovranità popolare), ma significa altresì, e per ciò stesso, vulnerare a cascatatutti gli altri principi contenuti nei successivi undici articoli della Costituzione (c.d. principi fondamentalissimi). 
Infatti, se la sovranità “è praticamente tutto” e se la stessa “si pone come logico fondamento dell’ordine”, violare il fondamento decreta logicamente lo sconvolgimento, o meglio, la dissoluzione dell’ordine stesso (sub specie azzeramento della sovranità). Il senso della frase “la sovranità è tutto” ci dice più semplicemente che la stessa costituisce l’alfa e l’omega della democrazia costituzionale.
Ora, non deve destare meraviglia il fatto che la violazione di un “semplice” diritto politico come quello contenuto nell’art. 48 Cost. abbia così nefaste ripercussioni su tutti gli altri diritti fondamentali. Ed infatti, bisognerebbe sempre rammentare che la Costituzione italiana è “…strutturata secondo uno schema formale che potremmo definire “tradizionale”, che risale alle Costituzioni della Rivoluzione francese…Le parti che definiscono e organizzano i compiti e le attività dei vari organi costituzionali sono precedute dalla enunciazione di una serie di principi fondamentali (articoli da 1 a 12); questi principi, a loro volta, enunciano, in modo diretto ovvero indiretto …un catalogo di diritti fondamentali “base”, cioè quelli da cui discendono tutti gli altri diritti che ne costituiscono una diretta proiezione, e che sono disciplinati nelle diverse parti della Costituzione…[18].
Ricordando il pensiero di un grande giurista nonchè egli stesso autorevole Padre Costituente, è possibile affermare che “Una costituzione non consiste in una serie di articoli più o meno ben allineati, e neppure in un complesso di uffici e di istituti giuridici, ma è invece una totalità di vita associata, un organismo vivente[19]. Gli articoli della Costituzione italiana sono quindi avvinti in una “…armonia complessa…dove tutto ha un significato, e dove ogni parte si integra con le altre parti[20]. Di detti princìpi, sia consentito per inciso, dovrebbe far tesoro anche il legislatore costituzionale dell’ultima ora in veste di “apprendista stregone” e nel cui approccio riformista sembrano intravvedersi sempre più le sembianze di un medico all’obitorio che opera su un corpo senza vita.
4.1. Se è chiaro quanto detto, appare a dir poco cavilloso e formalistico affermare - basandosi semplicemente “sulla lettera” dell’art. 2 Cost., come ha fatto il Tribunale di Genova - che “il diritto di voto personale, eguale e libero”, la cui lesione era stata lamentata dall’interessata, non possa essere ricompreso tra i diritti inviolabili (rectius, fondamentali)
Una statuizione di tal fatta denuncia in modo allarmante la mancanza di una visione sistematica ed organica dell’ordito costituzionale così come concepito dai Costituenti. Ed invero, bisogna ribadire con forza che se l’art. 48 Cost. costituisce una “proiezione” del principio fondamentalissimo di “sovranità popolare” contenuto nell’art. 1 (e che sia così non dovrebbe a questo punto esservi dubbio), la sua violazione comporta in re ipsa non solo la violazione dell’art. 2 Cost., ma anche di tutti gli altri articoli e principi fondamentali a seguire.
L’art. 48 Cost., infatti, riferendosi ad una situazione soggettiva di vantaggio proiezione del principio sovranitario, nonostante afferisca formalmente all’ambito dei diritti politici, deve essere intesa nella sostanza - sia ai fini del trattamento sia dell’eventuale regime di limitazione introducibile con legge (c.d. riserva assoluta di legge) – come un diritto inviolabile stricto sensu, assai più garantita dell’altra riguardante parimenti il diritto inviolabile di “elettorato passivo” di cui all’art. 51 Cost. [21].


4.2. Quanto poc’anzi esposto è stato illustrato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, allorchè la stessa ha affrontato, cona la sentenza n. 120/1967, ilproblema del riconoscimento del diritto di voto agli stranieri residenti. Secondo la Corte, se gli artt. 2 e 3 Cost. si applicano indipendentemente dallo status di cittadino (“…l’art. 2 riconosce a tutti, cittadini e stranieri, i diritti in violabili dell’uomo”) e se innegabile che “l’art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche certo che il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando si tratti di rispettare quei diritti fondamentali”. Tuttavia, non tutti i diritti riconosciuti dalla Costituzione sono da ritenere in modo indistinto attribuiti a cittadini e stranieri: i “diritti inviolabili della persona” ai quali si riferisce la sent. n. 120/1967 costituiscono, infatti, secondo la Corte (cfr. sent. n. 104/1969), “un minus rispetto ai diritti di libertà riconosciuti al cittadino”.
Ed infatti, “…la riconosciuta uguaglianza di situazioni soggettive nel campo della titolarità di diritti di libertà non esclude affatto che, nelle situazioni concrete, non possano presentarsi, fra soggetti uguali, differenze di fatto che il legislatore può apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova altro limite se non la razionalità del suo apprezzamento”, con particolare riferimento alla “basilare differenza esistente tra il cittadino e lo straniero, consistente nella circostanze che mentre il primo ha con lo Stato un rapporto di solito originarioe comunque permanente, il secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo” (così Corte Cost. sent. n. 104/1969). 

4.3. Tradotto in termini più semplici: il diritto di voto, seppur fondamentale ed inviolabile, non può essere riconosciuto erga omnes, ma solo ai cittadini. Verrebbe da aggiungere “perché solo ai cittadini appartiene la sovranità”.
Non incide, da ultimo, sulla natura inviolabile del diritto elettorale attivo la circostanza per cui l’art. 48, comma II, Cost., definisca l’esercizio del voto come un “dovere civico”. E’ stato chiarito al riguardo che trattasi di una situazione giuridica che, come si desume dalla stessa lettera della Costituzione, è estranea a quelle di doverosità in senso giuridico [22].
In definitiva, e di contro a quanto erroneamente sostenuto dal Tribunale di Genova, “l’attribuzione della qualifica dell’inviolabilità ai diritti politici” (nel caso, il diritto di voto ex art. 48 Cost.), lungi dall’essere “controversa”,non potrebbe essere invece più pacifica
Ciò che suscita fortissime perplessità, non è solo la circostanza per cui il giudice di merito – mediante una interpretazione del tutto fuorviante – abbia negato al diritto di voto la qualifica di “inviolabilità”, ma ancor prima il fatto che non si sia nemmeno sforzato di recuperarne, a monte, quantomeno la valenza stessa di diritto soggettivo

