1. In questo e poi in quest'altro post (p.12), abbiamo esaminato, rispettivamente, il disappunto delle elites internazionaliste (dei mercati), per il risultato del referendum in UK, nonchè la prospettiva di disattivazione delle stesse consultazioni elettorali, in caso di esiti idraulicamente indesiderati, che si va concretizzando in ogni parte delle c.d. democrazie occidentali. Per capire il problema della crisi attuale, crescente (e forse finale), del sistema delle elezioni a suffragio (pressocché) universale, vorrei ripartire da questa già vista citazione di Herbert Spencer, "(il darwinista sociale per eccellenza, che teorizzò che i "milionari sono un prodotto della selezione naturale"): "La funzione del liberalismo in passato fu quella di porre un limite ai poteri del re. La funzione del vero liberalismo in futuro sarà quella di porre un limite ai poteri del Parlamento".
Basti questo per comprendere come ogni pretesa libertaria di questa corrente di pensiero, che rivendica a sè, a partire dalla Glorious Revolution, l'affermazione dei Parlamenti, riveli con ciò tutta la strumentalità del sostenere gli stessi; nella fase di affermazione contro le monarchie, era perfettamente accettabile e si parlava di lotta alla "tirannia". Poi il parlamentarismo divenne un peso all'utilitarismo autolegittimante di una nuova oligarchia.
La citazione è tratta da un libro di Spencer che fu certamente di ispirazione per von Hayek, se non altro per il suo eloquente titolo "The Man Versus the State" (Caldwell, p.209)."
2. Il "buon" Spencer, peraltro, non fu del tutto originale in questa sua, a sua volta non isolata, come vedremo, "uscita": l'intero movimento avverso all'ancien régime, che notoriamente coincide con l'ascesa al potere della c.d. borghesia mercantile, professionale e capitalista (in senso "fisiocratico"), chiariva fin dai suoi albori, di acquisenda rilevanza politica, la premessa che porta all'affermazione istituzionale compiuta da Spencer. L'ulteriore presupposto storico-economico, come dovrebbe essere chiaro ai lettori (effettivi) di questo blog, sta nella progressiva e ben nota evoluzione tecnologica (e giuridico-istituzionale) dei processi produttivi e nell'acquisizione della proprietà, intesa come accumulo di terra o "oro", da parte di un crescente numero di soggetti non appartenenti all'aristocrazia. Alla vigilia della Rivoluzione francese, la coincidenza tra funzione dei parlamenti (composti anche e principalmente da quelli che venivano definiti, su rigorose basi censitarie, come "notabili"), e finalità conservativa del nuovo assetto proprietario era un dato istituzionale scontato: i parlamenti, insediati su basi circoscrizionali (cioè connaturalmente vicini ad un'impostazione federalista in senso territoriale, per quanto omogenei nella rappresentatività dei nuovi ceti produttivi), non erano organi elettivi.
Le famiglie che acquisivano uno status di ricchezza in "terra e oro" compravano i seggi dalla Corona, sempre più bisognosa di entrate che non incidessero sulle tasche dell'aristocrazia e sul precario equilibrio che, - in tempi di guerra permanente (a sua volta legata alle aspirazioni imperialiste, coloniali e mercantiliste del Regno di Francia)-, vigeva tra i grandi feudatari, coinvolti se non altro nei vertici delle gerarchie militari, e il Monarca assoluto (le cui decisioni erano sempre più la mera ratifica dell'azione mercantilista delle classi economicamente dominanti); comprato il seggio, questo veniva trasmesso agli eredi.
3. Compito dei parlamenti, in effetti, era la discussione della cause, - instauratesi sempre più tra borghesia in arricchimento e aristocrazia alla disperata ricerca di cavilli nel diritto feudale per riaffermare i propri "diritti divini", rispondenti alla struttura agraria arcaica, retta sulla legittimazione di una difesa militare del territorio infeudato, che si rivelava ormai una ratio normativa sempre più labilmente invocabile davanti alla trasformazione socio-economica-, nonché registrare gli editti del re: cioè confermare che fossero fonte di legge.
Ogni tanto, specialmente se la situazione del fisco della corona era in ristrettezze, per lo più per finanziare le guerre che accrescevano il potere economico della borghesia mercantile e, in modo spesso contraddittorio, di quella industriale (le forniture di guerra, erano motivo di veloce quanto spesso instabile arricchimento, specie se la guerra non portava ad acquisizione di terra e oro, cioè degli assets, equivalenti a moneta, che rendevano solvibili le casse del sovrano), i parlamenti creavano delle difficoltà a sanzionare editti e rescritti del monarca.
