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IL DUALISMO. IL R€DDITO DI CITTADINANZA E IL R€DDITO MINIMO. L'EGUAGLIANZA COME APPIATTIMENTO

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 (naturalmente il motto di v.H vale solo per i soggetti di diritto "degni": i proprietari-operatori economici, non per gli "zotici").

Perdonatemi se ci ritorno: ma ESSI ci ritornano talmente tanto che sviluppare tutti gli aspetti del problema non può far male. Agli esseri umani ancora rimasti in circolazione, almeno.

Allora vediamo un po'. Indubbiamente il dualismo del mercato del lavoro c'è.
Abbiamo:
1) I precarizzati: tendenzialmente a bassa qualifica, visto che la stessa previsione legale della liceità della loro esistenza, induce a preferire l'investimento in attività ad alto impiego di lavoro piuttosto che di capitale-tecnologia, o comunque con una combinazione di fattori che favorisca il primo. Tra l'altro, come attestano tutti gli studi seri in materia, questa impostazione del mercato del lavoro diminuisce l'efficienza e cioè l'innovazione tecnologica di processo e di prodotto, e quindi la stessa produttività. A ruota della quale arriva (si invoca e si ottiene) la diminuzione delle retribuzioni reali e la strutturazione della dequalificazione della forza lavoro (da cui la stessa diminuzione degli investimenti in ricerca, in formazione e, in generale, della stessa utilità della scolarizzazione di livello superiore).
Precisiamo subito che la "colpa" dell'eccesso di giovani  in condizione di precari non va ricercata nel fatto che sarebbero "illicenziabili", sempre per la vigenza del famoso art.18, i lavoratori a tempo indeterminato.
Questa ormai dilagante versione, si appunta sull'effetto piuttosto che sulla causa del fenomeno: è chiaro che se è normativamente consentito, anzi non più vietato, ricorrere diffusamente a lavoratori che, non avendo un rapporto stabile, hanno potere contrattuale praticamente nullo, - e dunque posso imporgli retribuzioni sottratte (o quasi) all'applicazione di qualsiasi limite retributivo o contratto nazionale di lavoro-, SCEGLIERO', NON SOLO, SEMPRE L'OPZIONE MENO COSTOSA, MA CERCHERO' ANCHE DI SOSTITUIRE PIU' DIPENDENTI POSSIBILE, SOGGETTI ALLA PRECEDENTE DISCIPLINA SUL LAVORO A TEMPO INDETERMINATO, con neo-assunti precarizzati (dalla "nuova" legge). 

Dunque, se si volesse ragionare correttamente, il protrarsi della condizione di precario dipende dal fatto che LA LEGGE, cioè la disciplina del lavoro introdotta dalle riforme Treu e poi "Biagi", ammette ciò che, vigendo la precedente legislazione, sarebbe stato colpito da nullità per frode alla legge, cioè la dissimulazione illecita di una rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, sotto le vesti di un contratto a termine (fuori dai casi particolari in precedenza ammessi, es; lavoro stagionale nel turismo), o quelle di un falso contratto d'opera (cioè di lavoro autonomo).
Vigendo la disciplina legale precedente a queste riforme qualsiasi giudice avrebbe dichiarato la sussistenza del contratto dissimulato e condannato il datore a corrispondere le differenze retributive e contributive, nonchè a regolarizzare il rapporto con un contratto a tempo indeterminato caratterizzato da stabilità (coperta dall'art.18 a seconda se l'impresa avesse più o meno di 15 dipendenti).


2) I "sindacalizzati a esaurimento", che fruiscono dell'art.18 (se presso aziende con più di 15 dipendenti), e che per tutte le ragioni sopradette sono inevitabilmente in diminuzione crescente.
Aggiungiamo che, nonostante le stucchevoli rampogne e polemiche di questi giorni, questa categoria è puramente teorica ormai. Perchè? Ma perchè l'art.18 E' STATO GIA' MODIFICATO E GIA' HA PRATICAMENTE TOLTO DI MEZZO LA FAMOSA ILLICENZIABILITA', come pure la stessa pretesa eccessiva rigidità delle mansioni (eliminata in gran parte per effetto delle inevitabili ricadute del nuovo art.18, attualmente vigente). 
Su questo, cioè sugli inevitabili effetti pratici dell'art.18 così come riformato dalla Fornero, rinvio a questo post.

Ora il ragionamento che si svolge, e che è intrinsecamente fuorviante, è che il "dualismo" vadacorretto mediante la parificazione di tutti i lavoratori nel non poter più fruire della reintegra (che è GIA' limitata a casi residui e marginali, rispetto alla situazione vigente con l'originario art.18). 
Insomma, prima la legge (cioè la politica: del governo che la propone e del Parlamento che la vota) introduce una distorsione, - consistente nel consentire per la generalità dei nuovi assunti ciò che era considerato un negozio in frode alla legge, espungendo dalle tutele possibili ai sensi degli artt.1,3 4, e 36 Cost. la conversione del rapporto di lavoro a termine e del contratto di lavoro autonomo in assunzione a tempo indeterminato-, poi per correggere questa distorsione si arriva a "rivedere" come instabili tutti gli altri contratti di lavoro conclusi sotto la precedente disciplina.