4.4. Dal punto di vista delle regole processuali, infatti, la qualificazione giuridica di una domanda e l’individuazione dell’interesse in concreto di cui si chiede tutela in giudizio – nei limiti delle allegazioni delle parti - costituisce operazione che compete d’ufficio al giudice cui spetta un potere-dovere in tal senso, a prescindere dalle norme giuridiche invocate dalle parti medesime a sostegno della domanda
Ancora più chiaramente: non è grave soltanto che il Tribunale non abbia riconosciuto che il diritto di voto è fondamentale e inviolabile, ma altresì che non lo abbia nemmeno tutelato come semplice diritto soggettivo. E ciò nonostante che la Corte di Cassazione si fosse già espressa sul punto [23].
Ad oggi, pertanto, risulta che il diritto di voto non solo non sarebbe inviolabile, ma non sarebbe prima ancora nemmeno un diritto. Questo è quanto la sentenza sancisce in modo espresso e con chiarezza adamantina.
5. Vi sono tuttavia altre cose, molto più gravi ed inaccettabili, stereogrammate in detta pronuncia e che il felice e sognante cittadino €uropeo della colonia italica - per dimenticanza quando non per ripudio collaborativo di quei princìpi di cui parlava Lelio Basso – non è in grado di decifrare o è indotto a derubricare alla voce “casualità isolata” piuttosto che alla voce “programmazione pianificata” (come sarebbe più corretto). Il “non detto” come sintomo di una patologia allo stadio terminale portata alle estreme conseguenze in forma di eutanasia stimolata e spacciata per salvifica.
Infatti, da tempo è in atto da parte dell’armata neoliberista una guerra sistemica alle Costituzioni occidentali post-belliche, guerra diretta a cancellare in modo definitivo le democrazie sociali al fine di restaurare un ordine schiavista degno del più becero periodo feudale. Non è possibile ripercorrere in questa sede tutte le tappe di tale guerra (ormai quasi vinta senza che i cittadini ex sovrani ed oggi subalterni l’abbiano in realtà mai combattuta) nonché la strategia e la tattica utilizzate dai rozzi catafratti (per le quali è necessario rinviare agli approfonditi post dedicati sul blog in questi anni).
In questa sede si può solo rammentare per sommi capi sia che l’attacco neoliberista ha origini lontane, con protagonisti anche nostrani votati alla diffusione sistematica del verbo €uro-mondialista (materializzatosi poi nel “vincolo esterno” dei trattati europei) sia, e di conseguenza, che il contenuto (di certo inconsapevole) della sentenza del tribunale ligure, a valle non rappresenta altro che il più compiuto successo del paradigma culturale riflesso in detto verbo, letteralmente orientato al dissolvimento dello Stato costituzionale, sovrano e democratico. Si concluderà crcando di indicare le direttrici per la riconquista di quella “democrazia sana” a cui si riferiva Basso ed alla quale si vorrebbe auspicabilmente ritornare.
6. E’ risaputo come le classi economicamente dominanti non si siano mai rassegnate ai mutamenti storici che hanno condotto, attraverso le secolari lotte dei popoli, alle società civili del secondo dopoguerra, unite da un rinnovato patto sociale fondato su Costituzioni democratiche a sovranità popolare. Dette classi, oggi ben camuffate e avvinte dal vincolo della continuazione in una traiettoria temporale che si snoda dal feudalesimo sino alla moderna costruzione €uropea (che ne costituisce la più compiuta e raffinata sublimazione) si sono determinate a prendersi una rivincita, attingendo a quanto di meglio il vecchio “repertorio ideologico” di teorici giuridici ed economici classici possa offrire.
Limitando una succinta indagine al nostro Paese, e a solo titolo esemplificativo, si possono ricordare sia in campo giuridico che economico (rigorosamente convergenti) alcuni discepoli di un pensiero giunto a noi con il “venticello” continentale e d’oltroceano. 
“… In tutte le società regolarmente costituite, nelle quali vi ha ciò che si dice un governo, noi oltre al vedere che l’autorità di questo si esercita in nome dell’universo popolo, oppure di un’aristocrazia dominante, o di un unico sovrano, punto questo che più tardi esamineremo con miglior cura e del quale valuteremo l’importanza, troviamo costantissimo un altro fatto: che i governanti, ossia quelli che hanno nelle mani e esercitano i poteri pubblici sono sempre una minoranza, e che, al di sotto di questi, vi è una classe numerosa di persone, le quali non partecipando mai realmente in alcun modo al governo, non fanno che subirlo; esse si possono chiamare i governati…” [24]
Queste sono le parole di un giurista italiano, Gaetano Mosca, “elitista” e positivista metodologico, come tratteggiato da G. Sola [25]. Sulla medesima scia, un economista classico poteva affermare che “… Lasciando da parte la finzione della “rappresentanza popolare” e badando alla sostanza, tolte poche eccezioni di breve durata, da per tutto si ha una classe governante poco numerosa, che si mantiene al potere, in parte con la forza, in parte con il consenso della classe governata, molto più numerosa…[26]. Non a caso, anche Pareto, fu un teorico marginalista ed un elitista.
6.1. Eminenti figure, come quella di Luigi Einaudi, hanno poi raccolto cotanta eredità, fungendo da cinghia di trasmissione di detti ideologismi. 
Ed infatti, da G. Mosca (ma evidentemente anche da Pareto) Einaudi ha appreso i seguenti principi 
… Primo: il governo del paese non è e non può mai essere retto dalla maggioranza del popolo e neppure da una genuina rappresentanza della maggior parte dei cittadini. Questa è una utopia pericolosa e distruggitrice della convivenza sociale. il governo politico deve essere in mano di una minoranza organizzata…Dalla buona scelta della classe politica dipende la fortuna di un paese. […] Secondo: il predominio, necessario e utile, della classe politica, ha bisogno, per conservarsi, di una ideologia, a cui il Mosca dà il nome di ‘formula politica’: e questa può essere la forza, la eredità, il diritto divino, la sovranità popolare. presso a poco, tutte queste formule si equivalgono, essendo esse puramente la manifestazione esteriore verbale delle vere ragioni per le quali la classe politica afferma la sua capacità a governare le moltitudini[27].
Einaudi era infatti convinto che 
Lo stato rappresentativoè…fondato sull’esistenza di forze indipendenti e distinte dallo stato medesimo: resti di aristocrazia terriera, classi medie che traggono la loro propria vita dall’esercizio di industrie, di commerci e di professioni liberali, rappresentanti di operai organizzati di industrie non viventi di mendicità statale. Se queste condizioni sono soddisfatte, noi abbiamo un governo veramente libero; in cui i funzionari non sono l’unica classe politica esistente, ma una delle tante forze, dal cui contrasto e dalla cui cooperazione sorge la possibilità di un’azione veramente utile al tutto[28]. Si potrebbe anche pensare che quanto sopra sia stato pensato e scritto da Einaudi in una fase pre-costituzionale della storia italiana e che in seguito lo stesso abbia ritrattato. Niente affatto.
A Costituzione pienamente in vigore, Einaudi ha continuato lanciando strali contro il “dogma” della sovranità popolare“…Gli italiani vogliono essere sovrani in casa propria; ma sanno che non è possibile vivere isolati.  
Noi facciamo parte di una società di stati sovrani, tutti legati gli uni agli altri in modo così stretto che se non ci associassimo ad altri, l’indipendenza e la libertà sarebbero morteIl dogma della sovranità popolare ha sostituito gli altri, perché nessuno può dimostrare che, venuto meno il consenso ad altri dogmi, ad esso sia possibile sostituire dogma migliore. Quando apparve chiaro che il metodo di rompere le teste o di ridurle al silenzio con l’olio di ricino o con la tortura ed il carcere o la morte non era accettabile, il consenso generale si fece a prò del metodo di far votare le teste invece di spaccarle. Il metodo di far votare le teste, che dicesi della sovranità popolare, va contro ad una grossa difficoltà ed è che se le teste non si mettono d’accordo prima, il voto è una farsa; e ciascuno votando a capriccio per se stesso, per il parente, per l’amico, per il compagno di lavoro, i voti necessariamente si disperdono ed il vero elettore è il caso fortuito[29].
6.2. Il discorso di Einaudi volge poi palesemente al classismo nel passo seguente che, unitamente a quelli già riportati, sembra costituire il manifesto dell’oligarchia elitaria di stampo €urista oggi imperante e che non sembra trovare ostacoli alla propria avanzata: 
…Se certe parole sono dannose perché nessun’azione feconda può seguire al nulla od al vago od all’equivoco, non altrettanto si può dire per i miti dei quali alcuni pochi sono necessari, principalissimo quello della sovranità popolare ...Per fermo esso non è logicamente dimostrabile; potendo invece sembrare evidente (è evidente quel principio il quale si impone senza uopo di dimostrazione, per l’assurdità del contrario) che debba prevalere l’opinione di chi sa sopra quella dell’ignorante, del buono sopra il cattivo, dell’intelligente sopra lo stupido
Chi distinguerà però gli uni dagli altri? Come impedire che i furbi cattivi ed ignoranti non prevalgano sui buoni e sui sapienti? Altra via non c’è fuor del contar le teste, che è metodo, per sperienze anche recenti, migliore del farle rompere dai più forti decisi a conquistare o tenere il potere. Il mito è valido, nonostante la dimostrazione data da Ostrogorscki, da Mosca, da Pareto, da Michels, da Schumpeter che non avendo gli elettori libertà di scelta – la libertà di scelta è sinonimo di dispersione di voti e quindi di confusione – se non fra i candidati, ed essendo i candidati proposti necessariamente dai capi di gruppi organizzati, detti partiti, la scelta è fatta non dagli elettori, ma dai fabbricanti auto-selezionati di gruppi politici. Il che è vero, ma, di nuovo, quale metodo migliore se non il diritto di tutti i volenterosi di farsi capi-gruppo e di scegliere così di fatto gli eletti?...[30].
6.3. Sotto traccia, gli ideologismi richiamati si sono fatti strada, almeno negli ultimi trent’anni in maniera più virulenta, come una talpa nel terreno, riuscendo ad edificare un nuovo assetto istituzionale ed un nuovo paradigma sociale di stampo capillarmente totalitario, veicolati da un efficiente sistema mediatico-culturale di tipo orwelliano a spinta mercatistica. La democrazia costituzionale è stata così soppiantata, in modo mimetico, da una “liberal democrazia” a connotazione fascistoide.
In tale nuovo assetto reazionario - secondo le puntuali aspirazioni dei personaggi sopra menzionati - della sovranità costituzionale è rimasto un mero spettro. Il processo elettorale (diritto di voto), nell’ambiente istituzionale creato a seguito della prevalenza incondizionata dei trattati ordoliberisti sull’ordinamento costituzionale, ha assunto un puro contenuto formale e “idraulico-sanitario[31], ovvero lo stesso è tollerabile purchè si uniformi a risultati precostituiti fissati dalle oligarchie (i saccenti, buoni ed intelligenti...) le quali sole fissano “equilibri allocativi” senza necessità di consultare alcuno. Ovviamente, nell’interesse e per il bene dei rozzi cittadini.
6.4. Questi ultimi erano, però, erano già stati avvertiti in modo inequivocabile dei pericoli che correvano “… Per chi ragiona in termini puramente formali e giuridici(n.d.r., come sembra fare il Tribunale di Genova), la democrazia è un complesso di istituzioni consacrate in determinati articoli di legge, che riconoscono il suffragio universale e determinati diritti di libertà e di uguaglianza. Per costoro la democrazia è realizzata quando si è conseguito un ordinamento che contempli queste norme, e la vita democratica consiste nel rispetto formale di tale ordinamento, non importa dove e quando applicato.  
Essi non si accorgono che la democrazia formale è soltanto un’illusione, perché non si può considerare che siano nella stessa posizione di effettiva eguaglianza da un lato le masse politicamente ineducate di un popolo …, e presso il quale quelle regole si prestano ad essere sfruttate da demagoghi e politicanti senza che la grande maggioranza riesca veramente ad influire sui propri destini, oppure i milioni di lavoratori che vivono oppressi dalla miseria senza sicurezza del domani e per i quali tutto viene sacrificato alle necessità immediate della vita, oppure le popolazioni ignoranti che ricevono solo una rudimentale istruzione addomesticata ed indirizzata a creare uno stato d’animo di supina accettazione; e dall’altro le grandi potenze finanziarie che hanno a propria disposizione tutti i mezzi, dalla cultura e capacità tecnica fino alle armi della propaganda condotta mediante la stampa o il cinematografo o addirittura alla corruzione, per formare o influenzare l’opinione pubblica, e, quando questo non basti, hanno la possibilità di porre in essere dei mezzi di pressione straordinaria sullo stato (crisi economiche, fughe di capitali, crolli di borsa, ecc.) per imporre la propria volontà. 
La democrazia comincia a diventare una cosa seriasoltanto quando ciascuno è messo in grado di esercitare la stessa porzione di influenza reale sulla vita pubblica, cioè quando il popolo, accanto alla libertà giuridica, realizza anche la libertà dal bisogno, dalla paura e dall’ignoranza. Senza queste ultime, la prima conta assai poco e rischia sovente di non contare addirittura nulla, ed è per questo che noi possiamo considerare che la liberazione dal bisogno attraverso adeguate riforme della struttura sociale che diano sicurezza di vita ai lavoratori, o la liberazione dall’ignoranza attraverso un’opera profonda di educazione e di elevazione, costituiscono un passo verso la democrazia, più seria e sostanziale che non la concessione di una costituzione democratica ad un popolo immaturo per servirsene, e per il quale una esperienza parlamentare può facilmente degenerare in una dittatura larvata…[32].
6.5. I cittadini erano stati altresì ammoniti a saper riconoscere la democrazia vera (costituzionale) da quella fasulla 
Le libertà borghesi … sono state insomma essenzialmente un premio d’assicurazione del capitalismo, il parlamentarismo una valvola di sicurezza, il “sano e pacifico progresso”, in cui tutti i nostri padri han creduto, il più sicuro antidoto contro i fermenti rivoluzionari[33]
In definitiva, “le democrazie occidentali (n.d.r., liberali) non rappresentano quindi che una fase del capitalismo, la fase più ricca e magari più “generosa”, ma una fase storicamente determinata e circostanziata, nella quale, attraverso gli interventi crescenti dello Stato, si preparano i successivi sviluppi. Perché quello Stato, che la critica di Marx aveva così energicamente colpito e in cui la socialdemocrazia parlamentare poteva più tardi giurare, quello Stato che si atteggiava a padre imparziale di tutti i cittadini, a tutore delle libertà e del benessere generale, e che attraverso il suffragio universale sempre più si “popolarizzava”, aumentando il divorzio fra l’economia e la politica e affogando nel “cittadino” il proletario, era già in embrione lo Stato fascista[34]. Il messaggio non è stato elaborato.
6.6. In tale contesto di democrazia formale ed idraulica, a volte può accadere - come nel caso della decisione sulla Brexit - che per un “eccesso di sicurezza oligarchica” il meccanismo non funzioni come dovrebbe; ed allora la reazione sprezzante dei neofeudatari non si lascia attendere, sostenuti dall’onnipresente clero mediatico di intellettuali e gabellotti [35].
Questo era lo stato dell’arte almeno sino alla pubblicazione della sentenza sopra commentata, tra l’altro – si badi bene - emessa “in nome del popolo italiano”. 
Il messaggio esplicito contenuto in detta pronuncia ne trasmette all’inconscio collettivo uno nascosto, nuovo ed ancor più inquietante: dopo “il lavoro non è un diritto” dell’ex ministro Fornero, ora anche “il voto non è un diritto (tanto meno fondamentale o inviolabile). Come tale, nessuno si azzardi a chiederne la tutela. Si direbbe che ci tocca assistere ad una ulteriore fase metamorfica della dissoluzione finale della Costituzione, dove allo stadio della “democrazia idraulica” succede quello della “democrazia collutorio”: d’ora in poi, defraudati definitivamente anche del diritto di voto (=sovranità), il concetto di democrazia sarà utilizzato ad libitum, ancor più di prima ed in via esclusiva, solo per sciacquarsi la bocca, termine sempre buono, infatti, per dissimulare cattivi aliti ideologici che celano nella realtà cancrene profonde.
7. Come rimediare a questa allucinazione (nella speranza che se ne prenda coscienza e che si sia ancora in tempo)? 
Non vi è altro modo che tornare alle origini, ai principi, lasciandoci guidare da chi lo spirito democratico costituzionale lo ha incarnato veramente, tracciando la via in modo indelebile:
… il paese più democratico non è quello che ha ordinamenti formalmente più democratici, ma è quello che, per l’una o per l’altra via, realizza progressi più rapidi e più sostanziali verso l’autentica democrazia, che coincide in definitiva col socialismo. Considerazioni analoghe è possibile leggere anche sulla rivista cattolica francese “Esprit”, ad opera di Jean Lacroix (marzo 1946): “Stiamo assistendo al passaggio delle masse dall’infanzia alla maggiorità. E questo ha più di un significato. Anzitutto significa che stiamo passando da una democrazia liberale ed aristocratica ad una democrazia di massa e popolare. Questo è il valore del socialismo; nonostante tutti gli errori dei partiti socialdemocratici, non si può negare il merito di averlo capito. Dire che stiamo assistendo al passaggio delle masse dall’infanzia alla maggiorità vuol dire riconoscere che la democrazia sbocca già nel socialismo e che chi non abbraccia il socialismo non abbraccia la democrazia. Il liberalismo democratico è stato la forma puramente politica ed individualistica della democrazia; il socialismo ne è la forma economica e sociale. E siccome il concetto della democrazia è essenzialmente e profondamente sociale, quando esso lascia la veste liberale, non fa che abbandonare una veste esteriore e transitoria per rivelare la sua propria essenza... 
Comunque sia, la democrazia indiretta, per interposta persona, non basta più: votare ogni 4 anni, e lasciare che gli eletti facciano quel che vogliono, è un farsi prendere in giro. 
Da un secolo in qua l’idea democratica si è sviluppata nel senso di una partecipazione più attiva ad una democrazia più diretta, più impegnata nella vita quotidiana ed in tutti gli atti dell’uomo... Già nel passare dal piano politico al piano economico, dal partito al sindacato, la democrazia comportava una partecipazione più attiva degli uomini alla vita democratica, una inserzione più diretta della vita operaia nella gestione economica del Paese. 
Non si diventa democratici se non agendo con gli altri in opere comuni, associandosi sempre in comuni responsabilità. Se la democrazia è, sostanzialmente, un trionfo delle masse, una capacità politica ed economica riconosciuta alle classi popolari, vuol dire che essa porta ad una sempre maggior partecipazione; essere democratico vuol dire inventare di mano in mano, col cambiare delle circostanze, tutti i mezzi che permetteranno sempre più alle masse di partecipare alla vita nazionale”… Senza di ciò, la democrazia puramente parlamentare è un inganno: quando i grandi organismi economici sono nelle mani di una ristretta oligarchia, la quale, senza alcun controllo pubblico, può precipitare il paese in una qualsiasi avventura economica fino ad asservirlo ad interessi stranieri: quando questa stessa oligarchia, grazie alla sua potenza finanziaria, ha di fatto il quasi totale monopolio della stampa, soprattutto della grande stampa d’informazione e può avvelenare quotidianamente l’opinione pubblica, dandole il tono ch’essa desidera, quando la scuola, la caserma, e spesso, mi sia consentito dirlo, la stessa predicazione religiosa, diventano veicoli per la propagazione delle idee care alla classe dominante (ubbidienza, accettazione della propria condizione sociale, difesa della proprietà, esaltazione dei valori tradizionali, tendenza al conformismo, ecc.) e quindi un ostacolo al formarsi di una coscienza e di una dignità nelle classi oppresse; quando la burocrazia, per la sua stessa tradizionale forza d’inerzia, diventa una remora alla realizzazione di qualsiasi volontà innovatrice ed un mezzo per rendere difficile alla gente minuta anche l’esercizio del proprio diritto …, sarebbe assurdo affermare che basti l’emanazione di una costituzione formalmente democratica per dare effettivamente ad ogni cittadino la possibilità di esercitare lo stesso grado di influenza sulla vita pubblicasolo per questa via si può evitare quello che è il difetto più grave degli istituti rappresentativi, il distacco fra gli eletti e gli elettori, che è un aspetto della frattura sempre esistita in italia fra classe dominante e classe oppressa. Solo per questa via si può passare in Italia, senza brusche scosse ed anzi col rispetto delle forme parlamentari, da una democrazia puramente formale a una democrazia più sostanziale, fondata veramente, come dice la Costituzione, sulla “partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese[36].
Non può bensì realizzarsi alcuna democrazia sostanziale senza sovranità popolare. Trattasi di un’endiadi indissolubile.
8. Per tale ragione sempre Lelio Basso, invitato nel ’73 a parlare nell’ambito di un dibattito sul federalismo - argomento di cui si dicharava apertamente “un dilettante… un extra moenia” – pronunciò un discorso memorabile che i diversamente €uropeisti nostrani dovrebbero leggere e capire, affermando sostanzialmente quanto segue:
“…penso che la battaglia per la democrazia nei singoli paesi debba essere prioritaria rispetto ai fini federalisti…ci sono cose che vanno, secondo me, profondamente meditate. A me, se così posso dire, la sovranità nazionale non interessa; però c’è una cosa che mi interessa: è la sovranità democratica. Domani farò qui a Firenze all’Università una conferenza-dibattito sul rapporto fra il tipo di Italia che ci configurammo noi Costituenti quando redigemmo la Costituzione e quella che è oggi. 
Nella Costituzione abbiamo scritto, nel primo articolo: “L’Italia è una Repubblica democratica”; poi abbiamo aggiunto quelle parole forse sovrabbondanti “fondata sul lavoro”; e poi abbiamo ancora affermato il concetto che la “sovranità appartiene al popolo”. Sembra una frase di stile e non lo è. Le costituzioni in genere hanno sempre detto “la sovranità emana dal popolo” “risiede nel popolo”; ma un’affermazione così rigorosa, come “la sovranità appartiene al popolo che la esercita” era una novità arditissima. Contro la concezione tedesca della “sovranità statale”, di quella francese della “sovranità nazionale”, noi abbiamo affermato la “sovranità popolare” quindi democratica. A QUESTO TIPO DI SOVRANITÀ IO TENGO[37].La sovranità costituzionale è tutto.
A futura memoria e prima che il naufragio ci inghiotta per sempre.
______________________
NOTE
[2] http://orizzonte48.blogspot.it/2016/04/la-costituzione-patafisica-nellera-del.html
[4] L. BARRA CARACCIOLO, Euro e (o?) democrazia, Dike Giuridica Editrice Roma, 2013, 72-73
[5] Seconda Sottocommissione, seduta del 10 settembre 1946
[6] G. JELLINEK, La dottrina generale del diritto dello Stato, (1914), trad. it. Milano, 1949, 33
[7] T. MARTINES, Diritto Costituzionale, Milano, 1988, 633-638
[8] C. LAVAGNA, Basi per uno studio delle figure giuridiche soggettive contenute nella Costituzione italiana, in Studi economici giuridici della facoltà di Giurisprudenza di Cagliari, Padova, 1953, 31
[9] C. MORTATI, Art. 1, in Principii fondamentali, Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Principi fondamentali. Art. 1-12 Costituzione, Bologna, 1975, 2
[10] C. MORTATI, Art. 1, cit., 1
[11] C. ESPOSITO, Commento all’art.1, in ID, La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 10
[12] Così Corte Cost. sent. n. 1/2014
[13] C. ESPOSITO, Commento, cit., 10-11
[14] L. BASSO, Il principe senza scettro, Feltrinelli, 1958, 170
[15] A. GRAMSCI, Il numero e la qualità nei regimi rappresentativi, in ID, Quaderno 13, Notarelle sulla politica del Machiavelli, par.  30, Torino, 1975, 193 ss.
[16] L. BASSO, Il principe senza scettro cit., 171
[17] C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, vol. 1, Padova, 1975, 142 ss.
[18] L. BARRA CARACCIOLO, La Costituzione nella palude, Reggio Emilia, Imprimatur, 2015, 58
[19] C. MORTATI, La costituente. La teoria. La storia. Il problema italiano, Roma, Darsena, 1945, parte VI, (ripeteva il medesimo concetto alle pp. 198 e 202
[20] L. BASSO, discorso pronunciato nella seduta dell’Assemblea Costituente del 6 marzo 1947, ora in L. Barra Caracciolo, Euro e (o?) democrazia cit., 35
[21] A. BALDASSARRE, Diritti inviolabili, in Diritti della persona e valori costituzionali, Torino, 1997, 84 ss.; per la qualificazione dei diritti di elettorato attivo e passivo come inviolabili e tutelati ex art. 2 Cost, si veda ex professo Corte Cost., sentenza n. 539/1990; con riferimento al diritto di elettorato passivo, si vedano Corte Cost., sentenze n. 141 del 1996, n. 571 del 1989, n. 235 del 1988
[22] G. ZAGREBELSKY -V. MARCENÒ - F. PALLANTE, Lineamenti di diritto costituzionale, Firenze, 2014, 297
[23] Cfr. Cass. Civ., sez. I, 16 aprile 2014, n.8878
[24] G. SOLA in Introduzione a G. Mosca, Scritti politici. Vol.I, Teorica dei governi e governo parlamentare, Utet, Torino 1982, 203
[25] G. SOLA, Teorica dei governi e governo parlamentare, cit., 13
[26] V. PARETO, Fatti e teorie, Vallecchi, Firenze, 1920, 444
[27] L. EINAUDI, Parlamenti e classe politica, Corriere della Sera, 2 giugno 1923, ora in Cronache economiche e politiche di un trentennio, vol. VII, 264-265.
[28] L. EINAUDI, Parlamenti e classe politicacit.
[29] L. EINAUDI, Concludendo – Prediche inutili, Torino, 1959, 382-415
[30] L. EINAUDI, Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze fra liberalismo e socialismo, in Prediche inutili, Torino, 1957, 202-241
[31] http://orizzonte48.blogspot.it/2014/02/una-dittatura-puo-limitare-se-stessala.html
[32] L. BASSO, La partecipazione del popolo al governo, in Cronache sociali, 15 marzo 1948, n. 5, 1-3
[33] L. BASSO, Chiarimenti (dall’Italia), in Politica socialista, 1 marzo 1935, n. 3, 271-276
[34] L. BASSO, Chiarimenti (dall’Italia), cit.
[35] http://orizzonte48.blogspot.it/2016/06/il-fantasma-di-hayek-riappare-nel.html
[36] L. BASSO, La partecipazione del popolo al governo, cit.
[37] L. BASSO, Consensi e riserve sul federalismo, L’Europa, 15-30 giugno 1973, n. 10/11, 109.118