Naturalmente in tema di regime della tassazione: tra aristocratici e ceti borghesi, qualcuno il conto (gold standard) doveva pagarlo. L'opposizione dei parlamenti, in questi casi, era una rivendicazione politica che, quasi sempre, indicava la volontà di far pagare al popolo più minuto, per naturale "competenza", il conto delle imprese militar-imperialiste: cioè far pagare a chi non ne traeva vantaggio, il comune interesse dei detentori della ricchezza; interesse politico per l'aristocrazia (cui appunto era riservata la gloria delle massime cariche militari, legittimanti così la conservazione dei privilegi feudali, in nome del puro sangue, più o meno, versato), ed economico per la borghesia.
4. Quest'ultima (con una tendenza che nella fase di Napoleone III raggiunse l'apice, come attesta il miglior romanzo francese dell'epoca), almeno nei suoi strati marriormente arricchitisi, non mirava a distruggere la nobiltà, quanto piuttosto "a convergere nella sue fila".
Ed infatti, se la borghesia capitalista mirava al dinamismo sociale, lo faceva ben consapevole che il vero segno del successo è la cristallizzazione delle posizioni acquisite come Legge rispondente al diritto naturale: questo "diritto naturale", prima dell'irrompere delle teorie economiche, svincolate dalla pura dimensione della filosofia etica, aveva una naturale simpatia per la condizione istituzionale dell'aristocrazia, cioè per la legittimazione della trasmissione della ricchezza e per la tutela inderogabile del diritto acquisito per nascita.
Con le "scienze" economiche cambia la fonte della "Ragione", indiscutibile, che legittimava questa aspirazione, ma non il suo scopo finale, che rimase e rimane, inalterato, fino ad oggi: solo che, come abbiamo tante volte evidenziato, alla volontà divina, si sostituisce l'ordine dei mercati, fonte della razionalità che, come tale, non può essere discussa, esattamente con la stessa funzione servente dell'assetto cristallizzato, ridenominato "efficienza allocativa", che aveva a suo tempo svolto la teologia.
Spero di essermi (ri)spiegato bene, perché il punto è cruciale.
5. Questo meccanismo di evoluzione delle classi sociali dominanti, in termini pratici, ci rivela come l'assimilazione della borghesia capitalista all'aristocrazia, - prima meramente imitativa (cioè con l'idea della conservazione formale dell'aristocrazia, acquisendone lo status per via allocativa, cioè potendolo "comprare"), e poi direttamente fondata sulla "scientificità" sociale (divenuta poi asetticamente "matematica": Bazaar ne ha parlato tante volte) -, è una costante del mondo in cui viviamo da circa 200 anni, che rivela come la rivoluzione borghese sia molto meno innovativa, nella sostanza istituzionale, di quanto non si tenda a credere (almeno avendo riguardo alla visione essenziale fornitaci dalla Storia insegnata nei licei e data per scontata nel discorso mediatico...et pour cause, come sappiamo).
Questa sostanza fenomenologica dell'evoluzione politico-istituzionale, in cui non cambia la regola sostanziale di legittimazione al dominio istituzionale della società, ma cambiano solo i sistemi di accesso, considerati "razionali", all'accumulo di terra e oro, era perfettamente chiaro ai protagonisti dell'affermazione del capitalismo.
Ce ne dà conferma lo stesso Spencer, che da buon anglosassone empirista, (abbiamo già visto questa qualità in Robbins, rispetto ai tormentati teorici mitteleuropei che tanta fortuna hanno avuto nella fase "buia" in cui il capitalismo dovette rendere conto di se stesso alla compresenza fastidiosa del socialismo nelle sue varie proiezioni), ci fornisce questo folgorante aforisma, a suo modo fenomenologico: "Il diritto divino dei re significa il diritto divino di chiunque riesca ad acquisire il predominio sociale".
Divine right of kings means the divine right of anyone who can get uppermost.
Read more at: http://www.brainyquote.com/quotes/quotes/h/herbertspe165829.html
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6. Questa proposizione assertiva era comunque di comune condivisione nei parlamenti borghesi dell'ancien régime, e peraltro in piena epoca "illuminista", tanto che nel 1776 (anno particolarmente significativo, in America ma anche in Francia, impegnata com'era, nella sua ormai quasi secolare, e come abbiamo visto costosissima, lotta per il predominio imperialista mondiale con l'Inghilterra), il parlamento di Parigi, elabora un'eloquente "Dichiarazione", generata dalla volontà di resistere all'idea del ministro delle finanze Turgot di provvedere a risanare le disastrate finanze della Corona, abolendo, da un lato, le c.d. corvée, cioè il lavoro obbligatorio, e prestato gratuitamente, dei contadini nell'esecuzione delle principali opere pubbliche, dall'altro finanziando il pagamento degli appalti di lavori che le avrebbero sostituite con una imposta fondiaria, incidente su tutti i proprietari, nobili e borghesi.