In pratica, ciò vuol dire che I "DIRITTI" SONO PRIMA SOPPRESSI PER IL FUTURO E POI RETROATTIVAMENTE SOTTRATTI, cioè PER IL PASSATO, IN NOME DI UNA PRESUNTA CORREZIONE DI UNA DISUGUAGLIANZA CHE E' SOLO IL FRUTTO DI UN'INIZIALE DISAPPLICAZIONE DI REGOLE COSTITUZIONALI COROLLARIO DEL PRINCIPIO FONDAMENTALE LAVORISTICO DEL 1948.

Infine: per i disoccupati (precari ma non solo, vedremo) occorre allora stabilire, preferibilmente, un salario di cittadinanza
In questa situazione, infatti, è un complemento indispensabile: la precarietà fa sì che la stabilizzazione sia minima (si aggira ora intorno a 1/3) e giunga, quando arriva, molto tardi nella vita lavorativa. Dunque, il precario non accumula scatti di anzianità e opportunità di far valere la propria formazione nell'acquisizione di qualifiche superiori. Nel re-iniziare un rapporto a termine, infatti, viene riassunto sempre tendenzialmente dal punto"zero" (o ad esso vicino) delle qualfiche e relative retribuzioni.
Col reddito di cittadinanza, o analoga formula di sussidio generalizzato di "disoccupazione", non gli viene più perdonata la "volontarietà" della stessa determinata dal peggioramento retributivo e persino di qualifica, dato che non può rifiutare (choosy!) un qualsiasi lavoro che sia comunque retribuito ad un livello inevitabilmente prossimo allo stesso sussidio
Che, poi, come abbiamo più volte detto, essendo quest'ultimo "spesa pubblica" sarà soggetto ad una tendenziale progressiva attenuazione del suo livello, per superiori ed ormai indiscutibili esigenze €uropee di pareggio di bilancio
Un elemento, il "pareggio" (costituzionalizzato, quindi molto strutturale) che, dato il calo della domanda che implica (se non addirittura la deflazione che stiamo constatando), fa sì che le risorse originariamente postea copertura, saranno sempre e solo strutturalmente decrescenti sul calo della base imponibile, e quindi delle "entrate" previste, appunto, a copertura dell'onere per il suddetto reddito di cittadinanza. Salva una copertura successiva"aggiuntiva", per l'onere crescente determinato dallo stabilizzarsi se non dall'aumento della disoccupazione strutturale (ergo:con diminuzione delle entrate fiscali), mediante l'inevitabile (qua è tutto inevitabile e non trovo termine più appropriato), TAGLIO DELLA SPESA PUBBLICA per altre prestazioni sociali: in particolare delle pensioni e della sanità, intesa come prestazione pubblica universale.

Dunque, il reddito di cittadinanza, o qualunque provvidenza analoga, segna automaticamente il destino del welfare previsto in Costituzione, insieme con, abbiamo visto, la legalizzazione della deflazione salariale, in un mercato del lavoro che non intacchi il principio legislativo della precarizzazione. 
Questo almeno in un mondo dove esistano l'euro, cioè il mercantilismo che basa la crescita esclusivamente sull'esportazione e quindi sulla deflazione interna,e i connessi limiti di bilancio fiscale, che servono, sia chiaro, a obbligare alla svalutazione interna, cioè a correggere questi tassi di cambio reale da cui dipende l'aggiustamento della competitività di prezzo per le esportazioni. Perchè, poi, in assenza di queste condizioni, avendo cioè rispettato l'idea di lavoro contenuta in Costituzione, del reddito di cittadinanza non ci sarebbe alcun bisogno, dato che la disoccupazione involontaria e quella "frizionale" sarebbero state contenute, - com'è sempre accaduto in Italia in assenza di vincolo esterno-, in misura ridotta, ed un cittadino poteva comunque sperare in prestazioni di welfare soddisfacenti, per il sostentamento personale e familiare, e in  accettabilmente rapide occasioni di reimpiego.

Veniamo poi al reddito minimo: questo serve eccome per completare il vincolo (esterno) alla deflazione salariale. 
Chi perde il lavoro, ed era soggetto ad un inquadramento di un certo tipo, - magari dopo anni di formazione ed esperienza (ancorchè maturate in anni di lavoro precarizzato)- , in base a questo meccanismo, per non perdere il sussidio universale, ovvero, quand'anche quest'ultimo non fosse ancora istituito, le attuali provvidenze di cassa integrazione e contratti di solidarietà, sarà così costretto ad accettare un lavoro ancor meno retribuito purchè rispettoso del minimo legale. 
Quest'ultimo, evidentemente, sarà (e normalmente "è") stabilito in misura "one size fits for all", in modo da garantire, anche nei meccanismi sanzionatori a carico del choosy disoccupato, un (inevitabile) appiattimento verso le retribuzioni comunque tarate sulle qualifiche più basse e sui livelli iniziali di anzianità di lavoro.
Sfido chiunque a trovare al mondo un sistema di reddito minimo che non aggiri i contratti collettivi di lavoro (laddove ancora esistano) e che, comunque, non sia tarato su questi due riferimenti (bench-mark) di "appiattimento verso il basso".



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