IL PREZZO DEI NPL DI MONTE DEI PASCHI DI CUI NON SI PARLA (PMI sveglia: e 3!)

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(Il romanticismo si attaglia al "sogno": e contestualizzare trasforma il senso in un modo che si attaglia alla cruda realtà).

1. Da La Stampa, traiamo alcuni chiarimenti sul quadro operativo entro cui si stanno muovendo le "trattative" tra governo italiano e Commissione UE sulla cruciale questione "Monte di Paschi di Siena"
"Da ieri il Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica al mondo, in Borsa vale meno di un miliardo di euro. Per comprare un caffè a Piazza del Campo ci vogliono ben tre azioni. L’utile dell’ultimo trimestre - 93 milioni di euro - non basta a far dimenticare 27 miliardi di sofferenze...
...L’ora X è prevista per il 29 luglio, il giorno in cui verranno pubblicati gli stress test della Banca centrale europea e dell’Eba sui 51 principali istituti europei. Mps non è l’unica banca del Continente che trema, e questa potrebbe essere perfino una buona notizia. I risultati degli ultimi test della Federal Reserve hanno bocciato sia Deutsche Bank che la spagnola Santander
...I contatti fraTesoro, Palazzo Chigi e Commissione europea sono costanti, e servono a trovare la soluzione utile a scongiurare il rischio di un effetto domino europeo. Per rimanere nelle regole, una strada c’è: la contempla l’articolo 32, quarto comma, punto tre della direttiva sulle risoluzioni bancarie.
Quella norma dice chiaramente che nell’ipotesi di un’imminente bocciatura allo stress test, lo Stato può intervenire in via preventiva con un aumento di capitale, purché «cautelativo», «temporaneo» e «proporzionato per rimediare alle conseguenze della grave perturbazione» che si sta per abbattere sulla banca. Il linguaggio è più adatto a un meteorologo ma il senso è chiaro. La banca deve essere «solvente» e l’aiuto non può essere utilizzato «per compensare le perdite che ha accusato o rischia di accusare».
Lo schema che circola al Tesoro rispetta tutte queste condizioni: prevede il lancio di nuove obbligazioni convertibili - chiamiamoli Padoan bond - non dissimili a quelle emesse nel 2012 dal governo Monti; ad esse si dovrebbe accompagnare un intervento di sostegno del Fondo Atlante per un ammontare non inferiore ai tre miliardi di euro. «Atlante due» si occuperà nel frattempo di comprare -parte delle sofferenze di Mps, ma i tempi non sono compatibili con quelli che i mercati impongono in momenti come questi.
C’è una condizione che in queste ore complica non poco la trattativa. Bruxelles sostiene che questo tipo di intervento imponga l’applicazione del principio del «burden sharing» che costringerebbe azionisti ed obbligazionisti a farsi carico - almeno in parte - del salvataggio statale. Il pressing del governo sulla Bce e sulla Commissione europea per non far passare questa interpretazione punitiva della normaè arrivato al punto di minacciare una decsione unilaterale da parte dell’Italia.
Si dice spesso che due indizi non fanno una prova, ma ci si avvicinano.
Il primo è la risposta del portavoce del Commissario alla Concorrenza Vestager all’articolo (in parte smentito) del Financial Times sulle intenzioni di Renzi intorno al destino di Mps: «Esistono soluzioni senza effetti contrari sugli investitori al dettaglio». L’altro indizio sono le parole pronunciate da Ignazio Angeloni, membro italiano della vigilanza di Francoforte: «Il sostegno pubblico è componente fondamentale di un buon quadro di regole». Le norme dell’Unione bancaria «dovrebbero essere usate non più del necessario, ma neanche meno».  
L’ultima parola spetta dunque a Jean-Claude Juncker e a Mario Draghi. Molto dipenderà ovviamente dall’atteggiamento di Berlino e da quanto Merkel e Schäueble temano un nuovo terremoto in tutto e per tutto simile a quello che nel 2008 partì dagli Stati Uniti e spazzò via decine di banche. L’Europa post-Brexit è al redde rationem: o esce dalla crisi più unita, o rischia di soccombere". 

2. Questo era il quadro un paio di giorni fa.  
Ma ad oggi, sempre dalla stessa fonte mediatica, la situazione, lungi dal perseguire la "soluzione di mercato" che, solo a parole, si agita come una bandiera ormai logora, pare intraprendere il seguente percorso tortuoso:
"A meno di colpi di scena, oggi il consiglio di amministrazione straordinario del Monte lancerà un aumento di capitale fra i due e i tre miliardi di euro. Una proposta che alle attuali condizioni della banca (circa 24 miliardi di crediti deteriorati) il mercato dovrebbe snobbare. 
A quel punto il governo - grazie all’ormai noto articolo 32 della direttiva sulle risoluzioni bancarie - sarebbe pronto a lanciare la sua ciambella di salvataggio sottoscrivendo (potrebbe essere con un bond) ciò che il mercato rifiuterà. Il problema è che in quel caso le regole impongono di sacrificare, oltre agli azionisti - che verrebbero comunque diluiti - anche gli obbligazionisti subordinati. Per evitare questo scenario Renzi è pronto a tutto, fino al coinvolgimento nell’operazione di ricapitalizzazione della Cassa depositi e prestiti, soggetto pubblico ma formalmente privato".

3. Un percorso tortuoso, ma politicamente ritenuto spendibile, in base alle seguenti prospettazioni ex parte italiana (ho aggiunto alcune enfasi in neretto):
"Ancora ieri, di fronte al premier svedese Renzi ha ribadito che «i risparmiatori devono stare tranquilli» e che il governo «auspica soluzioni di mercato» salvo mandare messaggi duri ai partner europei: «Sono certo che nei prossimi giorni le autorità europee rifletteranno sulla situazione. Chi conosce la realtà sa che la vera questione non sono i nostri crediti deteriorati, ma i derivati di altre banche». Una battuta che si potrebbe tradurre più o meno così: cari amici tedeschi, attenti a non mostrarvi troppo rigidi perché quelli che oggi sono i problemi di Mps domani potrebbero colpire la vostra Deutsche Bank, esposta in derivati per cifre stellari.  
Già, perchè i problemi con Bruxelles non si esauriscono con la ricapitalizzazione.
Parallelamente ad essa, il governo sta contribuendo alla creazione di un secondo Fondo Atlante - dovrebbe chiamarsi Giasone - che dovrebbe comprare gran parte dei crediti deteriorati di Mps grazie a ciò che resta nelle casse di Atlante uno (nato per salvare le Popolari venete), più i fondi della Sga, la bad bank del Banco di Napoli oggi in mano al Tesoro e con 500 milioni a disposizione. 
Fra Tesoro, Atlante e Cdp si sta cercando di coinvolgere nell’operazione vari soggetti: dai fondi assicurativi e previdenziali fino ad alcuni investitori esteri. Si fanno i nomi di un misterioso fondo cinese, di Deutsche Bank Italia (proprio la società italiana della banca sopracitata), Cariparma, Bnl Paribas
La questione da risolvere con l’Europa è questa: qual è il prezzo al quale un soggetto partecipato dallo Stato può comprare crediti deteriorati e rivenderli sul mercato? Secondo le stime che circolano in ambienti finanziari quello giusto potrebbe essere attorno al 30 per cento. Ma è abbastanza alto per non configurare l’aiuto di Stato? Il problema con Roma «è l’applicazione delle regole sugli aiuti di Stato», conferma il numero due della Commissione Ue Dombrovskis.  Insomma la partita per salvare Mps - e con lei l’intero sistema bancario - si preannuncia lunga".
4. Una prima notazione: la domanda dovrebbe essere, piuttosto, se tale prezzo sia "abbastanza basso", dato che l'aiuto di Stato distorsivo della mitica concorrenza tra istituti bancari in UEM - con buona pace di ogni considerazione dell'art.47 Cost. (su tale aspetto torneremo)- si ha quando denaro considerato di (varia) provenienza pubblica attribuisca un vantaggio/arricchimento non realizzabile nelle normali condizioni di mercato.
Considerato che gli "eventi" del mercato fanno "precedente" e, nel caso dell'Unione bancaria, anche "presunzione legale" (per quanto juris e non de jure, dunque superabile da "altri" analoghi eventi), avevamo infatti visto che la vicenda Etruria aveva portato ad altre valutazioni di prezzo dei NPL:

"I valori di cessione delle sofferenze delle quattro banche salvate a novembre (CariChieti, Banca Etruria, Carife e Banca Marche) sono stati rivisti al rialzo dagli esperti indipendenti a una media del 22,3% del valore nominale.

Lo ha detto il governatore di Bankitalia Ignazio Visco durante un'audizione in Senato.

Il dato è frutto di una media ponderata tra il 31% assegnato alla porzione garantita da ipoteca e il 7,3% di quella chirografaria.

La Commissione Ue aveva individuato un valore economico reale di cessione delle sofferenze delle quattro banche pari al 25% per la parte garantita da ipoteca e all'8,4% per quella chirografaria con una media ponderata del 17,6%.

Sono stati però rilevati ulteriori "rischi" nei portafogli creditizi che hanno generato altre esigenze di svalutazione degli attivi; il maggior fabbisogno patrimoniale che ne è derivato è stato tale da compensare i risparmi derivanti dalle minori percentuali di svalutazione delle sofferenze rispetto alla valutazione provvisoria".
5. Attenzione: la Commissione UE non può permettersi, specialmente con l'Italia, e almeno finché non entri in gioco qualche "figlio prediletto" (leggi: Deutschebank), di contraddire quanto stabilito pochi mesi prima in situazione praticamente identica. 

Tra l'altro, un prezzo di acquisto (sostanzialmente pubblico) "attorno al 30 per cento", non sarebbe giustificato neppure allargando la sfera dei crediti in sofferenza che si possano considerare "garantiti da ipoteca", e questo grazie all'introduzione, da maggio, del c.d. Patto Marciano

Contratto con cui creditore e debitore si accordano in modo che, in caso di inadempimento, il creditore acquisisce un bene di proprietà del debitore, con l’obbligo di versargli la differenza tra importo del credito e valore. Il Dl 59/2016 codifica il patto marciano tra banca finanziatrice e impresa finanziata per trasferire un immobile (dell’impresa o di un terzo, di qualsiasi natura) se c’è inadempimento. La banca (salvo tenerselo, cosa improbabile) lo può vendere direttamente , senza procedura esecutiva. L’immobile non può essere l’abitazione principale del datore di ipoteca, del coniuge o di parenti e affini entro il terzo grado".

Esistono infatti margini di "persuasione", per i debitori, imprese e mutuatari ipotecari, per indurli a rinnovare le condizioni delle linee di credito già concesse, laddove gli arretrati li pongano in condizione di avere poca scelta al riguardo.


5.1. Risultato pratico (abbastanza evidente e di cui non si parla, sull sfondo della contingenza della vicenda MPS):
"E’ intervenuto il decreto legge 59 per accelerare il recupero crediti, ma non essendo retroattivo in borsa stanno ancora perdendo capitalizzazione.
In ogni caso, con il Patto Marciano, che può essere sottoscritto tra creditori e debitore, lo spossessamento di chi non è in regola con i pagamenti sarebbe immediato. Data la continua situazione di stress economico della struttura industriale (si è recuperato appena l’1% di quanto precedentemente perso e la chiamano ripresa), per cui alcuni parlano di un euro che sta asfissiando il sistema economico (si veda Gianfelice Rocca della Technint sul Financial Times di marzo), non si esclude affatto una vendita massiccia di proprietà industriali al miglior compratore.
Insomma, l’Unione Europea impone misure draconiane all’Italia che provocano la più grave recessione della storia contemporanea, il sistema economico va in tilt, il sistema bancario viene investito da una mole impressionante di crediti deteriorati e a questo punto interviene nuovamente l’Unione Europea per chiedere la risoluzione del problema delle sofferenze bancarie.
Il sistema bancario è sotto pressione via Vigilanza Europea, il sistema industriale è sotto pressione via sistema bancario italiano, e i salariati sono massacrati dal sistema economico".