Alla prospettiva di dover sopportare i costi delle politiche che consentivano loro di accumulare ricchezza, sfruttando il sottostante sistema di lavoro sostanzialmente schiavile (basti aggiungere, poi, che le "libere" classi operaie urbanizzate, a loro volta, entravano in agitazione solo di fronte alla costante pressione per la unidirezionale diminuzione dei magri salari: mai per un loro accrescimento).
La nota Dichiarazione recita:
"La prima regola della giustiziaè di tutelare per ogni singolo individuo, ciò che gli appartiene. E' una regola fondamentale della legge naturale, dei diritti dell'uomo e del governo civile; una regola che consiste nel salvaguardare non soltanto i diritti della proprietà, ma anche i diritti appartenenti all'individuo e che gli derivano dai privilegi dovuti alla nascita e alla posizione sociale".
7. Questa, tutt'oggi,è la costante posizione di quella oligarchia che si sente di rappresentare ogni possibile "singolo individuo", avendo la tendenza a considerare irrilevante, anzi improponibile, l'appartenenza alla categoria, dei singoli meritevoli di "giustizia" e di "tutela", di chiunque non possa vantare un patrimonio di privilegi dovuti alla nascita e alla posizione sociale. Lo abbiamo visto in Hayek (qui, p.5), come ciò comporti l'affermazione della eguaglianza formale, che oggi si vorrebbe riaffermare come unica categoria giuridica capace di fondare, nelle stesse costituzioni, i "diritti civili": l'ampiezza della sfera sociale di effettiva titolarità di tali diritti non deve essere un problema di cui le costituzioni si occupino. Chi divenga, - in base a leggi naturali e, quindi, razional-scientifiche, (e peraltro anche teologicamente fondabili, volendo essere dei buoni cristiani, al più mossi dalla spontanea adesione allo spirito caritatevole complementare all'efficienza allocativa del mercato) - proprietario-operatore economico, è il vero soggetto dotato di capacità giuridica: per gli altri non c'è spazio, perché non si sono efficientemente guadagnati alcun inammissibile privilegio. Parliamo essenzialmente di sanità e previdenza pubbliche, riconoscibili, come ormai afferma la nostra stessa Corte costituzionale, solo subordinatamente alla scarsità di risorse, cioè all'intangibilità dell'accumulo di terra-oro da parte dei poteri economici privati; quando questi reclamano la loro funzione di creditori dello Stato, la loro soddisfazione deve perciò, in omaggio agli impegni presi in sede €uropea, graduare e progressivamente diminuire queste elargizioni che sono sancite in Costituzione, ma pur sempre assoggettate ai limiti sanciti dai trattati internazionali che sono scritti da e "per" gli operatori economici-proprietari, titolari dei diritti civili veramente intangibili. Così è, se vi pare, oggi, l'operatività dei principi fondamentali della nostra Costituzione.
8. Ovviamente Piketty, e lo precisiamo incidentalmente e a scanso di equivoci, non c'entra quasi nulla con la critica a tale sistema, ormai arrivato a disattivare le Costituzioni democratiche dell'eguaglianza sostanziale e dell'intervento redistributivo ex ante dello Stato: almeno fin quando la sua idea di redistribuzione per via fiscale, cioè di tassazione patrimoniale progressiva effettuata dai singoli Stati - (circa la praticabilità di ciò in modo coordinato a livello mondiale e su basi imponibili realmente individuabili, siamo al più fumoso ed eventuale "wishful thinking" che nasconde la decisa volontà di "intanto facciamolo nei singoli territori statali, poi si vedrà..se si riesce a realizzare la chimerica "trasparenza", mica la regolazione finanziaria sovrana, non sia mai.")-, non implichi la critica della libera circolazione dei capitali e alla reintroduzione del gold standard, attraverso le banche centrali indipendenti e la riadozione, camuffata da moneta unica "per la pace", del gold standard e del liberoscambismo globale. La sua redistribuzione, tutta a carico delle classi sociali confinate dentro i limiti dei singoli Stati, incapaci, o diremmo "spencerianamente", inadatti a vivere nell'empireo sovranazionale dei mercati, è un inno al ripristino della capacità giuridica hayekiana, limitata a coloro che vedono nello Stato solo un'interferenza alla "libertà", per reclamare l'esenzione da ogni inefficiente vincolo solidaristico, tutto gravante sulle classi che, senza titolo "allocativo" efficiente, hanno accumulato qualcosa in modo diffuso e che, ora, in nome della solidarietà tra poveri e impoveriti, devono pagare il conto degli equilibri intangibili dell'ordine sovranazionale dei mercati e della sfida della competitività.