5.2. Tornando al prezzo di cessione dei crediti in sofferenza, (in senso di "stima...secondo il mercato"), il miglior prezzo ammesso dalla Commissione è dunque del 25%: anche ammettendo una generalizzata, e praticamente impossibile, garanzia "marciana" di tutti i NPL del Monte dei Paschi, rispetto al prezzo di 30, balla "almeno" un 5% di differenza. Non poco su 24 miliardi.
Dunque, l'operazione immaginata dal nostro governo si presenta non solo tortuosa - com'era inevitabile una volta accettato di "stare in €uropa" a qualsiasi costo- ma anche "in salita" e molto.
Ma quello che più conta, è che il sottostante dell'operazione ("marcianizzata"), come abbiamo appena visto, è lo spossessamento da parte degli imprenditori (naturalmente medi e piccoli, in prevalenza), dei complessi aziendali e la distruzione di struttura produttiva, aggiuntiva rispetto a quella già indotta dalla recessione, a sua volta indotta dalle politiche fiscali che servono a salvare l'euro.


Questo è il "prezzo" di MPS, intesa come metafora della distruzione euristica, di cui non si parla.

E magari a pensare che tutto si possa risolvere tagliando la spesa pubblica-brutta, quando, invece, è esattamente il contrario: ma proprio il contrario (parola di Stiglitz)




UE-EURSS? NO, TOTALITARISMO NEO-LIBERISTA DEL MERCATO (con ADDENDUM)

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1. Come spesso capita, seguendo una prassi "conservativa", dei commenti più stimolanti, ci soffermiamo sulla questione della "spontaneità" dell'ordine naturale del mercato per arrivare poi a verificare la presunta equiparabilità dell'Unione Europea all'URSS.
Muoviamo dalla notazione di Philip Mirowsky (et al.) suggerita da Francesco:
il Mercato” non fa apparire naturalmente e magicamente le condizioni per il suo continuo fiorire, per questo il neoliberismo è in primis e soprattutto una teoria su come ristrutturare lo Stato al fine di garantire il successo del mercato e dei suoi attori più importanti (…)” [P. MIROWSKI - D. PLEHWE, The Road from Mont Pelerin, Harvard University Press, Cambridge, 2009, 161]".

Non che Mirowsky sia un entusiasta assertore di tutto questo: anzi, egli è uno dei più acuti e ironici osservatori critici di quel paradigma neo-liberista, che controlla saldamente governi nonchè opinione pubblica e di massa, avendo unificato il pensiero politico-filosofico (prima ancora che, ovviamente, quello economico), ormai praticamente in tutto il mondo: 
"Nel suo libro Never Let a Serious Crisis Go to Waste , Mirowski conclude nel senso che il pensiero neoliberale è divenuto così pervasivo che qualsiasi evidenza ad esso contrapponibile viene utilizzata solo per un ulteriore convincimento dei suoi seguaci circa la sua verità definitiva. Una volta che il neoliberalismo diviene una "TEORIA DEL TUTTO", fornendo una definizione rivoluzionaria del Sé, della conoscenza, dell'informazione, dei mercati e dello Stato, non può più essere falsificata da una cosa così "insignificante" come i dati dell'economia reale".
2. Ma tralasciando il pur interessante versante del pensiero di Mirowsky, l'argomento del costruttivismo (auto)occultato dei neo-liberisti è agevolmente ricavabile dal loro originario e peraltro monoliticamente immutabile pensiero: basti vedere, come"concetti di questo tipo vennero teorizzati, nel (tristemente) noto "Colloque Lippmann", da Miksch, e furono ripresi dallo stesso Einaudi in assemblea Costituente; cfr; pagg.97-98 de "La Costituzione nella palude".
Il "costruttivismo" neo-ordo-liberista è, in realtà, giustificato come restaurazione dell'ordine naturale della Legge (del mercato), e quindi in funzione "anticostruttivismo" statale.
Contraddizione su cui Ruini non mancò di ironizzare nella sua formidabile replica a Einaudi..."
Su questa considerazione si innesta l'intervento confermativo di Arturo che ci offre questa ulteriore e significativa fonte:
«La scelta – scriveva Robbins non è fra un piano o l’assenza di piano, ma fra differenti tipi di piano». Correttamente si deve parlare dell’esistenza di un piano liberale, così come si parla di un piano socialista o nazionale. 

«La ‘pianificazione’, nel suo significato moderno, comporta il controllo pubblico della produzione in una forma o in un’altra. L’intento del piano liberale era quello di creare un insieme di istituzioni in cui i piani dei privati potessero armonizzarsi. Lo scopo della moderna (pianificazione) è quello di sostituire i piani privati con quello pubblico – o in ogni caso di relegarli in una posizione di subordinazione».
Su questa base, Robbins fu allora in grado di denunciare il difetto della posizione liberale (e socialista) al livello internazionale. 

I liberali classici avevano sostenuto la necessità di introdurre una serie di istituzioni, come la moneta, la regolamentazione degli scambi e della proprietà, ecc. al fine di consentire il funzionamento del mercato: la mano invisibile è in verità, scriveva Robbins, la mano del legislatore
Ma gli economisti classici, mentre ritenevano indispensabili queste misure di governo all’interno dello Stato, avevano ingenuamente creduto che potesse spontaneamente crearsi un mercato ben ordinato e funzionante anche al livello internazionale, in una situazione di anarchia politica."
3. Ora Lionel Robbins è importante perché ebbe una non trascurabile influenza sulla visione economica e "federalista"  del "secondo" Einaudi (anzi del "terzo", dopo quello, inizialmente socialista, della gioventù): parliamo di quell'Einaudi che, dopo averlo appoggiato, prende le distanze dal fascismo, per divenire oppositore delle teorie keynesiane e sostenitore della riduzione "in polvere" degli Stati nazionali in nome dell'ordine internazionale dei mercati, un concetto trasmesso e trasposto come soluzione irenica nel manifesto di Ventotene
Di conseguenza, per quella naturale trasmissione osmotica del pensiero che nel neoliberismo raggiunge uno dei massimi livelli di efficacia e di compatto conformismo, Robbins ebbe anche un'influenza moral-scientifica sulla stessa costruzione europea
Ecco che si spiega come e perché egli stesso sostenga qualcosa che risulta in perfetta assonanza con l'ordoliberista Miksch.
Il problema è che Einaudi e Robbins, e Monnet, e Adenauer e i suoi consiglieri (Roepke, Erhard, Eucken, etc.), sono perfettamente coscienti che l'attivismo interventista del neo-Stato (bello), neo-liberista, distruttore dello Stato sociale nazionale, orientato al "sezionalismo" (cioè alla considerazione e tutela della posizione dei lavoratori...), deve proiettarsi, in un processo a fasi successive, nella graduale costruzione di un organismo sovranazionale detentore di ogni residua sovranità ammissibile, sottratta agli Stati e in parte concentrata, in parte "naturalisticamente" dispersa/soppressa in tale sede superiore.  


4. Il punto è se tale "processo"- condotto in modo che il cittadino dell'ex-Stato nazionale (e democratico) non si accorga della distruzione progessiva di sovranità democratica-, possa non divenire un inevitabile cammino verso un nuovo totalitarismo: cioè, parafrasando l'ipocrisia della rivendicazione libertaria oligarchica di Hayek, un cammino "verso la schiavitù" dei popoli soggetti a questa costruzione dell'internazionalismo neo-liberista.
 
Per risolvere questo problema, dobbiamo dunque tornare all'enunciato di Robbins sopra riportato.
Sì, perché risolto il problema della pianificazione nel senso che essa ben possa (anzi: debba) essere "neo-liberista" e promercato, una volta portato il sistema alla sua (intrinseca) internazionalizzazione, ne deriva la difficoltà di individuare QUALE INTERESSE PRIVATO debba ritenersi prevalente.

Infatti, a livello nazionale, ciò risulta relativamente semplice, seguendo le indicazioni intrinseche nel sistema del mercato (marshalliano e marginalista), quali esplicitate da Hayek sul piano politico. 

Egli compie un'implicita ridefinizione della stessa soggettività e capacità giuridica generale delle persone umane, in base ad una (neo)eguaglianza formale, restrittiva persino rispetto alle formali enunciazioni del liberalismo ottocentesco; e cioè, quella di una "piena"capacità condizionata al ricorrere della titolarità dei beni patrimoniali essenziali: capitale industriale e finanziario
In funzione della titolarità di tali beni si individuano gli interessi prescelti e da perseguire(quanto appena detto è agevolmente desumibile anche dalle istituzioni essenziali affidate alla creazione del legislatore-mano invisibile dalla predicazione di Robbins: "introdurre una serie di istituzioni, come la moneta, la regolamentazione degli scambi e della proprietà, ecc" ).

5. Ma a livello internazionale, e lo nota lo stesso Robbins, riscontrandosi una società (o comunità sociale) composta da Stati, cioè tra persone giuridiche sovrane,
manca un assetto sociologico comparabile a quello nazionale, suddiviso in proprietari-capitalisti e "minus-habentes"(cioè tutti gli altri) che sia idoneo per risolvere il conflitto distributivo mediante lo stesso criterio utilizzabile all'interno dei singoli Stati.

Si pone allora il problema di quale interesse statale, tra quelli dei vari protagonisti della comunità internazionale o di una comunità "federativa", possa incarnare, a preferenza di altri, l'interesse privato privilegiato (proprietario e capitalista) in base a cui indirizzare la pianificazione dell'intera società (composta dal substrato sociale di più Stati, appunto, "federati"). 
E poi come giustificare la qualificazione di interesse privato a cui asservire gli interventi dell'autorità sovranazionale neo-liberista, mantenendo la facciata coerente della pianificazione pro-mercatista, se ogni soggetto dell'ordinamento internazionale si presenta come l'entificazione di un'organizzazione per definizione pubblica?

6. In realtà si tratta di problemi irrisolvibili, essenzialmente perché si pretende di negare l'affermazione autoritaria, e quindi "pubblicistica", delle forze del mercato, che si contrappongono alla "libertà" di un'ampissima sfera di interessi privati "esclusi": insomma si limita fortemente, in funzione di un'oligarchia, l'interesse generale dei popoli e lo si vuol dissimulare in un'utopica e pretestuosa ricerca della pace. Ce lo spiegò la stessa Rosa Luxemburg, qualche decennio prima delle visioni di Hayek e Robbins, con icastica lucidità:
«Il carattere utopico della posizione che prospetta un’era di pace e ridimensionamento del militarismo nell’attuale ordine sociale, è chiaramente rivelato dalla sua necessità di ricorrere all’elaborazione di un progetto. Poiché è tipico delle aspirazioni utopiche delineare ricette “pratiche” nel modo più dettagliato possibile, al fine di dimostrare la loro realizzabilità. A questa tipologia appartiene anche il progetto degli “Stati Uniti d’Europa” come mezzo per la riduzione del militarismo internazionale. [...]
L’idea degli Stati Uniti d’Europa come condizione per la pace potrebbe a prima vista sembrare ad alcuni plausibile, ma a un esame più attento non ha nulla in comune con il metodo di analisi e con la concezione della socialdemocrazia. [...]

...Che un' idea così poco in sintonia con le tendenze di sviluppo non possa fondamentalmente offrire alcuna efficace soluzione, a dispetto di tutte le messinscene, è confermato anche dal destino dello slogan degli “Stati Uniti d’Europa”. Tutte le volte che i politicanti borghesi hanno sostenuto l’idea dell’europeismo, dell’unione degli stati europei, l’anno fatto rivolgendola, esplicitamente o implicitamente, contro il “pericolo giallo”, il “continente nero”, le “razze inferiori”; in poche parole l’europeismo è un aborto dell’imperialismo.
E se ora noi, in quanto socialdemocratici, volessimo provare a riempire questo vecchio barile con fresco ed apparentemente rivoluzionario vino, allora dovremmo tenere presente che i vantaggi non andrebbero dalla nostra parte, ma da quella della borghesia. Le cose hanno una loro propria logica oggettiva...".


7. E, d'altra parte, Lenin, ben conoscendo come i "federalisti dell'ordine internazionale dei mercati" potessero intendere le cose in un solo modo, aveva anticipato le pseudo-soluzioni e gli esiti di un federalismo europeo guidato dai liberisti (trionfatori nella lotta di classe proprio grazie al federalismo):
Ripassare non fa mai male: Lenin, 1915
In regime capitalistico, gli Stati Uniti d'Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie

Ma in regime capitalistico non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza. Il miliardario non può dividere con altri il "reddito nazionale" di un paese capitalista se non secondo una determinata proporzione: "secondo il capitale" (e con un supplemento [l'aumento di produttività a favore dei profitti!, ndr], affinché il grande capitale riceva più di quel che gli spetta). Il capitalismo è la proprietà privata dei mezzi di produzione e l'anarchia della produzione [ovvero privatizzazioni e anarco-liberismo, ndr]. Predicare una "giusta" divisione del reddito su tale base è proudhonismo, ignoranza piccolo-borghese, filisteismo. Non si può dividere se non "secondo la forza".È la forza che cambia nel corso dello sviluppo economico."

8. Dunque, i problemi di "pacifica" (id est. "razionale") individuazione degli interessi da perseguire nell'interventismo neo-liberistainternazionalizzato, sono irrisolvibili: e lo sono all'interno degli stessi interessi comuni delle elites "parti" dell'accordo, - che rimangono pur sempre divise dalle diverse originie strutture nazionali del capitali.A decidere può essere sempre e solo la "forza": e ogni finalità di pace è solo una simulazione di facciata.

Ma date le premesse dei neo-liberisti federalisti, questi problemi in definitiva sono una false flag: a nessuno veramente importa che non ci sia un criterio, nell'ambito del diritto internazionale, per stabilire quale gruppo di capitalisti debba essere privilegiato, a scapito di altri, nella regolazione pianificata della società sovranazionale regolata dal mercato: cioè, appunto, una Grande Società dove piuttostoprevale come valore, l'obiettivo della unificazione federalista, che risolve(rebbe) ogni problema in una saldatura degli interessi di classe che le elites capitaliste mettono, in qualche modo, in comune
Una classe transnazionale di oligarchi della finanza e del capitale industriale (finanziarizzato), si coagula per stabilire regole cogenti e irresistibili che ridurranno a miti consigli le rispettive classi sociali contrapposte; in particolare i lavoratori, "controparte" di mercato indebolita dall'apertura delle economie nazionali. 
Queste ultime, infatti, permangono come punto di riferimento meramente contabile, e non più politico-sociale, degli equilibri delle partite correnti e delle esortazioni a sopportare i costi della corsa alla "competitività".
Cioè, in pratica, internazionalizzaione dei profitti, e nazionalizzazione dei costi per i lavoratori.

9. Tuttavia, nonostante l'accordo di saldatura degli interessi elitari transnazionali, una volta riportata la prospettiva al livello di riferimento nazionale,cioè alle masse non tutelabili per definizione nella privazione progressiva e "non avvertita" della sovranità democratica da parte dei singoli popoli, le elites che danno vita al disegno non escludono una lotta feroce. 
(Il TUE, art.3, par.3, parla di economia (sociale) di mercato fortemente competitiva).

E dunque ha ragione Lenin: non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza.
Ed è così che ci troviamo, oggi, a fronteggiare, l'arrembante ordoliberismo pianificatore e super interventista della Germania: naturalmente interventista con legislazione pro-mercato, come ben vediamo in occasione della crisi indotta dalla regolazione introdotta con l'Unione bancaria,  ma non solo.  
Solo che l'intervento della pianificazione neo-liberista, come avevano pronosticato 100 anni fa Lenin e Luxemburg,è NATURALMENTE DIRETTO A PRESERVARE E RAFFORZARE LA POSIZIONE DELLE ELITES NAZIONALI CHE, GRAZIE ALLA ISTITUZIONE "FEDERALISTA", HANNO VINTO LA COMPETIZIONE SUL MERCATO

10. E la prova di ciò l'abbiamo nella vicenda dell'euro: al principio del processo di pianificazione dell'ordine internazionale dei mercati, le elite si accordano per farne il fulcro della denazionalizzazionedella moneta e delle stesse politiche fiscali. Stabiliti i rapporti di forza e di suddivisione dei "dividendi" (di cui tanto si parla, tutt'ora), cioè registrati gli esiti della spietata competizione,i danni sociali a livello popolar-nazionale non trattengono da alcuna ulteriore misura tesa e conservare l'utilità elitaria della moneta unica (controllo del mercato del lavoro e dell'intero conflitto distributivo che l'euro consente). 
Da ciò, senza alcuna resistenza politica nazionale, (almeno in Italia), regole, attuative della più ampia pianificazione mercatista, quali il fiscal compact e l'Unione bancaria, coi suoi "meccanismi di risoluzione", che riducono il perdente della "guerra dell'euro" a quasi-colonia sotto ricatto armato della BCE.

Ne discende una situazione di rapporti di forza in consolidamento e divaricazione: il "centro" vincitore diventa paese imperialista e i paesi perdenti, divenuti periferici, divengono poco più che colonie.
Ecco che, dunque, il disegno federalista dell'ordine internazionale dei mercati, cioè l'unione del "mercato unico" a danno del lavoro,  rivela il suo inevitabile esito totalitario
Ed essendo intollerante, culturalmente e politicamente, rispetto a qualsiasi contraddizione e opposizione, diviene anche inevitabilmente autoritario.

11. Che il (neo)liberismo, quale che sia l'alibi dietro cui viene nascosta la inevitabile natura oligarchica e antisociale dell'ordine del mercato, avesse un esito autoritario, ce lo aveva già dimostrato questo post di Bazaar:
"...il totalitarismo non è altro che la fase assoluta a cui tende il sistema capitalistico liberale – senza freni e limiti – nel momento in cui viene mercificato e monopolisticamente prezzato qualsiasi oggetto sensibile, da qualsiasi risorsa naturale, all'uomo, dalle norme morali, ai sentimenti.Sheldon Wolin, il grande teorico politico americano recentemente scomparso, all'inizio degli anni 2000, analizzando la proiezione degli Stati Uniti sul mondo, propose la definizione di “totalitarismo rovesciato...




Vediamo ad esempio C. Friedrich e Z. Brzeziński (1956) sul significato storico di totalitarismo, proponendo già alcuni spunti di riflessione tra parentesi quadre: 
a) un'ideologia onnicomprensiva che promette la piena realizzazione dell'umanità; [tipo il “mondialismo”?]
b) un partito unico di massa, per lo più guidato da un capo, che controlla l'apparato statale e si sovrappone a esso;
[tipo il “PUDE”, il “PUO” o il partito unico liberale con a capo il Grande Fratello, ovvero il Mercato?]
c) un monopolio quasi totale degli strumenti della comunicazione di massa;
d) un monopolio quasi totale degli strumenti di coercizione e della violenza armata;
e) un terrore poliziesco esercitato attraverso la
costrizione sia fisica sia psicologica, che si abbatte arbitrariamente su intere classi e gruppi della popolazione;
f) una direzione centralizzata dell'economia.
[Possiamo chiamare anche questo “monopolio” di un mercato massimamente concentrato che pianifica produzione e fissa i prezzi?]...


Le differenze che trova Sheldon Wolin in forma di attributi di segno inverso nell'attuale totalitarismo sono principalmente tre:
1 – Le grandi imprese sostituiscono lo Stato come principale attore economico e, tramite attività di lobbying, controllano il governosenza che ciò sia ritenuto corruzione;
2 – Non viene più ricercata una costante mobilitazione di massa a fini di propaganda, ma la popolazione viene tenuta in uno stato perenne di apatia politica;[9]
3 – La democrazia viene formalmente rivendicata e proposta come modello al mondo intero".


12. Riassumendo: ci pare evidente come, senza neppure ricorrere a tutte le illustri e sofisticate analisi finora richiamate:
a) un ordine dei mercati proiettato a livello sovranazionale sia, necessariamente, il frutto di un accordo concluso tra elites di operatori economici, proprietari del capitale finanziario e produttivo
b) tale accordodiviene il presupposto AUTOMATICO per una intensa pianificazione normativa, di tutela degli interessi e dei RAPPORTI DI FORZA  che si manifesteranno nella competizione;
c) una competizione, però, non assolutamente libera e lasciata a forze naturalistiche, bensì svoltasi sulla base delle regole che sono state stabilite nell'accordo tra elites.

13. Questa idea del mercato è intrinsecamente autoritaria, perché geneticamente orientata a perseguire istituzionalmente sologli interessi delle elites: l'istituzione (moneta, regole del mercato, governance delle relative politiche), detterà norme e applicherà sanzioni a vantaggio di queste elites e PER ASSOGGETTARE LE NON ELITES. 
Questo autoritarismo è la negazione della democrazia e pertanto esige un continuo sforzo di controllo politico-culturale sul substrato sociale delle non elites.
Per esercitare questo sforzo continuo di controllo sociale si sviluppa, appunto, l'istituzionalismo sovranazionale neo-liberista che, come evidenzia Mirowsky, rivendica ormai il ruolo di "teoria del tutto": e proprio come tale il neoliberismosfocia inevitabilmente in un TOTALITARISMO DEL MERCATO, nella nuova forma che evidenzia Wolin. 
Una forma, cioè che controlla le istituzioni formali in assoluta mancanza di trasparenza e assunzione di responsabilità, distrugge cultura e consapevolezza nella massa di non-elite e predica un simulacro esile, contraddittorio, e spesso ridicolo, di democrazia. 
Ma come ogni autoritarismo totalitario non rinuncia a creare un"uomo nuovo", un essere perfettamente asservito alle esigenze del mercato e della competitività,incapace di avere altra aspirazione che assecondare e massimizzare questi pseudo-valorimercatori, concordati dalle elites e offerti come prospettiva di "pace" e di benessere (!), contro ogni evidenza.

14. In questo quadro, nulla risulta più inesatto, se non addirittura grottesco, che fare un accostamento del federalismo europeo, - pianificatore della privatizzazione oligarchica di ogni istituzione e di ogni gerarchia creata dalla spietata competizione-con l'URSS.
L'ipotesi di Vladimir Bukovskji che vi sia una somiglianza con l'URSS, e addirittura una "strumentalità" dell'UE rispetto all'assoggettamento dei popoli europei al dominio "sovietico", è una mera fantasia priva di qualsiasi attendibilità analitica e non corrispondente alla realtà storica e fenomenologica del federalismo europeo, cioè del neo-ordoliberismo istituzionalizzato, di cui abbiamo visti gli esiti inevitabili.
Spero che le persone dotate di intelligenza critica e cultura non parlino più di EURSS.E guardino alla ipermanifesta realtà, nella quale il neo-liberismo, con il suo ordine sovranazionale dei mercati, e il suo liberoscambismo istituzionalizzato, teorizza apertamente i suoi esiti "pianificatori" e la sua idea totalitaria e antiumana della società e del "Tutto".

ADDENDUM: i termini della questione relativa al totalitarismo come conseguenza insita nelle premesse stesse del neo-liberismo, avrebbero dovuto essere insiti nel post che precede.
Ma, constatata, per vari aspetti, una certà difficoltà a trarreun'agevole schematizzazione critica della questione stessa, prendo spunto da un commento di Bazaar, per proporre uno schema riassuntivo che, spero, risulti chiarificatore.
"1. Riassumo in termini semplificati la questione: il socialismo reale sovietico vuole modificare la struttura sociale ma non l'essere umano nella sua essenza psicologica e antropologica (ciò che è la caratteristica del totalitarismo).
E non considera questa opzione come razionale proprio perché non la considera "reale": si rende infatti conto che tale essenza delle dinamiche sociali è immodificabile;cioè antropologicamente la società tende a produrre delle posizioni di forza politico-economica e delle norme per conservarle. Perciò, per risolvere con "effettività" il problema,sceglie l'autoritarismo, cioè un regime che usa la forza per realizzare il cambiamento sociale strutturale.

1.1. C'è un versante utopico e antiumano in ciò?
Sì, perché il "metodo" non solo si rivela (inevitabilmente, direi) nontransitorio(id est. delimitato a una fase "instaurativa"), come inizialmente lo si voleva giustificare, ma contiene in sè i germi della strutturazione del potere burocratizzata e anti-libertaria (in senso essenziale: libertà di parola, di stampa, di movimento, di inviolabilità della persona e del domicilio, ecc.). Rosa Luxemburgè chiara su questo punto. Lo ritiene un costo non giustificabile.

2. Il neo-liberismo, a sua volta, muove sempre dalla stessa premessa ma ne inverte il senso valoriale: ritiene che le posizioni prevalenti, economico-politiche, DEBBANO essere preservate istituzionalmente, ma considera tale obiettivo strutturale una "Legge naturale", con pretesa di scientificità: poiché, poi (come hai sempre evidenziato), convidide l'analisi strutturale marxista della società, si rende conto della incessante conflittualità determinata da tale Legge naturale.

Perciò teorizza e attua, come prassi politica, un sistema di controllo sociale autoritario del conflitto (in varie forme, di cui le principali, contemporanee, sono il sistema mediatico e quello monetario): questo sistema è funzionale ad una DEFINITIVA MUTAZIONE dell'orientamento psicologico e esistenziale dell'essere umano (cioè vuole invertire la sua autopercezione di essere capace di autodeterminarsi, sia pure entro limiti storicamente "convenzionali").

2.1. Questa utopia-distopia, ben evidenziata da Orwell, fornisce alla Storia un formidabile paradosso: per strutturare la naturalità (scientifica) delle Leggi del mercato, e le loro conseguenze di gerarchizzazione sociale definitiva (come già nelle teorie teocratiche del medio-evo, da parte dell'aristocrazia terriera che, pure, svolgeva, in origine, una funzione difensiva del minimo di sopravvivenza delle comunità territoriali), il neo-liberismo ritiene indispensabile modificare la "natura" degli esseri umani, rendendoli propensi ad accettare la schiavitù come fatto normativo "fondante" (grund-norm complementare a quella dell'ordine del mercato).

Esattamente in questa pars construens consiste il totalitarismo e la differenza insanabile con l'autoritarismo sovietico: l'essere umano deve, senza alternative, riconoscere la colpa di non essere "naturalmente" nel modo in cui gli imporrebbe...la Legge naturale del mercato.

2.2. Come dice Hayek, nell'aforisma qui infinite volte citato, per realizzare ciò ogni strumento e ogni fine deve essere riplasmato dall'elite degli eletti.
In questa contraddizione, incentrata sull'innaturalità consapevole della prassi politica predicata - elemento che fa cadere anche la naturalità della premessa (sull'ordine del mercato), (come attestano Basso, Mirowsky, Miksch e via dicendo: cioè chiunque ci ragioni, da qualunque punto di partenza muova)-, è il clou del totalitarismo.
Che è dunque un carattere proprio del liberismo e a cui questo, per questioni di continuità di potere e, quindi, per la sua stessa sopravvivenza, NON POTRA' MAI E POI MAI RINUNCIARE.

 

ANTIFASCISMO SU MARTE E LIBERISMO: L'IRRESISTIBILE TINA GUERRAFONDAIO

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1. Su segnalazione di Alberto (di cui riproduciamo più sotto un commento svolto su Goofynomics e connesso al tema, in un modo che dovrebbe risultare evidente), pubblichiamo per intero un post tratto dal blog di "Correttore di bozzi".
La ragione per cui lo facciamo, trattandosi di un eccezionale episodio di post "esogeno", non sta nella semplice citazione ragionata di una serie di post di orizzonte48, richiamati come antecedenti per la comprensione del tema, quanto nella esigenza di "non dispersione" e di completezza del discorso intrapreso in questa sede.
Il post in questione si integra in tale discorso e consente dunque un arricchimento della comprensione asseverata da fonti preziose: da conservare, appunto...

Materiale sui rapporti fra fascismo e liberismo


Data la lunghezza, pubblico qui le citazioni di supporto alla risposta a questo commento su Goofynomics.

Oltre a quanto segue si consiglia la lettura di (almeno) questi articoli sul blog di Luciano Barra Caracciolo:



Dal libro di Raffaello Uboldi, La presa del potere di Benito Mussolini (p. 137 e seguente):

Del resto non è che piaccia troppo questo romagnolo di dubbie origini e di dubbio credo, quello che vogliono i capitani d'industria è soprattutto tornare a lavorare e produrre adesso che lo spettro della rivoluzione è stato esorcizzato. Si vuole comunque capire —a pericolo cessato— dove il fascismo intende portare il paese, semmai arriverà al potere. Da qui le rassicurazioni, che non mancano, e non mancheranno, partendo dalla prospettiva di uno Stato «manchesteriano», cioè privatizzato, che Mussolini ha così delineato:

«Lo Stato ci dia una polizia, che salvi i galantuomoni dai furfanti, una giustizia bene organizzata, un esercito pronto per tutte le eventualità, una politica estera intonata alle necessità nazionali. Tutto il resto, e non escludo nemmeno la scuola secondaria, deve rientrare nell'attività privata dell'individuo».

Una affermazione di principio, un solenne articolo di fede cui ha fatto seguito la pubblicazione di un più preciso programma economico-finanziario fascista, redatto da due convinti liberisti, Massimo Rocca e Ottavio Corgini. Un programma che prevede l'abolizione dell'iniziativa parlamentare in materia di proposte di nuove spese, la riforma della burocrazia, la cessione ai privati delle aziende industriali di Stato, l'abolizione degli organi statali inutili, la razionalizzazione dei tributi e delle leggi che inceppano la produzione.

Programma che prevede l'enunciazione di una teoria del trickle-downante litteram:
E sul finire: «Nulla è più falso della pretesa di tassare i ricchi per risparmiare i poveri. In realtà tutti i produttori, del braccio e del pensiero, esecutori e dirigenti, sono legati alle sorti dell'economia nazionale, e la demagogia finanziaria che inceppa l'attività di questi, ricade fatalmente su quelli con i suoi danni presenti e senza alcun utile positivo».

Uboldi precisa: “Non sarà questa, non al cento per cento, la politica economica dello Stato fascista, che annacquerà il liberalismo delle origine nelle pastoie del corporativismo.” 
Certo, se hai dei propositi bellicosi, una politica economica che ti deprime l'economia e porta alla fame quelli che dovranno costituire il grosso del tuo esercito non è il massimo.

Poi spunta er padre della Patria che si esprime sulla Voce del Padrone:
Si capiscono tuttavia le reazioni del mondo economico. Valga per tutti il commento del «Corriere della Sera». Per la penna di Einaudi si legge che «il programma … di Corgini e Rocca è un esempio di ritorno alle sorgenti. Nel caso nostro le sorgenti sono quelle liberali dell'economia classica, adattate alle necessità dell'ora presente».