"Nessuno può essere perfettamente libero finché tutti non siano liberi; nessuno può essere perfettamente "morale" finché non lo siano tutti; nessuno può essere perfettamente felice finchè tutti non siano felici".
No: se i milionari, come proclama Spencer, insuperato teologo del liberalismo, sono il prodotto dell'evoluzione naturale, e in ciò risiede la giustizia, non ci si pone certo il problema di quanti siano i "tutti": ci si riferisce ovvissimamente ai soli soggetti di pieno diritto (quelli che, secondo Pik(k)etty, avendo in mano il potere di dettare le regole dell'ordine supremo dei mercati internazionali, dovrebbero spontaneamente rinunciare a tale "predominio", ormai equivalente al diritto divino dei monarchi, per assoggettarsi allegramente alla "trasparenza" e pagare super tasse patrimoniali non si sa prelevate da chi, e sulla base di quali processi normativi di...autodistruzione spontanea, ovvero di tacchino, grasso, enorme e divenuto "monarca", che si mette in forno da solo).
10. Di fronte a questa lacunosa costruzione, dove nei secoli si sono assommati enunciati elittici (solo Hayek ha "the guts" di enunciare quali siano veramente i limiti, conservativi ed efficientemente allocativi, della capacità giuridica piena e della effettiva legittima titolarità dei "diritti civili"), e palesi ipocrisie, l'errore di calcolo può, nel lungo periodo, risultare destabilizzante e indurre a diffidare anche delle elezioni che, cosmeticamente, riflettano l'idea di eguaglianza formale controllata. "...in quel passo Gramsci discuteva le posizioni della critica fascista al suffragio universale nel regime liberale: secondo Mario da Silva il difetto era che "il numero sia in esso legge suprema", cosicché la "opinione di un qualasiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta, in certi paesi) valga, agli effetti di determinare il corso politico dello Stato, esattamente quanto quella di chi allo Stato e alla Nazione dedichi le sue migliori forze" (come l'"eroico" Saviano, per esempio).
Al che Gramsci replicava: "Non è certo vero che il numero sia legge suprema, né che il peso dell'opinione di ogni elettore sia "esattamente" uguale.
I numeri, anche in questo caso, sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un rapporto e niente di più. E che cosa si misura?
Si misura proprio l'efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites, delle avanguardie ecc. ecc., cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta. Ciò vuol dire anche che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia esattamente uguale"...
"La numerazione dei "voti"è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l'influsso massimo appartiene proprio a quelli che "dedicano allo Stato e alla Nazione le loro migliori forze" (quando lo sono).
Se questi presunti ottimati, nonostante le forze materiali sterminate che possiedono, non hanno il consenso della maggioranze, saranno da giudicare inetti e non rappresentanti gli'interessi "nazionali", che non possono non essere prevalenti nell'indurre la volontà in un senso piuttosto che nell'altro.
"Disgraziatamente" ognuno è portato a confondere il proprio particolare con l'intersse nazionale e quindi a trovare orribile ecc. che sia la "legge del numero" a decidere.
Non si tratta quindi di chi "ha molto" che si sente ridotto al livello di uno qualsiasi, ma proprio di chi "ha molto" che vuole togliere a ogni qualsiasi anche quella frazione infinitesima di potere che questo possiede di decidere sul corso della vita dello Stato.".
11. Insomma, quando gli "ottimati", ovvero i "notabili", facitori dell'opinione generale, falliscono nelle loro capacità persuasive, nonostante le "forze materiali sterminate" di cui dispongono, e si accorgono che i conti elettorali non tornano più, - perché anche il più elementare dei conti del singolo appartenente alla massa da manipolare risulta incompatibile con la loro capacità di manipolazione mediatica del consenso-, il regime, cioè l'ordine istituzionale corrente, diventa obsoleto e occorre "riformarlo".
E se insorgano delle difficoltà nel riformarlo con l'adesione dei sudditi riottosi, e volgarmente attenti alla loro irrazionale ed inefficiente convenienza, allora ogni mezzo, senza alcuna esclusione, è lecito per instaurare la grande riforma.
"Le vecchie forme di governo giungono alfine ad essere così oppressive, che devono essere rovesciate, anche se ciò possa comportare il rischio di instaurare il regno del terrore".
Ma, mi pare, siamo a buon punto:'sta democrazia oppressiva deve ormai essere rovesciata.
Aspettatevi dunque il regno del terrore: è per il vostro bene. Mica vorrete essere oppressi e continuare a votare contro i vostri interessi che comunque non potete capire?