Ancora sul programma di Rocca e Corgini, questa volta tratto da Le politiche economiche e finanziarie del governo Mussolini negli anni ‘20 di Andrea Virga, ritroviamo la riduzione del perimetro dello Stato, il taglio delle tasse e il pareggio di bilancio:

Il Fascismo Nazionale
...
Un altro documento di grande importanza è la relazione pel risanamento finanziario dello Stato, presentata da Massimo Rocca e Ottavio Corgini alla vigilia della Marcia su Roma[12] (Partito Nazionale Fascista, Per il risanamento della finanza pubblica, Roma, settembre 1922.). In primo luogo, esso lamenta il continuo peggioramento del disavanzo annuale dello Stato, per cui accusa le richieste di spesa del Parlamento, e al cui proposito raccomanda l’abolizione dell’iniziativa parlamentare, in favore del solo lavoro del Ministero delle Finanze. Oltre ai soliti appunti sulla necessità di riformare la burocrazia e snellire il sistema tributario, è rilevante il proposito di “equilibrare le tassazioni”, ovvero ridurre la pressione fiscale sulle classi capitaliste, in modo da colmare il deficit non già grazie alle imposte, ma grazie all’aumento della produzione e della ricchezza. Queste misure dovrebbero secondo i relatori eliminare il disavanzo fiscale, condizione questa indispensabile per limitare il ribasso della valuta e l’aumento del costo della vita.

Poi ci fu la battaglia per la moneta forte:
La "battaglia di quota novanta"
...
Un tale rafforzamento sgomentò lo stesso Volpi, il quale si interrogò circa l’opportunità di una simile rivalutazione, ma Mussolini insistette sul valore, ormai propagandistico, della "quota 90".
Gli effetti politici furono senz’altro positivi, soprattutto sul piano del consenso. Le conseguenze economiche, tuttavia, risultarono in una forte contrazione del credito e una pesante deflazione, con un aumento rapido e vertiginoso della disoccupazione da 241.889 (30 giugno 1927) a 341.782 (31 ottobre). Nonostante ciò, piuttosto che tornare a una svalutazione della lira fino a raggiungere un valore più favorevole, si preferì agire con tre provvedimenti principali: la riduzione dell’indennità caro-vita e dei salari, l’alleggerimento del carico fiscale e la riduzione degli affitti.

Infine, tratto daMises on Fascism, Democracy, and Other Questions, il parere ben informato dei liberisti su quale sia la libertà a cui sono interessati e che il fascismo gli potrebbe garantire:

Giretti’s initial support of the Fascist movement is highly illuminating:

I am more than ever convinced that without economic liberty, liberalism is an abstraction devoid of any real content, when it is not a mere electoral hypocrisy and imposture. If Mussolini with his political dictatorship will give us a regime of greater economic freedom than that which we have had from the dominant parliamentary mafias in the last one hundred years, the sum of good which the country could derive from his government would surpass by far that of evil.

Thus, at this early point, Giretti, like the other liberisti, shared the interpretation of Fascism which one scholar has attributed to Luigi Albertini, editor of the influential Corriere della Sera, that it was “a movement at once anti-Bolshevik (in the name of the authority of the state) and economically liberal, capable, that is, of giving a new vigor” to the liberal idea in Italy.90
A major early Fascist figure who was also an economic liberal was Leandro Arpinati, leader of the squadristi of Bologna. Arpinati later broke with Mussolini over the latter’s increasingly interventionist policies.
” 

2. Questo poi il commento di Alberto Bagnai su un tema strettamente connesso e, purtroppo, oggi tornato di angosciante attualità (citerò poi altri commenti tratti dal dibattito generato da quel post, dibattito che invito a leggere integralmente):
"...Io non sto dicendo che le parti belligeranti nella seconda guerra mondiale si siano dichiarate rispettivamente liberista e antiliberista, per poi combattersi frontalmente come in un simpatico torneo medievale. Io sto dicendo una cosa un po' diversa, che nessuno mi sembra voglia capire (il che spiega, peraltro, perché si stia ripetendo):
[1] che il capitalismo presenta una sua intrinseca instabilità, che si esalta nel momento in cui le istanze "liberiste" (pro capitale) prendono il sopravvento schiacciando la distribuzione dei redditi da lavoro e aprendo la strada alla finanziarizzazione del sistema;

[2] che, a valle delle crisi che questo modello "liberista" cagiona, la risposta "liberista"è deflazionista;

[3] che a valle della spirale deflazionista, l'unico modo per far ripartire il sistema è una guerra, e che quindi, strutturalmente, la causa della guerra è un certo modo di gestire i rapporti sociali di produzione (modo che abbiamo deciso un po' sbrigativamente di identificare con il termine "liberista", sul quale ci sarebbe da discutere);

[4] che, a valle degli orrori della guerra, le forme umane senzienti mantengono una labile memoria del come ci si sia arrivati, e quindi producono Piani Beveridge e quant'altro, determinando "a ratifica" del conflitto una sua sostanziale rilettura funzionale in chiave "antiliberista" (perché l'esito del conflitto è COMUNQUE ANCHE che le politiche liberiste vengono temporaneamente accantonate pro bono pacis).

[5] che queste dinamiche si stanno riproducendo oggi nei loro tratti essenziali.

Spero che saremo d'accordo sul fatto che Roosevelt non ha fatto ripartire l'America perché era "cheinesiano antilibberista": l'ha fatta ripartire perché si è fatto tirar giù qualche naviglio in una isoletta che non saprei localizzare esattamente sulla carta geografica, dopo di che si è "dovuto" regolare di conseguenza.
Ci siamo, no?

Quindi, la risposta su chi e come scatenerà il prossimo conflitto antideflazionista mi pare sia piuttosto chiara: come nel caso precedente, gli Stati Uniti. Mi pare anche che ci stiano provando in ogni e qualsiasi modo e alla fine ci riusciranno. Lo scrivono sui loro giornali che c'è bisogno di una guerra per uscire dalla "secular stagnation". Lo avrà notato, no? Notarlo è il suo lavoro e sono sicuro che lei lo fa benissimo. Può sembrare paradossale, ma non lo è tanto: alla fine è il liberismo (capitalismo) che combatte se stesso per assicurare la propria sopravvivenza. E finora ha funzionato, con grande smarrimento di chi proponeva un modello alternativo".

3. Va soggiunto che, in uno scenario di potenze internazionali dotate di armi nucleari strategiche (ma anche "tattiche"), l'irresistibile deriva guerrafondaia può, logicamente e prevedibilmente, assumere caratteri ben diversi da quelli della seconda guerra mondiale (di cui condividiamo la definizione, originata da Karl Schmitt, di "guerra civile mondiale": per capire meglio questa acuta definizione, occorrerebbe uscire dalla visione europeo-centrica della stessa ultima guerra mondiale e verificare l'andamento del conflitto in altre, oggi più che mai, importanti aree del mondo).
Ma, anche questo, è un discorso già svolto in varie occasioni (che forse vale la pena di approfondire ulteriormente; per quanto questo sia un blog di analisi economica del diritto pubblico)... 
ADDENDUM: ci pare giusto, per completezza di fonti direttamente attestanti l'analisi riportata nel post, questa citazione compiuta da Bazaar nei commenti:
"...riproduco qui, per ordine, il passo di Ludwig von Mises recentemente riportato:

«Non si può negare che fascismo e movimenti simili, finalizzati ad imporre delle dittature, siano pieni delle migliori intenzioni e che il loro intervento abbia, per il momento, salvato la civiltà europea. Il merito che il fascismo ha così ottenuto per sé, continuerà a vivere in eterno nella storia. Ma se la sua politica ha portato la salvezza, per il momento, non è della specie che potrebbe promettere di continuare ad avere successo. Il fascismo è stato un ripiego d'emergenza. Vederlo come qualcosa di più sarebbe un errore fatale.»

Mises maestro di Hayek (e anche consulente sull'euro ante-litteram del fondatore di Paneuropa) ammette, di fatto, che il totalitarismo nasce come risposta del liberalismo classico alle rivendicazioni socialiste e democratiche

DISASTRO E EFFICIENZA NELL'ERA €URISTICA (il "ridicolo Monopoli")

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++ Scontro tra treni: fonti, quattro morti ++

"Lo scontro, ripetiamo, è avvenuto in aperta campagna ed è giustificabile soltanto con la mancata accensione del segnale di blocco in una delle due stazioni da cui provenivano i treni. 
Le prime ricostruzioni “aziendali” parlano – come sempre di “errore umano”, tacendo vergognosamente delle ragioni per cui un errore umano puà prodursi in determinate condizioni. 
Parliamo infatti di un sistema di trasporto su rotaia, dunque con percorso obbligato, su cui possono essere installate tecnologie e sensori a costi ormai bassissimi. Ma non lo si fa, per “risparmiare” sui costi.
Al contrario, da oltre venti anni Fs (già sotto la gestione “privatizzante” di Mauro Moretti, ex segretario della Filt Cgil, traslocato quasi in una notte da quella carica a quella di amministratore delegato della Rete Ferroviaria Italiana, poi asceso alla carica di amministratore delegato di Fs e ora nello stesso ruolo in Finmeccanica-Leonardo) l’azienda ha imposto il ritorno all’”agente unico”, ovvero a un solo macchinista per treno, con il solo ausilio dell’”uomo morto”, un vecchio meccanismo a pedale che costringe il macchinista a distribuire la sua concentrazione tra la guida del treno e il pedale da premere ogni tot secondi. 
In queste condizioni di lavoro “l’errore” diventa statisticamente inevitabile. Basta moltiplicare le ore di guida di “macchinisti soli”, contrattualmente fissate ma con straordinario obbligato, per il numero di tratte a binario altrettanto unico. 
Ci si aggiunga una giornata torrida, a oltre 40 gradi all’ombra, è si vedrà che queste probabilità crescono esponenzialmente. Quando basterebbero pochi sensori per bloccare automaticamente la marcia dei treni molto prima di ogni possibile impatto.
Ma la stessa logica è stata applicata alla sanità, quindi al sistema dei pronto soccorso e dei dervizi di autoambulanza, quasi completamente privatizzato. Qui la politica dei tagli alla spesa pubblica ha rarefatto i punti di assistenza sanitaria, il personale disponibile per i soccorsi e contemporaneamente allungato i percorsi che le autoambulanze – in numero minore – debbono coprire".

2. Possiamo fare un primo commento ricorrendo alla più volte citata analisi di Florio, in un passaggio che si attaglia alla situazione accennata nella "descrizione a caldo", con gli opportuni adattamenti alla situazione delle forme societarie di gestione privatizzata (in concessione) di servizi pubblici non particolarmente lucrativi (tipici quelli di trasporto locale):
"Mi sono convinto, soprattutto studiando il caso Telecom Italia (in I ritorni paralleli di Telecom Italia), che la vera origine delle privatizzazioni non sia il liberismo, anche se ovviamente i miti della libera concorrenza hanno avuto un peso nella retorica, ma uno scambio fra rendite politiche e finanziarie

La tesi che ho sostenuto (in Le privatizzazioni come mito riformista) è che in particolare la sinistra, oltre più ovviamente la destra, abbia cercato di accreditarsi presso i gestori della finanza offrendo loro in pasto delle attività perfette per montarvi operazioni speculative, garantite dalla dinamica nel tempo dei flussi di cassa. Il caso delle autostrade è in questo senso emblematico. Il rischio imprenditoriale è nullo, la rendita garantita, gli investimenti attuati minimi e neppure rispettati, le tariffe aumentano con e più dell’inflazione, il contribuente continua a farsi carico della spesa per la rete in aree meno ricche e più a rischio (vedi autostrada Salerno-Reggio Calabria e grande viabilità interregionale), mentre un ambiente imprenditoriale come quello dei Benetton e altri sono diventati dei concessionari, con tutto quello che questo implica di rapporti con la politica. 
In tutti i settori privatizzati le spese di ricerca e sviluppo sono diminuite, indebolendo il potenziale tecnologico".

Il XX secolo iniziava con una situazione precaria del sistema "privatistico" delle ferrovie italiane; la carenza di investimenti da un lato e la scarsa remuneratività di molti settori dell'esercizio dall'altro aveva spinto le società ad un sempre maggiore sfruttamento dei lavoratori il cui impegno travalicava spesso ogni ragionevole limite
Sempre più accese manifestazioni sindacali spinsero molti settori dell'opinione pubblica e della politica a chiedere la rescissione delle "Convenzioni". 
Alla fine del 1898 era stata istituita una "Commissione parlamentare di studio per il riordino delle strade ferrate" le cui conclusioni concordavano sull'ovvia constatazione che per il loro valore strategico le ferrovie non potevano ulteriormente essere lasciate in mano a gruppi finanziari privati. 
Il Regio decreto n.250 del 15 giugno 1905 istituiva l'"Amministrazione autonoma delle Ferrovie dello Stato" allo scopo di affidarle la gestione della rete fino ad allora gestita dalle precedenti compagnie[75]
Il riscatto delle reti delle predette società avvenne il 1º luglio del 1905, con l'entrata in vigore della legge 137 del 22 aprile 1905 sul riordino delle ferrovie detta anche "legge Fortis". 
Lo Stato assunse quindi la gestione diretta di 10.557 km di linee (di cui 9.868 già di sua proprietà), denominandola rete delle "Ferrovie dello Stato". L'anno dopo, con la confluenza della rete SFM rimasta, l'estensione della Rete di Stato raggiunse i 13.075 km, di cui 1.917 a doppio binario[76]. La struttura dell'amministrazione ferroviaria statale venne definita nel luglio del 1907 per mezzo di apposita legge per l'esercizio da parte dello Stato delle ferrovie non concesse all'industria privata". 
Il sistema di concessione di tratte ferroviarie locali a gestori privati proseguì, ma all'interno di un sistema di rigido controllo degli standard e di contribuzione pubblica alla rete e alla gestione: una gestione sostanzialmente vigilata a livello ministeriale (come per le stesse FF.SS:), che garantiva la coerenza e funzionalità all'interesse pubblico di tutti i principali atti del gestore. 
La contribuzione statale, naturalmente, ha subito anch'essa la sorte della spesa pubblica primaria seguita al consolidamento fiscale imposto da Maastricht in poi, attraverso, quantomeno, la cristallizzazione in termini reali, (al netto dell'inflazione), e l'introduzione di "condizionalità" conformative alla gestione privastistica "efficiente". 
E infatti, i vari fondi trasferiti dallo Stato alle regioni e agli enti locali di conseguenza sono oggetto di assegnazione in funzione del c.d. efficientamento: cioè della riduzione dei costi di esercizio e dei "servizi offerti in eccesso rispetto alla domanda", dell'incremento dei ricavi in rapporto ai costi operativi e della "definizione di livelli occupazionali adeguati" (parametro che pare rinviare al taglio del personale ritenuto in eccesso rispetto alla riduzione dei costi e dei servizi...in eccesso).

4. Le cose sono dunque cambiate, nel senso indicato da Florio, a cui occorre aggiungere le politiche fiscali che, in termini generalizzati, limitano i trasferimenti agli enti locali con la conseguente logica della gestione "efficiente" di taglio dei costi e degli investimenti.  
Col paradossale ritorno (€uropean-way) alla situazione che, nel 1905, aveva portato alla "statizzazione":
"Gli inizi degli anni duemila sono stati caratterizzati dalla cosiddetta liberalizzazione, cioè dalla possibilità che più imprese ferroviarie possano effettuare servizi sulla rete. 
Tale liberalizzazione tuttavia riguarda i servizi ma non l'infrastruttura rimasta di proprietà e gestita da un soggetto unico, RFI, di fatto monopolista. 
Sull'infrastruttura, in seguito alle autorizzazioni ottenute, hanno però iniziato a transitare treni di soggetti diversi, a volte concorrenti altre volte con accordi di complementarità[113]
Nel settore del trasporto merci, soprattutto di tipo specializzato o a treno completo si è assistito alla nascita di numerose imprese a partire dal 2001, prima in assoluto Ferrovie Nord Milano Cargo, poi Ferrovie Nord Cargo, ramo di Ferrovie Nord Milano Esercizio, che ha di fatto interrotto il monopolio delle Ferrovie Statali effettuando il primo treno merci "privato" da Melzo a Zeebrugge in Belgio il 25 settembre 2001, un treno combinato trainato dal locomotore Skòda E630-03; successivamente l'impresa a capitale privato RTC Rail Traction Company operante sull'asse del Brennero; mentre è rimasta carente la concorrenza ai servizi viaggiatori di Trenitalia da parte dei soggetti privati. Unica eccezione la NTV (Italotreno), ma nel settore dell'alta velocità...

...Il tentativo di dare origine a un trasporto pendolare o a lunga distanza effettuato da Arenaways[117][118][119][120]è invece andato incontro al fallimento a causa di molteplici motivazioni tra cui la difficoltà ad ottenere da RFI "tracce orario" e itinerari ritenuti convenienti[121].

In atto, fino al 2014, la "liberalizzazione delle ferrovie" in Italia ha prodotto, oltre all'operatore interamente privato NTV, pochi esempi di circolazione di treni viaggiatori di altri soggetti, solo apparentemente privati,[122] ma in realtà collegati ad enti regionali o locali o da essi dipendenti, su tratte di interesse prettamente locale o pendolare".
  
5. Andando a ritroso nella spiegazione sistemica di tragici fenomeni del genere, ricorriamo ad un primo schema generale, di recente elaborato:
"...si possono fare crociate moralizzatrici per ottenere risparmi e tagliare gli sprechi: ma in un'organizzazione sociale che, come l'UE-M, normativizza l'inderogabile prevalenza del mercato, si ritiene che quasi ogni tipo di utilità possa essere resa all'interno di un ordinario contratto di scambio tra privati: tranne l'eccezionale e residuale ipotesi di beni non "rivali" e non "escludibili"(il "faro" e, oggi, con sempre meno convinzione, la difesa nazionale), tutto dovrebbe essere "razionato" efficientemente col sistema dei prezzi
Dunque apprestare ai consumatori/utenti quell'utilità - la pubblica istruzione, la sanità e le connesse forme di assistenza sociale, la costruzione e gestione di un ponte o di un'autostrada, il servizio di trasporto collettivo, - "deve" essere consentito, progressivamente ma inevitabilmente, a  qualsiasi operatore privato che, assicurandosi (tendenzialmente) un prezzo pari al costo marginale di erogazione, garantirebbe l'efficienza massima ottenibile.
Per promuovere al meglio questo sistema di razionamento efficiente - non necessariamente concorrenziale: l'importante è che sia privato- dei beni/utilità un tempo pubblici, occorre rendere sempre più alto il costo marginale di produzione pubblica, in modo che, appunto, l'ente pubblico debba prendere atto che "non ce lo possiamo più permettere"
Per fare ciò si procede al "razionamento" della moneta, escludendo la legittimità dell'emissione di moneta pubblica(ovvero "sovrana") e imponendo il pareggio di bilancio.
Rammentiamo: basta quello "primario", cioè con deficit solo determinato dall'ammontare degli interessi sul debito contratto in passato e con l'imposizione di crescenti "avanzi primari" che progressivamente portino al "pieno" pareggio di bilancio con l'estinzione del debito pregresso. 
Con tale sistema si rendono lo Stato e, ancor più accentuatamente, gli enti locali, dei debitori di diritto comune.
In tal modo, il settore pubblico diviene privo del flusso della moneta "pubblica", e affetto da una  costosa "scarsità" della moneta privata ottenibile dal settore bancario privato; ciò lo induce ad accrescere, via tassazione (centrale e specialmente locale) i flussi di reddito offerti a garanzia dell'ottenimento fiduciario del "credito" privato ma, specialmente, della sua restituzione,  e, contemporaneamente, a dover procedere alla predetta privatizzazione di tutte le attività assoggettabili al pieno sistema dei prezzi privatistico.
...Che senso ha occuparsi di tagli degli sprechi se la gran parte degli stessi sprechi sono determinati, strutturalmente, dalla mancanza di adeguati investimenti in strutture e competenze,  nonché dall'abolizione del sistema dei controlli preventivi? Sono, queste, tutte caratteristiche ordinamentali complessivamente derivanti dalla concezione privatizzante, anzitutto della moneta, imposta dall'€uropa e che deve condurre, prima o poi, con le buone o con le cattive, alla privatizzazione per vincolo da debito di diritto comune".

6. Ora, questa ennesima tragedia dell'incuria del territorio e delle sue più fondamentali e vitali infrastrutture, in nome del "non possiamo vivere al di sopra delle nostre possibilità", verrà persino usata per distrarre l'attenzione dalla incombente crisi bancaria: eppure questa ha le stesse origini dell'attitudine a tagliare i costi della gestione dei servizi pubblici fondamentali, in nome della presunta "efficienza". 
Si tratta del paradigma €uropeo, quello per cui si deve avere il "razionamento", di cui abbiamo sopra visto, e che ripropone, in crescendo, il suo intreccio di fattori di insostenibilità economica e sociale per milioni, centinaia di milioni, di cittadini assoggettati allo Stato "minimo" che l'euro implica come punto d'arrivo.
Lo avevamo visto già circa tre anni fa, in una situazione che presentava già tutti gli elementi di questo intreccio perverso
E teniamo conto che il dissesto idrogeologico e la situazione di sottoinvestimento delle reti ferroviarie "minori" (e di ogni altra infrastruttura pubblica italiana), hanno la stessa radice della privatizzazione senza senso economico dell'ENAV, così come dell'incombente apocalisse bancaria: 

7. "Abbiamo menzionato il fattore "imprevisti e probabilità", in questo ridicolo "Monopoli" che è diventata la gestione della Repubblica italiana, PER NON PARLARE DEL GIGANTESCO, E PERFETTAMENTE PREVEDIBILE, PROBLEMA AMBIENTALE-TERRITORIALE ITALIANO, qui più volte segnalato.Il problema è divenuto tale a seguito di 20 anni di manovre di "convergenza" e di rientro nei parametri del deficit: oggi discutono della tragedia consumatasi in Sardegnae pensano al "dissesto idrogeologico" come a un problema nazionale.
Ma finiscono per proporre come soluzione la solita maxi-patrimoniale "una tantum" ammazza-risparmio privato, pagabile solo intaccando i redditi e drenando altra liquidità che rischierebbe di non essere poi rimessa in circolo, per il problema - considerato da questo governi ben più impellente- di dover "ridurre il debito pubblico" e pagare i creditori stranieri.
E non solo: la super-patrimoniale darebbe anche la spallata definitiva al mercato immobiliare, ormai in sovraofferta e devalorizzazione accelerata, senza colpire affatto i grandi patrimoni, ormai fuggiti all'estero da un bel pezzo.
Ma un paese sovrano, con una sua moneta e con una sua banca centrale che funzioni da tesoriere e non da piazzista passiva per gli idolatrati "mercati", non ha bisogno di far dilagare la recessione per provvedere alla incolumità ed alla ordinata convivenza dei suoi cittadini.
Non gli possono mancare le risorse per investire sul proprio territorio, - un elemento costitutivo della sua stessa sovranità!- e non può fare default.


https://www.youtube.com/watch?v=mkAkbrzHF2I





8. E uno Stato sovrano non può limitarsi ad augurarsi che "non piova troppo" per sperare di non dover fronteggiare il caos antropico: che non è dovuto ai "rivolgimenti climatici", come ridicolmente cercano di farci credere, ma al sistematico abbandono delle funzioni fondamentali dello Stato, trasformatosi in percettore di contributi da condoni e urbanizzazioni selvagge per "fare cassa".
E, possiamo aggiungere, all'interno dello stesso €-paradigma, uno Stato trasformatosi in tagliatore dei livelli dei servizi, e in loro privatizzatore, per esigenze di cassa dettate ormai esclusivamente dalla necessità irrinunciabile di tenere in vita la moneta unica. 
Uno Stato che non può ridursi a contare sulla "fortuna" meteorologica, (o sulla non sfortuna nel produrre tragici eventi) per agganciare la crescita (!!!) da qui alla fine del 2014"...e di tutti gli anni a seguire!

L'EQUALIZZAZIONE, LA GUERRA CIVILE PERMANENTE E L'ISRAELIZZAZIONE €UROPEA

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http://popoffquotidiano.it/wp-content/uploads/2015/11/charlatan-e1447761754497.jpg
immagine tratta da: http://popoffquotidiano.it/2015/11/17/lemergenza-si-fa-regola-arriva-lo-stato-deccezione-permanente/

1. L'autore della strage di Nizza era di origine tunisina ma con documenti di cittadinanza francese; aveva alle spalle una storia di piccoli reati (di violenza).
Riferita alla situazione francese, che è quella che nell'Occidente europeo si presenta come la più caratterizzata dal terrorismo, si conferma quanto si era più volte evidenziato, parlando dell'evidente stortura di una "guerra con l'Islam". Bazaar ha ripetutamente analizzato questo aspetto in termini di conflitto sociale, e quindi distributivo, in un'economia dominata dal mercato globalizzato, parlando di "menti elementari", cioè quelle che reagiscono in automatico-acritico allo spin mediatico indotto dagli stessi che sostengono il mercatismo mondialista.

2. Nell'illustrare come manchino le condizioni più basilari per poter parlare del "siamo in guerra con l'Islam", - salvo quanto si può aggiungere sulla questione "saudita" (e occorrerà tornarci)- si era evidenziato un aspetto così evidente che, infatti, in Italia, è del tutto trascurato:
"Se i terroristi che agiscono in Francia sono essenzialmente di cittadinanza francese, si ha l'evidente conferma che si tratti di un problema di pubblica sicurezza: e non si dica che possono esistere rilevanti aspetti di connessione con territori e organizzazioni non francesi, quanto a addestramento e supporto logistico di questi terroristi, perchè ogni forma di terrorismo, come ci insegna la stagione italiana delle Brigate rosse, è costantemente sospettata di questi aspetti (mai ben chiariti...), cioè di strumentalizzazione di cittadini di uno Stato da parte di entità straniere per destabilizzare questo stesso Stato. 
Rimane il fatto che l'eventuale violazione del principio di non ingerenza commessa in questo modo, esige l'accertamento univoco e obiettivo (cioè delle prove esposte alla opinione pubblica in modo trasparente e credibile), della responsabilità di un preciso Stato che finanzi l'addestramento e l'armamento dei terroristi, identificandone pure l'indispensabile movente strategico (cioè quale "movente" e quale obiettivo persegua lo Stato che si ingerisce, promuovendo il terrorismo mediante cittadini di un altro Stato che agiscono sul territorio di quest'ultimo).
Ma il fatto che cittadini di uno Stato prendano le armi in preda a furia omicida nei confronti di propri connazionali, è certamente ed evidentemente un problema di ordine pubblico(v.qui al punto 11.3): e, attenzione, lo sarebbe anche se i terroristi non fossero cittadini dello Stato "colpito", laddove, come abbiamo visto, non si abbia la prova, ma nemmeno l'ipotesi, che il "diverso" Stato alla cui nazionalità appartengono i terroristi  sia coinvolto con azioni attribuibili alla chiara responsabilità del suo governo. 
Ad esempio, dopo l'11 settembre, infatti, pur essendo Bin Laden un cittadino saudita nessuno propose il bombardamento dell'Arabia Saudita.
Sta di fatto che non si può ignorare che i cittadini francesi (o belgi) accusati allo stato di essere autori delle stragi sono immigrati (presumibilmente di seconda generazione)di origine mediorientale o nordafricana, cioè provenienti da territori a religione islamica prevalente e, ovviamente, dichiaratamente musulmani "integralisti".
E' allora ragionevole domandarsi come e perchè questo tipo di immigrazione si converta in un problema di sicurezza pubblica di tale gravità, e, ancor più perchè  lo diventi ORA, in questi anni, trattandosi di seconde o terze generazioni, laddove la presenza di Maghrebini o mediorientali, provenienti da territori ex coloniali, non è certo una novità in Europa e certamente non in Francia. 
Dunque perchè "ora", viene generato un problema così devastante?
La risposta più logica ha a che vedere con l'accumulo di rabbia, proprio perchè assistiamo a un tale livello di cieca violenza. E tale rabbia a livello sociale ha spiegazioni non troppo difficili da fornire, usando un po' di buon senso (punto 11) guardando alle condizioni attuali de:

"...gli immigrati in Occidente, scacciati dalla loro terra per gli effetti di impoverimento permanente determinato dalle ex e post colonizzazioni, imposte dagli spietati "mercati". 
Siano essi di prima o di seconda generazione, questi immigrati non soffrono "soltanto" della mancata integrazione determinata da omissione o fallimento di presunte politiche sociali e culturali (ovviamente cosmetiche), quanto della impossibilità strutturale di un'integrazione che deriva da impostazioni di politica economica rigide e insensate, incentrante sull'idea della deflazione, della competitività e della connessa riduzione dello Stato sociale.
Tutti insieme, immigrati e strati crescenti della stessa popolazione autoctona dei paesi occidentali, soffrono di impoverimento e della arrogante imposizione della "durezza" del vivere da parte di una governance che vive nel più sfacciato privilegio della rendita economica (anche in Italia).  Gli immigrati, specie della seconda generazione, finiscono per sbattere contro il murodella fine della mobilità sociale imposta dal paradigma neo-liberista (in particolare quello adottato dall'UE):  quando si accorgono di essere destinati a un irredimibile destino di lavoratori-merce, che si aggiunge alla continua tensione razziale e culturale con gli strati più poveri della popolazione del paese "ospitante", sono nella condizione "ideale" per abbracciare l'Islam integralista.   L'adesione restituisce loro dignità, identità e una risposta alle frustrazioni della tensione con gli "impoveriti" del paese ospitante. 
Questatensione è tanto più acuìta quanto più questi ultimi, gli "autoctoni", sono essi stessi assorbiti nella voragine del lavoro-merce. Come esito di tale processo ormai ultraventennale, gli immigrati sono posti, pur essendo (teoricamente) in condizioni materiali diverse da quelle dei disperati concittadini (o ex tali) delle terre di orgine, nella stessa attitudine di rabbia e disperazione dei diseredati dei paesi più impoveriti del mondo."
3. Riallacciando queste osservazioni al discorso relativo ai fatti di Dacca e alla ridicola osservazione che, in quel caso, gli attentatori sarebbero stati di "buona famiglia e di istruzione superiore", basti ribadire quanto di recente osservato complessivamente in questo post e in questa ulteriore osservazione: 
"Più ancora, c'è un punto che pare sfuggire totalmente: non è che i terroristi sono proletari oppressi che fanno una confusa lotta di classe. Tutt'altro.
Il terrorismo nasce da due ingredienti: l'islam e le sue strutture sociali feudali, maschiliste e comunitarie, e il forte impatto con la superiorità tecnologica e sessual-edonistica dell'occidente, ridivenuto neo-liberista e, perciò, liberoscambista e neo-colonialista. Cioè fortemente anti-Stato sociale: come ben sapeva Nasser; v.qui pp. 3 e 4.

I terroristi, a livello "esecutivo", sono piuttosto persone dal profilo psicologico destabilizzato e condizionabile, facilmente reperibili laddove il modello sociale neo-liberista occidentalizzato si imponga brutalmente a suon di condizionalità, creando frustrazioni e vari complessi di "rifiuto" (si rifiuta per non essere rifiutati): e ciò sia se tale modello sia esportato (caso del Bangladesh, come dei paesi della primavera araba), sia se sia "da importazione", cioè imposto ai migranti di massa ghettizzati in terra straniera.

A livello ideativo e finanziario, il vertice del terrorismo è invece ben consapevole di questi meccanismi identitari e di frustrazione e li sfrutta abilmente, sapendo che è proprio il sistema occidentale inteso in senso cosmetico (cioè ridotto cialtronamente a questioni sessuali e di costume familiare) ad alimentare la base di reclutamento degli psicotici manipolabili.

Più ancora, il post voleva evidenziare perché:
a) dopo anni di applicazione delle "cure" FMI e WB del Washington Consensus, in un paese a maggioranza musulmana, il comune sentire sociale non produca una forte resistenza all'azione dei terroristi islamici, visti comunque come capaci di una qualche forma di riscatto, quand'anche non condiviso sotto il profilo del'estremismo identitario;
b) i governi non hanno interesse, in termini di consenso, in una situazione di tensione sociale prodotta dalla "modernizzazione" globale (liberista), e neppure sufficienti risorse finanziarie, per condurre con convinzione un'azione repressiva di tale terrorismo: sanno che, sul piano militare, le forze estere che lo finanziano, fanno reclutamento e addestramento, e lo armano, sono ben protette (dallo stesso occidente), mentre, d'altra parte, gli stessi governi, astretti dai vari modi delle "condizionalità" fiscali, non sono in grado di mutare l'assetto sociale che produce il substrato ideale per il reclutamento
4. Questo aspetto sistemico di rifiuto e di rabbia, - sia da parte di immigrati sottoposti contemporaneamente alla fine della mobilità sociale ed alla tensione cultural-razziale con gli strati sociali impoveriti "autoctoni", sia da parte di coloro che, segnatamente nei paesi islamici, vedono alterate dalla globalizzazione le condizioni minime di sviluppo e solidarietà sociali, nella loro stessa terra-, trova conferma in quanto esprime la stessa analisi critica francese, esprimendosi a caldo sulla strage di ieri:
La Francia, invece, sembra l’epicentro di una crisi multipla, politica ed economica. E sul piano sociale fatica a integrare gli immigrati. Tutto ciò la rende più vulnerabile?
«Certo, è così. Si sommano diverse componenti. L’arrivo massiccio di profughi, la crescita economica bloccata e l’alto tasso di disoccupazione. Ma c’è un numero chiave: circa l’8% della popolazione non si sente francese, non si riconosce nello Stato. E queste persone non sono rifugiati appena sbarcati. Sono figli di immigrati, giovani di seconda o terza generazione. E’ la percentuale più alta tra i Paesi europei. Dalla Francia sono partiti tanti foreign fighter verso l’Iraq e la Siria».
Messa così il governo di Parigi non sembra avere molti margini. Proprio ieri il presidente François Hollande aveva annunciato la revoca delle misure di emergenza…
«Il governo può rafforzare di nuovo le misure anti-terrorismo o i controlli alla frontiera. Ma questo non contribuirà a risolvere la questione di fondo, offrendo una possibilità ai giovani francesi, figli di immigrati, che oggi non si sentono accettati dal Paese. Quindi, se vogliamo andare in profondità, a questo punto per la Francia vedo solo due opzioni.
O si apre con decisione o si blinda. Prima strada: intensificare al massimo l’opera di integrazione dei giovani che oggi si sentono esclusi. Vuol dire massicci investimenti nell’educazione, in programmi di deradicalizzazione mirati, in posti di lavoro. Oppure la Francia può scegliere di diventare come Israele: sottoporre a stretta sorveglianza i soggetti considerati un potenziale pericolo per lo Stato».
Quale delle due opzioni sta guadagnando spazio politico e psicologico nell’opinione pubblica francese?
«Mi piacerebbe fosse la prima opzione, quella dell’integrazione, ma vedo invece avanzare la seconda».
5. E, se avanza la seconda, come risulta irresistibilmente probabile, anzi "vincolato" dalla rigida struttura fiscale della moneta unica, dato il divieto imprescindibile di fare quei "massicci investimenti nell'educazione e in posti di lavoro", la logica della "accoglienza" indiscriminata (ormai understated in modo strisciante), verrà contraddittoriamente mantenuta proprio per produrre i presupposti :
a) di un mercato del lavoro e di un sistema sociale "equalizzati" rispetto ai paesi di provenienza, considerato indispensabile per la competitività mercantile del sistema che adotta la moneta unica;
b) per un continuo riprodursi, - nel tempo del consolidarsi generazionale di questa presenza di immigrati accompagnata da assenza di mobilità sociale e scontato scontro con gli strati più poveri delle popolazioni locali-,  di nuove leve di giovani esasperati da rifiuto e emarginazione economico-sociale, che determinino, in un calcolo cinico, proprio quei problemi di sicurezza pubblica che, divengono una sorta di guerra civile permanente. ADDENDUM: una guerra civile che cristallizzi, al più alto livello di efficacia, il sub-conflitto sezionale che consente la stabile realizzazione del progetto delle elites globalizzatrici (come ben focalizza Rodrik, p.4: Inoltre, le elites possono ben preferire - e ne hanno l'attitudine- di dividere e comandare...giocando a porre un segmento di non elite contro l'altro);
c) per portare a livello di stabilità istituzionalizzata lo stato di eccezione che consegue a tale guerra civile permanente, in modo che, analogamente a quanto avvenne in Italia ai tempi della strategia della tensione, sia resa incontestabile la prosecuzione delle politiche economico-sociale attuali; l'idea della "israelizzazione" delle ex-democrazie sociali sottintende di raccogliere il consenso intorno a una "Autorità" salvifica e "protettiva", che possa rivendicare la sua legittimazione in termini polizieschi e di militarizzazione, anche esterna e in funzione di spesa "keynesiana", di ogni residua funzione dello Stato. O del super-Stato €uropeo...



LA RIFORMA COSTITUZIONALE DI ERDOGAN E LO STRANO GOLPE

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1. La Costituzione turca del 1924 (anno 1340 dell'Islam), era una Costituzione tipica di una "democrazia liberale": regolava essenzialmente la forma di governo e l'organizzazione dei tre poteri - legislativo, esecutivo e giudiziario- e affermava alcune "libertà da", cioè le classiche libertà negative dall'interferenza statale, subordinando ogni altro diritto civile, e in particolare alcuni potenziali riconoscimenti di diritti sociali, alla disciplina dettata dalla legge.
La Costituzione in seguito vigente era stata emanata dalla giunta militare a seguito del golpe del 1980 ed era poi rimasta in vigore nel suo impianto essenziale: tale legge fondamentale, peraltro, era caratterizzata da una maggior apertura ai diritti sociali e, abbastanza prevedibilmente, sanciva forti poteri emergenziali, di dichiarazione e enforcement dell'ordine repubblicano, da parte dell'esercito, nonché una forte ingerenza dello Stato nell'attività economica per il perseguimento dell'interesse nazionale.

2. Sullo sfondo di questa costituzione, nel settembre del 2010, è stata approvata, con referendum, una riforma promossa dal ministro Medigoglu, e redatta a seguito dell'accordo parlamentare tra l'AKP e le forze di opposizione: in questa occasione il testo è stato adeguato con una (peculiare) enunciazione della eguaglianza sostanziale e il riconoscimento della libertà sindacale
I nodi che rimanevano aperti riguardavano i sistemi di nomina dei vari organi giurisdizionali, a cominciare dalla Corte costituzionale, per finire alle Corti speciali che giudicavano degli stessi appartenenti ai diversi corpi giudiziari. L'accusa è che tale sistema fosse autorefenziale (improntato alle nomine reciproche fra i vari organi giurisdizionali), inquinato dalla influenza politica nelle nomine, e tale da determinare un insidioso potere di sindacato di merito sulle scelte del potere legislativo-parlamentare. 
Il potere giudiziario, nelle sua complessa articolazione, era dunque accusato sia di poter essere piegato all'influenza dell'esecutivo - ma, per la sfasatura del momento in cui potevano essere avvenute le nomine, potenzialmente risalente a un esecutivo espressione di orientamento politico diverso da quello del governo in carica-, sia, per il complesso dei motivi appena esposti, di giocare un ruolo politico tutto proprio.

3. La riforma del 2010, considerata comunque un avanzamento verso la democrazia sostanziale, sia pur parziale, da parte delle forze democratiche e laiche, non ha risolto, ma anzi è stata accusata di aver acuito, il problema del controllo dell'esecutivo sul giudiziario: in particolare la riforma, (intervenuta già in "era Erdogan"), consente un maggior controllo dell'esecutivo pro-tempore su Corte costituzionale e consiglio superiore della magistratura.
L'adeguamento del 2010 ha determinato l'inserimento di un serie di enunciazioni relative ai diritti sociali, con una certa, almeno formale, ricognizione dei diritti-doveri dei lavoratori (art.49) e col riconoscimento della libertà sindacale e della contrattazione collettiva (art.51); oltre alla già detta enunciazione di un principio simile alla eguaglianza sostanziale (art.5: ma non definita come tale e posta in articolo separato da quello dedicato alla eguaglianza formale, art.10), chiaramente mutuato dalla Costituzione italiana del 1948, si è inserita una clausola che ridisegna, in senso (lievemente) più garantista, le conseguenze della dichiarazione dello stato di guerra e di emergenza, con un'applicazione della "legge marziale" che, pur potendo derogare senza particolari limitazioni diritti e garanzie costituzionali, consente ciò, - curiosamente ma non sorpredentemente- "a condizione che gli obblighi di diritto internazionale, non siano stati violati".

4. Nella riforma, dunque, traspare l'aspirazione all'accettazione da parte dell'UE, ponendo le basi per un riconoscimento al più alto livello degli "obblighi di diritto internazionale", quasi alludendo, per implicito, alla equazione "unione europea= forma di democrazia incorporata", al di là della oggettiva verifica della compatibilità di questo federalismo atipico (del mercato), con qualsiasi modello coerente di democrazia sostanziale o sociale (democrazia che pure viene definita come "sociale" fin dall'art.2 della costituzione riformata del 2010).
L'Unione europea era parsa dunque moderatamente soddisfatta ("Anche l’Ue ha accolto l’esito del referendum positivamente, definendo per il tramite della relatrice per la Turchia Ria Oomen-Ruijten “dei passi in avanti” il fatto che siano stati approvati miglioramenti quali l’introduzione dell’istituzione dell’ombudsman, il diritto al contratto collettivo, la limitazione del raggio d’azione dei tribunali militari. Resta ancora però molto da fare per l’allargamento dei diritti, e uno dei problemi più gravi resta la forte limitazione del diritto d’espressione"). 

5. Dal novembre 2015, poi, Erdogan, rieletto ma senza la maggioranza che gli avrebbe dato autonomia di decisione in materia costituzionale, preme per mutare la forma di governo in senso semi-presidenziale, riducendo le prerogative del premier (una volta che Erdogan stesso era divenuto presidente e non più primo ministro), mirando, in tal modo, a rendere monocratico non solo il controllo dell'esecutivo e dell'apparato amministrativo e, specialmente, militare, ma anche i poteri di nomina e ingerenza sul potere giudiziario (da parte dell'esecutivo, come abbiamo sopra accennato). 
La stessa riforma ora in gestazione, mira anche a abolire l'immunità parlamentare, in teoria per meglio perseguire la "corruzione", in pratica per poter meglio colpire le opposizioni e, in particolare, il rafforzato partito curdo.
Questo disegno politico, nei suoi aspetti complessivi, aveva visto, nello scorso maggio, il contrasto di Erdogan con il più "moderato" primo ministro Davutoglu, prontamente sostituito dal "fedelissimo"Yildirim. La neo-riforma, comunque, ha ricevuto una prima approvazione parlamentare, incentrando il suo messaggio politico "forte" sull'abolizione dell'immunità parlamentare; con plauso della stampa anglosassone e occidentale in genere.
E siamo così giunti alla vigilia dello "strano golpe".

6. Sullo sfondo di quest'ultimo, dunque, risalta obiettivamente la vicenda della riforma costituzionale
Anche vista nelle sue varie tappe, sotto il contrastato dominio di Erdogan. Nel complesso:
- un certo avanzamento della democrazia sociale pare poco connesso con chiare enunciazioni e procedure introdotte in costituzione: forse è troppo controtendenza in questa epoca di restaurazione della democrazia filosofico-liberale;
- la controtendenza, poi, appare ben bilanciata dallo sforzo in direzione semipresidenzialista e di rafforzamento autocratico dell'esecutivo, che passa, tra l'altro, per un più forte potere di influenzamento su corte costituzionale e organo di autogoverno della magistratura, unito a un depotenziamento delle garanzie di autonomia del potere legislativo;
- in controluce ma neppure tanto, anche la tensione ad accontentare l'Unione europea, la quale appare perfettamente compatibile con le due tendenze appena evidenziate: l'enfasi è posta sui diritti "civili" (un passe-partout delle formulazioni cosmetiche riduzionistiche della democrazia) di prima generazione. cioè, essenzialmente le predette "libertà negative" tradizionali: il rimprovero internazional-europeista, riguarda il fatto che ciò sia compiuto in modo ambiguo e incompleto sulla libertà di stampa. E soprattutto la connessione con l'UE, emerge con l'enunciazione della clausola suprema del rispetto degli obblighi internazionali, posta persino in sede di previsione del potere, massimamente sovrano, di dichiarare lo "stato di eccezione".

7. Questo lo stato delle cose: Erdogan, a golpe fallito, arresta non solo i militari, ma anche i giudici, che comunque destituisce in massa.
L'€uropa, allo stato, non pare particolarmente indignata. E in un recente passato, non era neppure stata particolarmente attiva sulla questione dei brogli elettorali.
In compenso, la riforma costituzionale di Erdogan, nelle sue varie tappe, assomiglia a qualcosa...Si ritrova una curiosa omogeneità di soluzioni (stemperate negli stilemi e nelle enunciazioni enfatiche) e persino lessicale tra le varie riforme costituzionali che si affacciano, in funzione delle immancabili "riforme", nell'era dell'ordine internazionale dei mercati
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